domenica 31 gennaio 2010

Lo sconforto.

            

            “Non mi piace questo silenzio”, disse lei spostandosi verso la finestra come a cercare di là dai vetri chiusi una fonte di rumore che potesse toglierle quel fastidio. Lui non disse niente, si limitò ad osservarla per qualche minuto, poi si alzò con gesti lenti e misurati, si accostò ad un mobile della stanza e accese l’impianto stereo, lasciando che il compact disc che era già dentro al lettore, iniziasse a suonare, solo dosandone il volume fino ad un livello della musica appena percettibile. “Questa casa, ormai, è peggio di una tomba”, proseguì lei come a conclusione del suo pensiero.
Lui passò svogliatamente vicino al tavolo basso, raccolse il bicchiere rimasto lì e bevve un piccolo sorso, constatando che il ghiaccio si era sciolto. “Potresti cambiare qualcosa, spostare i mobili, acquistare un tappeto nuovo”, disse lui. Lei ebbe un moto di riso, per appena due secondi, poi disse: “Non ne sento affatto la necessità”. Poi raccolse il libro che aveva letto fino a poco prima seduta nella sua poltrona preferita, piegò un angolo della pagina, e lo mise sopra al tavolo. “Sono stufa, persino di me stessa”, disse, e con un gesto meccanico si riordinò i lunghi capelli, passandoli sopra all’orecchio. “Eppure, quando decidemmo di venire a vivere in collina, lontano dalla confusione, sapevamo che era così…”, disse lui con una leggera espressione beffarda, come cercando di scavare nelle parole.
Poi uscì dalla stanza, come conscio del fatto che lei probabilmente non avrebbe né risposto né commentato, ma quando tornò per salutarla, già con la giacca e il cane al guinzaglio, pronto per la solita passeggiata della sera, lei disse: “Le nostre abitudini sono così sedimentate che ormai non potrei tenere un comportamento diverso, neanche lo volessi”. “Questo è vero”, disse lui; “Ma non è il problema, ne è solo il contenitore”.
Poi uscì, liberando il setter irlandese per lasciarlo correre sul prato, mentre il cielo si colorava intensamente dell’azzurro della sera. Lei lo osservò dalla finestra, ne seguì i passi, almeno fino a quando la strada con la ghiaia facendo una curva tra gli alberi non ne nascose la vista, poi si volse quando sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Allora in fretta mise le scarpe, si gettò un maglione sulle spalle e corse fuori, dietro quella curva, seguendo quell’improvvisa necessità di assorbire la serata, di vivere quell’attimo, di abbracciarsi a lui, di sentire che era ancora viva e che tutto era ancora da decidere. Il cane la sentì e le andò incontro abbaiando, e a lei parve di star bene, di non avere bisogno di nient’altro.


            Bruno Magnolfi

sabato 30 gennaio 2010

Un campo da calci.

            

Quando entrai nel campo sportivo così piatto e liscio d’erba rasata, forse appena troppo alta ai margini, ma rada e quasi inesistente nelle zone più calpestate, mi parve subito troppo grande per me, per quei miei piedi piccoli, serrati nelle scarpe troppo nuove, da calcio, appena comperate per l’occasione, soltanto un numero più grandi in considerazione della mia crescita veloce. Gli altri ragazzi correvano, scaldavano i muscoli, ognuno nel suo gruppo contraddistinto da un colore di maglietta, e soffiavano forte l’aria del pomeriggio autunnale, umido, mentre qualcuno qua e là rideva forte, parlando a voce alta di qualcosa. Avrei voluto andarmene subito, ma capivo che sarebbe stato peggio. L’allenatore disse qualcosa con le mani, e noi, i più piccoli di tutti, iniziammo a correre lentamente, lungo la striscia bianca. Ero minuto e fragile di corporatura, un po’ di sport mi avrebbe fatto bene, dicevano i miei, ma io mi sentivo ancora più piccolo e fragile in quella situazione; sentivo la fronte imperlarsi di sudore e anch’io sbuffavo aria come tutti, ma con un senso di fastidio crescente. Mio padre, assieme ad altra gente, sicuramente mi stava osservando fuori dalla recinzione del campo sportivo, anche se non riuscivo ad individuarlo, e probabilmente si sentiva orgoglioso di me, dei miei progressi, come li chiamava lui, e del mio farmi grande.
Poi arrivarono i palloni e tutti iniziarono a scambiarsi grandi passaggi con vistose destrezze di piede. Io mi misi assieme ad un altro che conoscevo, e mentre lui si allontanava arretrando per permettermi di fargli un passaggio, calciai il pallone in malo modo, con molta più forza di ciò che sarebbe servita, proiettandolo verso altri ragazzi lontano. Continuai così per un po’, senza neppure ottenere migliori risultati, ma divertendomi a calciare delle pallonate esagerate, e a stare tanto distante dall’altro da dovergli urlare, fino a quando l’allenatore ci fermò, in malo modo.  Mi piaceva aver fatto subito qualcosa di diverso da tutti, era un po’ come aver detto a voce alta che quel gioco era una sciocchezza, e chi ci credeva era un tonto.
Poi venne intavolata una partita vera e propria, mescolando dentro alle due squadre elementi di ogni colore di maglietta. Terzino destro fu il ruolo a cui fui assegnato, e dopo il fischio mi parve tutto divertente visto che si limitavano tutti a piccole scaramucce al centrocampo dalle quali risultavo praticamente estraneo. Fu solo quando in due vennero correndo forte verso di me che tutto mi parve sprofondare. Feci il possibile, mirando il pallone che si muoveva troppo rapidamente tra quei piedi scalcianti e veloci, e mi difesi in qualche modo da quei corpi sudati smanettanti e sgradevoli, ma finii a terra quasi subito con una forte sensazione di dolore frammisto al sapore forte della terra umida.
Si andò avanti per parecchio tempo alla stessa maniera, e tutta quella faccenda di correre dietro ad una palla sfuggente mi pareva sempre più idiota, fino a che, liberatoriamente, l’allenatore fischiò che era ora di smetterla e di andare agli spogliatoi. Uscii lentamente dal campo, con sollievo, mentre gli altri ragazzi urlavano tra loro cose incomprensibili continuando a farsi degli scherzi e correndo avanti e indietro, quasi a mostrare che avrebbero potuto continuare a giocare per ore senza neanche durare fatica. Negli spogliatoi arrivai tra gli ultimi, e la puzza di sudore era fortissima. Gli scherzi e le risate erano continue, e i più violenti e aggressivi si schizzavano, nudi come vermi, sotto alle docce fumanti e rumorose. Naturalmente mi limitai al cambio delle scarpe, che riposi in una piccola sacca azzurra che avevo lasciata appesa ad un attaccapanni, e senza salutare nessuno uscii per primo e me ne andai.
Ovviamente non tornai mai più in quel campo di gioco e in quegli spogliatoi, ma lo strascico della vicenda fu lungo e doloroso. Mio padre conosceva l’allenatore, ed ambedue incontrandosi qualche volta nei giorni seguenti e ancora dopo, avevano continuato ad insistere, cercando soluzioni alla mia timidezza per farmi continuare con quegli allenamenti. Alla scuola elementare, già la settimana successiva, qualcuno aveva notato che non ero andato alla lezione di calcio, e più che domandarmene il motivo mi era stata fatta qualche battuta frizzante. Capivo bene che chi rifiutava come me un‘opportunità di quel genere, e cioè imparare lo sport nazionale, doveva essere deficiente o pressappoco, così non mi rimase altro che fortificarmi su un comportamento da “diverso da tutti”, come diceva adesso anche mio padre, e cercare di interessarmi di cose strampalate. Abolii le figurine dei giocatori di calcio pur continuando a piacermi come prima, e smisi del tutto di dichiararmi tifoso di una qualche squadra, cosa praticamente impensabile in quegli anni; e quando  mio padre una domenica mi portò a vedere una partita di pallone nel solito campo degli allenamenti dove giocava la squadra del paese, io mi limitai a cogliere un mazzolino di fiori di campo che crescevano spontaneamente ai margini dello spiazzo, e fui contento solo quando l’arbitro fischiò la fine e si andò via.

Bruno Magnolfi


venerdì 29 gennaio 2010

Giorno qualsiasi.

           

            Le facciate dei palazzi precipitano sui marciapiedi, e la folla si riversa lungo le strade per il convegno generale dell’ora di punta. Dall’interno di una grande vetrata un uomo osserva distaccato l’ordinarietà delle cose, lascia che i suoi pensieri seguano un corso proprio per alcuni minuti, infine si alza dalla sua scrivania e raggiunge gli altri. Cerca un’immagine dentro di sé che gli dia distensione, domenica scorsa è uscito con la sua barca insieme agli amici. Si è vantato di qualcosa, probabilmente, ma non lo ha fatto con volontà: era già nelle cose, non poteva esimersi dal sentirsi appagato. Adesso quel comportamento gli sembra ridicolo, e appare noioso quel gioco continuo di corsa al piacere. Scende lungo la strada con lo scudo del suo vestito di seta, ma all’improvviso sa di essere solo. Nessuna fuga in avanti, il suo analista gli ha detto di non correre mai, la sua fantasia è scollegata da tutto, una parte di narcisismo è sempre presente, e l’appagamento è dato dalla flessione delle cose e delle persone che si muovono intorno. Non è contento di niente, ma non se lo chiede neppure, la felicità è una parola vuota, la mancanza del suo contenuto fa muovere tutto. L’uomo si chiede come riempire quello spazio deserto fino alla prossima telefonata, ma con un sottile dolore si rende conto di aver spento con un gesto di stizza il suo cellulare. Qualcosa si incrina nelle sue certezze, ma continua a camminare in mezzo alla gente, sicuro che qualcosa avverrà. Non sa più cosa vuole, i suoi passi appaiono lenti rispetto alla fretta di tutti. Gente, gente, quella gente gli ha sempre procurato energia, ma adesso non basta, il meccanismo si è rotto: non si sente né migliore, né uno come tutti, si sente da solo, e la solitudine è depressiva, crepuscolare rispetto alle cose.


            Bruno Magnolfi  

giovedì 28 gennaio 2010

Il vincitore.



“Adesso mi hai stufato”, le dice l’uomo con voce decisa sollevandosi dalla posizione che aveva assunto per effettuare quel difficile rinquarto al biliardo. Di fatto la sua palla ha assunto troppo effetto, va a colpire di lato ed il suo tiro risulta sbagliato anche se non disastroso.
La ragazza inizia a piangere, ma con dignità, a piccoli singhiozzi, ed esce dalla porta a vetri andando a sedersi ad un tavolo tondo del caffè, nell’altro ambiente del locale. L’uomo non la guarda neanche, e mentre cerca di capire cosa c’era di sbagliato nel suo tiro, dice ad alta voce, ma come tra sé: “Ho detto un sacco di volte che non deve venire qui a scocciarmi”.
Gli altri tre giocatori e le altre quattro o cinque persone presenti non dicono niente, anche se gettano tra loro delle occhiate più che esaurienti sui loro pensieri, mentre, come se niente fosse successo, la partita prosegue regolare.
La ragazza rimane di là, con le spalle alla sala da biliardo, si fa servire un cappuccino e intanto, distrattamente, sfoglia un giornale. La porta a vetri è piena di impronte di mani, e qualcuno intorno al biliardo si è acceso la sua sigaretta, lasciando che il fumo grigio e svogliato si alzi da dentro a quelle luci basse e vada a perdersi su in alto, dentro le ventole di un aspiratore che produce nell’aria pesa un ronzio leggero.
L’uomo studia meglio i tiri successivi e va a segno con diversi punti. Una leggera smorfia si disegna sul suo viso, il suo gioco sembra disteso e fluido, i birilli e il pallino cedono sotto ai tiri calibrati, e infine vince, come già era successo nelle due partite precedenti. Intasca i soldi che aveva pattuito, ripone la sua stecca, saluta tutti con appena due parole ed esce dalla porta a vetri.
Gli altri lo osservano mentre si allontana, quando passa accanto alla ragazza: le fa una carezza dolcissima sul viso, le sorride quanto basta, e infine l’abbraccia mentre escono insieme dal caffè. 


Bruno Magnolfi

martedì 26 gennaio 2010

Un raro cliente.

            

            L’albergo era piccolo, quando arrivava un cliente doveva suonare ripetutamente e a lungo il campanello sopra lo scrittoio, perché la proprietaria, la signora Rosa, era sempre ai piani superiori indaffarata ad aiutare la cameriera. Quel mattino le cose non furono diverse, e l’ingegnere incaricato dalla Provincia di effettuare dei rilievi in quella zona, attese con fiducia che qualcuno rispondesse ai suoi richiami, forte della sua prenotazione telefonica. La sua camera non era molto grande, ma a lui piaceva quell’arredamento semplice, quasi essenziale. Disfece i bagagli, sistemò qualcosa, infine raggiunse, con la sua auto carica di strumenti, il magazzino dove si doveva incontrare con la squadra degli operai, ai quali c’era da spiegare compiti e mansioni, in modo da iniziare i lavori quanto prima. La cena nella saletta ristorante dell’albergo era divertente e familiare, con un televisore acceso in un angolo e tutti che parlavano a voce tanto alta da neutralizzarne gli effetti. L’ingegnere parlava volentieri con Rosa e le spiegava i lavori che svolgeva nei terreni attorno al paese. Era così caldo e accogliente quel posto che veniva voglia di passarci l’intera serata a parlare e a scambiare battute di spirito. Fu solo dopo alcuni giorni che le cose cambiarono. Rosa gli disse che alcuni proprietari della zona erano andati da lei a dirle che era un sopruso quello che la Provincia stava facendo nei loro confronti, e lei non voleva entrare in quelle questioni, ma se le acque non si fossero presto calmate, era costretta a chiedergli di cercare una sistemazione diversa. L’ingegnere rimase turbato, si prese un giorno di tempo prima di affrontare le cose, studiò a fondo le carte e le confrontò con i terreni oggetto di discussione, infine chiese alla signora Rosa di farlo incontrare con quelle persone che si erano tanto lamentate delle decisioni della Provincia. Si ritrovarono lì, nella saletta del ristorante, nel pomeriggio, e l’ingegnere ascoltò le ragioni dei proprietari, mise avanti gli interessi del bene pubblico portati avanti dalla Provincia, e alla fine, cercando un accomodamento già nei modi e nelle parole adoprate, disse che avrebbe studiato alcune modifiche volte a non danneggiare nessuno. Durante la notte qualcuno tirò un sasso in una finestra dell’albergo di Rosa, ed il mattino seguente tutto il paese era dispiaciuto di quanto stava accadendo. L’ingegnere si chiuse nell’ufficio del magazzino della Provincia, fece diverse telefonate lunghe e concitate, e infine lavorò a fondo senza uscire da dentro prima di aver messo a punto un compromesso accettabile. L’incontro con i proprietari avvenne nella solita saletta del ristorante, e in breve tutti i presenti accettarono le condizioni portate avanti dall’ingegnere. Ogni discussione fu presto portata a compimento, l’ingegnere si offrì di ripagare la finestra dell’albergo sfondata, e alla fine una bicchierata generale costituì il miglior fondamento dell’accordo trovato, naturalmente in presenza della signora Rosa, felice di poter conservare quel cliente così bravo ed affabile.   


            Bruno Magnolfi

lunedì 25 gennaio 2010

Variazioni di percorso.

            

            Di venerdì a Geraldo piaceva tornare a casa a piedi dopo il lavoro. Era una maniera come un’altra per liberarsi da tutti i pensieri e le preoccupazioni  che il suo mestiere di ragioniere gli procurava in tutto l’arco della settimana, ed affrontare il riposo del sabato e della domenica con la testa leggera. Dall’ufficio di commercialista, dove lavorava come dipendente insieme ad altre dieci persone, ci voleva circa un’ora per arrivare fino a casa sua senza prendere l’autobus, e tutto quel grande quartiere che attraversava di venerdì sera appariva così interessante al suo passo tranquillo, cadenzato, che solo quella semplice passeggiata gli pareva una festa. In fondo la sua vita era semplice, e lui non chiedeva molto per sentirsi contento e appagato. La sera, qualche volta, andava in un bar sotto casa, si prendeva un caffè e scambiava qualche parola con le persone che conosceva da sempre. Gli piaceva starsene un po’ lì, in quell’aria fumosa da perdigiorno, gli pareva di sentirsi tra amici, in mezzo a discorsi leggeri, senza pensieri. Fu la sera di un sabato qualsiasi, che qualcuno aveva portato quella ragazza, forse appena un po’ sbronza, a dire la verità, però una persona simpatica, pronta allo scherzo. Avevano bevuto ancora qualcosa, poi lei si era avvicinata a Geraldo e gli aveva detto che aveva una bella camicia, così erano usciti insieme dal bar, perché lei aveva caldo e tutta quella gran confusione le faceva girare la testa, ed erano arrivati fino in fondo alla strada, dove si erano messi seduti sui gradini della chiesa lì all’angolo. “Certe volte mi sento un po’ sola”, aveva detto lei, e l’argomento così era girato tutto attorno a quel suo problema. “Tu sei in gamba”, gli aveva detto, una volta esauriti i discorsi; “Non sei come quei quattro ignoranti nel bar che ti pagano qualcosa da bere e così pensano di potersi permettere tutto”. Lui l’aveva accompagnata fino a casa, quella sera, e si erano dati appuntamento per il giorno seguente, per mangiare qualcosa alla svelta e andarsene al cinema. Ma Geraldo era passato dal bar molto prima dell’orario dell’appuntamento, e aveva trovato un ragazzo di quelli che erano lì anche la sera prima; quello gli aveva messo una mano sotto ad un braccio, come si fa tra gli amici, e guardandolo dritto negli occhi gli aveva detto che quella ragazza era una che ci stava con tutti, bastava pagarle qualcosa, non c’era problema. Lui era uscito dal bar con la testa confusa, aveva pensato al suo solito lunedì che sarebbe arrivato di fretta, e alla lunga settimana in ufficio dietro alle solite carte, poi aveva girato un po’ a caso per le strade di tutto il quartiere. Il suo passo era sempre più lento, più pesante, più stanco: non sapeva più cosa voleva, non riusciva a prendere una qualsiasi decisione. Infine, del tutto soprappensiero, all’ora del suo appuntamento si era ritrovato nel solito bar, se ne era reso conto solo quando ci era arrivato davanti, così era entrato spingendo lentamente la porta vetrata: c’era lei, seduta ad uno di quei tavolini, lo stava aspettando con la stessa espressione simpatica della sera passata, e Geraldo in un attimo aveva capito che cosa voleva davvero.


            Bruno Magnolfi

venerdì 22 gennaio 2010

Pomeriggio da disperati.

           

            La mamma li aveva lasciati nel giardino di casa a giocare; era dovuta uscire per un impegno improvviso, “Una mezz’ora, un’ora al massimo”, aveva detto, e si era raccomandata più di una volta specialmente con Teresa, la figlia più grande che aveva già nove anni, di comportarsi per bene e ad ambedue di fare il più possibile i bravi.
Sandrino invece, appena rimasto da solo con la sorella, si era subito messo a correre avanti e indietro, lungo tutti i vialetti e intorno alle aiuole, saltando dai gradini della porta del retro e facendo il diavolo. Teresa lo aveva ripreso, “Ti viene la tosse”, aveva detto, ma non era riuscita a fermarlo.
Quando Sandrino poi era caduto, le sue mani erano andate ad infilarsi dentro a una siepe, e per fortuna non si era neanche poi fatto male, a parte un graffietto, se non fosse stato per l’ape che ronzando sui fiori proprio in quel punto, ebbe l’idea di pungerlo su una delle sue guance morbide.
La sorella lo portò subito in casa per non far sentire gli urli ai vicini, poi cercò di curarlo, ma quando si rese conto che il viso di Sandro era gonfio e che il dolore doveva essere forte davvero, le venne da piangere anche a lei, sentendosi persa, impossibilitata a sistemare le cose.
Rientrò la mamma e li trovò così, disperati, coscienti di non essere riusciti a cavarsela.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 20 gennaio 2010

Senza pretese.



            Angelica da sola camminava lungo la strada rischiarata dai lampioni installati sul marciapiede. Pareva non ci fosse nessuno in giro a quell’ora, forse il freddo pungente di quella serata aveva richiamato tutti dentro alle case o nei caffè. Due fidanzati, più indietro, si erano baciati, mentre passava, poi ridendo erano entrati dentro a un portone. L’uomo all’angolo l’aveva osservata, aveva detto qualcosa con voce appena percettibile, senza cambiare espressione, e lei aveva sorriso, senza guardarlo. Infine, poco più avanti, c’era il locale dove Angelica era diretta, con tanto di insegna intermittente e luci gialle fuori dai vetri della porta d’ingresso, insieme alla scia di un interno di voci e di musica che si riversava fin sulla strada. Un posto senza pretese, poco più di una birreria, ma lei ci cantava là dentro, in genere due volte la settimana, accompagnata da un chitarrista, direttamente in mezzo alle sedie e tra i tavoli, come si faceva una volta. Le canzoni erano sue, le componeva al mattino, nella sua stanza, e forse erano un po’ malinconiche, quasi tristi, ed era difficile ottenere il silenzio e cantarne di fila più di due o tre. Ogni sera trovava qualcuno con apprezzamenti sfacciati, che diceva che lei era bravissima e li faceva sognare, ma Angelica era pratica, sapeva che gli argomenti di quelle canzoni non l’avrebbero mai portata fuori da lì, per quanto quelle cinquanta persone che aspettavano ogni volta la sua esibizione rimanessero sempre contente. Ci metteva l’anima dentro a quei testi, solo lei riusciva a interpretarli nella maniera migliore, o almeno di questo era convinta, era questione di sentire le parole dentro di sé, forse di sensibilità. Chi veniva spesso dentro al locale le canzoni più orecchiabili le aveva imparate, ma nessuno si era mai permesso di cantarle con lei: la sua voce era unica, e sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di leggermente diverso, che metteva in risalto ora una parola, ora una frase. Ma in quella sera più fredda di altre, qualcuno, senza sillabare alcunché, ad un tratto aveva iniziato a giocare con un controcanto leggero sotto ad una delle sue canzoni migliori, intonando perfettamente la musica con un risultato notevole. Era partito un applauso spontaneo ma subito trattenuto, ed il ragazzo si era sentito costretto ad alzarsi dal tavolo e avvicinarsi. Angelica lo aveva guardato solo un momento, e avevano terminato quella canzone cantandola insieme in quella maniera, poi, alla fine, tutto quel pubblico era parso in delirio. Allora avevano fatto un’interruzione, e lui si era presentato e scusato per essersi permesso di darle una mano in quel modo con quella canzone. Era un cantante anche lui, di un gruppo rock abbastanza famoso, disse che gli sarebbe piaciuto collaborare con lei, con Angelica, le sue canzoni le trovava straordinarie, magari, se lei era d’accordo, avrebbero potuto cantare assieme un paio dei suoi pezzi al prossimo concerto della sua band, la settimana seguente, e lei gli sorrise, come sempre faceva quando non sapeva che dire. Poi si sedettero e brindarono a quella serata, e Angelica quasi si commosse: le pareva impossibile che qualcuno l’avesse notata, che avesse ascoltato davvero i suoi testi; forse era già quello il miracolo vero, quello più grande, che in una serata qualsiasi, solo più fredda di altre, era riuscito a scaldare anche le cose di sempre.


Bruno Magnolfi

sabato 16 gennaio 2010

Forse ora. O forse mai.

            


            Tutto era già pronto per la partenza. L’agitazione che provocava quell’alzarsi prestissimo al mattino dopo una notte di sonno leggero e senza sogni, la preoccupazione di non aver pensato proprio a tutto, di essersi dimenticato di qualcosa, di non aver lasciato forse l’ultimo saluto a qualcuna delle persone più vicine, di fare davvero oppure no la cosa giusta con quell’atto coraggioso, ecco, tutto questo era nell’aria più di qualsiasi altro elemento. Nella cucina e nell’ingresso dell’appartamento le luci erano già accese da parecchio, prima ancora che il giorno avesse minimamente provato a dar segno di sé, e il tepore della casa mescolato a quel profumo di caffè così familiare, sottolineavano la distanza profonda con il buio freddo del mondo appena fuori dalla finestra. Le valigie erano già chiuse, e ormai non c’era più neppure il tempo per ricordarsi di prendere qualche altra cosa.
L’uomo doveva partire, era come se tutto negli ultimi tempi fosse precipitato velocemente fino a quel punto, ma pur con quella sensazione di incombenza delle cose, con quel bisogno di cambiare tutto della propria vita, pur con quella consapevolezza che non era più possibile tornare indietro neanche di un passo, che le scelte erano ormai fatte e si doveva essere forti ed affrontare la nuova realtà, nonostante tutto un piccolo pensiero pazzo girava ancora fuori e dentro la sua testa. Andò nel bagno e si guardò nello specchio: si era già sbarbato, la sua faccia era liscia e seria, le sue rughe ricordavano l’importanza del tempo, della vita, delle scelte; la sua espressione definiva la realtà assoluta di ogni cosa da cui era stato circondato fino ad allora, e che stava cambiando, nettamente: “Ora!”, pareva ripetere l’immagine di fronte; era sufficiente un solo gesto, una convinzione finale, risolutiva. Tutto era pronto, meno che il suo coraggio, la sua certezza.
Aveva organizzato ogni particolare fino a quel momento nella speranza che la sua indole si fosse piegata alla concretezza delle cose, alla veridicità delle decisioni prese, ma ancora tentennava, ancora serpeggiava dentro di lui un dubbio, una perplessità nascosta alla quale era peraltro impossibile anche soltanto pensare, come se un componente diverso da tutto il resto rimanesse lì ad aleggiare senza neppure un fine preciso, solo per installare ancora dubbi, come fosse un gioco, un modo come un altro per scherzare con la vita.
Gli venne in mente in modo automatico un ricordo di quando era piccolo ed era ancora viva la mamma. Lei, come si faceva in quegli anni nelle famiglie con pochi mezzi, aveva preparato le forbici per tagliargli i capelli, un taglio a spazzola, come si usava per i bambini in quell’epoca. Ma lui era corso a nascondersi, sdraiandosi sotto ad un letto, e per quanto tutti in casa continuassero a chiamare e a cercarlo, lui rimase dov’era fino quasi all’ora di cena. Ecco, era lo stesso anche adesso, si sentiva preda di una situazione che avrebbe voluto evitare, ma purtroppo adesso era impossibile.
Osservò ancora una volta la sua roba già pronta, guardò nuovamente fuori dalla finestra, sentì prepotente dentro di sé quel gusto amaro delle cose che si vorrebbe non affrontare. Infine, con gesti meccanici, quasi nervosi, aprì tutte le valigie e sparpagliò i vestiti e gli oggetti sopra al suo letto: “Non è questo il momento”, pensò, “non è l’ora in cui devo partire”, decise di colpo; e si sentì subito meglio.


            Bruno Magnolfi

giovedì 14 gennaio 2010

Solo così.

        

            L’uomo stava seduto nel buio del cinema in una delle ultime file, da solo, cercando di svagare la mente con le immagini che scorrevano autonomamente sopra lo schermo. Prima di entrare aveva comprato una bustina di semi di zucca, si era tolto il cappello e si era immerso in quel paio d’ore senza pensieri. Invece quel film noioso pareva andarsene avanti per proprio conto, e tutti i suoi pensieri rifluivano come sempre dentro la testa. Le sue riflessioni erano legate come al solito alla sua perenne incapacità di stare con gli altri, di avere dei rapporti sociali, di avere un amico, di legarsi a una donna: una solitudine spesso cercata e tante volte subita, un equilibrio assolutamente instabile da cui era difficile uscire.
Infine si alzò, era inutile rimanere ancora là dentro, scivolò lentamente fuori dalla fila di sedie e raggiunse una delle grandi tende purpuree in fondo alla sala. Un leggero rumore attrasse la sua involontaria attenzione; con la pochissima luce che c’era volse lo sguardo verso l’angolo da cui arrivava quella specie di singhiozzo, e vide il profilo di una persona, una donna, appoggiata alla parete di fondo mentre stava piangendo. Normalmente non si sarebbe mai interessato dei fatti degli altri, ma per uno strana combinazione di cose gli venne spontaneo di avvicinarsi a quella persona per non dover alzare la voce, e in sottotono disse soltanto: “Posso fare qualcosa?”. La donna si volse, e lui intravide il suo viso soltanto un momento; lei infine rispose: “si, per favore, mi porti via da qua dentro”.
L’uomo le mise delicatamente una mano sotto ad un braccio, attese che lei con uno dei suoi fazzoletti si asciugasse le ultime lacrime, infine scostò la tenda pesante, e assieme a lei attraversò il corridoio e la saletta deserta della biglietteria, raggiungendo l’uscita dal cinema. “Mi scusi”, disse lei appena furono fuori nell’aria nebbiosa della serata, “ma a volte ci sono momenti in cui è impossibile resistere a una delusione profonda”. “Si, credo di capirla”, disse lui. “Non c’è cosa peggiore che sentirsi improvvisamente da soli, è una sensazione che non ho mai provato, prima di oggi…”. Lui annuiva, quegli argomenti erano i suoi, addirittura alcune cose gli parevano persino scontate. “Vede”, disse lei, “il senso di vuoto che ho provato in quel cinema non mi era mai accaduto, ma è un sentimento terribile, come essere coscienti di colpo che il mondo ti è ostile, che tutti hanno altri problemi, che i tuoi malesseri sono solo tuoi, puoi piangerne fino alla nausea nel buio di un cinema…; per fortuna non è del tutto così, non so come esserle grata del suo aiuto…”.
Così passeggiarono lungo il viale parlando ancora di quell’argomento. Infine, raggiunta la fermata dell’autobus lei disse che tutto adesso era a posto, non aveva più bisogno di niente, le bastava tornarsene a casa. Arrivò un mezzo pubblico, lei vi salì sopra con un grande sorriso che era un ringraziamento e un saluto, e l’uomo rimase da solo, lungo quel marciapiede. Per qualche momento restò ancora lì fermo a guardare le luci posteriori dell’autobus che si allontanava, si accese con calma una delle sue sigarette, attese ancora un momento, come a respirare il senso delle cose che la donna aveva detto. Poi se ne andò, chiuso di nuovo nei suoi pensieri ordinari, cosciente che solo con uno sforzo di volontà sarebbero cambiate le cose per lui.

            Bruno Magnolfi


             

mercoledì 13 gennaio 2010

Il ragazzo e la strada.



Le giostre andavano avanti come sempre avevano fatto. C’era stato un periodo di crisi negli ultimi due anni, ma con qualche rinnovamento alle attrezzature le cose adesso sembravano avere ripreso. La vita dietro alle quinte del mio Luna Park era sempre la stessa. Si viveva con la gente, in mezzo alla gente, si cercava ogni giorno di capirne le voglie, di interpretarne le idee, di immedesimarsi nel bisogno di tutti di tornare bambini.
Quel ragazzo era arrivato dal nulla, aveva chiesto se poteva lavorare con noi, ed io gli avevo risposto che si poteva fare un periodo di prova. Era sveglio, imparava le cose alla svelta, sembrava non avere un passato; e poi parlava poco ed era italiano, l’ingrediente più strano di tutti. “Ehi, ragazzo”, a volte dicevo; e lui scattava in piedi e faceva subito quello che gli si chiedeva di fare. Al mattino si faceva la manutenzione ai meccanismi, e lui con le mani piene di grasso faceva la sua bella figura, perché si vedeva che aveva fatto il meccanico, e se ne intendeva di ferri e motori. Altro non si riusciva a strappargli di bocca: certo, in galera non c’era mai stato, questo lo avevo saputo da subito, e poi non sembrava uno che scappasse da qualcosa o qualcuno, piuttosto era come se avesse di dentro una febbre, un ingrediente diverso da tutti, che ne faceva quasi un estraneo, uno che non sarebbe mai stato dei nostri, neanche fossero passati cent’anni.
Per il pomeriggio, quando le giostre erano in funzione, gli avevo trovato un compito di tutto rispetto, e lui lo svolgeva senza distrarsi, con tutto l’impegno che ci voleva. A volte era simpatico, aveva quasi l’età dei miei tre figlioli, ma era migliore di loro, mi sarebbe piaciuto che si fosse fermato con noi ad insegnarci qualcosa nelle serate di magra, quando c’era più tempo per parlare e ascoltarci. Invece, com’era arrivato, andò via.
Mi incontrò quasi per caso, tra i corridoi che formavano i baracconi del tiro al bersaglio, e mi disse soltanto: “devo smettere, vado a raggiungere un amico”, non ricordo più in quale città. Non era vero niente, naturalmente, ed io pur lisciandomi i baffi quanto potevo, non riuscivo per nulla a capire perché andava via proprio adesso, ora che aveva imparato quel che c’era da sapere, che si era guadagnato il rispetto di tutti, che qualcuno, quasi senza saperlo, aveva iniziato a volergli anche bene. Probabilmente la sua strada era quella, lui lo sapeva, aveva qualcosa di dentro che lo trascinava da qualche parte, qualcosa che non avrebbe mai rivelato a nessuno.
Gli detti i suoi soldi, anche qualcosa di più, lo abbracciai, come si fa sempre tra noi, e non gli chiesi più niente, era inutile; e invece lui disse che mi avrebbe spedito una lettera. Non ci credetti, naturalmente, ma dopo un po’ iniziai a chiedere, a volte, se era arrivata posta per me, come se ci sperassi davvero. Non mi passava di mente, speravo che dopo un periodo di tempo ritornasse da noi, che riprendesse a lavorare alle giostre.
Dopo un anno invece arrivò la sua lettera. Poche righe, un solo foglio piegato, lo lessi d’un fiato e non capii niente, così lo rilessi da capo. Non diceva un bel niente, non chiedeva un bel niente, però tra le righe si capiva che era lui che scriveva, che mi voleva dare qualcosa di sé. Rilessi di nuovo tutto da capo, e infine capii. Parlava di un sogno che aveva sempre avuto, ma neanche lui sapeva cos’era. Diceva di un percorso che aveva iniziato, tutto dentro ai suoi sentimenti, alla sua testa. “Forse sono un po’ matto”, spiegava; “però devo seguire la strada che sento, non sarei una persona se non facessi così”. Poi passava ai saluti, e mi diceva che era contento di avermi conosciuto, perché gli avevo dato molto di più di quello che io avevo creduto di dargli; e poi concludeva: “non preoccuparti per me, le risposte ad ogni domanda che adesso ti poni è lì, sopra ai tuoi baffi…”.


Bruno Magnolfi

martedì 12 gennaio 2010

La favola dei libri.



La piazza del paese era costituita da quattro alberi da palma e due vecchie panchine di ghisa. Le scarse auto che passavano da lì, arrivando da una delle quattro strade principali di quel paese sperduto nella provincia, giravano attorno a quella specie di rotatoria che conteneva quegli alberi e quelle panchine, e sollevando un po’ di quella polvere gialla da sopra l’ asfalto, se ne andavano via, chissà dove. Il negozio di libri era stato aperto da poco, e la sua grande vetrina rimaneva proprio su un fianco di quella piazzetta quadrata. Consuelo era stata in città qualche anno, si era laureata, in quel lungo periodo, ma aveva anche lavorato come commessa in un grande negozio di libri. Quando aveva deciso di voler ritornare al paese, suo padre l’aveva aiutata per aprire quell’esercizio, anche se non era d’accordo con lei. Agli inizi Consuelo e il suo negozio erano stati guardati da tutti con un certo distacco, “chi mai legge libri in questo paese di capre ignoranti?”, si chiedeva qualcuno; ma dopo due o tre mesi difficili qualcuno aveva iniziato a frequentare la “Bottega di Consuelo”, così come aveva scritto lei in un’insegna carina e poco vistosa, non foss’altro perché c’era uno scaffale di cartoleria e un angolo di articoli da regalo che andavano bene anche a chi si disinteressava di leggere. Lei rimaneva la maggior parte del tempo sulla porta di entrata al negozio, a salutare tutti coloro che passavano da lì e a farsi vedere, pronta a servire ogni eventuale cliente. Ma il suo principale pensiero restava la sfida con tutti i suoi concittadini nel trovare la maniera per farli interessare ai suoi libri. Si era portata una piccola sedia, Consuelo, dopo un certo periodo di tempo, e nelle belle giornate si metteva quasi sul marciapiede a leggersi un libro, nei momenti in cui non c’era nessuno in negozio. Qualcuno era rimasto incuriosito da quel suo atteggiamento compiaciuto e da quel modo carino di occupare il suo tempo, così qualcun altro aveva azzardato un giudizio positivo e ottimistico intorno a quel suo “fortunato passatempo”. Un paio di bambini, che abitavano lì accanto, si portarono una seggiolina di plastica, e si misero a leggere, sul marciapiede assieme a Consuelo, i loro libri di favole. Fu da quel presupposto che scaturì l’idea di apporre un cartello sulla vetrina del negozio di libri, in cui Consuelo incoraggiava chiunque ad andarsi a leggere gratuitamente un libro a scelta di uno scaffale della sua libreria messo da lei a disposizione, direttamente su una delle panchine in mezzo alla piazza, a dimostrare a tutti che leggere era il più bel passatempo del mondo. Le cose ingranarono in fretta, e molti paesani iniziarono a interessarsi della lettura proprio perché era una maniera per uscire di casa, socializzare con gli altri e passare un’oretta seduti in mezzo alla loro unica piazza. Anche le vendite dei libri naturalmente seguivano il passo del ritrovato interesse per la lettura, e quando si liberò un fondo accanto alla sua libreria, Consuelo fu svelta a prenderlo in affitto, a riempirlo di libri, e ad organizzarne il prestito e la lettura con la semplice compilazione di un piccolo modulo. Adesso il negozio era un via vai di persone che si interessava di autori e edizioni, Consuelo naturalmente ne era orgogliosa, e incoraggiava chiunque a formarsi proprie opinioni su un libro o sull’altro, per poi dar vita a chiacchierate e discussioni piacevoli; e non era difficile, durante quei momenti febbrili, trovare qualcuno che arrivava da qualche paese vicino a visitare il negozio e a vedere con i propri occhi dei cittadini comuni che riuscivano in questa maniera a migliorare se stessi e a dare un’immagine di intelligenza e cultura alla loro piazza centrale.


Bruno Magnolfi

sabato 9 gennaio 2010

Giganti d'argilla.

            

            Lara era piccola di statura, ma dietro al bancone del bar che aveva rilevato da due anni in società con tre suoi colleghi, a preparare i caffè ci sapeva proprio fare, era la migliore di tutti: sapeva essere svelta, simpatica, brava, aveva sempre un sorriso per ogni cliente, tanto che nel suo lavoro era giudicata quasi un gigante. Aveva aperto il locale alle sei, come ogni mattina, era entrata con il pasticcere che le portava le sfoglie e i cornetti, e mentre ancora non c’era nessuno e lei sistemava le cose, era arrivata la telefonata di Marco, il suo collega di turno, per avvisarla che aveva un problema quel giorno, e si scusava, ma non avrebbe potuto raggiungerla se non verso l’ora di pranzo. La mattinata da soli per chiunque lavorava in quel bar era un’impresa notevole. Certe giornate erano stati anche in tre dietro al bancone, e nessuno di loro nelle ore di punta era mai riuscito a fermarsi. Ma non c’era niente a cui appellarsi, era così, il ballo stava per iniziare, inutile pensarci, c’era solo da muoversi e far tutto velocemente e con professionalità. Alle sette il caffè era già pieno, e il movimento di persone era tale che Lara si sentiva un automa, fuori dal corpo, come se un’altra persona fatta di gesti istintivi e di reazioni veloci, seguendo le richieste o quei minimi accenni dei clienti di fronte, lavorasse per lei. Caffè e cappuccini, le tazzine nel lavastoviglie, le brioches da servire, i soldi da mettere in cassa e i resti da fare, pareva quasi una gara alla rincorsa del tempo. I minuti passavano in una bolgia continua e estenuante, Lara si sentiva osservata da tutti, qualcuno aveva provato a inalberare qualche protesta per l’attesa o per qualche altra sciocchezza, ma lei era rimasta imperterrita, semplicemente in silenzio, gli occhi sul proprio lavoro, le mani che si muovevano in fretta su tutti gli oggetti che le ballavano attorno. A metà della mattina era iniziato lentamente il diradarsi della ressa delle prime tre ore, e passate le undici la macchina del caffè parve cominciare a riprendersi dal comprimere vapore e sfornare liquido caldo, restando un po’ più tranquilla. In compenso a quell’ora arrivavano altri clienti per gli aperitivi, anche se davanti a quei vermouth, ai prosecchi, ai bicchieri di bianco, tutti sembravano più rilassati e tranquilli. Intorno alle dodici, per una qualche magia, all’improvviso nel locale non c’era nessuno; Lara tirava il respiro, bevve un bicchiere d’acqua gassata mentre pensava che appena fossero arrivati gli altri del turno lei se ne sarebbe andata subito a casa, a riprendersi da quella prova estenuante. Guardava fuori dalla vetrina l’ordinario transitare di auto e pedoni, senza alcun interesse, quasi senza vedere, e così non si accorse di quel ragazzone con gli occhiali da sole e quel grande strano cappello calcato sopra la testa. Era entrato, aveva chiuso dietro di sé, non aveva detto niente, era solo venuto in avanti, verso di lei, poi era passato dietro al bancone. Si era accostato velocemente di un passo e con un taglierino sguainato, con i modi di fare estremamente decisi di chi sa perfettamente cosa sta perpetrando, aveva fatto un piccolo taglio, un graffio leggero, su uno degli avambracci nudi di Lara. “Metti tutti i soldi dentro a un sacchetto”, le aveva detto con tono basso ma fermo, come fosse in un film, e lei, paralizzata dalla sorpresa e dalla paura, tanto da non riuscire neppure a tremare, aveva fatto in un lampo quello che le era stato richiesto, come compiendo uno di quei tanti gesti che richiedeva il suo bar. Quello era subito uscito, e appena un attimo dopo era arrivato il collega di Lara. Lei si era come accasciata sopra al bancone, all’improvviso piangendo di quell’accumulo di tensione provata, poi, dopo qualche minuto, aveva cercato di spiegare cosa le era accaduto. Le forze di polizia la trattennero fino a metà pomeriggio, nello sforzo di aiutare la sua necessità di giustizia, cercando di farsi raccontare nei minimi dettagli tutto quello che era successo, ma fu solo quando Lara rimase da sola, ormai quasi a casa, che si sentì più piccola ancora di quanto fosse mai stata. E all’improvviso, la sua impotenza, totale.


             Bruno Magnolfi

mercoledì 6 gennaio 2010

Un disegno felice.

          

Erano stati scelti in due, tra tutti gli operai della fabbrica, per andare ad insegnare il funzionamento del nuovo macchinario, che loro utilizzavano già da più di un anno, nell’altro stabilimento della società. Ci sarebbe voluto un mese, o al massimo due, aveva detto il capo del personale; sarebbero stati spesati di tutto, era un incarico di fiducia, non potevano assolutamente rifiutarsi. Così Enzo, accompagnato dalla moglie e dal figlio di otto anni, si era ritrovato con in mano la valigia alla stazione ferroviaria, quella domenica pomeriggio, assieme al suo collega più giovane, anche lui pronto per affrontare quelle cinque ore di viaggio prima di arrivare in quella piccola cittadina sperduta.
Sua moglie non aveva mostrato dispiacere per quel piccolo sacrificio, anzi lo aveva incoraggiato, quell’incarico significava che lui era tenuto in gran conto nel suo lavoro, “addestrare altri operai vuol dire che tu sei un esempio per tutti”, aveva detto, “e quel tempo, vedrai, passerà più in fretta di quello che ora pensi”. E invece quei giorni si erano subito dimostrati lunghissimi, e ritrovarsi la sera da solo in quella stanzetta della pensione, per Enzo era di una tristezza senza pari.
Le prime due sere scese a cena nella trattoria assieme al suo collega, ma non gli piaceva quella compagnia, così con una scusa cambiò orario, in modo da starsene per conto proprio. Tornarono a casa il sabato pomeriggio, come previsto, ma l’intervallo passò in un attimo, e ripartire il giorno seguente ad Enzo parve una tortura. Ma in treno gli era venuta un’idea, e alla seconda settimana di lavoro in trasferta cercò di realizzarla. Acquistò un blocco di fogli da disegno, delle matite, dei lapis e del carboncino, e con quegli strumenti cercò di dare un’alternativa alle sue serate, piuttosto che starsene al bar della pensione a chiacchierare con il suo collega o a sonnecchiare davanti ad un televisore.
Nella sua camera c’era una scrivania, e lì da solo poteva disegnare tutto quello che voleva. Ma una volta che iniziava un soggetto, ecco che in breve perdeva l’entusiasmo per completarlo, e così cambiava foglio e ricominciava. Le settimane di trasferta si susseguivano per i due colleghi, tanto da aver smesso di contarle, ma arrivati ormai al terzo mese il capo del personale disse finalmente che quella sarebbe stata l’ultima settimana per l’addestramento degli operai. Enzo era contento di tornare alle proprie abitudini, anche se vedeva che mentre il suo collega si era fatto degli amici, e al bar e in trattoria tutti lo chiamavano e si scambiavano gli scherzi, lui era rimasto sempre solo, e non era neppure riuscito a terminare uno di quei suoi disegni.
Così arrivò il sabato anche di quella settimana, ma al suo collega che aveva già preparato la valigia, Enzo disse che aveva da terminare delle cose e sarebbe rimasto ancora un giorno. L’altro partì, e lui si mise in camera davanti al suo blocco da disegno, riprese l’abbozzo che gli era piaciuto di più e iniziò a lavorarci. Non scese neanche a cena per paura di non riuscire a terminare, ma quando infine vide il disegno completato fu contento: scese giù con il suo foglio, strinse la mano per salutare tutti quelli del bar e della trattoria, e regalò a loro quel suo disegno. Il proprietario più di ogni altro lo ringraziò, garantendogli che lo avrebbe appeso al muro della trattoria dentro a una bella cornice. Poi Enzo mise le sue cose dentro la valigia e se ne andò, riuscendo a prendere un treno della notte, e quando fu davanti al finestrino a guardare la campagna buia che correva, sorrise tra sé a quel periodo della sua vita, sicuro di aver fatto qualcosa di cui adesso era contento.


Bruno Magnolfi

martedì 5 gennaio 2010

La vertigine del caso.



Ci sono delle volte in cui si perde la capacità razionale, ed altre in cui, anche più semplicemente, si immagina di perderla, ed altre ancora durante le quali si tenta di perdere la maggior parte di quella capacità per avere un alibi con cui suggellare le proprie piccole stupidaggini. Qualche volta poi ci si convince di essere entrati in chissà quale strana dimensione nella ricerca di illogiche supposizioni, ed è a quel punto che una vertigine ci prende. Ad aiutarci può essere un evento, una giornata particolare, una situazione; oppure, anche più spesso, una persona, con i suoi modi, le sue espressioni, per tutto ciò che in quel dato momento rappresenta per noi. Una persona, anche soltanto rimanendosene ferma, in silenzio, senza alcun ammiccamento, può farci provare grandi sentimenti, può farci perdere la testa, senza che neppure sia spiegabile il motivo o il percorso mentale di tutto questo, senza spiegazioni di quel traghettamento che, di colpo o lentamente, ci ha portati fino a quel punto. Parlarne o evidenziare quelle sensazioni vuol dire spesso rovinarle, così si finisce per scavare nel proprio intimo fino a mettere a punto delle verità inspiegabili, e che risultano valide soltanto per noi stessi. Fu esattamente quando entrai dentro al negozio di articoli da ufficio che immaginai succedesse tutto questo. La ragazza era ferma davanti ad uno scaffale e non c’era nessun altro all’interno dell’ampio locale. Tutto questo normalmente mi avrebbe quasi messo a disagio, ma siccome pensai in un lampo che per oppormi alla mia insicurezza non avrei assolutamente dovuto farmi vedere spavaldo, finsi una divertente ma certa timidezza. Lei volse il viso verso di me assumendo l’espressione di chi riconosce vagamente qualcuno, oppure più semplicemente finge di riconoscerlo in modo da farlo sentire a suo agio. Ci scambiammo un regolarissimo buonasera, e lei aggiunse soltanto, volgendo oltre al viso anche tutto il busto verso la mia direzione, se poteva essermi utile. Ero colpito dalla voce, dai modi, da tutto l’insieme dei suoi comportamenti, fin quasi a pensare di essere arrivato ad una svolta eclatante nella mia vita, e tanto era forte questo pensiero da indurmi a immaginare la stessa cosa per lei. Era sufficiente non forzare niente dei miei modi, cercare di essere colloquiale quanto basta, e al momento opportuno stringere con le frasi in modo da parlare anche solo velatamente di noi due, magari dei suoi gusti, della sua personalità, qualcosa che allargasse il ventaglio delle possibilità per arrivare a conoscerci. Normalmente in un negozio del genere, anche se in quello non c’ero mai stato prima di allora, avrei potuto comperare di tutto, visto che nel mio ufficio cercavo sempre di avere delle scorte di penne a sfera, lapis, gomme per cancellare, e così via. E proprio trovandomi fuori dalla mia zona mi ero incuriosito, ma senza avere in mente qualcosa di preciso da acquistare, solo così, per dare un’occhiata. Pensai di dire la verità, ma mi parve banale, così mi guardai attorno mentre allentavo il più possibile le pause delle mie parole che, impappinandosi, cercavano di spiegare alla paziente ragazza che esistevano, ne ero sicuro, certi raccoglitori per documenti che avevano un meccanismo incorporato, una specie di molla, che oltre a tenere fermi i fogli, producevano come una piegatura in loro che aiutava a sfogliarli una volta fissati. In realtà non esisteva niente del genere, era semplicemente un mio desiderio quando in ufficio prendevo un raccoglitore pieno di documenti e dovevo sfogliarlo. Credo che lei capì immediatamente quanto io fossi lì solo per perdere del tempo, ma per nessuna ragione cercò di cedere alla voglia di stampare sul suo bel viso un sorriso eloquente per accompagnare le semplici parole che definivano come in quel negozio non c’era niente del genere, lasciando in aria così l’evidente retropensiero conseguente che stava a stabilire che un articolo come avevo descritto non esisteva proprio, in qualsiasi negozio l’avessi cercato. Invece tentò, riuscendoci peraltro piuttosto facilmente, di battermi sul terreno dell’ordinaria gentilezza, illustrandomi con parole giuste e pesate il migliore tra i prodotti della categoria che a me interessava, ma che sfortunatamente non aveva le particolarità di cui provavo interesse. Si mosse abbastanza sveltamente da uno scaffale a quell’altro, per arrivare a mostrarmi ciò che secondo il suo neutrale parere era semplicemente un ottimo modello di raccoglitore. Avrei potuto insistere a scavare nella tecnologia della molla e del rimando, e della leva che riuniva i benedetti documenti dentro ad un qualsiasi raccoglitore, ma mi parve oltre che fuori luogo, ormai argomento esaurito e quindi da superare di un balzo, proprio a dimostrazione che importanti per me non erano affatto gli oggetti, bensì le persone. Dissi così, “non importa”, in modo però un po’ lezioso e levigato, quasi unto mi parve, cosa che sinceramente non avrei mai voluto, ma che nei miei pensieri sottolineava una leggera ironia a sostegno di quanto già detto e appurato. Riconobbi in un attimo che qualcosa aveva suonato non bene, e senza che potessi averne il controllo, rimase nell’aria una pausa, una semplice stupida pausa, quasi un leggero punto interrogativo che, con il senno del poi, avrei senz’ombra di dubbio dovuto interpretare e gestire: era quello il momento esatto in cui il passaggio tra un semplice rapporto di compravendita tra due individui economici poteva trasformarsi in un lampo in una meravigliosa iniziazione alla conoscenza tra due persone, ma io non lo colsi e tutto precipitò d’improvviso. Sarebbe ancora bastato sfiorarle una mano, dirle sbadatamente, “posso darle del tu?”; oppure, ancora più diretto, “mi chiamo Leonardo, e tu?”. Ma tutto questo mi parve troppo semplice e scontato, quasi volgare. Così sorvolai l’argomento e chiesi con semplicità malcelata il prezzo di certi evidenziatori esposti lì accanto e anche di alcune cartelline con le sponde, quasi a giustificare che tutto ciò che circondava il suo mondo a me interessava profondamente. Fu con infinita gentilezza che lei disse in un soffio, dando alle sue parole il significato esatto di chi ha da fare e che si è stufato di star dietro a qualcuno che di certo non comprerà niente, che su ogni articolo era stampato il suo prezzo, e che se volevo potevo tranquillamente dare un’occhiata a tutto ciò che volevo. Risposi grazie in un modo questa volta realmente imbarazzato, e quindi girellai per gli scaffali praticamente senza osservare più niente, guadagnando nel giro di pochi minuti l’uscita del negozio, lasciando nell’aria solo un lontano e impersonale saluto incolore. Solo sul marciapiede mi resi conto di essere idiota, e pur provando ancora l’imbarazzo appena provato, pensai di tornare sveltamente sui miei passi prima che fosse sopraggiunto qualche cliente. Immaginai di far suonare nuovamente il piccolo e delizioso campanellino collegato alla porta di entrata, e che lei volgesse verso di me un nuovo sguardo intenso anche se assolutamente neutrale. Mi sarei introdotto nel negozio con calma, quasi lentamente, con gli occhi bassi, quasi cercando con intensità dentro di me le parole giuste per un discorso difficile, di cui non sbagliarne neanche un dettaglio. “Ho bisogno di lei, signorina, anche se è difficile da credere. Per essere maggiormente precisi, ho bisogno della sua approvazione, di un sentire i suoi pensieri vicini ai miei, quasi un desiderio di reciproca univocità, di comunanza, di comprensione. Non so come meglio spiegarle, signorina, è come se io sentissi una tale attrazione verso di lei da rendermi impellente il desiderio di assaporare i suoi sentimenti migliori verso di me: la stima, l’ammirazione, forse la meraviglia d’accorgersi dell’esistenza di una persona come me, che non immaginava e non si aspettava di conoscere”. Credo che potrei fare di tutto per attrarla verso di me, con il bagaglio di tutto questo che immagino e desidero, come se, variando anche solo qualcosa nella mia rappresentazione, nulla riuscisse a stare al suo posto, crollando inesorabilmente verso il niente; niente, nessun risultato ottenuto e ottenibile sulle basi, le piccole, minute basi, di un accontentarsi, di un reputarsi soddisfatti di piccolezze, minutaglie, sciocchezze insulse senza fondamenta. Potrei fare di tutto, fino quasi a cercare di essere esattamente come lei vorrebbe io fossi, sostituendo con gioia ogni mio pur piccolo dettaglio indesiderato con ciò che meglio potesse rispondere alla sua volontà o ai suoi gusti. “Vorrei potesse indicare per ambedue, signorina, un percorso di avvicinamento ad una vera e propria simbiosi psicologica e spirituale per noi, un terreno unico all’interno del quale ritrovarci in modo esclusivo e perfetto. Vorrei tutto questo, si, e forse anche altro, esattamente ciò che in questo momento non riesco neppure a immaginare, proprio perché suscettibile di variazioni durante il percorso stesso, nel continuo cangiare dei parametri a cui riferirsi. Tutto questo, signorina, non è desiderio irrealistico, non è affatto un frutto di voglie impossibili; è semplicemente ciò che in questo momento fondante della mia vita appare impellente, insostituibile, necessario”. Sul marciapiede pensai ancora per un po’ che potevo tornare dentro e dirle tutto questo alla signorina dentro al negozio; ma poi, lentamente, quasi con indifferenza, di fatto me ne andai.

Bruno Magnolfi


domenica 3 gennaio 2010

La saggezza del vecchio.

            

            Tutto è già stato spiegato; la comprensione delle cose non ha più scopo: tutto è ormai chiaro, evidente, palese. La libertà che offre il nuovo stato di cose è enorme, e chiunque gioisce in cuor suo dello scopo raggiunto. Solo qualcuno, isolato dagli altri per le più differenti ragioni, non è conscio dei cambiamenti avvenuti. Tra loro un vecchio che vive da solo, in una casa lontana. Lui ogni giorno, quando il sole è su in alto, si siede sopra una pietra, e riflette su quel mondo imperfetto da cui fortunatamente vive distante. Poi, un pomeriggio, qualcuno lo vede, si avvicina cautamente, lo saluta con un gesto forse un po’ esagerato, come per accennare alla nuova stagione, regalando alla sua direzione un sorriso che è persino troppo sfarzoso, tanto da apparire un po’ falso, inadeguato. Il vecchio ricambia con un semplice cenno, poi, lentamente, come fa sempre, si alza da sopra la pietra, e senza guardarsi più attorno rientra nella sua casa, scomparendo alla vista.


            Bruno Magnolfi