domenica 30 agosto 2020

Altro non so.

 


            Potrei lasciare tutti di stucco, se solo ne avessi la voglia. Mostrare la mia vera natura, urlare sulla faccia dei miei conoscenti che li ho solamente sopportati fino a questo momento, e che da adesso in avanti sentendomi stufo delle loro maniere di comportarsi, sarei in procinto di decidere a staccarmi da tutti quanti quelli che mi girano attorno, e proseguire per conto mio, senza più ascoltare i consigli di chiunque mi conosca, come fino ad oggi ho sempre fatto. Mi prende la rabbia anche se sono da solo quando penso tutto questo, non so bene neanche perché, però mi sembra di essere sempre stato trattato da questa gente con grande superficialità, come se non contassi un bel niente, anche se in seguito il malumore mi passa, ed allora con le mani dentro le tasche torno a farmi vedere come sempre tra le panchine in mezzo alla piazza, davanti al palazzo comunale del paese, per riprendere come se ne niente fosse le chiacchierate di tutti i giorni. Vorrei soltanto che tutti sapessero che potrei benissimo fare a meno di loro, che non ho affatto bisogno di starmene lì insieme a tutti per sapere che sono qualcuno, e che se sopporto ancora la situazione è soltanto perché sono socievole, aperto al dialogo, una persona perbene, ecco.

            Mi battono una mano sopra la spalla, mi chiedono come vadano le cose, qualcuno beve una birra direttamente alla bottiglia mentre mi guarda, e poi dicono sempre che uno come me è proprio difficile da ritrovare, anche se subito si mettono a ridere, forse perché pensano di essere furbi, che io creda come niente alle cose che tutti quanti mi raccontano, senza invece rendersi conto che potrei tranquillamente fare a meno di loro, se solo volessi, e smettere di ritrovarmi sulla piazza del nostro paese a lasciarmi prendere in giro e ad alzare le spalle con sufficienza ogni volta che dicono qualcosa sopra il mio conto, perché non ci sto a prendere a male tutte quelle sciocchezze. Non mi interessano i loro discorsi, un giorno di questi potrei dirlo a tutti con voce alta e risentita, tanto per chiarire le cose, per far presente come sono fatto davvero, e che se fino ad oggi sono sempre stato allo scherzo è soltanto perché non mi piace alzare la voce, e litigare, o fare lo sguardo accigliato.

Poi mi metto da una parte senza dire nulla, ascolto senza troppo interesse qualcuno che dice delle cose poco sensate, ed avrei quasi voglia di andarmene, se solo sapessi cosa fare in un giorno come questo. Sto da solo seduto, guardo qualcosa per terra tanto per fare, e lascio che tutti proseguano a parlare e a ridere come sempre hanno fatto. Alla fine viene uno e si siede vicino. Dice che non devo ascoltare nessun altro, mostrarmi superiore a quello che insinuano tutti, perché più me la prendo e maggiore è la loro soddisfazione. A questo gli dico che non mi interessa un bel niente di tanti discorsi, e neanche delle maniere che hanno tutti di comportarsi con me, però se uno di questi giorni mi sentirò stanco di questi atteggiamenti che devo sopportare, allora sarà quello il momento in cui tutti dovranno rendersi conto che so anche essere deciso e cattivo, non soltanto arrendevole e bravo, ed è per questo che devono stare un po’ attenti, perché la pazienza che ho sempre avuto con tutti può anche finire. Quello mi dice che ho proprio ragione, e che forse è questo il momento migliore per farmi portare rispetto, e che magari basta anche poco, una parola detta per bene, un cenno di sfida e tutto appare subito già sistemato.

Così mi alzo dalla panchina, urlo che sono stanco, la devono finire di comportarsi con me come con un rimbambito, e tutti si fanno seri e mi guardano. Però passa un attimo, qualche secondo appena, e alla fine tutti si mettono a ridere, ed io me ne vado, che tanto quello che avevo da dire l’ho bell’e spiegato, ed adesso non c’è da aggiungere altro. Poi quando sono da solo mi viene voglia di piangere, forse soltanto per l’agitazione, ma intanto ho fatto tutto ciò che potevo, altro non so.

 

Bruno Magnolfi

 

       

giovedì 27 agosto 2020

Caratteristiche proprie.

           

     

 

“Ma che vuoi da me”, gli ho fatto, mentre stavamo sedute al bordo dei campi da tennis a vedere gli allenamenti dei soliti ragazzi. “Fatti un giro, che io non ho tempo per te”, ho aggiunto; ma lui ha sorriso, si è alzato e si è fatto subito un giro su se stesso, come per ridere di me, anche se poi si è spostato davvero, e alla fine si è messo a chiacchierare con un altro che stava poco più in là. Allora mi sono accesa una sigaretta, ho detto qualcosa alla mia amica, e tutt’e due ci siamo fatte una risata senza neppure troppo significato, tanto per darci un tono, insomma. Forse era il momento giusto per andarcene via, e ritornare a camminare lungo il vialetto della pineta, dove nei pomeriggi ci stanno regolarmente tutti i ragazzi a perdere tempo e ad ingollare le birre, ma siamo rimaste ancora, perché c’era fresco, si stava bene, e i rimbalzi delle palline da tennis sulla terra battuta pareva ci facessero proprio compagnia. La mia amica ha detto che quello è un tipo strano, lei non lo conosce, però ha sentito dire che sembra sia uno di quelli che parla difficile, e sa sempre che dire.

Poi l’ho incontrato di nuovo, quando con la mia amica abbiamo deciso di farci un giro per i negozi del centro, e mentre eravamo a guardare qualcosa dentro una vetrina, ecco che lui arriva, sorride, indica qualcosa sotto alle luci di quel negozio, e poi fa il gesto come a significare che è proprio un bell’articolo, il migliore che riesce a vedere là dentro. Io sono rimasta per un attimo imbambolata, perché non sapevo che ci fossero dei ragazzi capaci di valutare l’abbigliamento da donna, ma poi ho pensato che questo è proprio un tipo strano, così gli ho detto: “e perché non me lo compri?”, tanto per fargli capire che piaceva anche a me e che se voleva fare tanto il carino era quello il gesto migliore da tirar fuori. Ed è stato lì che lui, senza quasi pensarci, con quella sua espressione ironica rimasta immutata, e i suoi gesti un po’ misurati e mai eccessivi, è entrato subito dentro al negozio, e si è fatto incartare quell’articolo, pagandolo senza battere ciglio ed uscendo poi, rapidamente. Quando ho preso la confezione ero incredula, però sono riuscita soltanto a dire: “grazie”, perché se avessi dovuto continuare mi sarei messa a piangere, non so neanche perché.

Così la mia amica, che non è certo una scema, si è allontanata di qualche passo con una scusa, ed io sono rimasta sul marciapiede con lui, che mi ha detto subito come si chiama, anche se già lo sapevo, e mi ha chiamata per nome, mostrando perciò che anche lui si era informato. Io non ho saputo dire un bel niente, ma lui mi ha parlato di colori, di come certe tonalità hanno una presa maggiore sulle persone, rispetto a sfumature diverse. Ha detto che spesso l’industria della moda tiene conto di questi gusti e li propone come fossero inventati al momento, anche se invece c’è dietro tutto uno studio complesso e molte indagini sulle persone e sui loro modi. Ho fatto cenno di si con la testa, ma mi sentivo già completamente attratta dalle sue parole, forse perché diceva le cose in modo semplice, anche se erano argomenti che non mi erano mai interessati. Poi mi sono ripresa, l’ho guardato meglio un momento, e ho detto invitandolo che io e la mia amica adesso avremmo fatto un giro lungo la via pedonale; ma lui ha detto che aveva qualcos’altro da fare, e mi ha solo spiegato che mi avrebbe cercato il giorno seguente, da quelle parti.

Ho detto che per me andava bene, poi gli ho fatto: “ciao”, sottovoce, senza aggiungere altro, anche se avrei voluto subito dirgli che mi piacevano un sacco i suoi modi di fare e di parlare, e che sarei rimasta ad ascoltarlo per ore, se ci fosse stato per noi tutto questo tempo a disposizione. Quando ho ritrovato la mia amica le ho detto che quello era il ragazzo migliore del mondo, e lei si è messa subito a ridere, perciò io le ho detto: “sei soltanto una sciocca; valuti le cose soltanto per averle sentite dire da altri. Bisogna conoscere meglio quello di cui si parla, altrimenti tutto diviene soltanto una mescolanza insignificante, senza alcuna caratteristica”.

 

Bruno Magnolfi


mercoledì 26 agosto 2020

Lui non va via.

 

          

 

            Fuori da qui è tutto grigio, non c’è niente per cui valga la pena di uscire. Lungo il corridoio si contano ben trenta passi fino alle scale, poi non resta che tornarsene indietro. La sua cameretta lui la divide con altri due tizi, difficile riuscire a starsene là dentro con loro durante la giornata. Perciò ad ogni ora, esclusa la notte, vaga tra tutti i corridoi della costruzione, si ferma ad osservare qualcosa dalle finestre ferrate, scambia qualche parola con gli inservienti che lo conoscono bene, e perde tempo da solo riflettendo su tutto quello che gli viene alla mente. Cosa gli interessa di quanto sta accadendo fuori da quelle mura: la sua esistenza si svolge tutta là dentro, in mezzo agli altri degenti come lui, che prima o dopo sono finiti lì in mezzo, dopo varie depressioni, tentativi di suicidio, terapie psichiatriche di ogni genere. Le famiglie generalmente, trascorsi i primi tempi pieni di speranze, non ne vogliono più sapere niente di ognuno di loro, e così finisce che i ricoverati non trovano più alcuna ragione per desiderare davvero di tornare dai propri parenti. Le scale hanno due rampe da otto gradini ciascuna, più i larghi pianerottoli naturalmente, ma molti tra loro non ci si avvicinano neppure, quasi tutti hanno paura dello sprofondamento perlopiù, così rimangono per tutto il giorno al piano superiore, a meno che un inserviente non li accompagni dabbasso, dopo molte insistenze e rassicurazioni.

            Quelli gravi stanno in un’ala speciale, e siccome sono pieni di sedativi, non si vedono mai, se non in casi speciali. C’è anche il giardino, se uno proprio lo desidera, ma devi essere sempre accompagnato, perciò è un rompimento per tutti, e così nessuno lo frequenta. La porta principale è doppia, per aprire la prima basta suonare il campanello da fuori, per la seconda c’è bisogno di un inserviente che azioni un meccanismo dopo aver controllato tutto quanto. L’ingresso è una stanza maestosa di venticinque passi per quasi diciotto, e spesso sostano in diversi da quelle parti, prima o dopo il pranzo, qualcuno ridendo, altri parlando tra sé, gli ultimi in silenzio. Gli inservienti riescono ad essere duri quando vogliono, e se qualche degente rompe un po’ troppo le scatole a qualcuno di loro, gli arriva subito una lezione diretta. Credo che a nessuno del personale piaccia stare qua dentro: quando uno finisce il suo turno cambia subito espressione, tira un sospiro di sollievo ed imbocca la porta sul retro felice come una pasqua. Quell’uscita posteriore si apre soltanto con la chiave elettronica, ed immette direttamente al parcheggio delle automobili. Quando qualcuno tra i degenti sta male davvero, allora arriva l’autoambulanza e se lo portano via da quella parte.

Lui comunque nella sua cameretta resta soltanto a dormire. Non ci parla neppure con gli altri, gli sembrano tutti completamente fuori di testa, e quando qualcuno di loro si avvicina per chiedergli qualcosa, risponde soltanto con un cenno, un gesto della mano, o un’alzata di spalle. Lui non vuole scappare da lì come dicono quasi tutti, anche se forse saprebbe come riuscirci. Non c’è gusto ad andarsene via, non saprebbe neppure verso dove, e poi tutto si complicherebbe e sicuramente gli inservienti gli darebbero subito la caccia. Perciò se ne sta lì, senza chiedere niente a nessuno, e quando sente qualcuno vicino che inizia a parlare di fuga, lui si allontana: non vuole essere preso nel mezzo dei loro piani, facciano pure tutto quello che vogliono, ma senza di lui.

Così un giorno, mentre è da solo dentro al salone dell’ingresso, qualcuno tra gli inservienti, forse di proposito, lascia aperta la porta sul retro, nascondendosi dietro un angolo nell’attesa di vedere cosa mai avrebbe combinato. Lui non si è fatto certo fregare, ci sono circa cinquanta passi da lì prima di arrivare al cancello che dà sulla strada, ed è rimasto immobile per tutto il tempo, senza preoccuparsi di nulla, come se tutto fosse al suo posto, e quando alla fine si è fatto vivo uno degli inservienti per vedere se gli venisse in mente qualcosa da dire, lui ha fatto soltanto un piccolo cenno, indicando quel varco rimasto spalancato, quasi a rimproverare tutti quanti che stessero più attenti, che forse qualcuno si sarebbe potuto approfittare della situazione, e magari andarsene via.

 

Bruno Magnolfi

lunedì 24 agosto 2020

Consiglio decisivo.

 

       

 

            Non c’è anima viva qua attorno, così mi siedo anche stasera su questa grossa pietra che sporge dalla terra fatta di stoppie e di pruni, e poi resto qui, a guardare attorno questa campagna così assetata d’acqua nella stagione corrente, ed il cielo là in fondo quasi bianco di caldo e di sole. Non so proprio cosa io debba fare, non so decidere niente: forse riprendere il viottolo che mi riporta indietro, fino alle prime abitazioni del paese dove abito; oppure restare ancora qui, a sperdermi su questa terra arsa, priva di tutto, senza trovare dentro di me alcun motivo valido che in qualche modo mi indichi la cosa più importante di cui preoccuparmi. Immagino, come tante altre volte ho già fatto, la collina verde chiaro poco più avanti come un luogo finale a cui dedicarsi: coltivare del grano, mettere a dimora le piantagioni, oppure seminare erba medica e foraggio per il pascolo degli animali da tenere di notte dentro una stalla, una costruzione di legno che potrei fare con le mie mani. Non so come potrebbe essere la mia vita, se soltanto trovassi il coraggio o una ragione che ne definisse i contorni, piuttosto che continuare soltanto a mandare avanti i miei piedi, un passo di seguito all’altro, senza mai fare niente, senza preoccuparmi di nulla, attingendo tutto ciò che mi serve soltanto da quei pochi soldi ed il terreno che i miei genitori mi hanno lasciato.

            Abito da solo una piccola casa di pietra, e giù in  paese più o meno mi conoscono tutti, anche se difficilmente qualcuno di loro mi rivolge anche semplicemente una sola parola. Non sono violento, e neppure sgarbato: sono solamente uno a cui piace il silenzio, starsene a lungo per i fatti propri, volgere lo sguardo sempre più avanti, mai dentro gli occhi di una persona che sta guardando nei miei. In tutti questi anni non ho trovato ancora una ragione efficace per fare qualcosa, però proseguo ad osservare tutte le volte che posso questa collina deserta, con il dorso pulito, senza un bel niente là sopra, oltre qualche sterpaglia, come una carta sbiancata su cui poter lasciare un segno qualsiasi. Le giornate si sono accorciate, il tramonto si fa avanti più in fretta da qualche tempo, ed allora devo tornare purtroppo sopra i miei passi, e percorrere tutto il sentiero tortuoso prima di rientrare in paese, anche se non ne sento la voglia, quasi che qualcosa tra quelle case mi respingesse, magari forzando la mia volontà per incoraggiarmi ad andarmene via, chissà dove, lontano da questi paraggi, senza guardarmi più addietro, come non ci fossi mai stato da queste parti.

            Poi penso che in fondo siamo tutti così, persi dietro a pensieri del genere, lasciando bastare in qualche occasione le poche cose che ciascuno ha messo da parte. Però io non ho niente, nessun bene caro, neppure dei ricordi che valga la pena di essere riportati alla mente. C’è soltanto questa collina che spesso mi chiama, mi parla, chiede alle mie povere ossa di starmene qui, su questa pietra, seduto, a parlarle, come se già solo questo fosse sufficiente per sentirsi più realizzati, quasi non ci fosse bisogno di altro per avere dentro se stessi la forza di affrontare le cose.  Infine rientro in paese, lentamente, un passo dietro quell'altro, affrontando la poca gente dentro la piazza e davanti ad un’osteria, con qualche tavolo fuori, come se fossero tutti semplici estranei, persone che non ho neppure mai visto, e non ingenerassero in me alcuna curiosità. Invece stasera mi fermo, osservo una sedia, mi sistemo ad un tavolo, dove un paio di paesani condividono un quarto di vino.

"A cosa serve stare qui", chiedo loro, "se non a raccogliere dei segnali, fare proprie certe iniziative, valutare i pensieri degli altri, sempre che siano sinceri, meditati, positivi". Loro mi guardano senza rispondere niente, attendono ancora un momento, poi chiedono se abbia voglia per caso di bere con loro. "Va bene", rispondo, "in fondo non c'è niente di male". Sorseggio quel vino, osservo qualcosa in fondo alla strada, poi torno ad alzarmi; ringrazio per la loro ospitalità e quindi me ne vado, consapevole di qualcosa di più. Andrò sulla collina domani, rifletto; e poi rimarrò a lungo là sopra, a lasciare che la terra per un’ultima volta mi parli e mi dia il suo consiglio.

 

Bruno Magnolfi

domenica 23 agosto 2020

Intollerabili presenze.

 

 

            Il sibilo improvviso fende quell’aria ricambiata continuamente tramite le bocchette grigliate del grande impianto di condizionamento e deumidificazione, sospese ad una discreta altezza rispetto alla pavimentazione dell’enorme edificio che ospita la fiera annuale, e come una lama tagliente scagliata a pazzesca velocità da qualche misteriosa zona interna alle spesse mura perimetrali, si insinua poi in ogni angolo possibile del luogo, come a voler riempire ogni spazio, senza rispettare neppure una direzione precisa, che resta peraltro del tutto impossibile da definire, mentre la folla delle persone vaganti in quell’esatto momento all’interno di quella moderna costruzione, tra le innumerevoli installazioni coloratissime e dalle fogge estremamente creative, sembra comunque non avvertirne affatto la presenza, come se quel suono fortissimo, perdurante e anche nitido, forse prodotto da un generatore di frequenze di altissima potenza, oppure da un complesso macchinario elettronico forse sfuggito al controllo, e spingesse le vibrazioni audio generate là dentro molto al di sopra del livello di percezione di una qualsiasi normale persona.

            Annarita invece si porta immediatamente le mani alle orecchie: per lei il dolore che riesce a provare è davvero notevole, le è già capitato in passato qualcosa del genere, le sue capacità auditive si sono sempre dimostrate estremamente particolari e sensibili, ma anche guardandosi attorno tra tutta la gente che affolla la fiera, sembra in questo momento sia proprio l’unica ad avvertire quel suono e a provare quel dolore pazzesco, come se quella lama composta soltanto da vibrazioni, fosse stata creata e lanciata apposta per lei. Poi tutto si attenua, ed il sibilo poco per volta scompare, “forse un contatto non voluto”, pensa Annarita, “forse un aggeggio infernale di cui non si è verificata mai l’effettiva potenza”. Lei è arrivata là dentro da sola, sistemando la sua vettura non troppo lontano, nel grande parcheggio messo a disposizione dei visitatori da coloro che hanno organizzato la fiera, ma anche adesso, pur sentendosi molto meglio una volta svanito il rumore, le è rimasta una voglia decisa di andarsene, allontanarsi rapidamente da quel luogo, ritrovare al più presto un po’ di silenzio, anche sgombro da quel brusio che emana la folla là dentro, ma soprattutto tale che possa farle dimenticare la sofferenza patita poco prima.

            Ma in quel momento qualcuno la affianca, gli occhi coperti da occhiali oscurati, gli abiti seri, quasi distinti, e nel momento in cui le dice qualcosa senza volgere la faccia verso Annarita, il suono riprende, attraversa i corpi e gli spazi, lasciando di nuovo preda del dolore soltanto lei. I due uomini che adesso le camminano accanto, sembra abbiano la capacità di gestire in qualche maniera quella vibrazione, e di torturarla senza troppa preoccupazione, come se volessero strappare qualcosa da Annarita, forse una notizia che solo lei conosce, oppure qualcosa che le appartiene. Ma di scatto, pur cercando di turarsi ancora le orecchie, lei ha un moto improvviso e scattante, e in un attimo si va ad infilare in un capannello di persone, che prese così alla sprovvista la lasciano passare, richiudendo subito il varco che si era formato. Annarita scivola svelta accanto ad una struttura metallica dove sorridendo alcune persone mostrano ad altri le loro cose, e fa perdere le sue tracce ai due uomini in pochi secondi. Quindi si infila con rapidità in una uscita di sicurezza, e dopo pochi momenti è all’aperto, senza più quel rumore infernale e i due loschi figuri a tormentarla.

            Lascia momentaneamente la sua macchina dentro al parcheggio, e si allontana rapidamente a piedi da quel quartiere, fino a quando non trova un mezzo pubblico su cui sale, andandosene via. Il rumore potrebbe ancora inseguirla, pensa; i tizi nel padiglione della fiera probabilmente riuscirebbero facilmente a rintracciarla; ma intanto è lei vincitrice, e si è sottratta ad una situazione a dir poco inquietante. Il resto è tutto da definire, esattamente come appaiono le frequenze degli ultrasuoni: impalpabili, inascoltabili, inaudibili; praticamente inesistenti.

 

            Bruno Magnolfi    

giovedì 20 agosto 2020

Filo di voce.

 

           

            Io sono soltanto un rumore qualsiasi nella città, un elemento volatile, del pulviscolo impalpabile; per questo nessuno mi nota quando me ne vado in giro non so neanche io verso dove: un niente completo che vaga senza neppure una ragione vera per tirare avanti, ecco chi sono. Eppure mi disinteresso completamente dei modelli che riempiono le giornate di tutti gli altri che vedo di fronte a me: non ho più neppure bisogno di qualcosa in cui credere, mi basta sapere che non avrei mai il coraggio di fare delle scelte importanti, così lascio che le cose scorrano in autonomia, senza mai preoccuparmene, senza cercare una svolta nel corso del tempo che continuamente mi insegue. Lavoro dentro una radio, porto avanti una trasmissione notturna che probabilmente nessuno vorrebbe curare al mio posto. Entro già tardi la sera dentro al piccolo studio con la testa quasi sempre svuotata di qualsiasi pensiero, mi siedo, aspetto, lascio che il tecnico di là dal vetro insonorizzante mi faccia il solito cenno, poi attacco io a parlare, senza sapere in precedenza di quali argomenti. Dicono che ci sia un numero fisso di affezionati che mi segue ogni notte, ed è per loro che vado avanti, anche se non saprei proprio chi potrebbero mai essere.    

Dico delle cose che spesso non hanno né capo né coda, delle riflessioni confuse che non portano mai da alcuna parte, ma che mi escono dall’apparato laringeo con calma, quasi autonomamente, in mezzo a delle pause silenziose, flautate dalla mia voce bisbigliante, un po’ rauca, senza mai alcun accento. Riassumo quello che leggo sui libri, o ciò che gli altri mi dicono durante il giorno, magari mentre acquisto del pane, oppure quando mi fermo dentro un locale a bere una birra. Tutti hanno voglia di parlare di tutto, ed io spesso li ascolto, incamero le loro maniere di esprimersi, i verbi che usano, i soggetti a cui danno credito. Quando poi la notte è il mio turno, ogni dettaglio davanti al microfono si dilata, e allora dico: “possiamo tutti stare tranquilli;  non succederà niente che non sia stato già ampiamente previsto. (…). Possiamo lasciare che le cose corrano ancora per proprio conto, senza mettersi in mezzo, senza opporsi all’andamento normale pianificato”. Qualcuno mi ha detto che dietro alle mie parole c’è quasi un’aura di ribellione, una spinta a coalizzare le forze per rovesciare quanto ci è stato fornito fino ad oggi. Non lo so, non ho una vera opinione a riguardo, mi basta avere il microfono davanti a me per dire qualcosa.

Sembra che qualcuno abbia iniziato a registrare da casa quello che dico, e quando fa giorno a sbobinare con calma ogni parola, ogni frase che pronuncio di notte. Altri vogliono addirittura farne un libro, una serie di precetti messi in fila che indichino a tutti qualcosa che a me sinceramente continua a sfuggire. Ma sono sicuro che alla fine non si darà importanza a nessuna iniziativa di questo genere, perché è giusto così, non c’è alcun bisogno di enfatizzare quanto volteggia sulle onde radio soltanto per riempire qualche vuoto. Il tecnico del suono che fa girare la musica ogni volta che mi prendo una pausa, certe volte mi tratta come se fossi un filosofo della quotidianità, uno capace di leggere negli occhi degli altri le dottrine da cui sono incantati tutti quanti, anche se poi non si rivolge mai a me direttamente, se non per dettagli di natura pratica. Quando me ne vado dagli studi radiofonici so di aver fatto quanto dovevo, né più né meno, senza sentirmi mai soddisfatto, ma neppure provando grandi sentimenti di delusione.   

Forse lascerò la radio uno di questi giorni; magari lo farò in un momento in cui il mio pessimismo mostrerà una forza maggiore. Troverò un lavoro vero magari, qualcosa che mi avvicini di più agli altri e non mi faccia sentire sempre senza collegamenti. Adesso non sono proprio nessuno, esattamente un bel niente; soltanto un filo di voce che farfuglia delle sciocchezze alle orecchie di chi ormai è già pieno, anche più che me stesso, di questa realtà.  

 

Bruno Magnolfi

martedì 18 agosto 2020

Migliori benefici.

 

        

 

            “E’ lei”, dicono tutti. Nelle abitazioni che si dipanano in fila lungo la strada, le cose vanno avanti come sempre: molte persone si recano a lavorare, i ragazzi affluiscono nei rispettivi plessi scolastici, qualche individuo invece resta a casa, ad occuparsi magari delle pulizie giornaliere delle stanze e del riordino degli oggetti di uso comune, mentre i pensionati quasi sempre trascinano la giornata tra le chiacchiere da scambiare ai giardinetti, e qualche acquisto di cui occuparsi con una visita nei negozi poco distanti. Lei abita da sola, in una casa anonima come sono tutte le altre in quella zona, una costruzione la sua che rimane quasi in fondo a quella via, lasciandola entrare ed uscire dall’abitazione sempre un po’ troppo di corsa, però sorridente e gioviale verso tutti i vicini che incontra, anche se sempre come indisponibile a scambiare perfino due semplici parole con qualcuno del suo quartiere. Lavora in centro, si dice, in un negozio di abbigliamento firmato e costoso, ed è quindi sempre ben vestita e con ai piedi delle scarpe con i tacchi molto alti. Alcuni sostengono abbia una relazione con un politico piuttosto in vista, ma non si è mai notato nessuno insieme a lei, anche se certe volte rientra tardi la sera, con la sua utilitaria vistosa, ultimo modello.

            Alcuni si sono chiesti perché mai una persona così debba abitare in una zona proprio come la loro, così periferica, trasandata, quasi senza tempo, costituita perlopiù da gente persino troppo ordinaria nei confronti di una bella donna come lei, ma ogni argomento del genere fino ad oggi è sempre stato lasciato decadere. Poi, quasi senza preavviso, sono arrivate alcune squadre di operai con i loro macchinari, e in un paio di settimane hanno asfaltato di fresco tutto il tratto della loro via, hanno messo una nuova segnaletica stradale, rifatto interamente i marciapiedi, e sostituito i vecchi lampioni dell’illuminazione con dei modelli più aggiornati, lasciando alle loro spalle un’immagine di quel luogo molto migliorata. Tutti si sono sentiti soddisfatti, naturalmente, anche se qualcuno ha iniziato subito a dire che per un iniziativa di quel genere ci dovesse essere alle spalle una persona influente, forse un assessore del comune, qualcuno con il potere di decidere certe iniziative.

            Così si è cominciato a guardare a lei con occhi diversi, dapprima con una certa gratitudine, poi con diffidenza, fino a tentare di ignorarla nel giro di pochi giorni, sempre per quel vago sospetto di intrattenere amicizie altolocate di cui tutti in breve hanno mostrato aperta convinzione, gente capace, nei loro discorsi, di fare e disfare qualsiasi cosa nello spazio di un attimo, alla faccia della povera gente come si sono sempre sentiti gli abitanti di quel quartiere di periferia. “Non è una come noi”, ha detto presto qualcuno; “ed anche se si fa vedere ben poco da queste parti, è bene starne il più possibile alla larga, che se per disgrazia ti prende di mira, allora sei finito”. Lei sembra abbia manifestato una certa indifferenza nei confronti dell’allontanamento progressivo di tutti i suoi vicini, e in ogni caso molti hanno iniziato a domandarsi per quale motivo non se ne andasse ad abitare in un posto più adatto alla sua personalità e alle sue amicizie.  

            Poi, qualche sera fa, è arrivata con la sua macchina fiammante riconoscibile fin da lontano, ha parcheggiato a bordo strada vicino ad un capannello di persone sul nuovo marciapiede dove stavano scambiando delle opinioni, e coi suoi modi sorridenti ha mostrato il suo apprezzamento per il rinnovato bene pubblico di quella via. Nessuno le ha risposto in un primo momento, limitandosi ciascuno soltanto ad osservarla; poi uno ha gridato che se era per dover ringraziare una persona come lei, sicuramente avrebbe fatto volentieri a meno anche di quei lavori migliorativi. Lei forse non ha neppure compreso perfettamente l’argomentare del suo vicino di casa, e in ogni caso non ha tentato di ribattere neppure una parola, probabilmente immaginando quanto sia facile, in mezzo a tutti quanti, trovare dei soggetti che non sappiano riconoscere neppure i migliori benefici.

 

            Bruno Magnolfi

sabato 15 agosto 2020

Via, dicendo qualcosa.

 

       

 

            Guardo la fila degli alberi dalla finestra, la strada polverosa che sparisce dopo la curva, le poche persone che transitano da queste parti, i pochi negozi che si aprono lungo il caseggiato, ed io sto fermo, con il naso sul vetro, e mi pare che tutto sia immobile, senza alcuna necessità di variazioni. Riconosco la mia vicina di casa mentre parla con una conoscente agitando le braccia, un’auto rallenta e si accosta subito al marciapiede, scende una persona, sorride, entra dentro un portone, per un attimo spariscono tutti, poi si intravede altra gente che arriva e poi si saluta, ma qualcuno va via, altri restano a perdere tempo, ognuno ha una maschera pubblica, sicuramente rimovibile in fretta al bisogno, senza problemi. Mi allontano con calma dalla finestra, ascolto l’eco dei discorsi di tutta la gente che in fretta si sono dispersi nell’aria, come fumo nel vento, e poi indosso la giacca, come fanno gli altri quando si preparano ad uscire, ma poi mi siedo, non ne ho alcuna voglia penso, resto qui, nessuno mi cerca, non ho niente da raccontare ai miei concittadini.

            Poi giro per casa, mi accendo una sigaretta, predispongo qualcosa per la mia cena solitaria, scelgo tra i miei gusti quali siano quelli più adatti a questa giornata, e via dicendo, senza mai fermarmi a riflettere troppo, senza sviscerare troppo i dettagli, compiendo della azioni meccaniche, che non richiedono impegno, nessuna preoccupazione a cui dare spazio. Suonano alla porta, non ho alcuna voglia di aprire, potrei fingere di non essere in casa, potrei nascondermi con  attenzione, senza provocare alcun rumore, potrei spiegare in seguito di non essere stato bene, e via dicendo, come se non avessi bisogno di niente, tantomeno essere disturbato da chissà chi. Insistono, perciò entro nel bagno, mi siedo sul bordo della mia piccola vasca, aspetto, chiunque sia sul pianerottolo si stancherà di reclamare la mia presenza alla porta, forse sarà soltanto un venditore ambulante che vuole proporre chissà quale articolo, o uno dei distributori di giornali della sinistra, a cui una volta feci un’offerta, per cui adesso non mi mollano più, mi braccano, e via dicendo, perché sanno che con qualche insistenza otterranno sempre qualcosa da me.  

            Silenzio, mi decido ad aprire per vedere se abbiano lasciato un opuscolo o qualcosa alla porta, ed invece è la mia vicina di casa che è rimasta lì tutto il tempo solo per aspettarmi: “ero in bagno”, le fo, e lei sorride, muove le braccia come fa sempre e dice che ci sarà una riunione di condominio fra qualche giorno, e c’è la necessità che io sia presente, che dia il mio parere, e via dicendo, per cui devo per forza farmi vivo, non come sempre, quando firmo la delega a qualcuno e mi disinteresso di tutto, perché c’è da prendere delle decisioni importanti, mi fa, e non si può certo tirarsi indietro in questo momento. Annuisco, cerco di dire che farò senz’altro ciò che mi chiede, non c’è proprio alcun dubbio, perché capisco anche io quali siano le cose importanti, e via dicendo indietreggio leggermente nel mio appartamento perché la mia vicina muove ancora le braccia, e in questo momento mi sento poco protetto da quei suoi modi di fare. Va via, mi dà un foglio con la richiesta ufficiale della riunione, con la data, il luogo e anche l’ora, ed io lo osservo un momento poi lo appoggio su un mobile, ed infine torno nel bagno per sedermi di nuovo sul bordo della vasca, come per riprendere i pensieri interrotti, e via dicendo reso un po’ lì senza che niente succeda.

            Infine torno alla mia finestra, per incollare il naso sul vetro, tanto gli alberi sono ancora lungo la medesima fila, e le poche persone che girano su e giù per la strada polverosa si lanciano grandi sorrisi che io non riesco mai a lanciare nella loro stessa maniera, rimanendo sempre con la stessa espressione quando giro per strada, e via dicendo proseguo a fare le cose di sempre, senza farmi interrompere. Sbaglio, ne sono sicuro, però mi sento di essere in questa maniera, proprio così come sono, e via dicendo lascio che tutto prosegua nel compiere gli stessi identici percorsi, nonostante io pensi che un giorno di questi qualcosa di grosso sia destinato a cambiare.

 

            Bruno Magnolfi

mercoledì 12 agosto 2020

Questione di itinerario.

 

 

A lui era tornato a mente, forse perché infilato frettolosamente, come a volte si fa nei corridoi in mezzo a tante altre chiacchiere, solo qualche giorno più tardi quel discorso, quello che aveva fatto la sua collega d'ufficio (la più carina tra tutte, a quel piano di uffici, secondo lui), quando gli aveva rivelato che in quella stagione a volte le faceva piacere dopo il lavoro fermarsi ad un tavolino all'aperto del caffè sulla piazza, e rimanersene li, prima di tornare a casa, a guardare il traffico di macchine e tutta la gente che circolava a piedi da quelle parti. Lui non aveva dato alcun risalto a questa cosa, e l'argomento fornito da lei era parso semplicemente opportuno solo per parlare poi di altre faccende. Ma certo, pensa invece lui adesso, come se fosse proprio una scoperta improvvisa: era un mezzo appuntamento, un incoraggiamento piazzato in bella vista ai miei occhi per darmi il senso preciso della sua disponibilità, un aggancio per fornire a me e a lei l’occasione giusta di parlare in maniera molto più sciolta di noi due e delle nostre cose, senza avere attorno gli occhi e le orecchie di tutti questi colleghi ficcanaso pronti a spiarci, ed in quella occasione magari dare inizio a qualcosa dagli sviluppi futuri imprevedibili.

Adesso però è tardi, pensa lui stamani mentre riesce a darsi soltanto del cretino per l'occasione irrimediabilmente sciupata; eravamo proprio da soli io e lei davanti alle macchinette del caffè quando se n’è uscita a dire questa cosa: ora che ci rifletto ricordo benissimo le sue parole; ed era come per farla sapere soltanto a me, tanto che sicuramente è rimasta malissimo nel non vedermi da quelle parti quella sera stessa, come mi aveva precisamente specificato, ed è quindi complicatissimo adesso il tentativo di ricucire qualcosa che sono riuscito così stupidamente a rovinare. Perciò, mentre scorre lungo il corridoio degli uffici, lui ripensa con rammarico a quello che gli è capitato (o meglio, che poteva capitare), ma appena girato l'angolo che immette nella saletta dedicata alla pausa per il caffè, ecco che trova lei, sorridente, impeccabile, la solita, praticamente proprio la stessa come si fa vedere da tutti in ufficio in ogni giorno di lavoro. “Buongiorno”, fa lui cercando una disinvoltura non del tutto perfetta; “non ci eravamo più incontrati in questi ultimi giorni, pensavo quasi che avessi preso qualche giorno di ferie”. Lei sorride senza rispondere, poi torna a concentrarsi sulla bevanda che sta sorseggiando.

A lui non viene a mente proprio niente che possa aprirgli la strada per riprendere in qualche maniera l’argomento che più lo interessa, e lei non sembra proprio intenzionata a facilitargli in qualche maniera le cose. Poi, mentre sta infilando una moneta nella fessura della macchina, decide di buttarsi fuori quasi alla disperata, e fa, senza guardarla: “non sei più andata poi al caffè della piazza, mi pare; ci sono passato un paio di volte e non ti ho proprio vista”. Lei prende tempo, sembra quasi che moduli dentro la testa le parole giuste per la sua risposta, ma dopo un attimo fa, sorridendo con disinvoltura: “no, è vero, però mi ci fermavo soltanto qualche volta, non così assiduamente come si potrebbe immaginare. E poi mi trattenevo lì soltanto per dieci minuti, il tempo di salutare qualcuno che conosco, e poi riprendere la strada per andarmene a casa”. “Magari stasera si potrebbe prendere sulla piazza qualcosa assieme”, la incalza subito lui. “Potrebbe essere una buona idea”, risponde lei; “peccato abbia già un invito per quell’ora, e che abbia deciso da ora in avanti di cambiare locale ed itinerario per tornare a casa mia”.

 

Bruno Magnolfi 

venerdì 7 agosto 2020

Lasciandosi andare.

 

       

 

            “Un tumore, Renzo”, dice il dottore all’altro dottore che si ritrova davanti alla sua scrivania. “Un carcinoma polmonare destro in fase avanzata, le nostre preoccupazioni purtroppo erano davvero fondate”. Renzo accoglie il colpo senza staccare gli occhi dai fogli della biopsia e degli altri esami ospedalieri, sa che là dentro si lavora sempre al massimo delle possibilità scientifiche, ed anche se lui è soltanto uno dei tanti medici di famiglia, sa perfettamente di cosa si parla, e tante volte ha dovuto dare notizie del genere ai suoi pazienti, spesso cercando le parole più adatte per spiegare comprensibilmente e con grande tatto le cose nella maniera come si presentavano. Adesso il suo mestiere però non ha proprio alcuna importanza, anche se osserva ancora i referti con indubbio interesse clinico, ma lo fa come se quei risultati riguardassero un’altra persona, convincendosi comunque poco per volta che sta succedendo proprio a lui tutto questo, perché la stima per lo specialista che si trova di fronte lo porta a comprendere che alle sue parole non c’è neppure da aggiungere altro, né da porre qualche domanda: le cose stanno così, non c’è assolutamente alcun dubbio, inutile perdersi in delle chiacchiere inutili. 

            L’altro si alza, lo accompagna per quei tre o quattro passi che li separano dal termine di quella stanza, gli stringe la mano, lascia che Renzo riponga tutti quei fogli in una cartella che ha portato con sé, mentre nota che nonostante la sua faccia sia seria, l’espressione che il collega riesce a tenere sul viso è quasi quella di una persona che in fondo non ha grosse preoccupazioni, forse una maschera capace di coprire ogni piega della sua faccia, persino in questo momento, così come è stata in grado tante altre volte di fare, ma a ruoli invertiti, trattenendo qualsiasi emozione. Lui esce dall’ambulatorio con calma, aspetta che si chiuda la porta alle sue spalle, poi si incammina lungo il corridoio dai colori prossimi al bianco. Forse incrocia qualcuno che lo saluta, e lui probabilmente sorride, così come da sempre è abituato a fare con il suo lavoro. Ha la macchina ferma dentro al parcheggio dell’ospedale, al secondo livello dei sotterranei, ma vorrebbe tanto avere da occuparsi di qualcos’altro là dentro, prima di dover accendere il motore ed iniziare a riflettere a fondo su cosa fare, cosa dire, come affrontare quella tegola sopra la testa.

            Giunge di fronte ad un gruppo di ascensori metallici, ma sembra che siano colmi di gente che arriva a quel piano, ed anche di gente che attende impaziente di salirvi all’interno, così Renzo prosegue a camminare per il corridoio, guardandosi in giro, come cercando qualcosa che è lì, da qualche parte, ma che adesso non riesce proprio a trovare. Poi pensa non sia affatto il caso di perdere tempo: anche lui si è ritrovato infine tra gli incurabili, pensa; la triste categoria dei malati a termine, dei destinati, ed in questo momento in cui ancora come sempre riesce a camminare con le sue gambe, senza neppure tossire, senza provare forti dolori, senza provare l’angoscia degli ultimi giorni, deve decidere in fretta come occupare quel tempo rimasto. Infine sale su un ascensore, lascia che gli altri accanto a lui premano i loro pulsanti di destinazione, poi fa la sua scelta, quella di scendere fino al parcheggio del secondo livello, prendere la macchina e andarsene.

            Resta da solo alla fine dentro la cabina che si apre con un lieve ronzio in un ambiente illuminato soltanto dalle luci elettriche, dove le poche automobili presenti attendono silenziose. Renzo si avvicina alla sua, appoggia la cartella sopra il sedile, poi apre il bagagliaio senza fretta, e trova una corda che a volte gli serve per la sua piccola barca, e che adesso era sicuro di trovare là dentro. Senza dare nell’occhio, anche se sembra che non ci sia nessuno lì in giro, arriva fino alla zona più lontana di tutto il parcheggio, dove ci sono dei grossi tubi che percorrono tutto il soffitto. Vicino ad un gomito, dove il sostegno risulta robusto, dopo due o tre tentativi riesce agevolmente a far scorrere la sua fune, con rapidità fa un nodo che l’andar per il mare gli ha insegnato ad eseguire piuttosto facilmente, poi in punta di piedi ci infila la testa, lasciandosi andare.

 

            Bruno Magnolfi

giovedì 6 agosto 2020

Quando suonavo con M.D.

           

 

            Non ero neppure giunto in ritardo sull’ora che avevamo fissato il giorno precedente alla sala prove della 52°, eppure i ragazzi ugualmente mi avevano subito guardato male, forse per il mancato rispetto del piccolo anticipo sugli appuntamenti adottato come regola generale non codificata, ma comunque rispettata da tutti, e in ogni caso il bassista con il suo Fender stava già provando un buon giro ritmico, così come gli era stato richiesto, mentre tutti gli altri ancora accordavano o sistemavano i loro strumenti. Mi ero immediatamente seduto alla batteria senza dire neppure una parola, controllando i tiranti del rullante e dei tom, e proprio in quel momento era entrato Miles Davis, vestito in maniera piuttosto ordinaria quel giorno, e con in mano la sua tromba già completa della sordina innestata sulla campana. Aveva ascoltato per un minuto o due il riff di basso, poi aveva piantato tre semiminime staccate nei punti giusti della battuta, ripetendole dopo una pausa più lunga, e costruendo in questo modo un motivo su cui tutti noi ci eravamo immediatamente inseriti.

            Oltre i vetri divisori, un paio di tecnici della Columbia proseguivano a guardarci con intensità mentre maneggiavano i loro cursori delle timbriche e dei volumi sopra le enormi console, probabilmente non comprendendo affatto che ci sarebbe stata una vera e propria rivolta, da parte degli addetti ai lavori, per quei materiali che stavamo mescolando senza neanche starci a porre troppi pensieri. Con poco creavamo una tensione pazzesca, e Davis pareva svolazzare sopra al pieno orchestrale lavorando spesso sulle note di margine agli accordi. Poi ad un tratto usciva dalla sala, lasciava noi tutti (per tre o quattro minuti, e a volte di più), da soli a tenere in piedi una costruzione fatta di impegno solistico, di stimoli reciproci, e di ascolto dei suoni che venivano fuori da ogni strumento, fino a quando si sentiva giunto il momento di distendere tutto, e ritrovare l’ascolto pacato, la nota singola, il dettaglio che mostrava immediatamente la differenza. Quando lui rientrava in sala all’improvviso con la sua tromba, pareva esattamente lo stesso di prima, ma sapeva sempre di inserirsi in un contesto già completamente mutato.

            Le registrazioni non venivano mai riascoltate da Davis nella stessa giornata di prove, ma soltanto in seguito, insieme con Teo, l’unico per il quale provava un senso vero di profonda fiducia, e soltanto quando il materiale sonoro accumulato sui nastri, iniziava a diventare davvero eccedente. Per me stare lì era semplicemente come sentirmi nell’unico posto dove davvero avrei voluto stare sempre, e per gli altri ragazzi era assolutamente lo stesso, lo capivamo al volo, bastava guardarci tra noi per un attimo, perché eravamo perfettamente coscienti di manipolare qualcosa di cui si sarebbe parlato per anni, e forse per sempre. Sulla mia batteria continuavo costantemente a cercare qualcosa di più, cambiando continuamente bacchette e tirando o allentando le pelli, come nel tentativo nevrotico di far scaturire dalle mie mani quel suono, quella rullata, quell’insieme ritmico che era mancato fino a quel preciso momento, e che adesso forse era lì, pronto per soddisfare anche Davis.

            Lui difficilmente ci guardava in quei giorni, certe volte sembrava da solo, più avanti di noi, oltre quella matassa di accordi, di note, di spunti e di frasi, come fosse già sbarcato in un nuovo mondo che certe volte immaginava senza parlarne mai, e restasse nell’attesa che anche noi dietro di lui riuscissimo nella sua stessa impresa, raggiungendolo soltanto per battergli una mano sopra la spalla. A volte diceva qualcosa, con la sua voce afona e roca, impossibile da dimenticare, ma non si riferiva mai a tutti noi (che eravamo una decina), oppure a due o tre, ma parlando soltanto con uno alla volta dei suoi musicisti, come se gli altri in quel momento neppure ci fossero. Quando uscirono i dischi, qualche tempo più tardi, si arrabbiarono in molti, ma lui andò avanti ugualmente per la sua strada, perché sapeva quel che faceva, e voleva farlo in quella precisa maniera.

 

            Bruno Magnolfi    


martedì 4 agosto 2020

Angoli ottusi.

      

 

            Puoi prendere di corsa lungo il marciapiede, così lasciando dietro di te almeno coloro che proseguono ad affollare la via principale in questa fine mattinata, mentre fino ad un attimo prima anche tu naturalmente camminavi con calma insieme a tutti gli altri, come loro fermandoti ogni tanto davanti alle vetrine di questo quartiere, per poi adesso sparire in un attimo nell’inseguire chissà cosa, e svoltare con determinazione al primo angolo di strada che trovi, proseguendo ancora di furia, fino a ritrovarti finalmente da solo. Ti avranno osservato con curiosità per cercare di comprendere che cosa ti stia passando dentro la testa, ma dopo un attimo ognuno sarà tornato sicuramente ai suoi pensieri e alle proprie occupazioni. Tu sei attraversato da una scarica adrenalinica che forse non ti permette neppure di controllare le tue azioni, e quando infine ti fermi ansimando, non sai neanche dire che cosa di preciso ti sia accaduto in questi ultimi minuti.

            Lo so, lo sanno tutti, che non sei una persona troppo sociale, che forse ti diverti a calcare le differenze con gli altri, e che le tue scelte dimostrano ogni volta la tua necessità, come dire, di meravigliare. Per questo ti senti perennemente in fuga, e fingi con te stesso di esserlo continuamente, in qualche maniera, anche se alla fine non fai molte cose differenti da coloro che ti conoscono. Se ti paragoni a qualcuno trovi immediatamente delle differenze a tuo parere abissali che ti allontanano da ogni accostamento. Non frequenti dei veri e propri amici, soltanto dei ragazzoni della tua stessa età che ti salutano senza alcuna enfasi quando arrivi anche tu davanti al loro solito ritrovo. Ti siedi, abbassi lo sguardo, ascolti l’argomento che gli altri portano avanti, ma senza mai intervenire. Ti potrebbero dare un soprannome, se volessero; qualcosa che faccia perno sulla tua maniera di startene da solo anche quando sei insieme a tutti.

                        Quindi arriva lei, ti guarda per un attimo, poi si piazza seduta a sei o sette metri da te, anche se subito sprofonda nel consultare qualcosa sullo schermo del suo telefono. Non è una che parla, che scambia facilmente le proprie opinioni con gli altri, e questo aspetto ovviamente te la fa subito sentire vicina. Allora ti alzi, vai via senza dire niente a nessuno, ma torni dopo un momento, ti sistemi ancora lontano da lei, non la guardi neanche una volta, ma sai perfettamente che è lì, dietro di te, e continua a guardare il suo stupido telefono. Vorresti prendere di corsa ed andartene, ma adesso non puoi farlo, devi trovare un sistema per scambiare qualche parola con lei, per sentire la voce che ha, le parole che usa, gli argomenti che trova. Però se ne va, saluta sottovoce un ragazzo o due, mette via il suo telefono e poi sparisce, come se non ci fosse mai stata.

            Non ha importanza, non ha alcuna importanza, continui a ripeterti. Sorridi a te stesso come se stessi parlando davanti a qualcuno, attendi ancora qualche minuto, senti che non c’è nulla là attorno che possa interessarti minimamente, e allora vai via, lontano, senza neppure guardarti attorno. Ma appena fuori la trovi lì, davanti a te, mentre subito abbassa lo sguardo, cammina lentamente senza sapere dov’è che sta andando, mostra completa indifferenza rispetto a chi si trova di fronte, ma sei tu che sei lì, ed allora dici: “forse”, con voce comprensibile, senza sapere se attaccarci una frase a questa parola, oppure no. Lei ti concede uno sguardo, tu insisti e adesso dici: “chissà”, ma le tue sillabe sembrano cadere nel vuoto, non c’è nessuno a raccoglierle, non avranno mai alcun futuro e neppure una sponda a cui attraccare un solo momento. Non dici altro, la superi, poi inizi a correre, fino ad arrivare il più velocemente possibile al prossimo angolo.

 

            Bruno Magnolfi


domenica 2 agosto 2020

Seriamente, stavolta.

            

 

            “Sto fermo, sto fermo, non preoccupatevi. Ma insomma, che cos’è questo silenzio? Sembra quasi un senso di vuoto, come qualcosa che all’improvviso (oppure poco per volta, non saprei) sia venuto a mancare; forse la capacità di riflettere ancora meglio ed in modo più preciso su quanto è accaduto fino ad oggi; o magari la coscienza, la consapevolezza di ciò che, al contrario, non è mai capitato. Non capisco, però devo andarmene da qui, non è più possibile, almeno per me, dover star fermo per ore e per giorni nell’attesa che succeda alcunché. Anzi, se adesso devo darne un giudizio, mi pare proprio qualcosa di assurdo quello che si sta verificando. Ecco, mi alzo da questa sedia, torno a calzare le scarpe, ad indossare la giacca, e poi me ne vado, spero così che sarete contenti di quanto siete stati capaci di mettere assieme: un bel niente, ecco cos’è stato”.

            Mi muovo nella stanza di ritrovo del circolo culturale, osservo le facce serie e accigliate degli altri, nessuno trova niente da ridire, neppure sul fatto che la mia provocazione serva per smuovere in qualche maniera le acque. Lo so che tutti vorrebbero qualcosa che non sanno trovare, però manca il metodo, l’impegno, l’entusiasmo per riuscire a mettere assieme qualcosa di positivo. Mi ferma quasi sulla porta uno dei vecchi associati tenendo con fermezza un libro tra le mani, mi guarda negli occhi misurando una pausa che a me pare infinita, poi chiede se per caso conosca l’autore del manuale che sta consultando. “No, non mi pare”, gli dico, e lui fa: “peccato, perché qua dentro ci sono degli spunti notevoli di cui potremo discutere insieme nell’ottica del rilancio delle attività nel nostro circolo”. Prendo il volume e leggo rapidamente qualche frase casuale nell’introduzione. “Non volevo dire che tutto è morto e sepolto e che non ha alcun futuro”, gli fo; “soltanto mi pare che ci stiamo adagiando su una situazione senza sbocchi, ecco tutto”.

            Lui riprende il suo libro e prosegue fino ad accomodarsi sopra una sedia, e a me non resta altro che attendere ancora, prima di andarmene via, considerato che un gesto del genere adesso sarebbe sicuramente mal visto da tutti. Così torno a sedermi, e sento che le scarpe sono tornate già a far male ai miei piedi, anche se in questo frangente naturalmente cerco di resistere il più a lungo possibile. Da quando il partito decise di non darci più appoggio, ormai più di tre anni fa, siamo diventati una specie di zattera alla deriva in un mare pieno di barche e di navi solide e capaci, ed anche se lo scollamento che volevamo evidenziare già dagli inizi rispetto alla politica culturale adottata fino ad allora, ci ha risucchiato subito parecchie energie, in seguito ogni iniziativa si è come spenta, quasi che il nostro legname non riuscisse più a stare assieme. Però abbiamo proseguito a vederci con regolarità, e a parlare tra noi di qualsiasi possibilità ci venisse a mente.

            “Va bene”, dico ad alta voce. “Iniziamo da adesso a segnarci grossolanamente i punti su cui vorremmo intraprendere delle iniziative. In seguito potremo affinare le idee e trovare delle soluzioni per le difficoltà di attuazione dei programmi”. Gli altri mi guardano senza ribattere, e una ragazza, con noi da non molto, tira subito fuori la carta su cui prendere appunti. Ci stringiamo attorno al grande tavolo che ha visto già molte battaglie, poi uno inizia col dire che ci sarebbe la possibilità di stringere delle alleanze con altre associazioni simili in tutto alla nostra. Nessuno trova qualcosa da ribattere a questo suggerimento, così si invitano tutti i presenti ad esprimersi in merito ad una possibilità di questo genere. Sembra addirittura che siamo d’accordo, così si prende in esame l’opportunità di scrivere una lettera circostanziata ad un paio di circoli che già conosciamo.

            “Ecco”, dico alla fine di tutto questo. “Non ci voleva poi molto per prendere qualche decisione”. Quindi mi alzo dalla sedia, gli appunti sono già stati vergati sopra la carta, una donna tra i vecchi associati si prende l’incarico di scrivere la lettera. Posso andarmene adesso, penso mentre sento ancora le scarpe tiranneggiare i miei piedi. Facciamo sul serio, stavolta.

 

            Bruno Magnolfi