mercoledì 30 ottobre 2013

Ritratto mio.


Ero entrato quasi di corsa dentro la stanza, e avevo cercato velocemente di osservare tutto quell'ambiente per capire grosso modo in quale zona dell'edificio fossi capitato. Da quanto riuscivo a vedere però, intorno a me praticamente niente sembrava avere la possibilita di aiutarmi: almeno ad una prima occhiata l'arredamento di quel luogo appariva ordinario, come quello di una qualsiasi casa benestante, e gli elementi in giro, pur di una certa raffinatezza, parevano del tutto abituali, sennonché sulla parete principale sembrava come mancasse un quadro: un quadro importante, un grande dipinto, una tela che fino a poco prima sicuramente doveva aver troneggiato al centro di quella vasta sala, un lavoro pittorico rimasto talmente a lungo là appeso per farsi ammirare a fianco del monumentale caminetto, da aver lasciato sul muro bianco, solo un po' ingrigito dal tempo, la sua esatta forma pulita sopra l'intonaco.
Mi parve strana la scelta di togliere qualcosa da un luogo dove al contrario tutto il resto era stato lasciato perfettamente al proprio posto, così immaginavo un furto da parte di qualcuno che introducendosi là dentro, forse proprio come me, con grande perizia avesse staccato il dipinto dal sostegno per poi portarselo infine chissà dove, magari, per non dare troppo nell’occhio, fingendosi un fattorino oppure un operatore dei traslochi. Più mi guardavo in giro in quell’ambiente quasi familiare e più mi pareva mancasse profondamente quel quadro, quasi come se tutta la stanza fosse stata arredata soltanto in funzione di quello, e cosi ne immaginavo una cornice dorata, assolutamente importante, ed in mezzo il ritratto di qualcuno di cui restare senz’altro impressionati: una figura della quale doversi ricordare quasi per forza, una persona famosa, certamente, un insigne, un vero personaggio di cui conservare esatta memoria sia del volto che dei lineamenti.
Riuscivo quasi ad immaginare una gran faccia seria, un'espressione magari leggermente appesantita dalle preoccupazioni, forse una persona raffigurata quasi anziana, che in mezzo al suo daffare di vita attiva si era lasciata immortalare da un pittore probabilmente molto noto, un ritrattista famoso, sicuramente tra i più in auge in quel momento. Se ci pensavo bene pareva mi osservasse quel signore, posasse quel suo sguardo inquietante dal centro vuoto del muro proprio su di me, io che ero lì quasi per sbaglio, come se fosse una colpa precisa essere arrivati in quel luogo proprio mentre lui non c'era. Ne sentivo la presenza grave, il silenzioso rimprovero per quella mia sgarbata intromissione, quasi un giudizio senza appello, ma nonostante il quadro non esistesse neanche più in quel suo posto dove aveva troneggiato chissà per quanti anni, non riuscivo a sentirmi a mio agio in nessun modo.
Indietreggiavo lentamente, come cercando di non dare mai le spalle a quel ritratto o al suo fantasma, e sfiorando la parete di fronte, andavo infine ad appoggiare la mano sulla maniglia della porta. La sentivo debole, arrendevole, e in un attimo mi appariva la porta spalancata, senza che ne fossi stato io l’autore. Due facchini allargavano le ante quanto più potevano e lasciavano introdurre un quadro ben coperto. Naturalmente chiedevano scusa per la loro operazione, e infine innalzavano una tela incorniciata e andavano a riappenderla esattamente dove questa era mancante, in quel vuoto che mi aveva quasi fatto venire i brividi, lasciandomi osservare con nettezza che si trattava semplicemente di un paesaggio.


Bruno Magnolfi

lunedì 28 ottobre 2013

Insensato gesto.



Lui non ha mai dato neppure l'impressione di poter fare del male. Ha sempre vissuto in maniera normale, come tutti noi, dice il cognato. Non riesco a spiegarmi cosa sia veramente accaduto, continua, per quale motivo si sia scatenato in lui qualcosa di quel genere. L'intervista prosegue quasi con normalità, l'intervistato insiste nel tentativo di dimostrare come quanto successo sia fuori dai canoni di comportamento della sua famiglia, e l'intervistatrice continua a cercare un nesso che leghi quanto capitato a quelle persone che lei e la troupe si trovano di fronte: i vicini di casa, i parenti, persino i curiosi che affollano quel tratto di strada. In fondo non è successo niente di diverso da ciò che accade ogni giorno, pensa l'intervistatrice; sta tutto dentro ad un numero medio nella casistica per questo tipo di fatti. Tra un po' di tempo ci apparirà normale anche questo tipo di notizia, riflette, e la cronaca allora dovrà interessarsi d'altro. Non c'è niente di strano, è già accaduto nel passato, sarà così anche per queste cose.
La telecamera riprende la facce, le espressioni, i gesti; gli operatori sanno perfettamente che tutto verrà vagliato in un veloce lavoro di montaggio, e una volta costruito il servizio di due o tre minuti al massimo, quelle persone diventeranno indissolubilmente legate a quei fatti e a quella storia. È la normalità televisiva, dove le cose entrano apparentemente quasi per combinazione, ma poi tutto diventa un piccolo spettacolo di vita, e qualsiasi dettaglio, persino le smorfie di dolore, anche le lacrime, restano impresse in una memoria superiore a qualsiasi altra cosa.
Il cognato prosegue per qualche minuto a parlare come un fiume in piena, forse per l’emozione di sentirsi importante davanti a degli estranei: dice cose della sua vita, parla delle giornate di tutta la sua famiglia, insistendo a cercare di spiegare come tutto là attorno sia sempre scorso in modo regolare, senza mai un accenno di stranezza in nessuno di loro, forse comprendendo nel gesto ampio che fa col braccio, persino l’intera comunità di persone da cui è circondato, fino a racchiudere probabilmente l’intero piccolo paese dove abitano tutti loro. Ma poi lascia una pausa, e di colpo guarda dritto dentro l’obiettivo; l’intervistatrice sa che le ultime cose dette probabilmente verranno tagliate, ma vuole chiudere comunque con un'ultima domanda, così si avvicina ancora e dice tagliente nel microfono: cambierà qualcosa, adesso?
Naturalmente intende raccogliere un parere su quanto quei fatti possano riuscire a modificare l’andamento semplice e regolare della vita di provincia, ma l’uomo pare riflettere a fondo su quella domanda, come per prendere del tempo, e infine cerca di rispondere solo scuotendo la testa e disinteressandosi di tutto, come se non avesse ancora messo a fuoco perfettamente quanto accaduto. Alla fine prende il microfono che gli è rimasto per quell’attimo vicino al viso, lo stringe come per cercare le parole per esprimere qualcosa d’importante, e in un attimo dice allontanandosi: è tutto finto; e si volta verso gli altri.
L'intervistatrice visibilmente stizzita di queste parole, quasi si disinteressa improvvisamente di lui e degli altri, e guardando in camera dice qualcosa tanto per chiudere il servizio, e poi, spente le macchine, chiede come sempre fa l'autorizzazione per mettere in onda le interviste già raccolte; ma il cognato si volta verso di lei e dice di no, che non ha nessuna intenzione di apparire in mezzo a quella storia. Anche tutti gli altri d'improvviso sembrano d'accordo, e mentre lei cerca ancora di convincerlo, quasi tutti se ne vanno, lasciando alla svelta vuota quella strada, priva di senso la fatica della troupe, insensato l'occhio indagatore della telecamera.

Bruno Magnolfi



venerdì 25 ottobre 2013

Tutto nel dettaglio.



La giornata scorre come sempre, l'uomo ne osserva i contorni quasi senza vederli: le case, le auto che transitano lungo i viali, le persone che camminano sui marciapiedi. Pare che niente davanti a lui possa interrompere il meccanismo ordinario che lega le cose tra di loro, così si siede sopra un gradino nell'attesa che gli passi una buona idea dentro la mente, o che qualcosa in qualche modo lo riponga al centro di quel mondo che continua ad osservare. Un conoscente si ferma, lo saluta, lo invita a seguirlo nel caffè poco distante, ma l'uomo rifiuta, ha qualcosa di molto piu importante da mettere a fuoco, gli dice. L'altro insiste, così lui infine lo segue per non mostrarsi scortese, ma dopo poco sbuffa e guarda il suo orologio da polso come se stesse solo perdendo del tempo prezioso.
Nel locale dove si recano c'è poca gente, loro si fermano al banco e si lasciano servire due aperitivi. Qualcosa non va? chiede il conoscente, ma l'altro svia la domanda spiegando come da qualche giorno nutra un profondo interesse, quasi un'attrazione, per certi elementi di realtà molto specifici, ma in fondo del tutto normali, quasi delle scontatezze, spiega, delle minuzie, dice, senza però cercare alla fine di spiegarsi meglio. Dentro di sé forse vorrebbe dire anche di più, ma al momento lascia perdere ogni altro chiarimento, neutralizzando qualsiasi precisazione con un sorso del suo aperitivo, e lasciandosi prendere semplicemente dall’osservazione di un punto indefinito avanti a sé. Il conoscente insiste chiedendogli se magari il suo interesse stesse appuntandosi su quei particolari della realtà sotto agli occhi di tutti ma che pochi riescono a notare. Si, fa lui con naturalezza e forse per chiudere l’argomento; è proprio così.
Non ha più senso interessarsi di tutto quanto ciò che ci circonda, dice poi di slancio anche se con uno sforzo; anzi, questo comportamento spesso è deleterio; le cose  ci appaiono quasi sempre in modo superficiale, come tanti involucri belli e completi ma dal contenuto ignoto, così scontati nella loro evidenza che sembra persino inutile approfondirne il senso. In realtà proseguiamo a brancolare nel buio, affidandoci quasi sempre a dei pareri sciocchi, credendo alle parole solo maggiormente convincenti; tanto vale, penso, disinteressarsi di tutto l’ambito del generale, e approfondire solamente alcuni dei particolari più attraenti, qualcosa che nel suo intimo abbia forse la capacità di spiegare per traslazione anche tutto il resto.
L'altro sta in silenzio, forse riflette su queste parole, guarda nel niente e cerca di respirare a tempo; infine prende un sorso della sua bibita e dice soltanto: secondo me hai pienamente ragione, oggi niente ha più significato, molto meglio rifugiarsi in un dettaglio. Così restano a lungo ambedue in silenzio, infine pagano la consumazione ed escono da quel locale. Lungo la strada che si trovano di fronte transitano le auto, ed i passanti continuano come sempre a camminare sopra ai marciapiedi. I due passeggiano affiancati conservando ancora il medesimo silenzio, infine vanno a sedersi su un gradino per guardare meglio qualcosa che probabilmente era sfuggito in precedenza ad ambedue. Osservano tutto, ogni dettaglio da cui sono circondati, senza riuscire però a trovare niente di importante; ma forse, a cominciare dalle loro menti, è proprio come se intorno a loro non ci fosse ormai più niente.


Bruno Magnolfi

lunedì 21 ottobre 2013

Mestieri fondamentali.



Sto bene, è del tutto inutile che continuiate a puntarmi le lampadine dentro agli occhi, penso; a porvi degli interrogativi strani, anche, e a farmi delle domande in merito alle quali vorrei soltanto ridere, se non fosse per questa imposizione al silenzio che ho adottato già da un po’ di tempo; e per quanto riguarda il vostro scansarvi per parlottare sottovoce tra di voi, quasi complottando, come se non capissi che siete incapaci di spiegarvi i miei comportamenti, la mia personalità, il mio modo di essere, sappiate che mi fate solo pena. Il fatto di cui soprattutto io non vi spiegherò mai niente, nonostante tutti i vostri sforzi, è che da quando ho trovato per terra questo grosso chiodo con la punta acuminata e che persino adesso, mentre sono qui davanti a voi, tengo nella tasca, le mie giornate si sono fatte del tutto diverse, senz’altro più importanti, dense di cose che voi non capireste mai, ma di cui io assolutamente devo tenere conto.
Vedete, continuo a pensare seduto su questa vostra sedia di plastica e alluminio, io salgo sull'autobus ogni giorno e mi piazzo subito in piedi accanto alla porta a soffietto da cui si scende, come avessi già da subito una fretta boia di andarmene. I passeggeri scorrono, cercano con le mani gli appigli e i pali a cui sorreggersi, infine si guardano attorno, centellinano le fermate del mezzo pubblico nell'attesa che giunga il loro turno, ad ogni sosta passando sempre un po’ più avanti, proprio verso me, che resto fermo, con naturalezza. Io fingo indifferenza, guardo in basso, praticamente non mi interesso quasi di niente, tantomeno di questa gente, ma è proprio quando il mezzo pubblico si ferma e loro mettono il piede sul gradino per andarsene, che dalla tasca della giacca, dove ho praticato un buco adatto all’uso, lascio uscire appena un po' del mio chiodo, e nella confusione punzecchio in questo modo i fianchi di alcuni tra i personaggi che mi passano vicino, salvando qualcuno magari più anziano o dall’aspetto più indifeso, ma soltanto perché mi infonde una gran pena, proprio come quella che provo adesso nei vostri confronti.
Li incoraggio a correre, quelli che pungo, a gettarsi nella mischia, ad andare avanti nelle loro cose, come se il mio sperone di ferro fosse soltanto l’anello mancante alla loro catena di impegni e di faccende da affrontare. Fanno una smorfia, appena raggiungono il marciapiede, è chiaro, e allora si voltano, mi guardano con occhi sgranati, ma ormai la porta a soffietto si richiude sulle loro facce, e il mio autobus scivola via in un attimo, senza indugi, proseguendo come sempre il suo percorso. Potrebbero giungere perfino a ringraziarmi, penso, se solo riuscissero a comprendere quanto sia importante quel mio gesto, questo mio infondere loro lo spunto che, so perfettamente, manca quasi a tutti. Devi gettarti in avanti, penso per tutti loro; vai diritto senza voltarti, corri, affronta così la tua giornata.
Io non mi guardo attorno, tengo la mano attorno alla ruggine granulosa del mio chiodo, e mi sento bene, utile a tutti, convinto che molte delle cose già in programma da parte di queste persone non potrebbero neppure accadere se non ci fosse il mio pungolo a rendere tutto quanto più urgente, impellente, fondamentale. Lo so che prima o poi qualcuno riconoscendomi dovrà per forza dirmi grazie, va da sé che il mio è un compito importante, sarà riconosciuto prima o dopo, certe volte mi pare quasi di riuscire a far girare in tempo e nella maniera giusta tutta la città, ma io mi accollo questo compito soltanto perché a far questo mi diverto, non ci sono proprio altri motivi. Non capireste mai tutto questo, lo so per certo, ed è anche il motivo per cui non dico nulla, che tengo per me questo segreto. Voi continuate pure a fare il vostro mestiere, penso con un sorriso: io continuo a fare il mio.

Bruno Magnolfi


giovedì 17 ottobre 2013

Le parole che non saprei dire.



Attraversata la massicciata della ferrovia non c'è più nulla, solo qualche fosso maleodorante con dei fitti di canne marce e dei campi  abbandonati agli sterpi e ai rovi. Soltanto camminando ancora un po', dove uno stradello senza pretese inizia una debole salita, allora si iniziano a trovare i primi alberi di acacia e qualche pino spelacchiato. E proprio in quel punto, tra un mucchio di cespugli, a ridosso di un muretto a secco, ecco che s’incontra la sua piccola casetta fatta di tavole di legno. Lui abita li, ha una specie di cisterna d' acqua piovana che raccoglie con delle lamiere, e ogni giorno va con la sua vecchia bicicletta fino alle prime case del paese, davanti ad un supermercato di quartiere, a chiedere le elemosine durante tutta quanta la mattina, rivolgendosi alla gente che conosce e che lo aiuta quando può, riservando sempre un sorriso verso tutti, e ringraziando ognuno con grande gentilezza, quasi  per essere semplicemente sopportato.
Poi si compra qualcosa da mangiare o che gli serve per tirare avanti, e alla fine di ogni giorno ritorna con calma verso la sua baracca. Qualcuno si è già chiesto che senso abbia la sua vita costituita soltanto da quegli stenti, e qualche scemo gli ha procurato ulteriori difficoltà, tanto per mostrargli quanto possono essere difficili le cose, bucandogli la cisterna per uno spregio, e rompendogli qualche asse della casa mentre lui non c'era.
Elena a volte lo guarda, mentre quel vecchio prosegue a stazionare su quel marciapiede, davanti alla finestra del suo ufficio. Lo conosce da sempre si può dire, e certe volte sa perfettamente quali siano le sue espressioni, i suoi orari, tutti quei minimi movimenti che stando là fuori si permette durante il tempo che rimane davanti a quei negozi. Certe volte lei ha avuto voglia di uscire dall'ufficio, passare da quell’uomo, dargli qualcosa magari, sorridergli, ma non l' ha mai fatto, forse per non apparire come gli altri.
 Si limita a guardarlo, generalmente, come fosse quella semplice presenza una parte della sua giornata, quasi un oggetto come tanti di quel suo monotono panorama.
Ma poi si decide, una mattina come tutte, ed esce dall’ufficio, scorre lungo il marciapiede lentamente, quasi incantata, e poi si ferma lì, proprio davanti al vecchio, quasi come per cercare dentro ad una tasca qualche spicciolo. Lo guarda, è incerta, non sa neppure lei che cosa voglia fare, ma infine tira fuori dalla borsa il libro di cui ogni giorno legge qualche pagina quando sta sulla corriera che prende ogni mattina per recarsi al suo lavoro. Gli offre quello, senza dire niente: un piccolo bellissimo romanzo dalla copertina colorata, con ancora il suo segnalibro infilato tra le pagine, come una somma, un compendio di tante cose che forse vorrebbe dargli, e di molte altre che non saprebbe in nessun caso dirgli.
L'uomo la guarda quasi con serietà, accetta il dono, forse comprende per un attimo l'importanza di quel gesto, forse molti pensieri riescono ad affollarsi tutti insieme dentro la sua mente, pur senza arrivare neppure a formulare le parole che vorrebbe. Grazie, dice infine, nient'altro; mentre Elena lentamente si allontana.


Bruno Magnolfi

lunedì 14 ottobre 2013

Sfuggevolezze.

             
Lei è tenera certe volte. Dice le sue cose quasi sottovoce ed è pronta normalmente ad abbassare lo sguardo solo per aver adoperato una parola inusuale o un'espressione forse troppo forte. Tutti sono pronti a dire di lei che è una persona dolce, salvo riuscire a conoscerla un po' meglio, ed accorgersi che non è del tutto come sembra, ed in qualche caso diventa quasi astiosa, esattamente come molte altre. A chiederle qualcosa intorno all’argomento della sua personalità o del suo carattere lei quasi sempre si schernisce, come se quelle non fossero domande ma veri e propri complimenti. Torna abbastanza normale a molti del suo giro chiederle cosa pensi quando se ne sta in disparte, o anche perché le sue espressioni spesso sembrino fuori dal contesto, come se stesse crucciandosi, oppure addirittura divertendosi di qualcosa chiaro ed evidente solamente a lei.
In ogni caso lui attende  che sia un po' più sola e in disparte durante quella festicciola a suo parere stanca e risaputa, e ad un certo punto, forse per la curiosità che ha sempre suscitato in lui, le si avvicina sorridendo, senza neanche sapere né per cosa ridere, e né che cosa dirle. Lei lo facilita, lo conosce di vista ormai da un pezzo, amico di altri amici, giri ordinari di comuni conoscenze, così gli chiede se ha una normale sigaretta da offrirle. Certo, era da un pezzo non ti incontravo in giro, fa lui proseguendo nel sorriso, e lei fa la sua solita espressione di scherno, mentre si fa accendere.
Adesso potrebbe essere il momento di sfoderare un argomento importante, pensa lui, ma lei lo precede chiedendogli se ha sentito l'ultima registrazione di Carl, un pianista jazz tedesco amico di chissà chi, e presente straordinariamente proprio a quella serata. Naturalmente lui non ne sa niente di quel tizio, così scuote la testa mentre lei prosegue nell' avvertirlo che forse tra un po' suonerà qualcosa per gli amici, e lo farà proprio in quel medesimo locale dove si stanno ritrovando tutti loro.
Lui ascolta anche se non sembra per nulla interessato, si sente troppo concentrato su qualcosa che all’improvviso gli sta molto più a cuore, e lei per un attimo sembra perdere la sua espressione castigata, pare proprio provare una meraviglia negativa che lui neppure conosca questo Carl di cui si parla, così cerca quasi di defilarsi anche se lui intende in qualche modo trattenerla. Volevo chiederti se potevamo vederci con più calma, io e te, dice lui cercando di rifarsi con generosità: magari potrei telefonarti, si potrebbe fare per giovedì prossimo, ad esempio, oppure venerdì.
Lei lo guarda, ma lascia come cadere l'argomento, si volta, sembra quasi per un attimo interessarsi d'altro, però infine torna a guardarlo, almeno per la consapevolezza di dovergli una risposta. Non so, fa ad un tratto senza intimidirsi, non  credo che noi siamo assortiti giusti per vedersi in due. No, non mi pare sia una buona idea, e in ogni caso se non conosci i pianisti di jazz non saprei neppure di cosa parlare con te, fa con ironia.
Lui pare perplesso però prosegue a sorriderle; cerca dentro di sé  qualcosa ancora da dirle prima che si scostino e magari gli sfugga per sempre quell'opportunità, ma infine, sfilandole con gesto dolce la sigaretta dalla mano, le dice solo che probabilmente ha piena ragione: non c'è niente che ci avvicina, le dice svelto; salvo averti offerto questa sigaretta, che adesso riprendo per me, in modo che tu non debba neppure ringraziarmi.


Bruno Magnolfi

venerdì 11 ottobre 2013

Attesa.

            
            Lo so che non va bene restare qui senza fare niente. Però sto aspettando una telefonata, una semplice telefonata che sono sicuro cambierà molte cose di questo giorno e forse del mio futuro. Mi alzo, vado in cucina e mi verso un bicchiere d’acqua. Comunque sia mi sento bene mentre resto qui, anche se posso apparire come mezzo paralizzato in quest’attesa. Di fatto però si tratta semplicemente di sospendere i pensieri, lasciare che i minuti con la loro lentezza scorrano assolutamente tranquilli, senza inciampi, srotolando un presente quasi perfetto, vuoto e senza impegni, e tutto è a posto.
            Forse non giungerà neppure una vera e propria telefonata, rifletto: questo però in fondo non cambia proprio niente; devo solo lasciare che tutto sia pronto come se da un momento all'altro dovesse prendere a suonare l’apparecchio, anche se non succederà. Mi siedo vicino alla finestra, guardo fuori le persone che corrono quasi insensatamente e aspetto, qualsiasi cosa possa accadere resto qui ad attenderla; credo sia bello da questo punto di vista assistere a tutta la realtà che continua a funzionare, che elabora delle strategie per proseguire ad esistere, che si arrabatta per affrontare le cose, e giungere in tempo da qualsiasi parte.
            Sono sempre più convinto che almeno per adesso io invece debba assolutamente rimanere qui, e che forse potrei soltanto provare a scrollarmi di dosso almeno un po’ della semplice inerzia che mi fa essere in questa maniera. Probabilmente cioè dovrei uscire di casa se non altro qualche volta, buttarmi nella mischia insieme a tutti, comportarmi esattamente come gli altri, entrare nei bar, scherzare con i camerieri e farmi degli amici, qualcuno a cui confidare le mie cose, i miei segreti, sempre ammesso che ne abbia. Potrei dire ad un conoscente che mi sento composto di una diversa pasta, che giro dentro ai bar solo perché lo fanno gli altri, non per diversi motivi, e che la mia vera indole mi porterebbe quasi sempre a stare in casa, attendere magari una telefonata importante mentre resto ad osservare qualcosa dalla mia finestra, e lasciare così che il tempo voli. 
            Poi vado in cucina e mi verso l'acqua, la bevo, quindi torno alla finestra. Il telefono resta ancora in silenzio, ma io sono sicuro che qualcosa accadrà, che debba accadere, quasi per forza. Infine mi alzo e vado ad osservare l'apparecchio: alzo la cornetta, la porto all'orecchio, tutto funziona, sento nitidamente il segnale che conferma la linea libera. Poi l'appoggio sopra al piano del tavolo, e sento il segnale adesso che comunica il mio numero occupato. Meglio, penso, non avevo più neppure tanta voglia di essere disturbato da qualche scocciatore. E poi, rifletto alla fine tornando alla finestra con un nuovo bicchiere colmo d’acqua: se deve succedere qualcosa, non c’è neppure bisogno del telefono, può accadere comunque, all’improvviso, in qualsiasi altra maniera; l’importante in ogni caso è solo essere pronti.


            Bruno Magnolfi

martedì 8 ottobre 2013

Chiusura del periodo.



I ragazzi se n'erano ormai andati, oscillando senza fretta a gruppi di due o di tre: praticamente non avevano avuto più niente da dirsi, e in fondo anche quel poco che era stato tirato fuori durante quell'incontro appena terminato, era parso pieno zeppo di interrogativi e basta. Avrebbero dovuto ripensare tutto quanto ognuno per proprio conto, questo era il punto, fino a comprendere bene che cosa avessero mai nascosto quelle parole usate da qualcuno, probabilmente troppo critiche verso qualsiasi cosa fosse stata anche solo pensata, ma forse proprio per questo cariche di verità, come se attorno a chi le aveva pronunciate ormai non ci fosse più niente di buono, soltanto recriminazioni, bisogno di rivalsa, volontà quasi di violenza rispetto a quelli più inerti o debolmente in disaccordo. In due avevano timidamente cercato di argomentare alla meglio attorno a qualche idea o progetto più sensato per il futuro di tutti, ma i loro discorsi generici e poco convincenti erano praticamente caduti nel vuoto. Uno più sincero aveva detto che era stufo di tutto, avrebbe mollato, non si sentiva più dei loro, ma gli era scappato quasi da ridere mentre parlava con intensità, e gli altri chiaramente lo avevano fischiato. Nessuno aveva voglia di condividere opinioni personali così come erano sortite durante la serata, però erano in molti quelli che si sentivano semplicemente in grado, dentro ad un luogo ormai colmo solo di tenebre come quello, di brancolare come ciechi.
Non avevano neppure parlato del loro prossimo incontro, come se tutto fosse praticamente lasciato al caso, forse alla buona volontà di qualcuno, anche se non era proprio sembrato che ce ne fosse ancora. Uscendo Adriano aveva lasciato andare nell'aria a voce alta una frase piuttosto forte, quasi offensiva nei  confronti di tutti, e gli altri se n’erano piuttosto risentiti, anche se in modo pacato. Carlo al contrario lo aveva seguito in silenzio, aveva lasciato che si allontanasse lungo la strada buia di fronte alla saletta dove il gruppo si era incontrato, e ad un certo punto aveva chiamato Adriano con voce imperiosa, da dietro, quasi come per intimidirlo. Lui si era girato, aveva osservato Carlo inizialmente con indifferenza, cercando tra le proprie idee una spiegazione che giustificasse quei modi poco consueti. Aveva lasciato che l'altro gli si avvicinasse, poi aveva chiesto a viso aperto cosa volesse veramente. Lui aveva detto qualcosa senza grande convinzione, l'altro aveva emesso una sbuffo di insofferenza. Poi si era generato il silenzio, un silenzio forte, quasi inaspettato. Ambedue erano fermi, parevano misurarsi, elaboravano ognuno su due piedi strategie non convenzionali, e misuravano pensieri e parole da dire senza però affrettarsi a pronunciarle, quasi quella fosse come un’attività improvvisamente inutile.
Scoppiarono a ridere, ad un certo punto, forse proprio perché oramai i loro comportamenti avevano assunto un aspetto pressoché ridicolo, ma in ogni caso anche  perché il loro modo di fare sembrava adesso quasi dettato da una tregua armata. Poi Adriano indietreggiò di un passo, e anche Carlo fece lo stesso, e alla fine si allontanarono lentamente da quel luogo, ma quasi con la voglia di ridere a squarciagola, forse per la tensione che andava via via stemprandosi, o forse per quel senso di ridicolo che improvvisamente appariva chiaro a tutt’e due. Poi la strada ripiombò nel suo silenzio naturale per quell’ora, e tutti forse ebbero chiaro nella mente che qualcosa si era definitivamente chiuso.


Bruno Magnolfi

venerdì 4 ottobre 2013

Bisogni primari.

            

Dentro di me in questo momento non c'è niente, rifletto mentre passeggio lungo il viale cittadino a fianco di questo fiume monotono. In fondo non ci trovo nulla di male a lasciarsi scorrere dentro da questo tempo che non lascerà tracce, da questi anni che non costituiranno mai dei veri libri di storia. Bisogna adattarsi, o sapersi adattare: sorrido mentre i pensieri in forma di parole fluiscono leggeri annullandosi l'un l'altro. Che cosa importa che mi trovi qui o da un'altra parte, che uomini e donne fingano di amarsi oppure no. Ciò che conta è l'intenzione di base, e questa è costituita dai principi, da ciò che per me risulta maggiormente importante, anche se non so bene neppure cosa sia. Non vorrei passare per una persona confusa, ma anche se lo sono, credo alla fine di essere esattamente né più né meno come tutti gli altri.
Mi accosto ad un uomo intento a fumare appoggiato alla spalletta del ponte, gli dico buonasera e chiedo gentilmente se per combinazione ha una sigaretta anche per me. Quello tira fuori il pacchetto, lascia che ne prenda una, poi, dopo che io me la sono appoggiata alle labbra, me l'accende. Bella serata, dico tanto per dire, soffermandomi mentre lascio in aria un pennacchio di fumo grigio; l'altro annuisce, mi guarda, forse vorrebbe me ne andassi, penso, ma io a quel punto insisto, desidererei intavolare una conversazione, gli dico che spesso compio a piedi quel tratto di strada proprio durante quell'ora, eppure non l'ho mai notato, è forse di passaggio in città, gli chiedo. Quello fa di no con la testa, probabilmente vorrebbe liberarsi di me, ma io proseguo con i miei intenti, mi sembra che almeno mentre fumiamo possiamo tenerci compagnia, scambiare due parole senza impegno. Gli dico che ho sempre abitato in quella zona, secondo me è il quartiere più bello e ospitale di tutta  la città, l'altro sorride, chissà che cosa ha in mente, penso, forse sta soltanto studiando come rimanere, il più in fretta possibile, da solo con i suoi pensieri.
Guardo il fiume che scorre e mi pare di riuscire ad interpretarlo esattamente, proprio come questa serata, monotona e praticamente priva di senso. Questo fiume è ampio, dico all'uomo; certe volte vengo qui e mi sembra di guardare il mare. Ci vuole poco, in fondo, per cadere in un tranello. Lui fa cenno di si con la testa, prende una boccata di fumo, poi dice che ha dei problemi da affrontare, non può permettersi di perdere molto tempo con me. Lo capisco, dico in fretta, forse però potrei aiutarlo, aggiungo, chissà. L'uomo adesso mi volta decisamente le spalle, probabilmente è già solo con le sue cose mentre rimane comunque appoggiato al ponte, così gli tocco un braccio, gli faccio capire che ci sono, che può contare su di me. Senza neppure tornare a guardarmi se ne va, ad un certo punto, ed io lo guardo allontanarsi, anche se gli grido ancora qualcosa dietro, perché forse vorrei ancora parlargli, chiedergli magari di confrontare i nostri crucci, trovare un punto di confronto, fino a quando mi rendo conto che oramai è impossibile. Lo guardo ancora mentre si allontana, potrebbe ripensarci, penso, tornare indietro, dirmi le sue cose, così continuo ad osservarlo fino a quando non sparisce alla mia vista. Proseguirò a camminare, torno a pensare; girerò ancora per un po’ lungo questo fiume: magari mentre percorro di nuovo questo viale incontrerò nuovamente quello stesso uomo, lo saluterò con simpatia, con amicizia, e allora mi farò spiegare tutto, tutto quello che non ha potuto o non ha saputo dirmi in precedenza.


Bruno Magnolfi