giovedì 27 settembre 2012

Quasi un balcone fiorito.


            

            Il negozio di fiori rimane poco distante da casa sua, a piedi lei ci impiega appena dieci minuti, ma forse proprio per questo alla signora Teresa le piace, anche oltre l’orario previsto per la chiusura dell’esercizio, rimanersene là dentro a fare ancora qualcosa per migliorare quel suo piccolo mondo: curare la vetrina, bagnare con grande attenzione le foglie delle sue piante, sistemare nella maniera migliore tutto l’assetto della sua pur piccola bottega di fiorista. Di tornarsene a casa, in quel piccolo appartamento dove le sembra di non avere quasi mai niente da fare, dove ormai va soltanto a dormire, le sembra che ci possa essere tempo più tardi, sempre più tardi. 
            Così molte volte resta in negozio, anche quando si accorge che tutto è già a posto, e che non ha praticamente più niente da fare, tutte le sue piante sono ben sistemate e tutto è ordinato, ma allora si rilassa, si piazza seduta dietro la piccola scrivania, spenge le luci e guarda fuori dalle larghe vetrine, con la vista filtrata dai mazzi di rose, di gerbere, e da tutte le altre piante, osservando quella vita che le scorre proprio davanti, con le automobili dai fari già accesi lungo il viale, e le persone che passano a piedi proprio da lì, percorrendo quel largo e bel marciapiede.
Può darsi sia una vita minore quella che vede la signora Teresa, ma per lei soltanto il fatto che abbiano scelto di passare da lì, proprio accanto al suo chiosco di fiori, le rende quasi simpatiche tutte le persone che transitano; e così continua a guardare, come in un film o in un documentario, immedesimandosi a volte in quella poca gente che c’è a quell’ora lungo il viale, e a volte sogna, come cercando di immaginare una realtà diversa e migliore. Lei non si è mai lamentata della sua sorte, anzi: però le sembra a volte che siano tanti quelli che vivono male, che non riescono ad accontentarsi di quello che hanno, e che proseguono ad inseguire idee indefinite. Per lei, con tutti quegli anni passati a vendere fiori, con ciò che significa, accontentando tante persone diverse, interpretando i desideri di tutti, la sua sensibilità nei confronti dei pensieri degli altri si è andata migliorando moltissimo, ne è consapevole. Tanto che quando entrano dentro al negozio anche dei nuovi clienti, la signora Teresa riesce a comprendere al volo la psicologia di quelle persone, e trova sempre il fiore più giusto ad ognuna, a seconda delle esigenze, senza sbagliarsi.
            Quando la sera rimane nel buio tra le piante, ad assaporare quello scorcio di esistenza che scorre davanti al suo negozio, le capita certe volte di ascoltare, pur non volendo, delle piccole discussioni che vanno avanti per lo spazio di pochi secondi, giusto il tempo che serve per passare a piedi lungo quel marciapiede. Ascolta le poche manciate di parole, ne soppesa il timbro, le inflessioni, a volte il senso con cui vengono dette, e poi, senza preoccuparsene troppo, immagina il resto, come se riuscisse a comprendere la vita degli altri da una semplice frase o da poche espressioni. Ma la signora Teresa è consapevole che la vita non è fatta solo di fiori e colori, e quindi spesso pensa che è assurdo cercare una risposta per tutto, bisogna pur arrendersi, ogni tanto, e accettare la realtà per quello che è. Lo dice per sé, ma vorrebbe suggerire questo pensiero anche a tanti di quelli che passano.
            Poi esce, abbassa la serranda, e se ne torna verso casa: domani ci sarà tutto il tempo, pensa alla fine, per affrontare altri pensieri e fare qualche riflessione diversa da quelle messe a punto stasera. Perché alla signora Teresa le pare ci sia tutto un mondo ancora da comprendere e da interpretare, e lei, nonostante i suoi fiori ed anche tutto il suo impegno, sa di avere ancora una visione soltanto parziale di moltissime cose. Ci sarà tutto il tempo, pensa, per capire di più.

            Bruno Magnolfi

martedì 25 settembre 2012

Semplice evasione.


            
            Guido la mia auto come sempre, mentre torno a casa dopo una normale giornata di lavoro. La strada che percorro è la medesima, gli altri veicoli che transitano accanto a me si comportano più o meno come sempre: rallentano, certe volte, oppure mi sorpassano, magari cercano un parcheggio, in certi casi svolgono delle manovre un po’ azzardate e pericolose. Io proseguo a guidare con tutta la calma di sempre, non ho nessuna fretta, penso ai fatti miei e immagino qualcosa per impiegare in qualche modo la serata, giusto per rilassarmi e trascorrere un’ora di tranquillità.
            Certe volte, quando mi trovo nel mio appartamento, penso che sarei preda del nervosismo più estremo, se non avessi coscienza che giù in strada c’è la mia auto parcheggiata, e che in qualsiasi momento può mettersi in moto e trasportarmi dove voglio, anche lontano da dove mi trovo, senza problemi. Per me è importante sapere che esiste una via di fuga, un mezzo attraverso il quale posso salvarmi da una situazione di stallo, di immobilità. Uno come me ha continuamente bisogno di sapere che in un attimo può spingersi anche lontano da dove si trova, dal quartiere dove abita, da questa città, dalle abitudini che lo avvolgono quasi ogni giorno. Già, perché non c’è niente che mi risulta più insopportabile che sentirmi un ostaggio della situazione, come se fossi costretto, per esempio stasera, a starmene in casa. Probabilmente, per mia volontà, non uscirò nemmeno dal mio appartamento, penso, ma sapere che non posso farlo mi rende assolutamente irascibile.
            Così decido di passare sotto alle finestre di una ragazza che conosco da tempo, prima di andarmene a parcheggiare davanti al portone del mio palazzo. Abita poco lontano, in una piazzetta dove posso fermare la macchina ed osservare bene le cose, con tutta la tranquillità di cui ho voglia. Faccio così, difatti, ma le finestre sono accostate e lei sembra non esserci; ma dopo un po’ ecco che esce dal suo portone, così sporgo un braccio dal finestrino, la saluto, lei sorride e viene verso di me. Le chiedo cosa faccia, dove stia andando, ma lei si schernisce, dice che deve solo andare a comprare qualcosa per casa. La invito a salire sulla mia auto e lei accetta.
            Si fa un giro lentissimo intorno al quartiere, poi dico che forse si potrebbe andare a bere qualcosa in un bar, ma lei non dice niente, come se accettasse da subito tutto quello che io sono pronto a proporle. Le dico per scherzo che si potrebbe andarcene al mare, fare una corsa fin là per goderci lo spettacolo delle onde e dell’orizzonte al tramonto. Lei ride, non dice ancora niente, così io continuo a guidare, ma intanto comincio a prendere proprio per quella direzione. Usciamo dalla città, si prende la superstrada, il motore della mia auto sale di giri, ed io mi sento contento.  Ascoltiamo la radio, ci scambiamo poche parole, guardiamo la luce fuori dal parabrezza e improvvisamente ci sentiamo quasi felici, liberi di poter fare qualsiasi tipo di scelta. Ecco, penso senza dire niente, è sufficiente anche una cosa del genere per farmi sentire a posto; perfettamente.

            Bruno Magnolfi

lunedì 24 settembre 2012

Il compromesso (ripresa cinematografica n. 16).


            
            Durante la prima sequenza, si osserva un uomo seduto dentro una stanza, e alle sue spalle, su un vecchio divano, suo padre, una persona ormai anziana, mentre sta leggendo un articolo sopra un giornale, senza, almeno in apparenza, minimamente preoccuparsi di altro. L’uomo lentamente si alza, osserva di sfuggita suo padre, e nota come sempre la sua espressione di indifferenza, poi dice: devo prepararmi ad uscire, ormai è quasi ora. Muove la sedia sistemandola in modo ordinato a fianco del tavolo, e produce così, senza intenzione, un breve stridente rumore. L’anziano si scosta soltanto per un attimo, appare però infastidito, come se avesse perduto inesorabilmente la sua concentrazione, così si alza pur con evidenti difficoltà e va alla finestra, come per osservare l’uscita da casa di suo figlio ancora prima che quell’azione si compia. L’uomo invece va in camera sua, si prepara, indossa la giacca, ricorda a se stesso di mettere in tasca le chiavi di casa, il suo portamonete, alcuni documenti di cui può avere bisogno.
            La sequenza successiva mostra il medesimo uomo mentre saluta suo padre, si raccomanda a lui per le cose anche più ovvie, e cerca di rassicurarlo, semmai ce ne fosse bisogno, sul fatto che tornerà presto, da lì a un paio d’ore e non oltre; il padre annuisce ma quasi sbuffando, non sembra particolarmente interessato a quell’argomento, si nota però, con grande evidenza, che mal sopporta di suo figlio quel parlargli come fosse un povero deficiente. E al contrario di quanto immagina l’altro, sembra anzi che sia ben contento di rimanere da solo, e senza mai osservare suo figlio, prosegue a muoversi come può dentro la stanza, senza però decidersi a niente, rimanendo soltanto nella semplice attesa nervosa di non avere più intorno quella presenza. Infine l’uomo, prima di uscire da casa, si accosta a quel tavolo dove prima stava seduto; forse vorrebbe salutare in maniera affettuosa suo padre, rassicurarlo di nuovo in qualche maniera, ma non lo fa, e i suoi piccoli gesti assumono il senso di un’indecisione perenne che suo padre sembra proprio mal sopportare.
            Durante la terza sequenza, appena l’uomo ha finito di rendersi conto che non ha ormai altro da fare se non chiudere la porta alle sue spalle, suo padre, rimasto da solo, appare finalmente a suo agio, torna a sedersi su quel divano, riprende nelle mani il giornale che stava leggendo, e tutto sembra perdere quel senso di vago conflitto che si era quasi creato precedentemente tra loro due. Ma il figlio torna indietro, riapre la porta con le sue chiavi, spiega trafelato che stava quasi per dimenticarsi di qualcosa estremamente importante. Suo padre appare serio e scocciato, appunta lo sguardo sulla sua faccia, dice che alla sua età è sempre più necessaria la calma, che tutto scorra tranquillo, senza quei fastidiosi problemi che sembrano crearsi continuamente all’interno di quella casa. Il figlio è perplesso, resta immobile, lo guarda. Infine balbetta qualcosa, poi torna ad uscire.  
            Suo padre, durante la quarta sequenza, rimasto finalmente da solo, pensa che forse potrebbe uscire anche lui, se solo potesse, ma quel godersi la casa senza la presenza fastidiosa di quel figlio così incerto su tutto, è proprio qualcosa a cui non può rinunciare. Così torna a sedersi, riprende in mano il giornale che stava leggendo, si piazza comodo sopra al divano, e alla fine si ritrova a pensare che forse la sua vita è ormai ridotta a qualcosa di estremamente essenziale: oscillare tra una legittima richiesta di solitudine, ed una incapacità incombente a provvedere a se stesso senza alcun aiuto; non c’è compromesso tra questi due aspetti, pensa; tanto vale abituarsi.

            Bruno Magnolfi

sabato 22 settembre 2012

Dialogo n. 2. La passeggiata.


            

            In una luce pomeridiana ancora giallastra di sole, ma quasi invernale e ammalata di una leggera foschia, due donne dentro al dipinto sembrano passeggiare assieme ma svogliatamente, come se, ben volentieri, e solo potessero, il loro desiderio più manifesto, almeno in quell’immagine, fosse quello di tornarsene indietro, laddove al contrario proseguono a camminare affiancate lungo una stradina deserta che costeggia dei terreni coltivati e due grandi ville di campagna, che appaiono sullo sfondo, in lontananza. Osservo meglio quel quadro, e vedo che le due donne sembrano stare troppo distanti tra loro per essere amiche, e forse pare ci siano troppi anni di differenza tra loro due per renderle complici. Potrebbero essere parenti che non si sopportano, ad esempio, ma allora perché mai dovrebbero passeggiare insieme, e perché poi dipingerle? Nessuna delle due sembra neppure tentare un contatto visivo, e pare proprio che l’una stia cercando di tenere il più distante possibile lo sguardo dall’altra. La più anziana volge gli occhi ostinatamente di lato, come cercando qualcosa fuori dal quadro, l’altra fissa con attenzione, tenendo leggermente inarcate le spalle, un punto indefinito sul suo cammino, poco avanti ai suoi piedi. Le loro espressioni sono tirate, nervose, sembra proprio abbiano appena terminato di prendersi quasi a male parole.
            Dentro la galleria d’arte mi allontano di qualche passo da quel dipinto, cerco di misurare la luce, le sensazioni d’insieme, le reazioni delle altre persone presenti, ma nessuna di loro pare restare colpita da quella tela come invece capita a me. Infine mi faccio coraggio e chiedo ad un’anziana signora da sola, che sembra osservare di sfuggita il dipinto, che cosa mai possa pensarne. Sembra una persona che se ne intende di cose del genere, così le dico poche parole sottovoce, e resto con curiosità in attesa di una sua cortese risposta. La donna mi guarda, mi studia, sembra che potrebbe cambiare tranquillamente commento in funzione dell’impressione che potrà avere di me. Alla fine dice soltanto: a me piace, con voce fioca, senza aggiungere altro. Certo, rispondo, però quella disegnata là sopra sembra una situazione non casuale, come si fosse voluto, da parte dell’autore, mettere proprio l’accento su un battibecco che è appena avvenuto tra queste due donne, mentre, in qualsiasi caso, loro due quasi si ostinano a voler continuare insieme quella passeggiata, come per conservare, agli occhi di chi potrebbe osservarle, quasi un certo decoro borghese, o forse comportandosi in questo modo soltanto in funzione di un’abitudine quotidiana che magari hanno maturato da tempo.
            E’ vero, dice la signora, però potrebbe anche essere poco grave quel disaccordo: ambedue forse attendono soltanto di lasciar sbollire ciò che hanno appena finito di sostenere, probabilmente si sono dette delle cose importanti, hanno tirato fuori le loro più intense personalità, e magari adesso si comportano in quella maniera soltanto per dimostrare, l’una verso l’altra, che si può vivere e sopportarsi pur conservando opinioni così differenti. In fondo potrebbe essere un buon punto di vista: la tolleranza, la capacità di rispettare l’opinione degli altri pur non condividendola. Va bene, dico io, ma un quadro non può essere la fotografia di una situazione, altrimenti perde valore. Certo, risponde la signora, difatti qua si rimanda a qualcos’altro, che se pur non viene spiegato, risulta talmente complesso da suggerirne, rispetto all’immagine, sia un prima che un dopo. Annuisco con un mezzo sorriso: in ogni caso, riprendo, lo scopo dell’autore mi sembra sia stato raggiunto: l’immagine d’insieme è bellissima, e ci si incuriosisce facilmente dell’atteggiamento di questi personaggi dipinti, non si può fare altrimenti. La ringrazio, dice la donna, è stato esattamente questo il motivo che mi ha ispirata, quando ho deciso di dipingere questo quadro.

            Bruno Magnolfi  

giovedì 20 settembre 2012

Dialogo n. 1. Migliori delle apparenze.


            
            Un uomo, da solo, siede su una panchina di piazza del popolo. Ha un cappello, un soprabito, calzoni scuri, e forse nessuno lo noterebbe, se non fosse che appare impacciato nei movimenti in quanto gli manca una mano. Lo guardo, fingo indifferenza mentre gli passo davanti. Poi torno indietro, con calma; lui mi osserva, incuriosito dal mio comportamento. Buongiorno, dico; certe volte si notano certe somiglianze tra due persone che sembra quasi impossibile non accorgersene. Lui non dice niente, non cambia neppure espressione, si sistema semplicemente il soprabito con l’unico braccio che ha, quasi a mostrarmi la sua distinzione, poi volge lo sguardo da un’altra parte.
 Mi allontano, attraverso la piazza, passo davanti al caffè pieno di gente, mi trattengo un momento per indecisione, infine torno indietro e ripasso dal medesimo marciapiede; lui è ancora lì, mi vede, dice: guardi, non credo mi possa scambiare per qualcun altro, e mostra con determinazione la manica vuota. Ha ragione, dico, ma non ha alcuna importanza, non vorrei importunarla, però mi sembra non ci sia niente di male se le dico che la sua faccia è come se avesse per me qualcosa di familiare, qualcosa che mi pare quasi di conoscere da sempre.
            Si, lo capisco, dice lui, a volte succede, non deve credere che non riesca ad immaginarlo; il fatto è che forse sono proprio io ad essere un po’ prevenuto, mi sembra sempre che chiunque tenti di avvicinarmi, anche chi semplicemente mi passa accanto, mostri per me contemporaneamente sia curiosità che ripulsa, quasi tentasse di ricordarmi la mia menomazione, che ho un braccio solo, insomma, anche se l’incidente che è accaduto a me, in fondo potrebbe accadere a chiunque. 
            Le posso offrire un caffè?, dico indicando il bar, mentre continuo a sostare davanti a quell’uomo. Lui si guarda un attimo attorno, con i modi tipici di chi non si fida, cerca di prendere tempo, forse di inventare una scusa per non accettare. Grazie, dice poco dopo, ma sarà per un’altra volta, adesso vorrei soltanto starmene qui, da solo, a pensare ai miei guai. Va bene, gli dico, e faccio per allontanarmi forse leggermente deluso, ma l’uomo dopo un attimo si alza e mi chiama: senta, dice, non ce l’ho affatto con lei e neanche col resto del mondo, è solo che spesso mi sento a disagio, e a volte non riesco a digerire di dover essere diverso da tutti: mi pare soltanto di sentirmi goffo, e che la mia menomazione generi a me e agli altri soltanto problemi.
            Siamo tutti esseri goffi, dico senza grande convinzione ma soltanto cercando di metterlo maggiormente a suo agio; i segni che ci portiamo addosso sono semplicemente le tracce delle nostre esperienze, gli spiego, e le ferite che abbiamo acuiscono soltanto la nostra sensibilità, forse rendendoci anche migliori. Certe volte forse dovremo dimenticarci di noi, lasciarsi andare alle cose che accadono, ed accettare il confronto con tutti, senza continuamente pensare a noi stessi. Ma lei sicuramente chissà quante volte già sarà giunto alle medesime conclusioni.
            Certo, ha ragione, dice l’uomo; ma adesso non posso ugualmente accettare il suo invito per il caffè: potrei apparirle soltanto privo di personalità, uno che si lascia convincere in fretta da poche parole, e questo non lo vorrei proprio. Però posso fare una cosa diversa: posso essere io ad invitarla per offrirle un caffè, e così, se lei accetta, dimostrerà esattamente ciò che ha appena finito di dire, e in questa maniera potremo sentirci ambedue su una posizione maggiormente unitaria.

            Bruno Magnolfi

lunedì 17 settembre 2012

Senza parole.


            
            Lei, se adesso chiude i suoi occhi, ha la percezione di una lieve luce azzurrina persistente dentro allo sguardo. A loro due piace, quando è possibile, starsene lì, sdraiati, ad ascoltare il chiasso di gente e di rumori di quella strada sotto alle finestre socchiuse, e rimanere in silenzio, come per decifrare un codice confuso, eppure antico e prezioso.
            Lui rilascia le braccia che hanno appena finito di stringere il corpo flessuoso di lei, e lei gli sfiora la mano che trova vicina, intrecciando per gioco le sue dita con quelle di lui. Loro mediamente si vedono una volta alla settimana, in certi casi anche due, e si ritrovano talmente tante cose da dire, da riuscire soltanto a restare in silenzio, per lasciare immaginare tutto quanto di cui non riuscirebbero a parlare in nessuna maniera.
            Lei, in certi casi, per freddo o pudore, si copre con una vecchia trapunta che tiene lì accanto, ed esprime ogni volta un piccolo sospiro per il piacere che prova in quel gesto.
            Lui, probabilmente, se avesse un’impostazione maggiormente maschile, pensa che si potrebbe accendere la classica sigaretta, e divertirsi col fumo nel lasciarlo salire in alto a larghe volute, dentro la stanza; ma lui non fuma, così rimane lì fermo, immaginando semplicemente una piccola nuvola di vapore che scorre con grande lentezza lungo il soffitto. Loro non sanno che significato ci sia nel continuare a vedersi così, però capiscono che devono farlo, indipendentemente da tutti i pensieri diversi che possono sfiorare le loro esistenze.
            Lei a volte lo guarda, ne osserva il profilo come per imprimerselo in maniera indelebile negli occhi e nella memoria, poi sorride di sé, come di qualcosa di cui prova, con spirito infantile, quasi una leggera vergogna.
Lui allora si volta verso di lei, le dice sottovoce che purtroppo deve andarsene, lascia che lei si nasconda nella stanza accanto mentre si veste, poi si stringono un attimo, neppure adesso dicono niente, sono coscienti che non sono riusciti a parlarsi neppure stavolta, ma ci saranno tante altre volte, pensano insieme, ci sarà tutto il tempo che ritengono necessario, un giorno o quell’altro; e poi, quando parleranno davvero e si spiegheranno le cose, dovranno sorridere accorgendosi di saperle già tutte.

            Bruno Magnolfi  

domenica 16 settembre 2012

Ciò che non ci si aspetta.


            

            La chiave, una volta inserita dentro la toppa, nel cassetto della scrivania, girava ancora perfettamente. Il dott. Vincenzo da anni l’aveva tenuta nascosta tra le pagine di un libro posto in alto nella sua libreria, e soltanto agli inizi l’aveva fatta girare qualche volta nella serratura, ma adesso, e da tanto tempo, fingeva regolarmente, persino con se stesso, di dimenticarsi di quella cosa riposta all’interno, anche se in fondo piuttosto importante, comportandosi proprio come se quel cassetto non esistesse neppure. Se ci ripensava non si ricordava neanche per quale motivo avesse acquistato al mercato nero una pistola semiautomatica come quella che teneva custodita là dentro, ma inizialmente si era sentito protetto da quella, capace di difendersi da qualunque sopruso, assolutamente padrone della propria esistenza.
            Praticamente, ne era cosciente, quell’arma da fuoco non aveva mai sparato, neppure una volta, forse ne era persino incapace, magari difettosa, oppure inesorabilmente inceppata da sempre, ma soltanto il fatto di possedere un oggetto del genere, per il dott. Vincenzo, specialmente negli anni in cui si era sentito più giovane, più aitante, facile preda delle passioni, era stato come un considerarsi maggiormente sicuro di sé, capace di sostenere, soltanto per il fatto di custodirla, qualsiasi accesa discussione con quei suoi colleghi di lavoro, per esempio, oppure con i conoscenti al caffè che spesso frequentava, dove certe volte si era messo con un grande impegno a parlare di politica coinvolgendo anche tutti i presenti, e ad esprimere e sostenere pubblicamente e con particolare veemenza le proprie idee.
            Non c’è niente di male, aveva pensato molte volte il dott. Vincenzo: ognuno ha diritto di coltivare un suo piccolo segreto, tenere qualcosa nascosto che riguarda soltanto la sua intimità, che lo rende più forte nelle sue consapevolezze, e poi bisogna sempre fare i conti con un mondo sempre più ostile, che non lascia mai troppi margini alla propria incolumità, è bene averne coscienza, aveva pensato, e compiere anche dei passi in perfetta coerenza con questa idea, secondo lui, era assolutamente legittimo.   
            Non gli era mai neanche venuta la voglia di rivelare questa cosa a qualcuno, e in fondo, pensava adesso, aveva fatto bene senz’altro, perché non si sa mai cosa possa immaginare una persona secondo la quale, pur riponendo in lei tutta la fiducia possibile, un elemento del genere lasci scoprire peculiarità ben nascoste, fino magari a rivelare, proprio di fronte a qualcosa di quel tipo, che custodisce una personalità assolutamente diversa da quella che ti saresti aspettato. Certo, il dott. Vincenzo ne era più che consapevole, quel segreto era qualcosa di suo, assolutamente calato tra le sue cose più intime, ma ciò nonostante la voglia di rivelare a tutti quella sua spudoratezza, era sempre stato senz’altro un elemento in certi casi scarsamente alienabile.
            Con questa consapevolezza, perciò, aveva riposto nella tasca della sua giacca quella pistola, e come in preda ad un colpo di testa che non lasciava grandi spazi al raziocinio, era uscito da casa per recarsi al solito caffè, dove si faceva vedere quasi ogni sera. Era entrato già in preda ad una certa agitazione, che immaginava comunque di riuscire a camuffare, e si era fermato accanto ad un tavolo dove alcune persone che conosceva stavano in quel momento discutendo tra loro con una certa passione. Aveva sorriso, all’inizio; aveva salutato i presenti; aveva ascoltato qualche parola, poi si era lasciato trascinare da quei discorsi in una risata forte e forse illogica, fino a che tutti lo avevano guardato. Era stato allora che il dott. Vincenzo aveva estratto la sua arma da fuoco, e con un gesto lento e ben calibrato, conservando il suo sorriso pazzoide sopra la faccia, si era rivolto la canna alla tempia. Tutti si erano paralizzati, e lui, con indifferenza, aveva premuto il grilletto, ottenendo soltanto uno scatto meccanico senza alcuna detonazione. Allora aveva riso, riso di gusto fino alle lacrime, di fronte a tutti quanti che parevano inebetiti, e in mezzo a quella situazione così assurda, aveva allora sparato contro lo specchio del bar, mandandolo assolutamente in frantumi.

            Bruno Magnolfi         

giovedì 13 settembre 2012

L'altro da sé.


            
            Spesso, se resto seduto su una panchina dei giardinetti vicino dove abito, mi viene voglia dopo poco tempo di alzarmi e di sgranchire le gambe in una piccola passeggiata. Altre volte, mentre cammino lungo il viale che costeggia questo mio quartiere, mi prende il bisogno di sedermi per riposare, limitandomi poi a restare fermo e ad osservare la città attorno a me che prosegue a muoversi e a comportarsi come ogni giorno.
            Guardo le case, le auto, e con attenzione osservo tutte le persone che transitano, e molte volte alcune di loro mi pare perfino di conoscerle, di averle già viste almeno qualche altra volta, chissà in quali occasioni. Penso non ci sia niente di male nell’accorgersi che certe espressioni sono comuni a molti individui, e che alcuni modi di essere spesso fanno parte del bagaglio di tutti, come se ognuno di noi avesse qualcosa che lo rende quasi indistinguibile da chiunque altro.
            Certe volte incontro una persona che immagino abbia all’incirca la mia stessa età, e la vedo muoversi tra il viale e i giardinetti, proprio come in genere faccio anche io. Non ci conosciamo, non ci siamo mai salutati, eppure abbiamo senz’altro molte cose in comune, anche se sono evidenti molti particolari che ci differenziano, per esempio il tipo di camminata, ma anche il modo stesso di guardarci attorno. Osservo quell’uomo, in alcuni casi è lui ad osservarmi, e andiamo avanti così, sfiorandosi ma rimanendo sempre alla giusta distanza.
            Negli ultimi giorni ho preso ad allontanarmi dai soliti luoghi che in genere amo frequentare, e costeggiando il viale ho allungato la mia passeggiata fino ad arrivare dalle parti del corso, dove le strade sono strette e il quartiere è caratterizzato dai molti negozi. Non è la mia passeggiata preferita, però mi ritrovo a seguire, quasi senza volerlo, la stessa persona che sembra abbia i miei medesimi orari, e così, senza neanche pensarci, mi sono adattato a cambiare qualche abitudine. Mi sono anche accorto che in due o tre casi è stato lui a seguirmi, come volesse capire quali siano le mie consuetudini, ma tutto è sempre successo tenendoci a debita distanza, come se tutto accadesse per un puro caso e per nient’altro.
            Oggi ho deciso di portarmi un libretto da leggere, e sistemarmi su di una panchina di legno ombreggiata dagli alberi, per starmene lì senza muovermi, durante tutto il tempo che voglio. Ad un tratto ho visto la solita persona che incontro regolarmente, mentre mi stava guardando come per cercare di capire quali fossero le mie vere intenzioni. Naturalmente ho finto di non vederlo, ed ho continuato a leggere, come se niente fosse capace di distrarmi da quella lettura. Ma lui si è avvicinato, e con titubanza è venuto a sedersi sulla stessa panchina dove stavo anche io.
            Siamo rimasti a lungo vicini, senza dirci una sola parola, ed anche lui ha tirato fuori qualcosa dalla tasca della sua giacca, e si è messo a leggere, proprio come me. Quando ho deciso di andarmene, lui non ha detto niente, forse non mi ha neanche guardato, fingendo una concentrazione speciale in ciò che stava leggendo. Non c’è niente di male, ho pensato, quella persona mi pare di averla vista da sempre: potrebbe essere un conoscente, addirittura qualcuno che conosco da molto tempo, un vicino di casa, un amico, perfino un lontano parente; ma forse è bene, sia per me che per lui, che rimanga semplicemente qualcuno che incontro soltanto per caso.

            Bruno Magnolfi 

mercoledì 12 settembre 2012

Senza alcuna volontà.


            

            La signora Paola è da sola mentre attraversa a passo svelto la piazza del suo paese, e tiene la sua borsa ben stretta con sé, come a voler conservare qualcosa di particolarmente prezioso sotto ad un braccio. Sua sorella maggiore da un po’ di tempo non sta affatto bene, il medico si è espresso spiegando che ha bisogno di riposo assoluto, e lei sia ogni mattina che tutte le sere va da lei a darle assistenza e a sistemare le cose nel suo appartamento: le fa compagnia, sistema e cambia regolarmente quel letto in cui la sorella è stata piazzata, lava e pulisce ogni tanto i pavimenti di tutta la casa, poi acquista le provviste , le medicine e ciò che serve; quindi prepara qualcosa da mangiare per pranzo e per cena, approfittando del fatto che suo cognato è fuori durante tutta la giornata, impegnato nel suo lavoro. Poi, verso la sera, saluta la sorella, si assicura con un’ultima occhiata che tutto sia a posto, e con il medesimo passo con cui si è recata fin lì se ne torna fino a casa sua, ad occuparsi più o meno delle medesime cose che l’hanno tenuta impegnata per tutto quel giorno, accudendo suo marito che torna dal suo lavoro, e cercando di avere un pensiero per ogni cosa.
            Le hanno sempre detto che lei è la sola persona che nella famiglia funzioni da cardine per tenere uniti e solidali tutti quanti, ma certe volte si sente da sola, lasciata ad occuparsi di qualsiasi faccenda impegnativa. Spesso le pare che il suo ruolo sia superiore alle sue energie, ma non ha tempo di pensare a queste sciocchezze, il suo sacrificio è importante, pensa, e va portato avanti sempre con un sorriso sopra la faccia, per non far pesare ad altre persone niente di quello che lei sta facendo. Così tutto quanto procede in questa maniera, almeno fino a quando la sorella maggiore della signora Paola non viene trasferita d’urgenza nell’ospedale di una cittadina vicina, perché ha bisogno di assistenza e cure specifiche, e la signora Paola va con lei, si piazza notte e giorno accanto alla sua camera, e presidia il corridoio per non dare fastidio a dottori e infermieri, accettando di dormire su una vecchia poltrona in un angolo della corsia, e disinteressandosi completamente, da quel momento in avanti, della sua casa, di suo marito e degli altri parenti. Sistema la sua borsa in un armadietto, dimagrisce vistosamente in pochi giorni, ha la faccia perennemente disfatta, e grandi occhiaie di stanchezza disegnano sempre di più il suo sguardo ormai privo di qualsiasi sorriso.
Suo marito e suo cognato vanno da lei, cercano di parlarle, di farla ragionare, tentano di capire che cosa le stia succedendo, ma lei è convinta di ciò di cui deve occuparsi: ormai non sente più alcuna mancanza nella sua vita ordinaria, non le pare che ci sia più bisogno di lei nella sua casa, perciò è inamovibile. La signora Paola, con un’alzata di spalle, sostiene, con chi le fa questa domanda, che il suo compito è lì, che non deve lasciare mai sola sua sorella maggiore, e tutto il resto sono soltanto sciocchezze poco importanti. Anche la sorella, informata di ciò che sta succedendo, non riesce a comprendere cosa mai ci possa essere dietro al comportamento della sorella minore, che cosa le passi davvero dentro la mente. Qualcosa scricchiola con grande evidenza, se ne accorgono tutti, la signora Paola ha già manifestato qualche segno di un sicuro squilibrio, e lei stessa, durante una qualsiasi di quelle mattine, si sente male, e viene ricoverata nel medesimo ospedale dove si trova ormai da più di tre settimane, e a seguito del mancamento di cui è stata vittima, le viene diagnosticato qualcosa di serio che necessita di cure importanti.
Sembra che niente sia possibile recuperare, pensa il marito, e persino la sorella maggiore, che dopo qualche altro giorno viene dimessa da quella clinica, non sa spiegarsi che cosa sia realmente accaduto in quel breve tempo, ma la signora Paola adesso sembra quasi una candela che si sta spengendo con rapidità, e praticamente le sue condizioni peggiorano giorno per giorno. A chi va a chiederle come le vada, con qualche difficoltà adesso risponde: bene, qui non ho niente da fare se non riposarmi; forse non sono neppure più utile a niente e a nessuno, anzi, probabilmente sono per tutti soltanto un ingombro, ma non è colpa mia, le cose certe volte succedono, accadono anche indipendentemente dal resto, perfino senza volerle.

Bruno Magnolfi

lunedì 10 settembre 2012

In accordo (ripresa cinematografica n. 15).


           

            Massimiliano guida la sua auto con prudenza, attraversando quel quartiere cittadino in direzione della sua abitazione. E’ pomeriggio avanzato, e lungo uno dei viali che caratterizzano  quella zona, decide di fermare la corsa e concedersi una pausa, prendere qualcosa da bere e riposarsi per dieci minuti, recandosi in un locale dove è già stato altre volte. Arresta il motore dopo aver accostato la macchina al margine della strada, apre lo sportello dell’auto, scende e lo richiude alle sue spalle con gesto meccanico, senza pensieri; e nello stesso momento in cui mette il piede sul marciapiede una ragazza lo ferma, giusto per chiedergli con un grande e cordiale sorriso se davvero sia lui Ettore Giusti.
            Massimiliano non fa a tempo a rispondere che la ragazza ha già preso la sua mano, la stringe con forza e dice subito, conservando il suo sorriso solare, di chiamarsi Annarita, e nient’altro. Però propone subito con allegria di sistemarsi un momento dentro al caffè lì di fronte, giusto per parlare e accordarsi su tutto. Massimiliano la segue, entra dentro al locale senza chiedersi niente, e si siede dopo di lei davanti ad un tavolino nella saletta del bar. Annarita gli spiega velocemente che non ha mai fatto cose del genere fino ad allora, e che comunque è sua convinzione che certe esperienze prima o poi vadano affrontate, e lei, sostiene pur con un piccolo disagio, è ben contenta di tutto questo, e spera solo che tutto vada a buon fine.
            Massimiliano naturalmente non capisce un bel niente di ciò a cui si riferisce quella buffa ragazza, ma pensa che le spiegherà tutto l’equivoco tra un po’, con calma, e nel frattempo possono bere qualcosa, fare conoscenza; in seguito, pensa, ci sarà tutto il tempo per chiarire meglio le cose. Balbetta qualcosa di nessuna importanza, ordina al cameriere due bibite, dice che anche a lui è la prima volta che gli capita una cosa del genere, e sentendosi contagiato dal sorriso di Annarita, sorride a sua volta senza neppure sapere perché. Lei dice che un paio di anni prima ha seguito un corso per recitare in teatro, e che non le riesce per niente difficile immedesimarsi in un personaggio, così fingere di essere la sua fidanzata alla cerimonia dove lui deve recarsi, non è affatto un problema, basta che qualche parente non inizi a farle troppe domande stringate su loro due e a chiedere cose a cui non sa proprio rispondere.
            Massimiliano ride di gusto, adesso gli è tutto chiaro, e per spingere le cose agli estremi dice: dovrai mostrarti almeno un po’ innamorata, abbracciarmi, guardarmi in una certa maniera e magari allungare qualche bacetto. Certo, dice lei, questa in fondo è la parte più facile; l’elemento più ostico è quando ti chiedono dove ci siamo conosciuti, che cosa abbiamo intenzione di fare, e altre cose di questo tipo, tanto che se non ci siamo accordati perfettamente, possiamo buttare all’aria tutto quanto in un attimo. E’ vero, dice lui, però possiamo divertirci a fingersi sconclusionati, senza idee chiare; ma soprattutto non dobbiamo mai separarci durante la cerimonia, in modo da dire solo delle cose di cui possiamo essere a conoscenza ambedue, e che durante la giornata siano sempre aggiustabili. Perfetto, dice Annarita, allora non abbiamo bisogno di altro, improvvisiamo qualcosa al momento e andiamo avanti così, senza crearci troppi problemi.
            Massimiliano la guarda, e in attimo la sente vicina, come si fossero conosciuti da sempre: gli pare quasi che sia davvero la sua fidanzata, e vorrebbe proseguire a star lì, parlare, continuare ad osservare il sorriso di lei e ad ascoltarla, ma Annarita guarda il suo orologio, dice che adesso deve proprio andare, si alza, e lui non riesce neanche a dirle che non si chiama Ettore Giusti, che non è la persona che immagina, ma intanto lei scrive già il suo numero di telefono su un pezzetto di carta, si appunta quello di Massimiliano, gli stampa un bacio sopra una guancia e gli dice soltanto: ciao, fammi sapere solo il giorno preciso e l’ora in cui dobbiamo vederci, grazie per la bevuta, sono felice di aver fatto la tua conoscenza, e anche se alla fine decidi che non sono adatta per la tua cerimonia, non ha alcuna importanza, chiamami ugualmente, possiamo sempre ritrovarci un altro giorno a bere qualcosa e a parlare di noi, magari senza tutti quei parenti noiosi.

            Bruno Magnolfi

venerdì 7 settembre 2012

La cosa meravigliosa.


            

            Se guardo fuori dalla mia finestra, non credo proprio di fare niente di male, ma c’è sempre qualcuno disposto a pensare che io non abbia niente di meglio di cui preoccuparmi se non della vita che scorre davanti ai miei occhi, e che per tale ragione io sia soltanto un curioso, un impiccione, uno che sa solo prestare attenzione ai fatti degli altri. Lascio correre come sempre le occhiatacce che qualcuno indirizza nei miei confronti, non mi interessa un bel niente quello che pensano delle mie ordinarie abitudini. Apro come sempre i vetri della finestra alla bella giornata, ed appoggio i gomiti sul davanzale, poi mi accendo con calma una delle mie sigarette, e me ne rimango lì a lungo, a prendere nota di come camminano le persone lungo la strada, dei saluti che a volte qualcuno si scambia, delle espressioni che vengono usate per spiegarsi le cose.
            Certe volte si affaccia una donna, sporgendosi da una finestra quasi di faccia alla mia: mi osserva per qualche secondo, scuote uno spolverino dal davanzale, poi rientra in casa, conservando un’espressione seriosa e accigliata, ma senza fare neppure una smorfia. Sono sicuro che lei sia sempre pronta a mettere a punto un giudizio deciso nei miei confronti: pensa di me che io sia un inetto, un povero sciocco che perde i suoi pomeriggi ad osservare le cose degli altri senza combinare un bel niente, però un giorno o l’altro penso che potrebbe anche cambiare opinione.
            Rientro nel mio appartamento lasciando spalancata quella finestra: entra uno spicchio di sole che pare voglia spandersi iniziando dal pavimento per andare a dilagare sulle pareti, sui mobili, fino al soffitto. Mi accorgo che una luce meravigliosa accarezza tutte le cose, e in quel chiarore le ombre appena accennate delle persone che camminano lungo la strada, si delineano stilizzate, quasi scorressero le loro anime sui muri dell’appartamento e in mezzo a tutte le cose. Mi piace quel mondo che viene da me, è come non fossi mai solo, ma non posso far capire a nessuno il mio modo di essere, e forse non mi interessa neppure che qualcuno sia davvero d’accordo con me.
            Mi muovo a lungo per casa, poi torno a guardare qualcosa dalla finestra: qualcuno mi vede, dalla strada mi osserva con curiosità mentre sto lì senza fare un bel niente. Torna ad affacciarsi la donna di fronte a me. Stende uno straccio su un filo tirato tra le due estremità del davanzale, e mi guarda con la medesima espressione di sempre. Buongiorno signora, le dico con un sorriso. Lei si immobilizza, muove lentamente le labbra, risponde: buongiorno, con un tono basso, quasi svogliato. Insisto: ha visto che bella giornata?, le dico; c’è nell’aria una luce forte e trasparente, viene voglia di stare qui fino al tramonto del sole. Lei non dice niente, ma mi osserva con curiosità, forse immagina che io non sia solo strano, ma pazzo. Sta per rientrare, ma io la fermo: lo sa che è la prima persona con cui parlo quest’oggi?, le dico. Bé, anche io, fa lei. Allora mi pare una cosa meravigliosa aver fatto reciproca conoscenza, concludo.
            Lei rientra in casa con un mezzo sorriso, qualcuno sicuramente ha ascoltato le parole che ci siamo scambiati, avranno sicuramente da dire qualcosa di me, inventarsi magari delle critiche nuove, forse, ma a me interessa anche meno di prima. Da ora in avanti potrò parlare tutte le volte che voglio con quella donna, penso; ormai ci conosciamo, abbiamo anche qualcosa in comune, non riuscirà a fingere che non ci sia nessuno nel riquadro della mia finestra, ed io le potrò chiedere come le vadano le cose, che cosa ha preparato di buono per pranzo, e altre cose del genere, e magari in seguito riusciremo ad uscire insieme sulla strada a fare due passi, e a lasciarci guardare dagli altri. Non siamo più soli adesso noi due, questa mi pare la cosa importante.

            Bruno Magnolfi

giovedì 6 settembre 2012

Lo sconosciuto (profilo n.21).


            
            Evaristo Gennai, aveva detto una voce per me sconosciuta di là dalla soglia di casa; apra la porta. Sull’immediato, colpito dal tono e da quelle parole, ero rimasto fermo e in silenzio, come per fingere di non trovarmi neppure nel mio appartamento, ma poi, riflettuto che non avevo fatto mai niente per cui temere qualcosa, mi ero alzato lentamente dalla mia sedia e avevo raggiunto con calma il piccolo ingresso, dove avevo risposto, pur con voce poco marcata: chi lo desidera?
            Ho bisogno di lei, aveva insistito l’uomo fuori dalla porta ancora ben chiusa, senza che questa sua frase spiegasse un bel niente circa il motivo per cui io avrei dovuto ascoltarlo o magari farlo entrare nella mia casa. Così avevo pensato di porre una nuova domanda più circostanziata a proposito dei motivi che avevano portato quella persona fin lì a disturbarmi, ma all’improvviso, con determinazione, chiesi soltanto: e che cosa vuole da lui?, mostrando in questa maniera che non ero disposto a lasciarmi intimorire da un qualsiasi sconosciuto.
            Ho da farle vedere qualcosa, disse quell’altro, sempre che lei sia davvero Evaristo Gennai, e non qualcun altro. Io sul momento ebbi un dubbio: sul mio campanello, che peraltro il tizio lì fuori non aveva suonato, c’era riportato con una certa chiarezza il mio nome, e a meno che si sospettasse abitassero in quella casa altre persone, era difficile pensare che io non fossi il vero Evaristo Gennai. Ciò nonostante dissi in fretta: abita qui Evaristo Gennai, ma non credo che lui la conosca, e tutto sommato immagino che potrebbe benissimo fare a meno della sua conoscenza. Non gli pare di aver bisogno di niente, tantomeno di qualcuno che viene a importunarlo con questa maniere per qualcosa di cui probabilmente non gli interessa un bel nulla.
            Comunque, avevo ripreso dopo una pausa, se ha qualcosa da dire, la dica adesso e anche in fretta, e sia convincente fino al punto da farsi aprire la porta, perché in caso contrario il tempo a sua disposizione è finito, e questa porta non verrà neppure socchiusa. Mi ritenni immediatamente soddisfatto della mia tirata, e con questo immaginai immediatamente che l’altro, così com’era arrivato fino su quel pianerottolo, se ne sarebbe andato senza aggiungere altro, e quindi tornai nella mia stanza per riprendere il posto a sedere che avevo all’inizio. Sentii scartocciare qualcosa, quindi la persona che stava là fuori si decise a premere brevemente il mio campanello. Troppo tardi, pensai, ormai la frittata è già fatta, così non mi mossi minimamente da dove mi trovavo. Infine non sentii più alcun rumore proveniente dal pianerottolo, e così mi preoccupai di altre cose, per finire col mettermi a rileggere un articolo su una vecchia rivista.
            Trascorse del tempo, e probabilmente dopo almeno un’ora abbondante, sentii il bisogno di uscire a prendere aria. Indossai con tranquillità la mia giacca, presi le chiavi di casa e mi incamminai, scendendo con attenzione le due rampe di scale del piccolo condominio in cui abitavo da sempre, raggiungendo subito il marciapiede e la strada. E’ lei Evaristo Gennai?, chiese un uomo che non avevo mai visto, mentre rimaneva fermo lì accanto. Io lo osservai, riconobbi in lui la voce di prima, ebbi quasi un sussulto, ma ciò nonostante tenni ancora la mia posizione: no, mi dispiace, dissi; non lo conosco neppure; e con ciò me ne andai.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 5 settembre 2012

Scena n. 25. La solitudine dell'attore.


            

            Volete finirla di trattarmi come un idiota?, aveva detto quasi urlando l’attor giovane mentre stava in piedi sul palco. Se non altro aveva immediatamente ottenuto quasi il silenzio da parte di quella dozzina di suoi colleghi, che durante una piccola pausa delle prove per la commedia che sarebbe andata in scena la settimana seguente, stavano praticamente scagliandosi a parole gli uni contro gli altri, addossandosi la colpa di qualcosa che, secondo l’opinione del regista e di un paio di suoi accompagnatori, non stava dando i risultati sperati. C’era stata addirittura una nota di dolore nell’espressione del giovane attore, proprio nel momento in cui non era più stato capace di trattenersi, quasi una voglia incontenibile di piangere, e questo fatto aveva mostrato con chiarezza la fragilità della sua persona.
            Tutti gli altri attori si erano fermati ad osservarlo, pareva quasi che avesse detto qualcosa di assurdo, e probabilmente ciascuno di loro aveva pensato di non avere alcuna responsabilità diretta in quello che stava accadendo; sembrava all’improvviso che qualcosa sul palco si stesse rompendo, qualcosa che mostrava evidenti le invidie, i sotterfugi, le simpatie di comodo, che pur avevano continuato a serpeggiare tra tutti gli addetti durante quelle giornate di prove, ma di questa situazione nessuno aveva voglia di sentirsi minimamente responsabile, tantomeno avrebbe voluto essere incolpato di ordire macchinazioni ai danni di quello o di quell’altro. Con questa uscita, adesso, pareva quasi che quel clima di forte collaborazione, auspicato dal regista, ma portato avanti da subito come una semplice apparenza per tutto quell’intero periodo di prove, fosse in questa maniera messo del tutto in disparte. Sembrava proprio che ognuno, da quel momento in avanti, dovesse porsi scopertamente sulla difensiva rispetto ai colleghi, senza più cercare contributi o soccorsi.
            Non mettiamola troppo sul tragico, aveva detto a bassa voce il protagonista principale della commedia, come cercando di parlare a nome di tutti ma senza neppure mostrare una grande convinzione in ciò che diceva. Si era avvicinato così all’attor giovane, che intanto stava fermo, voltato verso il fondale del palco, come alla ricerca di quella calma che gli era sfuggita, e stendendogli un braccio sopra le spalle, con un gesto un po’ paternale, gli aveva sussurrato qualcosa all’orecchio, cercando probabilmente di riprendere il controllo della situazione. Due attrici minori intanto si erano spostate in un angolo per confabulare qualcosa, ed anche il regista, poco distante dallo scenografo, si stava lasciando consigliare da coloro che sedevano vicino al suo fianco.
            Infine l’attor giovane aveva detto qualcosa: scusate, quasi balbettando; mi sono soltanto fatto prendere dai nervi. Il regista a quel punto aveva detto a voce alta che le prove sarebbero riprese un’ora più tardi, e tutti avevano cominciato ad abbandonare quel palcoscenico. Nessuno però sembrava aver voglia di farla passare liscia a quel giovane attore: come si permetteva, lui che aveva ancora tutto da apprendere, di fare delle uscite del genere? Gli attori più anziani scuotevano la testa mentre lasciavano il palco, gli altri gesticolavano con le mani pur mantenendo bassa la voce.
            Infine il teatro era rimasto deserto, persino il regista era uscito, soltanto lo scenografo era rimasto ad osservare qualcosa e a completare lo schizzo che stava tracciando su un foglio. Poi si era alzato dalla sua poltroncina, e aveva visto il giovane attore che si era seduto da solo in platea qualche fila più indietro, come a meditare su quanto era accaduto. Aveva avuto quasi voglia di andare verso di lui, forse dargli un piccolo incoraggiamento, cercare di non farlo sentire così in solitudine in mezzo a quelle belve da cui si doveva in qualche maniera difendere. Ma poi aveva riflettuto che non era il caso di schierarsi da una parte o dall’altra, non era quello il suo ruolo, non faceva parte in nessuna maniera della sua attività; così si era limitato a dare una semplice occhiata nella direzione di quel ragazzo, a sistemare le sue carte, i colori e tutte le matite che si erano sparse, ed andarsene via anche lui, proprio come quegli altri.

            Bruno Magnolfi

lunedì 3 settembre 2012

Soltanto un sorriso.


         

            Certe volte subisco attimi di ansia profonda, come se mi mancasse qualcosa, un elemento fondamentale della mia stessa esistenza. Davanti a me si era seduta una signorina, ed io avevo subito pensato di chiederle qualcosa, porle una domanda generica, sfoderare un qualsiasi argomento per cercare di farla parlare con me, qualcosa che avesse anche la capacità di rendermi interessante ai suoi occhi, magari, di farmi intavolare un buon discorso con lei. Ma nell’immediato non mi era venuto un bel niente, ed ero soltanto stato in grado di inviare uno stupido sorriso verso la faccia di quella ragazza, proprio ed esclusivamente nell’attimo in cui si era seduta, e poi basta, donandole forse un’espressione di garbo, di piacevolezza, di rilassata tranquillità, ma che forse non era riuscita neppure lontanamente nell’intento per cui era stata proposta.
            E’ soltanto un vecchio maiale, doveva aver pensato sicuramente quella signorina mentre si sistemava sulla sua sedia, ed io in questo modo avevo continuato ad osservare senza interesse la rivista illustrata che mi ritrovavo da un pezzo in mezzo alle mani, mentre dentro di me cercavo ancora qualcosa da dire, qualcosa che mi tirasse fuori da quella situazione così imbarazzante. Il motivo per cui ci trovavamo uno di fronte a quell’altra era evidente ed occasionale, non ci poteva unire alcun argomento di qualche rilievo, ed anche facendo ricorso a tutta la mia immaginazione, ogni ragionamento mi pareva troppo contorto per costruirci sopra anche soltanto una frase. Il tempo era bello, per esempio, ma non era neppure il caso di dirlo. Così, poco dopo, mi ero reso conto di non avere niente da dire, niente per cui intavolare neppure una chiacchiera in quella situazione.
            Nella sala d’attesa dell’ufficio ragioneria, d’altronde, eravamo soltanto io e lei, e quella signorina carina, dalla faccia cortese e simpatica - almeno così mi sembrava – pareva talmente riservata e gentile da mettere chiunque avesse davanti assolutamente a proprio agio, e nonostante questo a me non riusciva proprio di dirle qualcosa, neppure una cosa qualsiasi, e più trascorrevano i minuti e più sentivo allontanarsi da me qualsiasi ulteriore possibilità. Pensavo ad un tratto fosse addirittura mio dovere specifico cercare di farla parlare, scambiare con lei magari qualche notizia generica, ed ascoltare infine come estasiato il timbro della sua voce. Ma un teso silenzio regnava nella saletta, e pareva proprio che niente potesse cambiarne lo stato.
            Poi una persona era uscita dall’unica porta che si apriva nella sala d’attesa, oltre quella di entrata, e un impiegato, subito dopo, si era soffermato sulla soglia a guardare noi due, io e la signorina; poi però era rientrato, spiegando: solo un momento. La signorina mi aveva guardato con l’espressione di chi sta per dire a sua volta qualcosa, ma infine non si era lasciata andare neppure ad aprire la bocca, ed io in quell’attimo breve, forse per un gesto eloquente di incoraggiamento, avevo ripreso a sorriderle, immediatamente vergognandomi della mia incapacità di dirle a mia volta qualcosa, anche soltanto un ritardatario buongiorno.
            Per rompere quell’imbarazzo allora mi ero alzato dalla poltroncina di plastica in cui ero rimasto seduto fino ad allora, avevo appoggiato sul tavolinetto da fumo la rivista che avevo rigirato a sufficienza nelle mie mani, e dandomi coraggio avevo spiegato: tocca a me, se non le dispiace. La signorina mi aveva allora osservato con aria grave, come avessi detto qualcosa che fosse del tutto fuori di luogo, ed io avevo provato forte quel senso di ansia che proseguivo a sentire da quando lei era entrata in quella saletta. Così mi ero voltato verso la finestra, avevo finto di cercare qualcosa dentro a una tasca, avevo mosso due o tre passi senza sapere in che punto mettermi, ma alla fine mi ero sentito deciso: scusi, avevo detto, mostrando il sorriso di cui dovevo apparire un grande campione; e con ciò ero uscito, guadagnando velocemente il piccolo corridoio e infine il portone che immetteva alla strada.

            Bruno Magnolfi

sabato 1 settembre 2012

Uno di noi.


            

            Riuscendo ancora a conservare alcuni amici fedeli che mi fanno sapere di tanto in tanto le cose che mi riguardano, so per certo che ci sono degli individui che continuano a cercarmi al mio vecchio domicilio, presumibilmente per propormi, non potrebbe essere altrimenti, qualche nuovo contratto, o al massimo per prendere delle semplici informazioni sulla mia recente attività di autore e scrittore. Naturalmente nessuno di loro sospetta che io sia riuscito a ultimare soltanto un piccolo volume, la cui pubblicazione ha avuto, questo è vero, un certo successo, e che dopo quello, mi sia deciso a non fare nient’altro, e che, terminata quell’esperienza, io abbia smesso del tutto di scrivere.
            Ho sempre sentito dentro di me la determinazione ad andarmene via, fin da ragazzo, andarmene da qualsiasi luogo o città in cui mi trovassi: è qualcosa che fa parte della mia natura, in pratica, un sentirmi permanentemente a disagio dopo essere stato per un po’ in un medesimo posto. Perfino cambiarmi di nome fa parte di questo tipo di fuga da tutto, anche se, certo, per evidenti ragioni, dopo qualche tempo si viene facilmente a sapere verso dove abbia cercato di dirigermi e in quale maniera, e soprattutto sotto che nome mi stia nascondendo. Ma a me non interessa per niente ciò che tutti possono pensare dei miei comportamenti: sono cose mie, rifletto, semplici forme di esistenza che forse non ricevono apprezzamenti dagli altri, ma che alla fine fanno parte soltanto della mia sfera privata.
            Così certi miei amici mi dicono che in tanti sarebbero pronti ad offrirmi dei soldi e delle condizioni di estremo vantaggio, sotto tutti gli aspetti, se soltanto io tornassi indietro rispetto alle mie decisioni, magari riprendendo ad abitare la mia vecchia casa, ma soprattutto ricominciando a scrivere un libro; sostengono questi che sarebbe un successo sicuro, basterebbe soltanto facessi avere, a qualche professionista dell’editoria, l’incipit di un nuovo romanzo, o almeno a grandi linee del progetto di questo, oppure di un racconto pur breve, ma esaustivo della mia voglia di scrivere. 
Ma a me non interessa: ciò che avevo da dire e da scrivere l’ho fatto, e si può trovare e leggere ancora; andare avanti in quella maniera per me non è proprio il caso: non ho mai avuto la stoffa della scrittore, dico sempre a chiunque mi interroghi su questo argomento, figuriamoci dover affrontare delle serate costruite di proposito per promuovere qualche nuova edizione, o dover partecipare, in qualche libreria sparsa in chissà quale città, ad assurdi dibattiti sul lato oscuro del protagonista del mio nuovo romanzo, e rispondere alle domande del pubblico soltanto per invogliarlo a comprare qualche copia del libro. No, non fa per me; anzi, mi diverto addirittura a pensare qualcosa del genere, adesso che mi sembra un’assurdità, un qualcosa che non sta più in nessun modo nelle mie corde, come spesso si dice oggigiorno.  
Rimango solitario in questo paesino dove non mi conosce nessuno, e dove, nella bottega dei generi alimentari, si rivolgono a me in questo modo: buongiorno dottore; proprio a me che appena è riuscito di diplomarmi; ma lo fanno con semplicità, come probabilmente direbbero per rispetto a qualsiasi forestiero fosse arrivato fin qui. Non mi chiedono niente, nessuno di loro, però mi guardano, curiosi, osservano con attenzione le espressioni che assumo col viso e con le mani, perché a loro basta, sanno perfettamente che ad uno che viene da fuori e che ha una faccia come la mia, è naturale non chiedergli niente: ha sicuramente un passato alle spalle, ma è qualcosa di cui non vale la pena neanche parlare, pensano tutti; come d’altra parte tutti noi ne abbiamo uno, è normale, pensano ancora; e non ci vorrà neppure troppo tempo affinché, anche senza averci detto chi sia veramente, questo straniero diventi, con semplicità e con una grande naturalezza, proprio uno di noi.

Bruno Magnolfi