martedì 27 febbraio 2024

Direttamente sul mare.


            Quasi al termine dell’anno scolastico, trascorso nella classe di quarta elementare, l’insegnante di allora chiese a mia madre, che oramai non veniva più, se non una o due volte alla settimana al massimo, né a prendermi e né ad accompagnarmi in Via delle Matite all’ora di entrata ed uscita dall’edificio, se avesse avuto piacere di iscrivere suo figlio insieme al gruppo di bambini che a fine giugno sarebbe andato a raggiungere la Colonia Marina. Si trattava di due settimane di mare da condividere insieme ad una moltitudine di ragazzi anche di altre Scuole in un luogo molto bello dove esisteva una struttura già predisposta, ed anche se c’era da pagare un contributo, <<questa vacanza, così particolare>>, disse la maestra, <<è quanto di più utile per Paolo, sempre così solitario e poco incline alla socievolezza>>. Alla fine della settimana la mamma informò anche mio padre, che dopo un primo scuotimento di testa e qualche riserva sulla reale necessità di una cosa del genere, alla fine decise, insieme naturalmente a mia madre, di acconsentire e di lasciarmi provare questa esperienza. Durante la cena fu chiesto anche a me il mio personale parere, ma io, che non sapevo esattamente neppure che cosa attendermi da questa prova, mi limitai a fare spallucce, come per indicare quanto la cosa mi lasciasse piuttosto indifferente. Non era così, ovviamente, e se da un lato forse sapevo che avrei provato terrore nel ritrovarmi mescolato tra tanti bambini della mia stessa età ma che non conoscevo, dall’altro mi sentivo curioso di provare qualcosa del genere. Alla fine, fui iscritto, ed iniziai da quel momento a contare i giorni che mi separavano dalla partenza.

            Adesso mi viene quasi da ridere ripensando a quel breve periodo, e forse, mentre consegno la chiave della loro camera ad una coppia di clienti di questo albergo che sono appena rientrati da un romantico giro serale, avrei voglia addirittura di condividere con loro la sensazione che provo adesso, simile a quella di allora. Il luogo restava poco distante, disse mio padre: <<appena ottanta chilometri da casa nostra; così io e la mamma potremmo venire a farti una visita durante il sabato o la domenica centrale di tutto il periodo, e vedere così di persona come ti trovi>>. A queste parole mi sentii rincuorato, ed il sostegno della mia famiglia, via via che i giorni si assottigliavano, divenne un vero punto di forza per me, che forse a quel punto, se solo fossi stato un po’ meno timido, avrei potuto addirittura chiedere di ritirare la mia iscrizione e di non farne di nulla. Negli ultimi due giorni la tensione che provavo ormai era altissima, e si era sovrapposta decisamente a quella dei risultati scolastici dell’anno ormai terminato, più che sufficienti peraltro, anche se con nessuno lasciavo trapelare il mio reale stato d’animo. Però mio padre, quando tornava a casa dai suoi giri settimanali all’estero con l’autocarro, mi spiegava sempre quale importanza avesse conoscere e parlare delle lingue straniere, ed io, non sapendo esattamente dove si trovasse questa benedetta Colonia Marina, mi ero quasi convinto che fosse in un’altra nazione, e tutto ciò mi convinceva che magari ci sarebbe stato bisogno rapidamente da imparare anche la lingua del luogo. 

            Partimmo, affidati ad una maestra che non avevo mai visto, soltanto in una decina di bambini, seduti dentro ad una corriera azzurra posizionata per raccoglierci proprio davanti alla Scuola, in Via delle Matite, ma dopo poco, fermandosi davanti ad altri edifici scolastici, il nostro numero crebbe fino a non lasciare più neppure un semplice sedile libero. Gli altri ridevano e a volte urlavano per la contentezza, ed io me ne stavo in silenzio nell’attesa che finalmente tutto trovasse compimento. Gli altri della mia stessa classe e della mia stessa scuola, che quindi avrei dovuto conoscere benissimo, improvvisamente mi apparivano come fossero degli stranieri, e soprattutto non mi riconoscevo affatto nella loro gioia sfrenata che tentavano di dimostrare. Sapevo che per me quel periodo sarebbe stato da vivere come in apnea, immerso nell’acqua fin sopra la testa, dentro un elemento a me estraneo, e che effettivamente la lingua che tutti avevano già iniziato a parlare e ad urlare non era affatto quella che avrei desiderato conoscere. Sorrido ancora mentre sto dietro a questo bancone del ricevimento alberghiero, e riconosco adesso che qualche lingua straniera in seguito ho iniziato davvero a parlarla e a comprenderla, ma non certo in quel preciso momento della mia vita.   

            Poi, i quindici giorni trascorsero persino troppo svelti, e gli animatori riuscirono ad organizzare per noi bambini una serie infinita di giochi e di passatempo, oltre a portarci in spiaggia continuamente e a farci bagnare in quel mare bellissimo almeno due volte ogni giorno, tenendoci sempre sott’occhio e spronandoci per provare a nuotare nell’acqua bassa. Gli altri ragazzi non erano neppure troppo antipatici, anche se non feci qualche particolare conoscenza, e l’unica cosa che mi parve negativa fu quell’andare a letto tutti quanti alla medesima ora, ognuno con il numero che contrassegnava il proprio piccolo letto, quasi sperso in camerate anonime e davvero enormi, ma con delle meravigliose grandi vetrate coperte da tende che davano direttamente sul mare.

 

            Bruno Magnolfi  

sabato 24 febbraio 2024

Senza giustificazioni.


Con il mestiere che svolgo, da così tanti anni a questa parte da non ricordare neanche più quanti ne sono passati, mi sono abituato a trascorrere la maggior parte del mio tempo perfettamente da solo, al punto che quando per qualche ragione mi trovo in mezzo alla gente, oppure anche soltanto a chiacchierare in un locale con qualche conoscente, dopo un po' mi sento a disagio. Il mio orario di lavoro inizia la sera alle undici; perciò, esco da casa già abbigliato con la divisa prevista, fortunatamente poco vistosa, e così entro in albergo esattamente a quell’ora, mai prima comunque, e prendo le consegne e tutte le informazioni utili al mio lavoro dall’ultimo portiere di turno pronto a smontare, e quindi, rimasto da solo, mi piazzo dietro al bancone per consegnare le chiavi delle stanze a tutti gli eventuali ospiti che sono usciti fuori per la serata. Non c’è molto altro da fare, perciò generalmente mi porto qualcosa da leggere, e il tempo, almeno durante questa prima parte del turno di notte, trascorre via veloce, anche perché questo è un albergo piccolo, e non c’è mai un numero eccessivo di clienti. Dopo l’una di notte le cose si fanno parecchio più noiose, ed anche se conosco dei colleghi di altre strutture che si aprono una brandina sul retro, e poi cercano di dormire vestiti, così come si trovano, a me non piace comportarmi in questa maniera poco elegante, perciò resto sveglio tutta la notte magari a riflettere, oppure a leggere, e certe volte a pulire e a lucidare gli oggetti sopra al bancone del ricevimento, se non a scorrere con curiosità i nomi degli ospiti incolonnati sopra ai registri. Ultimamente mi trovo a ripensare spesso agli anni della scuola elementare, e questo mi piace, perché è come se vivessi di nuovo le esperienze di quando ero piccolo, che nel silenzio completo delle ore che scorrono appaiono quasi reali. Osservo in quei casi qualcosa fuori dalla grande porta a vetri di questo albergo, che dà su una piccola piazza lastricata con le pietre, e subito vedo me stesso con gli immancabili calzoni corti, lo sguardo sfuggente, e il mio tipico atteggiamento da basso profilo in mezzo ai compagni.

<<Paolo>>, mi dice il mio amico; <<ci scambiamo dei passaggi con il pallone?>>. Io annuisco, qualcosa dobbiamo pur fare in questo grigio e lento pomeriggio domenicale, penso. Siamo soltanto noi due, un numero troppo esiguo per fare una qualsiasi altra cosa; gli altri ragazzi della nostra età adesso stanno tutti con le proprie famiglie, ma mio padre è immerso in casa in un completo silenzio per riposarsi dopo una dura settimana alla guida del suo grosso autocarro, e la mamma si preoccupa soltanto di cucinare e riassettare la casa, e poi di adempiere a mille altre faccende, mentre l’altro bambino con cui ci incontriamo per strada sta quasi sempre coi nonni, perché i suoi genitori sono divorziati, il padre si fa vivo solo una volta ogni tanto, e la mamma di domenica va sempre in giro con le sue amiche, almeno così dice, perciò alla fine lui trascorre la maggior parte del tempo in mezzo a questi cortili, proprio come me.

<<Perché non ci facciamo un bel giro a piedi da qualche parte?>>, fo io. E lui, che forse è restio per la paura di far preoccupare eccessivamente i suoi nonni, dapprima sta zitto, come per riflettere bene, poi dice che forse si può fare, e magari arrivare fino ad un fiumiciattolo dove siamo già stati e che scorre nella campagna aperta, a mezz’ora circa di strada in mezzo a due file di alberi che gli ombreggiano l’acqua. Con la giornata di sole quest’oggi possiamo sdraiarci sull’argine, e stare lì ad ascoltare il gorgoglio delle piccole onde che scorrono veloci tra i sassi e le radici delle piante. Ci avviamo, senza dire niente a nessuno, come sfuggendo a qualcosa o a qualcuno che nei nostri intenti sembra vogliamo lasciare alle spalle in questo momento, almeno per un’ora o anche due. Tutto precipita improvvisamente quando il mio amico casualmente mette male un piede e si procura così una dolorosissima distorsione alla caviglia. Lo aiuto, lo sostengo, lo incoraggio, insieme torniamo indietro con grande fatica, e alla fine, con un forte ritardo su quanto avevamo previsto, arriviamo a casa dei suoi nonni, a spiegare con parole povere tutto l’accaduto. Ma lui invece, con un improvviso voltafaccia nei miei confronti, dice subito che è colpa mia se ci siamo avventurati così lontano dal paese, l’ho quasi costretto, e sembra persino, nella sua ricostruzione del tutto fantasiosa, che io gli abbia messo fretta, ed è solo per questo se lui si è fatto male. Mi volto, non lo saluto neanche, non ho da ribattere niente, vado dai miei genitori, ma neanche a loro dico niente, ritengo scontato che io abbia fatto tardi soltanto perché stavo bene nel luogo dove mi trovavo, anche se non è del tutto vero. E tutto questo adesso lo vedo lì, fuori dall’elegante porta vetrata di questo albergo cittadino, ed ora come allora penso che non vorrei più trovarmi nella condizione di dovermi giustificare.

 

Bruno Magnolfi

giovedì 22 febbraio 2024

Tutto alle spalle.


            Non ha alcuna importanza, penso, che l’edificio della scuola elementare che ho frequentato da bambino adesso non esista più; anzi, forse è persino una buona cosa, perché mi costringe così a farmi tornare a mente tutti i ricordi di quell’epoca, e immaginarmi ancora quelle vecchie mura gialline davanti agli occhi. <<Ti ho visto mentre cercavi di sfilare la figurina dei calciatori dalla tasca di Renato>>, mi dice qualcuno accanto a me. Mi volto, squadro allarmato il mio compagno che adesso inizia a ridere, e poi dice: <<Paolo, sei il solito tonto, ci caschi subito negli scherzi che ti si fanno, non c’è neppure gusto a prenderti un po’ in giro>>, mi spiega. Io mi rassicuro, credo di essere uno dei bambini più corretti della scuola, uno che non farebbe mai una cosa del genere, anche se qualcun altro ha fatto questa stessa cosa con me, forse perché invidioso che io possegga parecchie figurine. Per questo ho deciso di non portarne più a scuola così tante, mi basta averne qualcuna tra quelle rare, per farmi grande, e qualcun'altra tra quelle piuttosto consuete per scambiarle eventualmente con qualche compagno. Mio padre è sempre in giro per lavoro, facendo il camionista, e così, considerato che certe volte non lo vedo per giorni e giorni, acquista sempre per me qualche bustina con le mie figurine preferite in tutti i posti dove si ferma, e poi me le consegna in regalo quando ci si rivede, forse anche per farsi scusare del fatto che lui non è mai a casa. 

            Certe volte però sono nervoso: mi agita il fatto che gli altri non si fermino mai ad ascoltare quello che ho da dire, tanto che ho pensato a volte di avere la voce troppo bassa, ad un punto tale che a qualcuno è probabile sia passato per la mente che io parlassi tra me e basta, e non che mi riferissi a qualcun altro. Però essere ignorato non mi piace per niente: non che mi interessi particolarmente mettermi troppo in mostra, però quando ho qualcosa da dire agli altri mi piacerebbe che i miei compagni stessero per un attimo ad ascoltare anche le mie parole. La maestra ha detto una volta a voce alta che io sono timido, e a me è dispiaciuto molto, perché in realtà io non vorrei affatto essere timido, anche se forse è vero che lo sono. <<Bandini>>, ha detto la maestra con la sua voce squillante. Ed io naturalmente mi sono subito alzato in piedi pur restando presso il mio banco della scuola. <<Mi hanno detto che tu tieni un diario delle tue giornate>>, mi ha chiesto d’improvviso, come se un segreto di quel genere fosse possibile darlo in pasto a tutta la classe in quella maniera. <<No; non è vero>>, ho detto io con la faccia subito rossa, cercando di salvare la mia reputazione, mostrando però come la mia voce stentata stesse solo tentando di coprire la verità negandola spudoratamente. <<Peccato>>, ha detto subito lei; <<mi sarebbe piaciuto darci un’occhiata, visto che, quando vi invito tutti a scrivere qualcosa, tu non riesci mai a mettere insieme neanche una frase credibile>>.

            La mamma anche oggi mi è venuta a prendere davanti alla scuola come ogni giorno, all’ora del termine delle lezioni, ed io ho subito affrontato l’argomento, con una tale agitazione da farmi venire immediatamente le lacrime agli occhi. <<Non c’è niente di male, Paolo>>, mi ha detto lei; <<D’altra parte io ho cercato di spiegare alla maestra che forse il blocco che dimostri quando scrivi, forse vale soltanto per quanto riguarda i compiti che svolgete in classe, visto che a te piace scrivere delle tue cose, e a riprova di questo le ho detto che tieni un diario, tutto qua>>. Io ho guardato avanti a me, e forse mi ha fatto bene la calma che ha mostrato la mamma nel dirmi queste cose, al punto che ho saputo dirle con fermezza che quel diario adesso: <<Non lo tengo più, e quelle pagine che ho scritto sono soltanto da cancellare>>. Lei mi ha dato un’occhiata così particolare da farmi comprendere subito che non aveva affatto bevuto questa bugia, però, per non dare altra importanza alla faccenda, ha cambiato argomento in fretta, e con una grande sapienza ha parlato di altre cose.

            Difatti, certe volte penso che la cosa più importante della mia giornata sia proprio il mio diario: scrivere quello che mi è accaduto, o quello che ho pensato, oppure ciò che vorrei accadesse, mi fa sentire bene, come se fosse sulla carta una realtà parallela migliore di quella che mi trovo a vivere spesso in mezzo agli altri. Quanto pagherei adesso per avere ancora quelle pagine tra le mie mani. Ricordo poco purtroppo di quel mio diario degli anni della scuola elementare, e molto probabilmente, quando mi sono fatto più grande, l’ho gettato via con l’indifferenza che riescono ad avere gli adolescenti quando iniziano a pensare al mondo soltanto come ad un contenitore di opportunità per il futuro, lasciandosi facilmente alle spalle tutto il proprio passato.

 

            Bruno Magnolfi      

martedì 20 febbraio 2024

Via delle matite.


Se sto fermo, senza fare niente, seduto su una sedia in casa mia, con la testa piena di pensieri generalmente poco importanti, subito mi prende la voglia di indossare la giacca e di uscire, anche se oggi non saprei proprio verso dove dirigermi. Non sono nato esattamente in questa città o, meglio, sono nato in un ospedale del quartiere, dall’altra parte del fiume rispetto a dove abito adesso, ma i miei genitori a quell’epoca risiedevano in un paese della provincia, oltre la cintura periferica, non troppo lontano comunque, e soltanto quando avevo circa tredici anni ci traferimmo, ed io dovetti cambiare rapidamente sia gli amici che le abitudini. Molto di rado ho provato nostalgia di quella mia infanzia trascorsa tra alcuni cortili scalcinati e i tanti orti improvvisati dai residenti sul retro delle loro case basse e silenziose, col gusto di di assaporare tutto il silenzio che in quei giorni lontani somigliava tanto al vuoto, e a semplice riprova di questo, quasi tutti i ragazzi nati in quella semplice realtà, e che naturalmente frequentavo in quel periodo, sono poi venuti via da quella borgata, proprio per trasferirsi in un posto più vivo, per andare ad abitare in luoghi con più opportunità ed anche più stimoli. Così, dopo che per tanti anni non ho più avuto la voglia o l’occasione di tornare a visitare i luoghi della mia infanzia, adesso, forse in mancanza d’altro, provo ad un tratto la precisa volontà di rivedere la mia vecchia scuola elementare, un edificio grande e austero, quello stesso che allora frequentavo insieme ai tanti altri compagni di quei tempi. La strada dove era ubicato l’istituto l’avevamo soprannominata da sempre via delle matite, forse per sottolineare il fatto che la sua caratteristica principale era evidentemente lo schiamazzare di noi bambini durante l’orario di entrata e di uscita dalle classi, tutti coi nostri zainetti colorati e con gli astucci sempre colmi di penne e di pastelli.

Così, improvvisamente, oggi salgo sulla mia vecchia utilitaria, e mentre sono seduto senza aver ancora avviato il motore, penso che stia quasi per intraprendere un viaggio indietro nel tempo, che forse mi farà tornare a mente alcuni ricordi e anche qualche sensazione ormai dimenticata, e penso anche che qualche volta dobbiamo pur volgersi all’indietro e ripercorrere con occhio disincantato quello che è stato negli anni precedenti. <<Paolo>>, sento chiamare da qualche parte accanto a me; perciò, mi volto e vedo che è solo il mio vicino di casa che mi sta salutando, osservandomi da fuori del finestrino laterale. Scambiamo qualche parola di circostanza, poi mi decido, e infine avvio la macchina, mentre quel mio conoscente se ne va per i fatti propri. Supero qualche semaforo e poi mi immetto in una strada che conosco bene, e dopo qualche chilometro di svolte e di precedenze, esco infine da questa città, distendendo la mia guida che rimane comunque sempre molto prudente. Ci sono dei campi coltivati qua e là, ma lungo la via che seguo molti caseggiati costeggiano ancora il mio percorso, come se ci fosse la volontà di non abbandonare la vista dei viandanti alla natura. Poi mi fermo. Non sono ancora arrivato, però già i pensieri hanno iniziato nella mia testa a prendere un proprio corso, mostrandomi rapide immagini di un tempo lontano.

<<Paolo>>, dico al ragazzetto coi calzoni corti che vedo subito fuori dal parabrezza. Lui forse mi guarda, ma non è affatto interessato a me; perciò, si volta d’improvviso, e quindi raggiunge alcuni suoi compagni che lo stanno aspettando. Facevamo giochi semplici, quando abitavamo in paese, ed anche i nostri argomenti di conversazione erano quasi sempre banalità che in seguito avremmo lasciato rapidamente alle nostre spalle. <<Mostraci ancora le tue figurine>>, dicono gli altri adesso, e lui tira fuori dalla tasca del grembiule blu un grosso pacco di figurine tenuto insieme da un elastico. Era pericoloso a quell’epoca portare a scuola la propria collezione, c’era sempre il rischio che qualcuno dei compagni ti soffiasse qualche rarità proprio da sotto al naso, anche se a me sembrava impossibile che accadessero cose di quel genere. Poi tutti ridono, guardano Paolo con le sue preziose figurine, e forse sono così invidiosi di quel suo piccolo tesoro, che alla fine lo snobbano, come se nessuno di loro avesse mai avuto davvero voglia di possederne uno altrettanto corposo.

Poi riavvio la macchina, e dopo poche curve raggiungo il paese, ormai molto cambiato da quei tempi, e dopo aver sbagliato un paio di strade, infine raggiungo via delle matite, restando meravigliato del fatto che la vecchia scuola adesso non c’è più, ed è stata sostituita da costruzioni moderne, palazzine di tre piani che costituiscono probabilmente degli alloggi popolari o cose di quel genere. Non importa, penso, era evidente che prima o dopo la scuola sarebbe stata demolita, anche se adesso forse mi dispiace, anche se, comunque sia, resto capace di vederla ancora lì, proprio davanti a me, come non fosse trascorso neanche un giorno da quel lontanissimo periodo.

 

Bruno Magnolfi

martedì 13 febbraio 2024

Nessun risveglio.


            L'ambulanza era giunta in pochi minuti, ma forse, durante quel pigro sabato mattina, avevamo già perso troppo tempo in casa, cercando soprattutto di capire cosa potesse essere quel forte dolore nel petto di Achille. Marco ed io, poi, non avevamo potuto neppure andare insieme a lui, così avevamo preso la nostra macchina ed avevamo seguito, fino a quando ci era stato possibile, quelle lugubri sirene a distesa e quelle luci blu intermittenti che parevano il preambolo di una situazione spaventosa. Però, anche se eravamo arrivati trafelati in ospedale, la nostra sicurezza era che Achille finalmente fosse nelle mani giuste. <<Mamma>>, mi aveva detto Federico arrivando poco dopo quasi di corsa lungo i corridoi della medicina d’urgenza, ed io lo avevo abbracciato, dopo che mi avevano avvertito che mio marito aveva già perso conoscenza. Poi eravamo rimasti lì a sperare qualcosa, e la faccenda era andata avanti per altri due giorni, con me immobile nella sala dei visitatori, e ad un certo punto mi avevano chiamata da una parte, ma solo per avvertirmi che Achille ormai era morto. In seguito, erano trascorsi un paio di mesi, io avevo iniziato a tenere un diario, solo per annotare i pensieri e soprattutto i ricordi che non volevo in nessun modo andassero perduti con l’avanzare dell’età.

            Federico aveva detto poi che andava ad abitare in un’altra casa, non so neppure dove, forse perché per lui era diventato troppo penoso vedermi ogni giorno così ripiegata su me stessa. Uno di quei giorni, mentre stavo nel mio appartamento da sola, avevo sentito la voce di Achille nel corridoio, così mi ero alzata, e poi l’avevo visto, proprio davanti a me, e lui mi aveva detto che gli dispiaceva tanto avermi fatto soffrire, che non avrebbe voluto, che era stato egoista, che ingiustamente mi aveva forse considerato una persona poco sensibile, incapace di mettersi nei panni degli altri. L’avevo rassicurato: <<Sto bene>>, gli avevo detto, <<ed adesso che sei tornato tutto va per il meglio>>. In seguito, era riapparso altre volte, nei momenti più differenti, e poi però era arrivato un medico per una visita a domicilio. <<Sto bene>>, avevo confermato, ma quello mi aveva posto un sacco di domande, così come gli altri medici che erano giunti a casa qualche giorno più tardi, e poi avevano scritto qualcosa di importante, in una busta chiusa da consegnare nelle mani di mio figlio Marco. Sembra, secondo quelle carte, che dovessi trascorrere un breve periodo in una clinica psichiatrica, ed io, remissiva come sempre, avevo preparato subito una piccola valigia con i pochi oggetti e i vestiti che mi interessavano davvero, compreso il mio diario, e poi ero andata insieme a loro.

            Da quel momento non ricordo di essere più uscita da quel luogo, ed ho aspettato la visita dei miei due figli una volta alla settimana, e quelle di Achille quasi ogni giorno, anche più volte durante poche ore, in tutti i momenti in cui mi trovavo da sola. Ho annotato ogni volta tutto sopra al mio diario, e per me è stato importante, perché tutto poteva perdersi in un solo attimo se non avessi avuto quelle parole ben chiare sulla carta che mi ricordavano tutto quanto ogni volta che lo desiderassi. Eppoi, ma questo più tardi, non ricordo, forse persino dopo qualche anno, avevo iniziato a smettere del tutto di parlare con gli altri, persino con i miei figli quando raramente si facevano vedere per farmi una visita, e l’unica cosa che mi teneva vigile era il mio prezioso quaderno pieno zeppo di tutte le cose che erano successe alla mia famiglia in tutti quegli anni, da quando io e Achille ci eravamo conosciuti. Gli altri pazienti dell’Ospedale certe volte avevano cercato di strapparmelo via dalle mie stesse mani, ma io avevo sempre resistito, difendendolo con le unghie e con i denti. I medici avevano detto che andava bene che io tenessi quel diario, anzi, era proprio quello che forse mi avrebbero chiesto di fare, se non avessi già deciso così per conto mio. Ma loro non potevano leggerlo, nessuno avrebbe potuto, perché quello era lo specchio della mia vita, la cosa più vicina a me, tra quei pochi oggetti che avevo ancora e che mi ricordavano i tanti periodi passati della mia stessa esistenza.

            Per questo nessuno comprese il momento in cui cercai di regalare quel quaderno alla signora Marcella, la mia vecchia vicina di casa, quando un giorno era venuta a farmi una visita. Lei non lo aveva voluto, e si era messa persino a piangere dopo un po’, non so neppure il perché, ma io allora non avevo insistito, e qualche giorno più tardi lo avevo gettato via, attraverso i ferri della grata sopra una finestra, e da allora non l'avevo più trovato. <<Cosa importa>>, pensavo spesso; <<sono io stessa i miei ricordi, almeno fino a quando riesco ancora a passarli tutti in rassegna>>. Non era trascorso molto tempo, forse solamente un giorno o due da quel pensiero, ed infine non mi ero più alzata da quel letto, non per una precisa volontà, ma perché nemmeno ci riuscivo. Così avevo capito che il mio diario, se anche l'avessi ancora avuto insieme a me, ormai non avrebbe avuto più alcun senso, e fu proprio in questo modo che compresi perfettamente, proprio durante quella notte seguente, forse anche perché mi avevano imbottita di farmaci e di tranquillanti, che non mi sarei mai più risvegliata.

 

            Bruno Magnolfi

sabato 10 febbraio 2024

Evidenti novità.


            Lei allora girava la chiave nella serratura della porta, ma con grande delicatezza, in modo da non produrre quasi alcun rumore, e quindi lasciava aprire avanti a sé dapprima solo uno spiraglio, quasi per osservare semplicemente se per caso nell’ingresso dell’appartamento ci fosse qualcuno ad attenderla, e quindi entrando, ma senza premere il pulsante per accendere le lampadine. Poi, lei riponeva con attenzione la chiave dentro la sua borsa, l’appoggiava sulla sedia con i braccioli posta al fianco dell’appendiabiti, e quindi muoveva alcuni passi verso il salotto, da dove vedeva giungere con chiarezza la luce elettrica accesa in quella stanza, ed un suono musicale di fondo proveniente anch’esso da lì. Achille era seduto, stava guardando la televisione, e sull’immediato non si era neppure accorto di sua moglie, anche se, alla fine, avvertendo il fruscio degli abiti alle sue spalle, lentamente si era voltato. <<Buonasera>>, diceva allora lei guardandolo ma senza cambiare minimamente d’espressione. Suo marito si alzava, la guardava a sua volta con grande sorpresa, e forse passava in rassegna, tra tutte quelle che gli venivano in mente in quell’attimo, la cosa migliore da dire per una situazione del genere, e alla fine faceva: <<Eravamo in forte apprensione; non sapevamo proprio a chi rivolgerci; e poi il tuo telefono portatile lo hai lasciato qui, a casa>>. Celeste gettava un’occhiata in giro, poi iniziava a togliersi la giacca, ma con calma, come se non fosse del tutto convinta di dover restare davvero, oppure se uscire di nuovo. Tornava nell’ingresso per un attimo, poi si dirigeva verso la cucina, accendeva la luce, si guardava attorno e d’improvviso le sembrava un luogo differente da come fino ad oggi lo aveva sempre visto, nell’arco di tutti quegli anni.

            Intanto, dietro di lei e di Achille, che forse l’aveva seguita anche per misurare quali cambiamenti fossero eventualmente avvenuti in sua moglie nell’arco di quelle poche ore, era subito giunto Marco, il figlio maggiore, dicendo in modo ridente: <<Mamma>>, come per mostrare il suo sollievo nel vederla sana e salva di nuovo a casa. Anche Federico entrava allora nella stanza, ed andava da sua madre abbracciandola e stringendole una spalla, pur senza ricevere in cambio troppo entusiasmo. La domanda che tutti avrebbero voluto porre immediatamente a Celeste però non veniva ancora formulata, probabilmente per non inserire in questo momento delle questioni particolarmente difficili, capaci di fare emergere certi dissapori al momento assolutamente da evitare. <<Scusate>>, diceva invece lei affrontando l’argomento con grande semplicità. <<Ho fatto un lungo giro a piedi. Non volevo farvi preoccupare>>. Certo, non c’era altro da aggiungere, né qualche cosa da chiedere, anche se queste parole non spiegavano assolutamente niente o, meglio, scoperchiavano qualcosa di cui in famiglia forse non si era mai parlato, dando per scontate molte cose che all’improvviso mostravano di non essere troppo prevedibili. Restavano in aria dubbi, domande, interrogativi che si sarebbero potuti sciogliere soltanto con il tempo ed una maggiore attenzione agli stati d’animo. <<Hai mangiato qualcosa?>>, chiedeva Achille, ma non c’era neppure bisogno di una risposta, nonostante tutti avrebbero voluto impegnarsi adesso nel fare qualcosa per questa donna, anche soltanto una qualsiasi sciocchezza. Celeste diceva di nuovo: <<Scusate>>, e poi spariva in camera sua, come non avrebbe mai fatto soltanto fino a poche ore prima.

I ragazzi allora incrociavano lo sguardo con loro padre, ma nessuno dei tre trovava una parola adatta da formulare, restando in silenzio, quasi inebetiti, incapaci di fare una riflessione adeguata sulla madre e sulla moglie che adesso appariva quasi diversa. La cucina era in ordine, dopo la cena frugale i tre avevano lavato e riordinato tutte le cose che erano state usate, ma Federico adesso si era versato un po’ d’acqua da bere, forse per buttar giù, come fosse una pillola amara, una situazione che probabilmente non si sarebbe mai aspettato. Quindi aveva appoggiato il bicchiere dentro al lavello, più che altro per una sorta di abitudine, ma immediatamente si era sentito in difetto, così aveva aperto il rubinetto e lo aveva lavato e asciugato, riponendolo nel vano delle stoviglie. Achille aveva atteso qualche momento, poi si era mosso per andare in camera e chiedere a sua moglie se avesse bisogno di qualcosa. <<Niente, grazie>>, aveva risposto lei mentre riponeva nell’armadio alcuni vestiti. Poi si era voltata verso suo marito, si era mossa, gli era passata accanto, lo aveva superato senza guardarlo e alla fine era entrata nel salotto, dove la televisione proseguiva ad inondare la stanza di immagini e di colori. Si era seduta sul divano, aveva scorso i canali di ricezione con il telecomando; quindi, aveva lasciato una trasmissione idonea ai propri gusti. Da parte di Achille non sembrava che si potesse fare niente per comprendere meglio la situazione che si era creata, se non accettare ciò che si stava verificando, magari adeguandosi poco per volta alle novità che in futuro si sarebbero potute imporre.

 

Bruno Magnolfi

mercoledì 7 febbraio 2024

Farsi valere.


            Sto ferma, sdraiata sulla morbida copertina a fiori di questo letto accostato ad una parete della cameretta che la signora Marcella, non avendo avuto dei figli, riserva da sempre per la propria nipote poco più che adolescente durante quelle poche volte che viene a farle visita, abitando non ricordo più in quale altra città con i propri genitori. Ci siamo trovate proprio sul portone, nel pomeriggio, e lei si è accorta subito che io non stavo troppo bene. <<Mi sono lasciata un po’ andare>>, le ho confessato quasi con le lacrime agli occhi per la vergogna. <<Sono entrata in un locale>>, le ho detto, <<e approfittando della tanta gente che di certo non faceva caso a me, ho buttato giù tre o quattro bicchierini, giusto per trovare il coraggio di ritornare a casa>>. Lei mi ha sorretto nell’ingresso condominiale, e anche lungo le scale, considerato che barcollavo, e poi mi ha suggerito di non farmi vedere così dalla mia famiglia, ed io allora ho detto che per il momento non volevo neppure tornare nell’appartamento, e lei ha subito detto che non c’era problema, e che avrebbe inventato una buona scusa da dire a mio marito. Adesso poi mi ha lasciato sola a riposare, e a smaltire un po’ questa ennesima sbornia, ed io mi vergogno da morire, ma non so proprio in quale altro modo risolvere questa faccenda, se non nascondendomi agli occhi di tutti.

            Trascorre così un po’ di tempo, con le tendine ben tirate sopra ai vetri della finestra e la luce elettrica rigorosamente spenta dentro la stanza; infine socchiudo la porta e chiedo timidamente alla signora Marcella di andare in bagno, e lei mi fornisce subito di un asciugamano pulito. Poi esco da lì, e all’improvviso non so più quanto tempo sia trascorso da quando sono uscita da casa nel pomeriggio; osservo per un attimo la grossa sveglia lungo il corridoio e vedo però che è già l’ora di cena. <<Devo andare dai miei familiari>>, dico in fretta; e lei: <<Ci ho già pensato io>>, mi dice; così resto sbalordita e mi chiedo se questa strada che ho intrapreso avrà mai una fine. <<Che cosa le hanno detto?>>, chiedo allora; e lei: <<Niente, attendono solo delle altre notizie>>, mi fa; ed io, che adesso mi sono sciacquata la faccia, rifletto che aspetterò ancora un po’, ed alla fine rientrerò a casa dicendo che ho fatto semplicemente una lunga passeggiata per conto mio. <<Avessi almeno un posto dove rifugiarmi, per qualche giorno>>, dico alla signora Marcella, e lei dice subito che qui da lei non posso rimanere: suo marito fortunatamente stasera non è in casa, altrimenti sarebbe già andato a suonare il campanello di fronte ed avvertire tutti che io mi trovo in casa sua. <<Lui non comprende certe situazioni>>, fa lei, ed io annuisco; <<Non voglio dare ancora disturbo>>, fo timidamente. <<Adesso ci mettiamo a tavola e mangiamo qualcosa>>, fa lei; <<Poi si vedrà>>.   

            Parliamo di molte cose, di tutte quelle che ci vengono in mente. Poi riprendo: <<Tenevo tanto alla mia famiglia>>, fo io; <<Ed adesso mi trovo ad essere diventata solo una stupida disgraziata>>. <<Certi momenti difficili capitano a chiunque>>, fa lei, ed io penso forse che lei abbia quasi ragione, anche se probabilmente non è del tutto questo il punto. <<La mia bella famigliola ormai non c’è più>>, dico adesso, <<Ed i miei colpi di testa non risolvono certo le cose negative che si sono accumulate>>, le fo. <<Si aggiusteranno tutte le cose>>, fa la signora Marcella; <<Non bisogna abbattersi per questo>>. Poi fa: <<Intanto stasera in casa sua hanno compreso che la sua improvvisa assenza è qualcosa di forte, che certo non si aspettavano, e questo vantaggio lei non deve farselo sfuggire>>. La guardo, sbocconcello un pezzetto di pane, poi dico: <<E come potrei fare?>>, le dico, tanto per comprendere meglio la sua idea. <<Non so>>, fa lei, <<Dica che ha conosciuto delle amiche, che forse ha bisogno di un po’ di tempo per riflettere, che non ha più voglia di stare al servizio di tutti rendendosi trasparente>>, mi fa. <<Essere meno remissiva>>, fo io sottovoce, come parlando solo a me stessa. <<Ma certo>>, dice lei, e poi dice anche che è proprio questo il punto fondamentale: <<Farsi valere>>, mi fa, come fosse il verbo decisivo.

            Mi sento meglio, la signora Marcella sa essere una vera amica, per una come me che di vere amiche non ne ha mai avute fino ad oggi. Ci prendiamo un bel caffè forte, riusciamo a sorridere di qualche sciocchezza, poi dico che adesso devo proprio farmi coraggio e rientrare nell’ appartamento dove abito. <<Va bene>>, fa lei; <<Basta che non presenti la solita faccia di sempre ai suoi familiari. Dimostri che qualcosa è cambiato, che lei si sente diversa>>, mi fa con convinzione. <<D’accordo>>, fo io, mentre cerco ancora di sorridere; vorrei ringraziarla dell’aiuto, ma forse è inutile, lei lo sa già che cosa potrei dirle. <<Vado>>, dico mentre mi alzo dalla sedia di cucina. Poi cerco la chiave, la giro tra le mani, e infine trovo anche la forza per darmi la spinta che mi serve. <<Dobbiamo cambiare>>, dico tra me, mentre già sono sul pianerottolo e la signora Marcella ha chiuso silenziosamente il suo portoncino. <<Ora tocca a me>>.

 

            Bruno Magnolfi  

lunedì 5 febbraio 2024

Fragile stato d'animo.


I due fratelli erano arrivati a casa nel tardo pomeriggio a pochi minuti di distanza l’uno dall'altro, trovando stranamente loro padre scuro in volto e in piedi lungo il corridoio. Diceva di essere tornato dal lavoro almeno un’ora prima, e che si era posizionato lì pronto ad accogliere al più presto possibile chiunque fosse stato a far girare la chiave nella serratura del portoncino. Appariva però sfuggente, con la sua solita faccia dall'’espressione quasi invariabile, senza comunque ancora accennare a qualche particolare preoccupazione, anche se era evidente che nell’appartamento, per un motivo ignoto, la mamma al momento risultava assente. Achille, interrogato dai suoi figli, con una scrollata di spalle, aveva mostrato di non sapere niente dell’assenza di sua moglie, cioè di non sapere dove fosse, ignorando sia il possibile motivo in grado di trattenerla fuori casa, sia qualsiasi altra faccenda che spiegasse quella sua strana ed insolita assenza a quell’ora, visto che non aveva lasciato neppure un biglietto con qualche spiegazione scritta. Marco per primo era andato a sedersi al tavolo di cucina, dicendo che forse era il caso di andare dal vicinato a chiedere eventuali informazioni, ma subito dopo qualcuno aveva suonato il campanello di casa con un rapido e repentino trillo.

La signora Marcella, la loro dirimpettaia, sull’immediato si era schiarita la voce, poi aveva avanzato di appena qualche centimetro, forse per tenere il tono di voce sufficientemente basso, e poi aveva detto ai suoi tre conoscenti: <<Mi ha telefonato la signora Celeste>>, spiegandosi, ma mantenendo una forte titubanza. <<Ha detto soltanto che per il momento non intende tornare a casa>>. Achille a queste parole restava di sasso, impossibilitato a pronunciare una qualsiasi domanda, ed anche i due figli rimanevano immobili, per alcuni istanti persino loro incapaci di chiedere qualcosa. <<Ma dove si trova adesso, la mamma?>>, chiedeva alla fine Federico, muovendo le mani e le braccia come a cercare di fare qualcosa per risolvere una situazione che appariva assolutamente assurda. La signora Marcella, forse più in confusione di quanto ci si poteva attendere, si prendeva adesso una pausa, e con gli occhi fissi sui suoi vicini, ed anche un filo di voce ancora tremolante, alla fine diceva soltanto: <<Non me lo ha detto>>, chiudendo qualsiasi interrogativo ulteriore in questo senso. Marco, che fino adesso era rimasto in silenzio, chiedeva invece se la mamma avesse accennato al momento in cui sarebbe finalmente tornata da loro, o se loro stessi potessero fare qualcosa per il suo rientro, magari parlarle al telefono, se c’era almeno un numero a cui chiamarla. La signora Marcella allora ritirava il suo piede, tornando indietro di qualche centimetro sul pianerottolo, come se praticamente avesse ormai espletato la sua funzione di ambasciatrice, e al momento non avesse in pratica da aggiungere alcun chiarimento. <<Non mi ha detto altro>>, confermava, cercando di chiudere la conversazione, <<soltanto che in questo momento vuole starsene da sola, almeno un po'>>. Achille allora prendeva coraggio, anche se gli venivano alle labbra solo parole di sgomento, però ad un tratto sbottava: <<ma non è possibile, senza neanche dirci niente, senza mostrare nessuna sofferenza>>.

Marco all’improvviso mostrava una certa freddezza, e riprendeva rapidamente la parola, immaginando che ciò che aveva da dire la loro vicina di casa con queste ultime informazioni fosse ormai esaurito, e così con calma sibilava: <<Se per caso richiamasse al telefono nelle prossime ore, le dica per favore che noi siamo praticamente disperati senza di lei>>, cercando così di rappresentare il sentire di tutta la famiglia. La signora Marcella annuiva, sempre con gli occhi spalancati, indietreggiando ancora sul pianerottolo e mostrando chiaramente il desiderio di tornare al più presto dentro nel suo appartamento. Federico allora si voltava, forse cercando di apparire pratico, ed entrava in cucina ad aprire il frigorifero per rendersi conto se era possibile preparare qualcosa per la cena. La signora Marcella intanto salutava in un modo semplice e quasi ridicolo, e poi in un attimo spariva velocemente dietro la porta del proprio appartamento rimasta socchiusa, lasciando Achille a sprangare il proprio uscio a sua volta, appena un attimo dopo di lei. In cucina poi nessuno dei tre trovava qualcosa da dire sulla faccenda, limitandosi a sprecare qualche parola sulle cose da cucinare e da portare in tavola. <<Non so cosa pensare>>, diceva Federico dopo un po', così che Marco e suo padre si limitavano a guardarlo come se avesse espresso un pensiero incomprensibile, proseguendo a posizionare le stoviglie sopra una tavola completamente differente da tutti gli altri giorni.

Una volta seduti, ma conservando il silenzio per parecchi minuti, lasciavano che ad un tratto Achille chiedesse ai suoi due figli un parere sulla strana faccenda verificatasi, ma nessuno di loro riusciva ad avere un pensiero realistico. <<Non riesco a darmi una spiegazione>>, riprendeva allora Achille. <<Forse la colpa è soltanto mia, che non sono riuscito a comprendere meglio negli ultimi tempi quanto i miei malesseri andassero a gravare anche sul suo fragile e nascosto stato d’animo>>.

 

Bruno Magnolfi