sabato 8 agosto 2009

All'alba, una ragazza.

            

            Dietro, dentro al furgone attrezzato da camper, dormivano tutti. Eravamo partiti di sera, subito dopo una cena veloce, e a mezzanotte erano tutti crollati, meno che io che continuavo a guidare. Era una strana sensazione quella di avere la responsabilità del viaggio, ma anche se qualche sbadiglio mi era stato inevitabile, per il resto sentivo la forza e la prontezza per continuare a guidare per tutta la notte.
Verso le tre, seguendo il percorso che avevamo segnato sulla cartina stradale, avevo lasciato l’autostrada costiera per prendere una strada statale che ci avrebbe fatto risparmiare parecchi chilometri, ma fu solo quando iniziò ad albeggiare che mi resi conto di avere completamente sbagliato. Andai ancora avanti con la lancetta del carburante che indicava una esigua riserva, poi mi fermai dentro a un paese dove tutto era immobile, compreso il distributore della benzina ancora serrato. Spensi il motore parcheggiando direttamente davanti alla pompa, pronto a gustarmi quel riposino fuori programma, ma solo dopo pochi minuti qualcuno bussò al finestrino.
Era una ragazza tedesca, che in un inglese un po’ approssimato mi spiegò che era fuggita da un posto vicino perché qualcuno che era con lei aveva cercato di infastidirla. Intanto ero sceso dal camper per evitare di svegliare quegli altri, e assieme a quella ragazza ero andato a sedermi su una panchina di fronte alla strada. Era una bella ragazza, capelli lunghi e sciolti, un vestito colorato e carino, così cercai con lei di vedere cosa era possibile fare, e lei mi parlò di questo suo amico che si era ubriacato e lei non sapeva se adesso era il caso di tornare indietro da sola. Mancavano ancora un paio d’ore all’apertura del distributore della benzina, potevo accompagnarla senza problemi, se gli altri si fossero svegliati avrebbero velocemente capito e non si sarebbero mossi da lì.
Prendemmo a piedi per una strada sterrata in discesa fiocamente illuminata da qualche lampione, anche se il cielo cominciava a schiarirsi, e dopo un buon quarto d’ora arrivammo a un segnale di legno che indicava il nome dell’agriturismo a cui eravamo diretti. Per tutto quel tratto di strada eravamo rimasti in silenzio, e quando si era giunti in prossimità della casa, ci accorgemmo che la porta era chiusa e nonostante il nostro bussare nessuno era disposto ad aprirci. Ci sedemmo sotto a una pergola per cercare un’idea, ma poco dopo quello che doveva essere il suo amico venne ad aprirci e intavolò con la ragazza una discussione in tedesco, per me incomprensibile.
La faccenda pareva protrarsi, e lei non sembrava aver voglia di spiegarmi qualcosa, così in una pausa io dissi che forse era il caso per me di tornarmene indietro. Poi tutto sembrò prendere una piega per me inaspettata: il ragazzo venne verso di me, mi disse qualcosa puntandomi un dito quasi nel naso, io cercai di scansargli la mano, e lui tirò un pugno che mi face rovinare per terra. Perdevo sangue ad uno zigomo, e all’improvviso un sonno incredibile mi colse senza preavviso, lasciandomi a terra per svariati minuti. Quando riuscii a riprendermi e a rialzarmi da lì, i due erano rientrati nell’agriturismo, lasciandomi solo come un cretino. Mi bagnai la faccia alla fontanella davanti alla casa, mormorai qualche imprecazione tra me, poi ripresi la strada sterrata da cui ero arrivato.
La salita si fece sentire, e dovetti fermarmi più di una volta mentre il sole già caldo mi faceva sudare. Quando arrivai nel paese mi accorsi immediatamente che il distributore di benzina era già aperto, ma il camper assieme ai miei amici non c’era. Mi sedetti sulla panchina poco distante e immaginai la mia vacanza finita, i miei amici distanti, ed io senza soldi a cercare una maniera per andarmene da quello stupidissimo posto. Chiusi gli occhi e forse dormii per diversi minuti, in preda ad un profondo sconforto. Quando ripresi coscienza i miei amici erano lì, e tutto come d’incanto adesso poteva riprendere,come nulla fosse accaduto.


            Bruno Magnolfi

venerdì 7 agosto 2009

Differenti.

            

            La città sembrava sterminata visitandola a piedi. Incontravi centinaia di visi sconosciuti e nessuno di loro faceva caso al tuo sguardo. Osservavi tutti quei marciapiedi, i negozi, l’asfalto stradale, fino a che tutto, poco per volta, diventava omogeneo, privo di particolari di sorta. Il susseguirsi di incroci, di piazze, di alberi stenti, di case e palazzi dalle facciate monotone sembrava privo di qualsiasi rilievo, come se solo la frequentazione assidua e costante di tutto quell’insieme di cose potesse evidenziare qualche caratteristica di scarso risalto, ed il resto fosse conforme ad un unico stile. Un cane randagio avrebbe potuto aggirarsi tra strade e viali affidandosi unicamente al suo naso, alle scie degli odori di cui sicuramente era pieno un territorio così variegato, costituito da bar, ristoranti, giardinetti di scarso rilievo, fermate degli autobus, punti di raccolta per spazzatura e nettezza. E tutta la gente continuava a incrociarsi e a scansarsi, chi più di fretta chi meno, con il loro bagaglio di cose da fare, da pensare, da essere, immedesimandosi ognuno in un solo personaggio possibile: il cittadino. Alla sera qualche volta pioveva, e l’asfalto bagnato rendeva quel panorama ancora più impersonale, con le auto che schizzavano l’acqua, e con gli ombrelli che si muovevano a sciami, lungo i marciapiedi del centro. Essere soli dentro ad una città come quella è una contraddizione incredibile, forse basta un saluto, un piccolo scontro fortuito, un sorriso diretto a qualcuno, e tutta quella realtà generale così disarmante si trasforma in un attimo, aprendo le porte ai dettagli, ai particolari più piccoli, alle parole e alle frasi da scegliere e pronunciare con calma, grati di quell’attenzione guadagnata con poco. Alfredo era solo un viandante, un barbone, di passaggio per quella città, avrebbe passato la notte nella stazione dei treni, non poteva farne a meno, ma l’indomani non sarebbe rimasto per nessuna ragione. Quando raccolse quel libro, lo fece d’istinto, ma la signora che si volse verso di lui comprese perfettamente la generosità che stava dentro a quel gesto. Lo ringraziò, gli chiese il suo nome, avrebbe voluto dargli dei soldi, ma forse sarebbe stato offensivo, così lo invitò a casa sua, per fargli conoscere i figli, disse, la sua famiglia. Alfredo cercò di schernirsi, non si sarebbe sentito a suo agio, disse sincero, ma la signora insistette, abitava giusto a due passi. “Va bene, la seguo”, disse con l’intonazione più dolce che ricordasse del tempo in cui ancora non viveva per strada, e aveva un lavoro, una casa, e si sentiva come tutti quegli altri, le persone normali, non come adesso, che la sua vita era ridotta ad un niente, ad un giorno per giorno in cui trovare qualcosa di buono da mettere dentro allo stomaco, e una cuccia dove passare la notte. La signora era gentile, lo fece sedere, pur sporco com’era, gli dette i biscotti, del tè, del vino dolce che teneva di scorta, lo fece parlare, e Alfredo usò poche parole per descrivere quale sfortuna lo avesse portato ad essere un niente, anche se gli pareva di dire delle cose scontate. Poi si fermò, lasciò perdere qualsiasi convenevole, si ricordò che era stato insegnante nelle scuole di stato, anche se era trascorso del tempo, disse che il libro che era caduto dalle braccia della signora avrebbe potuto essere scritto da lui, perché anche lui tanti anni fa aveva pubblicato qualcosa; disse che in quella città, come in ogni città, si vivevano dei rapporti falsati, che ognuno era accecato dal proprio egoismo, che si fingeva una generosità inesistente, che tutto era inutile, le persone erano tutte diverse l’una dall’altra, ed ognuna viveva soltanto la superficie della realtà. Disse che ognuno era dentro a una cella, costretto a convivere solo con una piccola parte delle cose possibili, e questo valeva per tutti, non c’era bisogno di fingersi buoni o più generosi, era questione di struttura sociale, di politica, di atteggiamento borghese che definiva perfettamente ogni classe, senza possibilità alternativa. Silenzio, Imbarazzo. Il marito congedò Alfredo con quattro parole, e lo lasciò uscire di casa che ancora pioveva, ma lui si sentiva ugualmente contento: aveva fatto il suo recital, la dimostrazione effettiva che non ci potevano essere davvero rapporti tra due classi sociali così differenti.


            Bruno Magnolfi

giovedì 6 agosto 2009

Un settore speciale.

            

            I giorni e le notti sono talmente lunghi in galera che qualsiasi cosa  è lecita pur di rompere la monotonia del tempo che scorre con lentezza estenuante. Iniziai, da solo nella mia cella, col descrivere i sogni che spesso facevo durante i miei sonni brevi e profondi, ma, tracciandoli con una matita sopra la carta che mi passavano in carcere, sarà forse per il mio modo di scrivere, o forse per la scrittura un po’ tremolante, ma a un certo punto quei fogli con tanto di data che avevo accumulato via via, mi sembravano un po’ tutti uguali, privi di qualsiasi caratteristica. Allora continuai coi ricordi. Non era semplice far tornare alla mente le cose passate, spesso arrivavano senza coerenza, alla rinfusa, ed era difficile organizzarle e ridare al loro fluire sia il senso, sia il loro valore, così come ancora più complicato era incastonarle dentro al periodo a cui erano riferite. Iniziai a mettere giù degli appunti, dividendo ogni cosa per anno e per mese, poi scoprii che più continuavo a pensare a tutto quello che mi era successo più mi tornavano a mente particolari che fino ad allora avevo come rimosso, anche se erano rimasti tutti presenti nel mio cervello, come in attesa che arrivasse un evento a ridare loro la vita.  Inizialmente il materiale che ritornava alla luce era molto anche se spesso confuso, ma in seguito, continuando a pensare e soprattutto a rileggere le pagine sopra le quali andavo a descrivere vicende e pensieri, riuscivo a comprendere meglio i motivi che avevano portato a quei fatti, il senso che avevano avuto le scelte, le mie decisioni. Intanto passavano i mesi e il lavoro pareva allargarsi sempre di più, e adesso iniziavo ad avere un’idea più precisa di tutto quello che era successo durante tutti quegli anni. Una sera una guardia mi chiese cos’era che scrivevo con così tanto impegno, e allora gli mostrai i miei appunti. Prese con sé qualche pagina “per dargli un’occhiata”, mi disse, e quando mi riportò tutto quanto, qualche giorno più avanti, disse che conosceva qualcuno che poteva scrivere a macchina tutto il lavoro. Aumentai ancora l’impegno per portare avanti tutti i ricordi che reclamavano il loro momento di gloria, e dove la memoria non riusciva a completare i vari periodi di tempo, iniziai ad inserire qualche aspetto della mia fantasia, evitando elementi estrosi o bizzarri, cercando sempre di conservare il mio modo di essere, in linea con tutto quello che mi era realmente successo. Veniva fuori sempre di più una specie di biografia romanzata della mia vita, e tutto il lavoro era talmente intrigante che ogni volta ne rileggevo una parte trovavo inevitabilmente qualcosa da aggiungere. Infine mi parve che tutto il manoscritto fosse completo, da quando lo avevo iniziato era trascorso ben più di un anno, lo rilessi più volte, apportai ancora qualche modifica, cercai di correggerlo al meglio delle mie possibilità, e alla fine detti tutto alla guardia per farlo battere a macchina. Ero contento di quel lavoro, mi pareva una delle cose migliori che avessi fatto in tutta la vita, mi sentivo orgoglioso e adesso pensavo addirittura alla possibilità di poterlo far pubblicare. Fu solo diversi giorni più avanti, non avendo più visto la guardia a cui avevo consegnato il mio manoscritto, che un suo collega mi disse che non era più lì, che era stato trasferito in un altro settore. Piansi, non c’erano regole là dentro, avrei dovuto pensarlo: il mio lavoro era inevitabilmente perduto, probabilmente sarebbe stato pubblicato davvero, ma con il nome di un altro, e a me la sola cosa rimasta era il fatto che avrei potuto riscrivere tutto, riprendere da capo coi ricordi e col resto, ma alla fine decisi che non c’era più senso, tanto valeva fare il carcerato, proprio come tutti quegli altri.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 5 agosto 2009

Benvenuta.

            

            Aveva camminato a passi svelti verso la fermata dell’autobus distante appena poche centinaia di metri da casa sua, ma avvicinandosi a quel tratto di strada aveva leggermente rallentato l’andatura, come se volesse far trascorrere qualche altro momento prima di salire su quel mezzo pubblico. In fondo era presto, c’erano ancora più di due ore prima dell’inizio della sua prima lezione come insegnante di scienze. Era una supplenza di soli quindici giorni, quella per cui era stata chiamata, ma lei, laureata nemmeno da un anno, si sentiva già persa, le sembrava di non essere assolutamente all’altezza per affrontare gli alunni di quel benedetto liceo, era sicura, una volta che fosse entrata dentro a quell’aula, di non ricordarsi più niente. L’autobus era il solito, quello che aveva sempre preso per andarsene alle lezioni dell’università durante tutti quegli anni volati in un attimo, ma adesso le pareva che tutti là sopra guardassero lei, che le strutture di metallo per reggersi fossero come surriscaldate, che quel tratto di strada non finisse in nessuna maniera e contemporaneamente fosse persino troppo breve. Non si sentiva esattamente come quando aveva dovuto sostenere i suoi esami alla facoltà di biologia, era diverso, era come se una parte cospicua del problema non dipendesse da lei, dalla sua preparazione; come se delle incognite di genere vario fossero di fronte alla sua cultura scolastica a tenderle tranelli in cui inevitabilmente, già lo sapeva, sarebbe caduta come una sciocca. Pensava ai suoi anni di scuola, quando era lei a studiare al liceo, e a quegli insegnanti supplenti che erano passati, in ogni genere e grado, dalla sua classe. Figure anonime, alle quali non si era dato alcun credito, che probabilmente, come lei adesso, avrebbero voluto intavolare lezioni ben fatte, professionali, all’altezza dei tanti anni di studio alle spalle, ma non avevano avuto alcuna possibilità, erano state osteggiate, denigrate, sminuite, proprio come sospettava sarebbe accaduto anche a lei. Aveva paura di quei ragazzi che tra poco avrebbe avuto di fronte, inutile nasconderlo, proprio quegli stessi dei quali aveva fatto parte anche lei: le sembrava impossibile adesso, che anche lei fosse stata crudele, miope, stupida, senza minimamente rendersi conto che tra le cose possibili ci sarebbe stato anche quel rovesciarsi di parti tra l’aguzzino e la vittima. Avrebbero riso della sua timidezza, si sarebbero fatti beffe di lei, della sua goffaggine innata, di quei suoi modi poco pregnanti, di tutti i suoi anni di studio che all’improvviso erano lì e non servivano a niente, se non a farle fare quella figura da stupida, di una che non riusciva neppure a far fronte ad un branco di adolescenti che avevano tutto da apprendere, da ascoltare, conoscere, invece di gettare discredito su ogni cosa passasse da lì. Infine anche l’autobus era arrivato davanti alla scuola, lei ne era scesa, era entrata dentro al grande portone di legno del liceo “Galilei”, aveva scambiato qualche veloce parola con la segretaria, era passata in aula insegnanti, aveva preso il registro, inforcato gli occhiali, salutato un custode, entrata senza respiro dentro alla classe che grondava del sangue di tutti i supplenti che erano passati da lì prima di lei; e all’improvviso: silenzio; i ragazzi erano in piedi, la salutavano, la loro supplente di scienze era là dentro la benvenuta.


            Bruno Magnolfi 

martedì 4 agosto 2009

Le cose da vivere.

            


            La mamma era morta al mattino. O meglio, l’avevo trovata così, quando mi ero svegliata, già rigida e immobile dentro al suo letto. Non le avevo detto niente, mi ero limitata ad accarezzarle la faccia, senza aver voglia di piangere, poi avevo cominciato a vegliarla, per tutto quel giorno, muovendo avanti e indietro la testa come sempre facevo quando  mi sentivo nervosa. Non avevo chiamato nessuno, e nessuno era venuto a cercarci, per tutto quel giorno e per chissà quanti altri giorni, pensavo. In genere al mattino lei mi diceva di prendere i soldi dal suo borsello, scendere giù in quel negozio a comprare del pane, le uova, insalata, due fettine di carne, ma quel giorno la mamma non aveva detto più nulla, ed io non ero scesa da casa, ero rimasta lì, assieme a lei, tanto non avevamo bisogno di niente. Era già sera, vedevo il buio in mezzo alle stecche delle persiane, le finestre per tutto quel giorno erano rimaste sprangate, come se il giorno non fosse ancora arrivato; ed io non sentivo la fame; non sentivo i rumori, non sentivo il silenzio, non sentivo più niente, non avevo voglia di niente, mi sentivo senza più alcuna possibilità di sentire le cose. La mamma era lì, con i suoi occhi chiusi, e l’unica cosa che io continuavo a volere era rimanere con lei, lì vicino, sentire la sua presenza accanto alla mia, pur senza guardarla, perché il suo pallore mi faceva paura. Solo di stare lì avevo voglia, sopra la sedia, a muovere leggermente la testa, la mia testa vuota, senza più alcun pensiero. Poi avevo iniziato a cantare una nenia, una nenia che conoscevo quando ero piccola, tanti, tanti anni fa. L’avevo ripetuta più di una volta, mentre cercavo di ricordarne le poche parole, poi non avevo più smesso, pur continuando a ripeterne solo una strofa, l’unica che ero riuscita a ritrovare dentro alla testa. Avevo voglia stringermi i ginocchi al mio corpo, di farmi più piccola, di rannicchiarmi, pur con quei miei capelli ormai tutti bianchi che mi erano nati da chissà quanto tempo, a sostituire quei riccioli biondi delle fotografie che spesso mi faceva vedere la mamma. E mi sembrava di essere tornata a quel tempo, quando la mamma cercava di insegnarmi le cose, e mi portava sempre dai medici e mi diceva che erano amici, che facevano tutto solo per me, e loro coi camici bianchi e lo sguardo fissato sorridevano e mi chiedevano quello e quell’altro, ed io però mi sentivo nervosa e mi rinchiudevo sempre di più. Il sonno poi, era calato improvviso, e a me dispiaceva di non aver pianto per niente, ma non ne trovavo neppure ragione: la mamma era lì, dentro al suo letto, io mi sarei sdraiata con lei, non l’avrei mai abbandonata. Il giorno dopo tutto era uguale, ma io avevo cominciato a tremare, forse avevo la febbre, e mi ero sporcata, la mamma mi avrebbe sgridato, pensavo, ma stavolta era successo senza che neanche me ne accorgessi, e adesso l’odore era forte ed io sentivo vergogna, ma non potevo far niente, pensavo, e dovevo restarmene lì, assieme a lei, e aspettare quando la mamma diceva di scendere per prendere il pane e altre cose, e forse avrei voluto tornare ad un tempo diverso, quando tutto era bello, e le cose erano ancora tutte da fare, da scegliere; forse da vivere.


            Bruno Magnolfi

lunedì 3 agosto 2009

Le scelte.

            

            Sapeva di avere dentro di sé una fragilità innata, delle incertezze profonde, una insicurezza invalicabile, e per questo motivo aveva sempre cercato di mascherare questa sua caratteristica con delle pause, quando affrontava qualche argomento, con dei silenzi, con certe espressioni cariche di dubbi, che lasciassero trasparire la sua profonda ricerca del pensiero e della definizione migliore.  A lui non importava affatto decidere, gli bastava fare le cose con il massimo dell’accordo e della tranquillità con tutti gli altri, senza mai arrivare a discussioni sterili e rancorose. Con il tempo aveva imparato ad evitare certi argomenti, girare attorno a dei pareri spigolosi, sfumare le opinioni che potevano apparire maggiormente ostiche. Molto era dato dalla maniera come si affrontavano le cose, anzi, secondo lui quasi tutto era stabilito dalla forma e dalle espressioni con cui le proprie ragioni venivano sostenute: se si evitavano sparate decise su argomenti opinabili, e si riusciva a portare avanti un comportamento morbido e aperto, anche se le sue convinzioni non erano così ferree e definite, trovava in questo modo la maniera per apparire più persuaso di ciò che sosteneva. Alla fine, tramite quel suo comportamento, e fin da quando era più piccolo, lui rimaneva in disparte, come poco interessato agli argomenti in discussione, limitandosi in genere a metter giù soltanto cose vaghe, ma che generalmente davano fuoco alle persone maggiormente impulsive, le quali raccoglievano lo stimolo portandolo avanti e concludendolo. Ecco, questo era il suo scopo principale, indipendentemente dal contenuto della discussione, arrivare al punto che qualcuno decidesse anche per lui, con convinzione, con determinazione, tirando fuori l’ultimo anello conclusivo di una catena alla quale anche lui aveva sicuramente dato il suo apporto, e quasi sempre gli veniva riconosciuto, in modo che la sua figura non appariva quasi mai di secondo piano, ma anzi sembrava quello che sa lavorare nell’ombra, portando le persone ad un punto che per magia di ambiguità sembrava da lui già previsto. Con lei le cose erano state anche più complicate, tanto da fargli intavolare, in molte occasioni, delle vere e proprie strategie di manovra, maniere pensate e studiate per riuscire a far emergere, nelle scelte che prendevano in due, anche una sua evidente opinione, anche se, di fatto, era solo il suo modo dubbioso, poco chiaro, esageratamente riflessivo, che riusciva a far scaturire con positivo risalto le decisioni di lei. Infine, dopo che si erano finalmente sposati, lui aveva deciso di smettere con quel suo comportamento che molte volte gli era pesato: aveva lasciato che lei decidesse senza problemi tutto quello che riguardava anche lui, sedendosi una volta per tutte e smettendo di preoccuparsi dei rapporti con gli altri. 


            Bruno Magnolfi

domenica 2 agosto 2009

Il coro.

           

            Tutto era pronto. Luca era già andato a prendere confidenza col palco, e assieme agli altri aveva calcolato le postazioni, si era preparato i fogli con i testi e con i pezzi per la serata. Non era il primo concerto che faceva assieme a quel coro, tutti ragazzi e ragazze dai dodici ai quindi anni, ma anche se alle serate che la scuola di musica organizzava per loro, intervenivano sempre poche persone, giusto qualche decina, stavolta qualcosa di diverso lo faceva tremare. Elisa gli aveva preso una mano, durante quel pomeriggio, e lo aveva guardato negli occhi con uno sguardo che lui non aveva mai visto, e anche se lei probabilmente aveva fatto così come per fare una cosa qualsiasi, quasi come sembrasse annoiata delle prove o degli altri ragazzi, per Luca non era stata nella stessa maniera. Un brivido gli si era inserito nel profondo dell’animo, come se all’improvviso non avesse più avuto coscienza di sé, persino di ciò che doveva cantare, della sua partitura provata e riprovata con gli altri chissà quante volte. Era assurdo, aveva pensato subito dopo. Non era possibile perdere così la ragione, eppure si era sentito come completamente perduto, lontano mille chilometri dal modello che aveva sempre seguito. Mentalmente aveva cercato dei punti fermi che lo riportassero il più velocemente possibile a sentirsi di nuovo esattamente se stesso, ma i suoi pensieri avevano cominciato, come per autonomo moto, ad andare tutti verso di lei, verso Elisa, a pensare alle cose che forse stava facendo, con chi stava parlando, a quello che poteva dire o pensare, e soprattutto al motivo che l’aveva portata a quel gesto d’affetto improvviso che Luca in cuor suo aveva desiderato da mesi. Adesso lui era lì, con i suoi vorticosi pensieri, questa era la cosa importante, anche se si sentiva la febbre, e lei più tardi sarebbe stata accanto a lui sopra al palco, mentre stava nascendo la loro storia d’amore, mentre già fermentava il loro sentimento più bello e più nobile, e tutti i loro pensieri, i gesti, gli sguardi, sarebbero stati in funzioni di quello, e chissà dove li avrebbe portati quell’intesa profonda, lui già immaginava il futuro, proiettandosi in avanti nei mesi e negli anni. Luca girò tutto quanto il piccolo teatro all’aperto pieno di gente dell’organizzazione e di parenti dei ragazzi del coro, fino a che vide Elisa intenta a ridere e parlare assieme a due o tre ragazzi. Le andò vicino con il cuore in subbuglio, e lei, con impercettibile gesto, gli fece cenno di seguirla di là, dentro alla Casa della Cultura. Quando infine furono soli, lei lo tirò a sé, contro una parete dipinta di bianco, e gli stampò un bacio sopra la bocca che Luca non avrebbe dimenticato mai più. Poi, gli dette come una piccola spinta ed uscì, quasi di corsa, lasciandosi dietro alle spalle una dolce risata armoniosa. Il maestro di musica non capì assolutamente le ragioni di Luca, pur chiedendo e domandando di nuovo, anche se dovette rendersi conto che per quella serata, il coro e il concerto avrebbero dovuto fare a meno di lui.


            Bruno Magnolfi

sabato 1 agosto 2009

La stringa.

            

            Dietro al vetro osservavo la vita passare, come una successione di immagini senza legame. Poi, quando capivo che una stringa sottile univa le cose dandole un senso, mettevo meglio a fuoco anche i dettagli, e riuscivo a comprendere che era presente un suo significato profondo.


            Bruno Magnolfi