sabato 29 giugno 2013

Quasi niente. (Pausa n. 1).

          
            Nella mia stanza non c’è niente che sia fuori posto. Mi volto, osservo le pareti bianche della stanza, il lampadario al centro del soffitto, tutti gli oggetti al loro posto, poi torno a guardare fuori dai vetri di questa mia finestra. Di fronte c’è soltanto il muro grigio di un caseggiato del quartiere, e certe volte come adesso mi soffermo ad osservarlo, come se lo vedessi ogni volta per la prima volta, o come se quell’intonaco ad aloni scuri di umidità e leggermente scrostato avesse assunto con gli anni e in tutto questo tempo un significato speciale.
            Mentre sono qui sento la porta socchiudersi alle mie spalle, ma non mi volto, lascio che chiunque sia resti lì sulla soglia ad osservarmi, oppure faccia la sua parte fino in fondo: dica qualcosa, per esempio, oppure formuli una semplice domanda, affermi in qualche modo la sua presenza dentro questa stanza. Passa qualche minuto e non succede niente. Il muro di fronte a me si muove leggermente verso destra, e più in alto i nembi-cumuli scorrono con la loro solita lentezza.
            Penso che questo non succedere niente sia già di per sé un importante accadimento, perciò proseguo con la mia immobilità: respiro in modo regolare, muovo gli occhi lungo gli orli degli aloni di umidità del muro, e non mi pare ci sia altro di importante a cui dar seguito. Sento la porta richiudersi alle mie spalle: chiunque sia stato per questo breve tempo dietro di me, penso, ha usato l’accortezza di lasciarmi alle mie cose, alle mie riflessioni evidentemente non condivisibili.
            Le nuvole si spostano, il muro pare inclinarsi mentre la luce sembra giungere in modo più obliquo di poco prima. Mi volto per tornare ad osservare di nuovo questa mia stanza: qualcosa di impercettibile è accaduto, penso, però non so distinguerlo. Mi sforzo, guardo i mobili, le pareti, quel lampadario al centro del soffitto. Infine mi alzo dalla sedia, mi scosto dal mio punto di osservazione preferito, mi muovo verso la porta, ma lentamente, come sospettoso, meditando con accuratezza ogni passo e ogni spostamento.
            Giro la maniglia, la porta si apre, nel corridoio non c’è nessuno. Richiudo, torno alla finestra: attenderò ancora che qualcosa accada, penso, che le nuvole forse entrino per conto proprio dentro questa stanza, scorrano lungo il soffitto e sopra le pareti, e che qualcuno le scolpisca, dia loro delle forme che siano riconoscibili, e riesca a plasmarle in oggetti veri, meno effimeri, in cose reali e concrete, quasi in fogge architettoniche, e che tutto ciò che deve succedere succeda, una volta per tutte.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 26 giugno 2013

Una ragione per parlare.

           
            Non riesco a comprendere il motivo che ti porta a chiedermi una cosa del genere, aveva detto Alessio senza scomporsi. Carlo aveva osservato l’amico, e forse aveva avuto voglia di atteggiare la sua faccia ad un debole sorriso, ma non lo fece, limitandosi come a prendere tempo muovendosi lentamente dentro la stanza, fino a raggiungere la libreria piena di testi e di volumi. Poi aveva estratto dallo scaffale una pubblicazione, aprendo rapidamente una pagina a caso, e sprofondandosi con intensità, almeno apparentemente, in quella fugace lettura.
            Alessio a sua volta lo aveva osservato: non si aspettava una risposta, almeno celere; l’indole taciturna di Carlo era notoria quasi in tutto l’ateneo, e per di più non era suo solito lasciarsi andare alla conversazione diretta, rispondere a delle domande, oppure porne a sua volta, tendendo piuttosto a prendersi lunghe pause  di riflessione che spesso ne rendevano il comportamento misterioso e per alcuni addirittura affascinante.
            Forse dal corridoio qualcuno poteva aprire la porta, entrare e interromperli, pensava Alessio mentre tornava a sedersi su una vecchia sedia di legno dai braccioli sagomati, ma lui non se lo augurava, non tanto perché aspirasse a rimanere ancora a lungo da solo con Carlo, quanto perché gli piaceva assaporare quel silenzio carico di aspettative, quasi il prolungamento di una pausa subito prima di qualcosa che deve pur accadere, però il più tardi possibile, quasi che il tempo riuscisse in quei frangenti a rallentare il proprio battito.
            Carlo proseguiva a leggere, Alessio si accorse soltanto allora  che a giudicare dalla costola della copertina doveva trattarsi di un classico, forse la Tempesta, o addirittura Romeo e Giulietta, e che il suo amico forse si era semplicemente lasciato andare alla recitazione mentale di qualche famoso passaggio. Così non aveva detto niente, forse pensando che non aveva più alcuna importanza parlare, cercando adesso semplicemente di provocare quasi d’istinto un piccolo rumore, uno qualsiasi, lo spostamento leggero della sedia su cui era seduto ad esempio, come per tornare a mostrare la propria presenza dentro lo studio, semmai fosse stata per qualche motivo dimenticata.
            L’altro allora aveva chiuso il libro sorridendo vagamente tra sé, e infine, tenendo ancora il volume dentro le mani, si era volto in direzione di Alessio, si era fermato ad osservarlo con profondità, e poi aveva detto: un momento fa avevo soltanto voglia di vedere per un attimo la tua bella bocca parlare, le tue labbra schiudersi, articolare parole; così come in questo momento provo la volontà di baciarla quella tua bocca, anche se non so proprio spiegartene il vero motivo.


            Bruno Magnolfi

venerdì 21 giugno 2013

Oltre i pensieri.

            
            Sto seduto nella mia cella, su questa piccola panca di legno senza schienale, mentre il tempo stilla lentamente l’espiazione dei miei presunti peccati. Certe volte ripenso ai miei errori, ma non ne trovo mai di fondamentali, se non quest’essermi lasciato andare a vivere come tutti gli altri, senza scelte precise ritagliate intorno alla mia vera indole. Poi esco, vado per strada ad incontrare le persone, qualcuna mi saluta, ed arrivo sempre in fondo al corso, dove si apre la piazza che preferisco. Mi siedo su una panchina di pietra e mi pare che tutto si muova come in una giostra, ritornando continuamente al punto di partenza. Fa ridere la mia espressione assorta, penso; forse dovrei semplicemente smettere di essere così, e probabilmente anche di pensare.
            Siede accanto a me una persona anziana, sembra indifferente a tutto, invece dice qualcosa, un ordinario apprezzamento al bel tempo di oggi, invitandomi così alla conversazione, ma senza impegno. Rispondo alle sue parole, lui si gira leggermente verso di me, poi fa una pausa. Dice sottovoce di chiamarsi Armando, di portare su di sé ormai parecchi anni, ma di non avere alcuna voglia di morire. Sorrido, annuisco, chiedo con garbo se faccia qualcosa per ovviare a questo inevitabile inconveniente. Cerco di parlare con le persone, dice. Cerco di raccontare agli altri quello che mi ricordo, le piccole sciocchezze accadute quando ero un ragazzo, o anche prima, e di come si riusciva ad essere persone anche senza l’uso della tecnologia.
            Nessuna nostalgia, immagino, dico senza enfasi. No, fa subito: assolutamente. Non ha alcuna importanza quello che accade di nuovo, importante è non farsi prendere la mano, le persone sono sempre uguali, soffrono e gioiscono delle stesse cose: a volte hanno la fortuna di poter raccontare qualche fatterello che è successo nel corso della propria vita, e questo è quanto di maggiormente importante per la loro salute mentale.
            Apprezzo la schiettezza e l’incisività delle parole che mi ha dedicato Armando, mi alzo con calma dalla panchina, gli stringo la mano con calore e lo saluto: devo andare, dico. Lui mi spiega che con probabilità ci rivedremo, perché siamo persone che dedicano importanza ad una cosa apparentemente sciocca come questa piazza, dice. Torno sui miei passi, rifletto che tornerò nella mia stanza a crucciarmi di nuovo con le mie povere cose, ma non posso fare altro.
            Ripenso ad Armando mentre salgo svogliatamente le scale del condominio. In fondo ha perfettamente ragione, penso: cosa c’è di più importante dell’avere ancora qualcosa da dire agli altri, mettere insieme delle storie che parlino di noi, delle nostre esperienze, della vita oggettiva e concreta. Decido che rifletterò a lungo su questo argomento stasera, le sue parole lo meritano, e in fondo è la cosa migliore a cui posso dedicare ancora del tempo, prima che la mia mente si chiuda del tutto attorno ai miei isolati pensieri.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 19 giugno 2013

Qualcosa da riconoscere.

            
            Credo sia oggi la giornata giusta, pensa Germano come ogni mattina mentre siede dentro al vagone per passeggeri pendolari. I miei ricettori sono alzati, resto attento perfino ai più piccoli dettagli, e sono convinto che mi sembrerà addirittura naturale accorgermi della realtà quando le cose inizieranno a filare nella maniera giusta, e tutto all’improvviso mi parrà quasi fosse stato preparato a puntino dalla mano di qualcuno che ha fatto il tifo per me, fin dal primo momento. Il treno locale corre tra i palazzoni di periferia, tra due fermate lui scenderà come ogni giorno, coprirà a piedi quelle poche centinaia di metri che lo separano dal suo luogo di lavoro, e infine saluterà i colleghi con qualche battuta simile a qualsiasi altra mattina feriale.
            Certi giorni come quello di oggi, Germano sente che la sua realtà sta per cambiare, per mostrarsi diversa da sempre, ma non sa dire o pensare esattamente perché e in quale maniera: certo, gli piacerebbe avere più soldi in tasca, maggiore tempo libero, un’esistenza più interessante rispetto alla solita ordinaria monotonia. Ma non è del tutto neppure questo il suo sogno. Lui vorrebbe un cambiamento, ma non sa dire quale, e forse neppure vuole immaginarselo di preciso, non riesce a riflettere concretamente cosa sarebbe da cambiare, e in questo modo lascia che tutto, anche i suoi stessi pensieri siano dettati dal caso. Così manda avanti la sua giornata come ha fatto da sempre, ma nella sua testa si muove quell’elemento sottile che in qualche maniera gliela lascia almeno sopportare.
            Gli altri sul lavoro in genere lo vedono di buon occhio: è un ottimista, mai triste, non ti assilla con i soliti guai di tutti quanti. Eppure Germano in giornate come quella di oggi non vede neanche del tutto ciò da cui è circondato: sogna, immagina qualcosa di completamente diverso dalla realtà, ma non dice niente a nessuno, è come se restasse in attesa di qualcosa che non potrebbe spiegare, ma che per lui è comunque fondamentale. Gli altri giocano ai videopoker quando escono, perdono regolarmente un sacco di soldi e poi se ne lamentano. Lui no, non è interessato a cose del genere. Sa che qualcosa è destinato a cambiare, radicalmente, all’improvviso, ma non sarà mai un suo gesto a provocare la variazione che attende.
            La giornata di lavoro va avanti come sempre, scandendo tutti i minuti con quella lentezza che è tipica di un luogo dove quasi niente appare interessante. Germano guarda gli altri, sorride, parla con tutti durante la pausa per la mensa. A lui pare di avere un vento dalla sua parte, un elemento che lo sostiene, che gli profonde maggiore energia, più spirito, un insolito ottimismo. Infine arriva l’ora di uscire, ognuno riprende le proprie cose e si avvia verso casa. Germano sale sul solito treno insieme a molti altri, si siede, legge qualcosa su una vecchia rivista che qualcuno gli ha dato, si rilassa durante quel breve viaggio, si dimentica quasi di tutto. Poi percorre i soliti marciapiedi fino a tornare al suo piccolo appartamento, ma qualcosa lo attira, un rumore in un angolo, dentro una scatola da scarpe lasciata per terra. Un cucciolo di gatto, abbandonato a se stesso, miagolante e curioso: lo prende, lo osserva, lo rimette dentro la scatola, e infine lo porta con sé. Forse è già un buon inizio, pensa.

            Bruno Magnolfi  


lunedì 17 giugno 2013

Propositi di futuro.

            
            In questa maniera non credo sia più possibile andare avanti, pensa lui osservando la donna. Nel piccolo negozio di articoli casalinghi non c’è nessun altro, solo lei, immobile come sempre, seduta dietro la cassa mentre legge qualcosa su una rivista illustrata. L’uomo sistema sopra gli scaffali alcuni oggetti, ma gli pare attorno a sé sia tutto immobile, ed è cosciente che dentro la loro bottega entrano sempre meno clienti, loro due evidentemente si sentono piuttosto nervosi per quell’inattività, e questo a sua volta non fa che tenere a distanza le persone.
            Dobbiamo cambiare, dice l’uomo d’improvviso come spiegando qualcosa a se stesso. La moglie lo guarda per un attimo con la stessa attenzione che concede normalmente ad un rumore molesto, poi riprendere a guardare la sua rivista. Entra una vecchia, chiede una semplice bottiglia di varichina, lui la saluta, la serve, l’anziana donna paga alla cassa ed esce. Dobbiamo cambiare l’impostazione generale delle cose, pensa l’uomo. La moglie, augurata una buona giornata alla cliente, lo guarda come se avesse intuito il suo ultimo pensiero, poi riprende a leggere.
            Non ce la faccio più, dice il marito guardando la vetrina avanti a sé. Lei allora si alza, apre la porta a vetri lasciando suonare il campanellino, si affaccia sulla strada. Osserva qualcosa da un lato e dall’altro, come se all’improvviso potessero giungere delle novità, o se le auto in coda al semaforo poco più avanti riuscissero a far scaturire magicamente un’ispirazione. Torna verso il banco, lentamente,  come cercando di dare solennità a ciò che si sente di dire: chiudiamo, sussurra, niente ci lega a questo negozio. Vendiamo tutto senza ripensamenti, e fra qualche mese vedremo cosa possiamo fare coi soldi che abbiamo. Lui la guarda con una espressione di perplessità, entra un uomo, chiede una lampadina di ricambio. Lui si sente mancare: a questo siamo arrivati, pensa; non mi ero neppure accorto che le cose si fossero spinte fino ad un punto del genere. Prende la lampadina dalla scaffale, la tira fuori dalla confezione per provarne la funzionalità, ma gli si rompe il vetro dentro le mani, fortunatamente senza ferirlo.
            Lascia la moglie a servire il cliente, lui va sul retro, si sente disarmato, succube di una situazione che gli pare improvvisamente senza una via d’uscita. Trascorrono due o tre minuti, la moglie lo raggiunge, lo guarda, torna nella sua postazione. Il marito la segue, riprende il suo posto dietro al bancone: diamoci ancora del tempo, dice la donna; un mese, due, e cerchiamo in questo tempo di far ripartire l’attività, facciamo qualche cambiamento, risistemiamo l’insegna, la vetrina, cerchiamo di essere più sorridenti. Ma se le cose non dovessero muoversi in un tempo del genere, allora non dovremmo più neppure pensarci: una bella chiusura netta e via, a fare altre cose.
            L’uomo la guarda, non si aspettava una capacità decisionale del genere. Anzi, la sua provocazione iniziale era soltanto dettata dalla volontà di vederla semplicemente alzare gli occhi  dalla sua stupida rivista; ma adesso non può ripensarci, non gli è possibile tornare indietro, si vede costretto ad accettare  quello che la donna ha proposto, anche se non si sente del tutto d’accordo. Va bene, dice sottovoce: due mesi, tre al massimo, ripete; poi riprende con calma a sistemare le cose sopra lo scaffale che stava sistemando, mentre la moglie torna a sedersi dietro la cassa. In seguito la giornata torna a scorrere come sempre.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 12 giugno 2013

Rinuncia del domani.

            

            Mi sento stanco, praticamente provo quasi la nausea, dice Umberto sottovoce; è qualche tempo che cerco di riflettere su ciò che possa aver determinato questa mia condizione persistente, ma non riesco neppure minimamente a comprendere che diamine possa essere stato. Capita, dice Sandro con una leggera aria di sufficienza; non c’è da preoccuparsi, e in tutti i casi ad ogni periodo che viviamo ne segue sempre un altro di segno diverso; perciò, con una semplice dose di pazienza, tra non molto neppure ricorderai questi tuoi affanni di oggi che sembrano così intollerabili.
            I due stanno seduti uno di fronte all’altro; sorseggiano ognuno la propria birra, appoggiando i gomiti su un tavolino di legno con il piano consumato della bettola più in vista del loro quartiere.
            Non è esattamente così, riprende Umberto: non è che sto male, o comunque, non è che provo delle difficoltà a mandare avanti come sempre le giornate; soltanto non sopporto quasi più nulla di questa situazione che mi trovo intorno, senza peraltro avere dei precisi motivi per pensare le cose in questo modo, ma è come se tutto da qualche mese si fosse trasformato in una terribile noia che non lascia spazio ad alcuno slancio. Mi pare di mandare avanti le giornate insensatamente, senza uno scopo, anche se fino adesso credo di aver fatto tutto quello di cui ero capace per essere una persona come tutti: ho messo su una famiglia, ho una casa, un lavoro, frequento gli amici di sempre, mi permetto qualche piccola vacanza ogni tanto. Eppure qualcosa ha smesso di funzionare, ed adesso avverto soltanto un grande vuoto.
            Va bene, dice Sandro senza dare troppo peso a tutto il discorso. Hai soltanto bisogno di spassartela un po’, trovare la maniera più giusta per evadere dalla monotonia di questi giorni uguali l’uno all’altro. Non c’è da farsene una malattia, succede a chiunque di avere un periodo di leggera depressione, devi staccare la spina e prenderti una boccata di aria diversa, ecco quanto. Nessuno avrà mai da dare un giudizio negativo su di te per una cosa di questo genere: lasciati andare verso uno scopo che allontani da te i pensieri di sempre, e vedrai che sarà di grande giovamento.
            Sento che sta montando dentro di me una rabbia sorda e incontrollabile, ecco quale è il punto, insiste Umberto. Qualcosa che prima o poi dovrò scatenare sulla più sciocca avversità che mi capiterà a tiro. Riesco a sopportare sempre meno questa monotonia di ogni giorno, questo circolo vizioso che è diventata da un po’ di tempo tutta la mia vita. Mi pare come se avessi creduto fermamente nel futuro, e fossi rimasto in attesa per molto tempo di qualcosa che non so neppure io cosa potesse essere, ma che adesso non arriva, nemmeno in minima parte, mostrandomi così che non arriverà mai più, e che tutto resterà in questo modo, lasciando solo spazio ad un lento ma inesorabile decadimento.
            I due si guardano ancora qualche volta continuando a bere. Poi si alzano, pagano le birre, escono dal locale. Vedi, dice Umberto, è tutto grigio, non c’è alcuna soluzione, sarà sempre peggio per me. Forse, dice l’altro; in ogni caso il futuro che cercavi era già dentro di te, da molto tempo, e tu ci hai lavorato a fondo per portarlo avanti, a volte magari anche inconsapevolmente. Adesso è qui, accanto a te: devi apprezzarlo, non puoi far altro, è solo il frutto maturo di tutto ciò che hai sempre coltivato.


            Bruno Magnolfi 

lunedì 10 giugno 2013

Ultima annotazione.

            
            Nella stanza adiacente a questa cameretta dove mi tengono relegato, chiuso a chiave ogni volta che qualcuno di loro esce dall’appartamento per qualche commissione, sono sicuro che in questo momento stanno parlando di me, di come giorno per giorno stia diventando sempre più un problema, e del peso che rappresento per chi, come tutti loro, sente l’oppressione della mia presenza in questa casa. Non riesco a sentire del tutto i loro discorsi, soltanto qualche parola o sillaba isolata, ma immagino con facilità il mio nome ripetuto più volte, quasi ad esorcizzare la persona che lo abita, in un crescendo di opinioni probabilmente sempre più sferzanti e cattive, dette magari con voci alterate, a malapena tenute sotto controllo, per non farsi sentire dal vicinato.
            Da un giorno all’altro attendo il verdetto che immancabilmente mi colpirà: mi toglieranno la possibilità anche di aprire un semplice spiraglio della finestra, di uscire da questa stanzetta per gironzolare lungo il corridoio e sedermi su una sedia del largo salotto; forse hanno addirittura già in mente di aumentare la dose del calmante che mi costringono ad assumere regolarmente. Vorrebbero annullarmi, questo è il punto, ne sono quasi sicuro; vorrebbero farmi sparire da qui, di davanti la loro presenza, forse trovare la maniera morale per lasciarmi richiudere in qualche istituto.
            Resisto: cerco di dormire la maggior parte delle ore del giorno, e qualche volta, quando mi sento irrequieto, magari proprio durante la notte, nel silenzio profondo di questo quartiere dimenticato, scrivo qualcosa sui margini dei pezzi di carta che trovo qua e là, strappati da qualche rivista illustrata o dai libri vecchi e ingialliti sugli scaffali. Cerco di appuntare le cose che sento, quelle che mi sembrano maggiormente importanti, utilizzando un vocabolario mentale ridotto ai minimi termini, ma che ugualmente certe volte mi pare efficace, adatto in qualche maniera a spiegare con parole semplici i miei poveri pensieri.
            Sono un essere scomodo, questa è la verità. Un vecchio rincitrullito che ha sempre cercato di parlare di tutto, di dire quello che pensa, di non vergognarsi mai dei propri modi di intendere tutte le cose. Non ho mai cercato consapevolmente di oppormi a loro, piuttosto mi è sempre sembrato importante cercare di essere onesto, giusto, capace di valori in cui credere. Ma tutto questo ormai non ha alcuna importanza: proseguo nelle mie convinzioni a tirare avanti come posso per allineare queste mie semplici parole, tutto ciò che mi resta. Infine qualcuno socchiude la porta, mi osservano per un attimo restando poco oltre la soglia. Non cambio espressione, resto fermo a guardare le loro facce, i visi seri e tirati che forse devono comunicarmi qualcosa. Non ti chiuderemo più in questa camera, dicono in fretta; ma solo se ci prometti che non scriverai più i tuoi foglietti che getti continuamente dal davanzale, e che ormai hanno attirato curiosi e sostenitori delle tue idiozie.
            Naturalmente rifiuto ancora una volta qualsiasi trattativa, anche se mi rendo conto che la mia battaglia sarà persa comunque; però sorrido, non ho assolutamente paura di loro, penso come ultima riflessione. Ho le mie parole con me, questo mi basta.


            Bruno Magnolfi

sabato 8 giugno 2013

Urgenza di cambiamento.

            
            Ormai avevo deciso: da quel momento in avanti avrei usato una maggiore precisione nel tenere a memoria nomi, luoghi, situazioni e fatti. Si trattava di una variazione di comportamento del tutto epocale per me, abituato da sempre come ero, ad atteggiarmi in modo pressappochista, persino superficiale certe volte, e in qualche caso addirittura ambiguo. Questo proposito, preso dopo molte riflessioni, al momento mi procurava già una certa ansia, considerato l’impegno a cui mi esponevo. Comunque si trattava senza dubbio di qualcosa di fondamentale per me: dare importanza a certe cose magari tralasciandole molte altre, ed evitare qualsiasi parere, giudizio, convincimento; delle informazioni prescelte studiarne i dettagli, scavare nei particolari, fino a trovare delle connessioni esatte che mi permettessero di tenere a mente la maggior quantità possibile di notizie precise, e sottrarsi in questo modo all’ordinario e superato formarsi di una semplice opinione.
            Non volevo parlarne a nessuno di questo progetto, così, fin dai primi giorni, mi costringevo a fingere con gli altri, pur con molte difficoltà, un comportamento identico a quello che avevo sempre avuto, anche se allo stesso tempo dentro di me cercavo di portare avanti il lavoro che mi ero prospettato di affrontare. Avevo anche iniziato ad analizzare alcuni presupposti: incamerare dati, pensavo, probabilmente era un fatto naturale, ma a me era sempre parso che tutto quanto fosse parte di un’idea generale del mondo che andava giorno dopo giorno semplicemente a depositarsi nella coscienza. Ricordarsi di ogni particolare come elemento a sé stante, invece, cambiava completamente le cose. Mi sentivo all’improvviso libero di non farmi più un’opinione generale, nessun giudizio sulle cose del mondo, annullamento di ogni ordinario punto di vista, e questo mi pareva un vantaggio assolutamente innegabile.
            Gli amici al caffè avevano preso a guardarmi con un certo sospetto mentre lasciavo degli ampi silenzi su argomenti dei quali normalmente in passato avevo sempre espresso un parere. Pur non volendo calcare la mano, adesso preferivo dilungarmi su certi dettagli piuttosto che dire che cosa pensavo in generale. Uno mi aveva addirittura chiesto se stessi male, ma io avevo semplicemente sorriso: in fondo la necessità di cambiare era nell’aria, secondo il mio tacito parere; e non si poteva peraltro disconoscerne a lungo l’urgenza. Le cose di cui adesso parlavo con tutti, si limitavano ormai sempre più all’esposizione di fatti infarciti di date, di nomi e di altri particolari, tralasciando qualsiasi parere in merito. Erano i dettagli a spiegare il mondo, nient’altro.
            Uno dei ragazzi al caffè, forse comprendendo il mio nuovo spirito, mi aveva voltato decisamente le spalle, evitando persino di rivolgermi la parola. Qualcosa non va, gli avevo chiesto sorseggiando come sempre il mio bicchiere di birra; e lui lentamente aveva voltato il dorso verso di me, poi mi aveva guardato a lungo, e infine aveva detto: neppure io ho un’opinione precisa, però forse come te credo che l’epoca del dialogo sia ormai al tramonto. Stiamo qui, beviamo in silenzio, assaporiamo il gusto dei risultati di calcio e delle ultime elezioni politiche, ma senza farci neppure un’idea per il prossimo futuro. Questo è ciò che ci vuole, il resto è chiacchiera insulsa.


            Bruno Magnolfi

martedì 4 giugno 2013

Neppure un sorriso.

            
            Una donna osserva un uomo sull’autobus. Ambedue stanno in piedi, con il braccio sollevato ad impugnare il sostegno. La vettura pubblica lascia sobbalzare le sospensioni scariche sulle irregolarità dell’asfalto, i viaggiatori ondeggiano alle curve e tremano seguendo ogni movimento della macchina. Lei finge di guardare qualcosa dal finestrino, lui finge di non essere guardato o veramente non si accorge di niente. Eppure in quei minuti c’è qualcosa che non è una cosa qualsiasi, e c’è un momento che non può essere scambiato per un momento qualunque. A lei piacerebbe pronunciare una serie di parole tali che potessero incuriosire l’uomo, ma non riesce a dirle, e neppure a pensarle, e poi non sa decidersi, continua a riflettere ogni frase che le viene in mente come fosse soltanto quella sbagliata.
Il mezzo pubblico si ferma, alcuni scendono e altri salgono, ma l’uomo è sempre lì, imperterrito, e lei ha sempre più voglia di toccargli una spalla sopra la giacca, di sorridergli, mostrare per intero la sua debolezza che è umana, naturale, spontanea. Ma non lo fa, non fa niente che possa essere interpretato come una tappa di avvicinamento verso di lui: tutto deve essere affidato al caso, pensa; oppure venire direttamente da quest’uomo. Forse basterebbe un cenno, un semplice sfioramento per sbaglio del piede o di una mano, mi scusi, un sorriso, ecco fatto, scendo alla prossima, anche io, dicono in fretta.
Invece no, e lui adesso si muove, fa un passo, si avvicina alla porta pneumatica, tutto sembra improvvisamente perduto, allora anche lei cerca di muoversi, va verso l’uscita, l’autobus stride mentre si ferma, scorrono le porte, in molti scendono. Oppure no, è sufficiente lasciare un’espressione nell’aria, la velatura vaga di un viso già visto per il giorno seguente, medesima ora, la stessa linea, buongiorno, si, scendo tra poco, e ancora il giorno dopo, così, sempre lo stesso percorso, tutto identico, come vanno le cose? Benissimo, adesso. Certo, potremmo prendere assieme un caffè, magari andare a cena una di queste sere, e imbastire alla svelta una relazione.
Non è possibile, pensa la donna; per quanto sia interessante una cosa del genere, non si può fare. Bisogna trovare un’altra maniera, rapida, immediata, adesso; oppure nessun’altra maniera, e lasciar correre, come fanno tutti, che tanto ogni cosa va avanti da sé se vuole, senza impegnarsi, con indifferenza, che basta fare esattamente quello che fanno gli altri, uguale agli altri, e lasciare che le giornate scorrano senza inventarsi certi inciampi o certe alternative improbabili, ed anche questo autobus, pieno di gente distante da me, pensa ancora la donna, sarà lo stesso anche domani, nessun problema, e il giorno seguente, e dopo ancora.
L’uomo improvvisamente la nota, la guarda un momento, poi si volta. Anche lei si volta, lascia che adesso sia lui ad osservarla, a darle un’occhiata esauriente, che gli faccia venire a mente la possibilità di invitarla a prendere un caffè, portarla a cena, e tutto il resto. Qualcuno più avanti parla al telefono, altri si scambiano qualche opinione, nessuno comprende che quello che sta per succedere sia una cosa fondamentale per lui e per lei, l’elemento essenziale che infonde di senso una giornata per il resto come tutte le altre. Poi la porta pneumatica torna a chiudersi, e l’uomo non c’è, non c’è più, è già sceso anche lui, perso tra una folla omogenea.

Bruno Magnolfi


lunedì 3 giugno 2013

Strumento del demonio.

            
             
La prima volta che accadde, dottore, fu molti anni fa; ero ancora un ragazzino che non voleva studiare, mio padre era vivo, e prima dell’inizio della sua lunga malattia mi aveva trovato un lavoro, niente di speciale: andavo ad aiutare una signora in età un po’ avanzata al suo negozio di frutta e verdura che fino ad allora aveva gestito da sola. Stavo lì, servivo i clienti, portavo avanti e indietro le cassette con le patate, i pomodori, le mele, e la proprietaria dietro alla cassa prendeva i soldi e contava i resti, non dimenticandosi mai di trattarmi praticamente come il suo servo. Poi, un pomeriggio che mi trovavo sul retro a sistemare qualcosa, ecco che iniziai d’improvviso a parlare con una voce diversa dalla mia, e a dire delle cose sconclusionate, cose che neppure pensavo.
La signora si impressionò intimandomi di starle lontana, dottore, mi creda; mi disse anche di correre a casa, lontano da lei, ed io, con una mano sopra la bocca, corsi da mio padre, ormai allettato, e da mia madre, senza neppure sapere come spiegarmi con loro. Il medico di allora mi mise a riposo, mi fece prendere dei tranquillanti per diversi giorni, ma sinceramente non accadde più nulla, e tutto alla svelta riprese un andamento piuttosto normale, così tornai a lavorare, ad occuparmi delle cose di sempre, anche se la signora del negozio di frutta e verdura ormai mi guardava con un certo sospetto, come se fosse sicura che da me non sarebbe venuto mai niente di buono. Per lei forse era quasi una sfida: mi disprezzava, era evidente, ma questo non le impediva di avere bisogno dei miei servizi.
Poi accadde qualcosa: all’ora di chiusura di un giorno qualsiasi la signora mi aveva già fatto uscire dal negozio, aveva anzi detto ad alta voce e in malo modo di andarmene, che tanto non riusciva più neppure a sopportare la mia presenza, e lei era rimasta a sistemare qualcosa là dentro prima di serrare tutte le porte: fu allora, dottore, che nel magazzino sul retro cadde d’improvviso una fila di cassette piene di frutta, proprio mentre la vecchia era lì, e così la portarono subito all’ospedale, ma lei non si rialzò, e rimase su una sedia a rotelle. Il negozio fu chiuso e quando andai a farle visita, la signora non disse niente, ma mi guardò come se la colpa di tutto fosse solo la mia. In quei giorni, dottore, avevo ripreso di nuovo a parlare con una voce diversa. Questa volta mi ero chiuso da solo dentro una stanza cercando di capire come fosse possibile, e alla fine ero riuscito a rendermi conto che dentro di me era come ci fosse un’altra persona. Dentro alla testa riuscivo come a sentirne i pensieri, e poco per volta mi rendevo conto che per me era impossibile avere un minimo di controllo su quanto accadeva.
Tramite le preghiere dei miei genitori la signora, che intanto aveva ceduto la sua bottega, mi prese a lavorare in casa sua, visto che quasi non poteva più muoversi, ed io andavo lì a sbrigare alcune delle faccende di cui aveva bisogno, anche se lei mi trattava ancora peggio di quando eravamo al negozio. Una mattina, quando entrai nella sua abitazione, alla stessa ora di ogni giorno, la trovai lì, dottore, stecchita sulla sua sedia a rotelle, con gli occhi e la bocca spalancati, come se avesse gridato chissà cosa fino alla fine. Sapevo che in qualche modo la colpa era mia di quanto successo, anche se non riuscivo a capire in quale maniera, così mi chiusi in casa soltanto con la mia mamma, mio padre ormai era già morto, e per molto tempo non accadde più neanche una volta che io parlassi con quella voce diversa.
Da allora sono trascorsi quasi due anni e tutto è filato via liscio, senza che sia successo niente di nuovo. Ma negli ultimi tempi, dopo che è morto anche il mio vecchio medico, quello con cui parlavo di tutto, e quando negli ultimi giorni ho iniziato di nuovo a sentirmi un po’ strano, come se stesse per accadere qualcosa, ed ho ripreso, anche se sottotono, a parlare con la voce di quell’altro - è accaduto ormai per tre volte in due sole settimane -, mi sento davvero preoccupato: ho paura che succeda ancora qualcosa di cui non riesco ad avere controllo.
Il dottore lo aveva osservato in silenzio, inizialmente aveva annuito per incoraggiarlo a spiegarsi, infine si era alzato dalla sua sedia, gli aveva toccato una spalla, poi aveva detto: non c’è affatto bisogno che ti preoccupi ulteriormente, adesso devi solo cercare di allontanare da te ogni pensiero diverso da tutti i tuoi soliti: il compito che avevi da assolvere, ormai, è stato eseguito.


Bruno Magnolfi