giovedì 30 luglio 2009

Giorno di pesca.

            

            Non era ancora l’alba quando il pensionato era uscito da casa, ma si era alzato dal letto già da parecchio tempo, dilungandosi nel preparare le ultime cose che gli potevano servire, e cercando di riempire con qualcosa da fare quella fase della notte che sempre più negli ultimi tempi, gli era diventata odiosa e insonne. Fuori l’aria era quasi fredda nonostante fosse estate, e lui aveva preso la sua bicicletta agganciata in alto dal rimessaggio sul retro, l’aveva appoggiata con le ruote a terra sul piazzale davanti casa sua, poi si era incamminato senza fretta lungo la strada verso il fiume. Gli animali chioccolavano nell’avvicinarsi calmo del giorno, e qualche merlo già aveva preso a fischiare mentre cercava vermi e cibo da portare alla nidiata; la bicicletta del pensionato invece aveva un rumore ritmico ogni volta che si completava un giro di pedali, una specie di scricchiolio della catena, monotono e rassicurante, proprio come le gomme delle ruote quando scoppiettando muovevano leggermente la ghiaia di quel viottolo. Il fiume non era lontano, ma per arrivare al posto dove lui desiderava mettersi a pescare, c’era da proseguire per un bel pezzo lungo la riva sinistra. Non era la prima volta che andava fino là, gli piaceva al pensionato quella specie di piccola spianata verde d’alberi e cespugli, era un punto dove il fiume girava e la profondità dell’acqua, facendosi maggiore, calmava la corrente, lasciando che i pesci più grossi si aggirassero in quei pressi con  lentezza e con tranquillità maggiore. A lui piaceva pedalare con calma dentro a quel rimasuglio di nebbiolina notturna, procedendo, metro dopo metro, assieme a quei leggeri suoni della natura, come fosse lui stesso una parte dell’insieme, ed era forse l’ora del giorno che preferiva per fare delle cose, mettere mano a un progetto o ad un’idea, ascoltare l’alba che nasceva, tutto, fuor che starsene nel letto o in casa, avanti e indietro senza riuscire mai a combinare niente. La strada era lunga e dopo poco si sentì già stanco, così si soffermò un momento su un lato della strada mettendo un piede a terra, e interrompendo il ritmo monotono della catena. Forse non aveva neppure voglia di andarsene a pescare, alla fine gli bastava anche stare lì, sentire i merli dentro ai cespugli, respirare l’aria ferma, non aveva bisogno di nient’altro. Pensò in un attimo che tra qualche tempo forse sarebbe morto, l’età cominciava ad esserci tutta, e forse ancora prima di quel momento si sarebbe trovato nelle condizioni di non poter più andare con la bicicletta fino là, dove adesso gli piaceva ritrovarsi. Era una condizione a cui doveva pensare, piuttosto che far finta di essere eterno e che niente potesse mai interrompere quelle piccole cose che davano sapore alla sua vita. Annusò la campagna, gli alberi verdi, l’erba umida lungo le banchine, e il fiume lento che ruscellava ormai poco distante. Rimise i piedi sopra ai pedali allora, con un nuovo sorriso sopra al viso che gli veniva dal profondo, e senza più indugiare ancora, si affrettò a raggiungere la sua radura per la pesca.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 29 luglio 2009

Sarà di giovedì.



            Sarebbe stato il giovedì il mio giorno preferito per la fuga. E’ del tutto evidente che con ogni probabilità non sarei mai fuggito veramente, non ce l’avrei mai fatta ad allontanarmi dal luogo dove avevo impostato la mia vita, dove vivono ancora adesso i miei amici, i miei pochi parenti, dove è posata la tomba dei miei genitori, però era bello ogni tanto pensarci, prevedere nel proprio futuro una possibilità di quel genere. In fondo, a volte pensavo, cosa mi interessa della vita che conduco, spesso mi sembra una sequenza di cose già fatte, come un film in bianco e nero proiettato talmente tante volte da apparire logoro, desueto, buono solo come reperto di un epoca, dei costumi di povera gente ridotta a divertirsi di niente e a vivere di nulla, dentro a una monotonia superiore alla sopportazione ordinaria. Ridevo a volte di me e delle cose di ogni giorno, con una risata che finiva quasi in un singhiozzo. Gli amici con i quali qualche volta mi ero lamentato nel solito bar di ogni sera, mi avevano detto che forse ero matto, come potevo aspettarmi in un paese come il nostro, dicevano, qualcosa di diverso se non quell’andamento monotono e indolente, quel ritrovarci rituale nei soliti posti a fare e a pensare le solite cose di sempre? Secondo loro era impossibile e stupido cambiare, tanto valeva farci la bocca, e cercare di approfittare del meglio di quella fornitura, prima che la vecchiaia ci avesse tolto anche quel poco di cui riuscivamo ancora a divertirci. Ma io non riuscivo a rassegnarmi, così di nascosto sognavo di andarmene, senza salutare, senza lasciare niente alle mie spalle, se non il ricordo di me per chi avrebbe voluto ricordarmi; nient’altro. Non avevo alcuna idea di dove sarei potuto andare via da lì, ma anche questo faceva parte del mio gioco: prendere e andarsene, questa era l’idea, senza preavviso, senza alcuna preparazione, magari uscendo ancora sporco dal lavoro, senza valigia, senza soldi, andarsene via così, esattamente come mi trovavo, in un momento qualsiasi di una qualunque giornata, di giovedì. Probabilmente, pensavo, avrei raggiunto un posto di mare, mi immaginavo di sbarcare nella tranquillità di un qualsiasi paesino sulla costa dove avrei potuto ricominciare da capo qualche cosa, senza preoccuparmi di dover dire che ero e del perché mi trovassi lì. Una scelta, era quello il mio sogno, la mia fissazione ormai, ed era così radicata dentro di me, da farmi sentire meglio ogni giorno, come una certezza che non delude, un’idea che puntella la giornata, ad evitare che ne crollino le strutture principali, quelle portanti, quelle che ti danno la possibilità di sentirti ancora una persona, in luogo di paragonarti a un vegetale. Invece i giorni continuavano a scorrere sopra ai calendari, e niente succedeva, né a me, né a chi mi stava attorno. Quando andai via veramente fu del tutto diverso da come me lo ero immaginato. Non provai emozione, perché quello era solo il completamento di tutto il mio pensiero, e tutto scivolò via come lubrificato. Trovai il mio posto, quello che avevo cercato dentro di me, nel mio scavo interiore, raggiunsi la costa, e il mare, e tutto quello che mi apriva ancora i sogni e riusciva a far volare alti i miei pensieri, e poi non fu così difficile, e venni accolto, trovai nuove persone, gente che poteva voler bene anche a un relitto della vita come forse ero diventato, e riuscii a sentirmi bene, a posto, lontano da tutto quello che avevo voluto fuggire. Però non fu di giovedì.

            Bruno Magnolfi


martedì 28 luglio 2009

Un rischio accettato.



            I tre ragazzi avevano bevuto già alcune birre con doppio malto prima di salire sopra la macchina. Era un venerdì sera, per certi versi un giorno qualsiasi, per altri una serata speciale, di quelle da divertirsi per forza. Lorenzo stava dietro, i suoi due amici riuscivano ad essere più estroversi e simpatici, si facevano venire delle idee irripetibili, soprattutto avevano sempre una direzione dove dirigersi, dov’era in città un posto che faceva per loro. Lui metteva la faccia in mezzo ai sedili anteriori, e si gustava i loro commenti su tutto, le loro battute a getto continuo, il loro fregarsene di qualsiasi divieto, come se per gustarsi davvero la vita ci fosse bisogno di sentirsi un po’ oltre, fuori dai meccanismi assodati, via da qualsiasi consuetudine. Fecero un giro lungo i viali mentre davanti armeggiavano con lo stereo dell’auto a tutto volume. Si fermarono a un chiosco dove c’era sempre qualcuno, scambiarono qualche battuta con il tizio che preparava i frappé, distribuiva gelati confezionati, e soprattutto derubava i ragazzi con certi succhi di frutta corretti con l’alcool. I tre rientrarono in macchina dopo aver sciolto un paio di pasticche dentro una bottiglietta d’acqua gassata di cui richiusero il tappo, poi ripartirono al proseguo del giro. C’era altra gente che vorticava lungo i viali, così ogni tanto qualcuno tirava una marcia per levarsi di torno chi stava davanti, e in questo modo, tra un semaforo e l’altro, capitava di raggiungere i cento con i motori mugghianti. Lorenzo qualche volta aveva paura, ma quelli erano amici, “dobbiamo essere solidali tra noi”, dicevano a volte, così nella maggior parte dei casi stava zitto e si lasciava portare dove volevano. Spesso c’erano delle ragazze sui marciapiedi vicini ai locali, così era normale farsi vedere sempre con un po’ più di fretta di quella che effettivamente serviva. Lorenzo ben volentieri sarebbe andato in un bar dove sapeva che in quella serata ci sarebbe stata Laurina, una ragazza che gli piaceva da urlo, ma propri per questo i suoi amici sembravano attratti da tutti i posti possibili che non fossero quello. Alla fine ci andarono, ma ormai era tardi e Laurina non c’era, così presero in giro Lorenzo che non riusciva neppure a farsi aspettare. La serata finì a notte fonda, a chiacchierare di niente, di fronte a un locale ormai chiuso, senza che in fondo fosse accaduto qualcosa, tra gli sbadigli storpiati e gli occhi di tutti che ormai si chiudevano. Lorenzo non era particolarmente contento, però ripeteva tra sé che quelli erano amici, e lui doveva per forza essere come erano loro, non poteva esimersi dal trascorrere quelle serate, anche se a volte un po’ gli pesavano. Qualche volta aveva anche pensato che sarebbero usciti di strada con quella macchina sempre fuori di giri, e quelle pasticche che annebbiavano tutto, o avrebbero sbattuto contro qualcosa, magari senza neanche rendersi conto di quel che facevano, ma anche questo rientrava tra i rischi da correre, era così, non c’era niente da fare, la loro età richiedeva anche questo.

            Bruno Magnolfi


lunedì 27 luglio 2009

Diversi.



            Per telefono il suo amico, senza neanche rendersene conto, gli aveva detto una cosa terribile: “…Germano, non si può essere diversi da come siamo davvero…”, e lui aveva iniziato a pensarci, appena chiusa la telefonata, a scavare dentro di sé. Di fatto Germano aveva sempre cercato di essere un po’ differente da come lui si vedeva, aveva costantemente riscontrato dentro di sé una miriade di difetti, avrebbe voluto essere più incisivo con gli altri, più determinato nel dire le cose, e più fermo nei propri propositi. Non l’aveva mai pensato sotto questa luce diversa, ma in tutti i suoi anni lui aveva sempre cercato di cambiare in qualcosa, magari rodendosi il fegato o cercando di rifarsi a qualche modello, meno che accettarsi per quello che era. Forse era proprio lì dentro l’errore iniziale, così era uscito di casa cercando di convincersi che tutto andava bene così, non c’era bisogno di variare niente di sé. Ma gli tornava difficile adesso alienare il suo modello autocritico, anche perché si sentiva permeato da quel modo di essere, aveva sempre pensato le cose in quel modo, come si faceva ad essere integri, a convincere tutti e se stessi che le cose erano a posto, che non ci sarebbe stato bisogno di altro? Germano poi era entrato in un bar, ma si era reso conto nel giro di poco, che non era sicuro di volere un caffè, un’informazione o una birra, così era uscito in preda ad una specie di panico. Poi aveva pensato ai sicuri di sé, coloro che avevano solo certezze, ne aveva conosciuti diversi anche durante gli ultimi tempi; non gli sembravano persone migliori, però forse quelli non cercavano di variare qualcosa della loro persona, e probabilmente questo li avvicinava ad una sicurezza di sé che assomigliava alla felicità materiale, quella per cui si riscontra che una cosa è solo una cosa, un’idea soltanto un’idea e via discorrendo, senza confondere niente. Avrebbe tanto voluto sentirsi più definito nei suoi modi di essere, avere coscienza di essere utile agli altri, di far parte della comunità degli umani, di sentirsi vicino ai problemi di tutti. Ma più ci pensava più perdeva la capacità di essere certo di qualcosa di sé. Passarono i giorni ed il suo affanno aumentava, non riusciva per nulla ad accettare se stesso, ma comunque metteva le cose, trovava sempre un motivo importante per impegnarsi a migliorare il suo essere, a cambiare i criteri con cui affrontava la vita. Poi, incontrò il suo amico per strada, si videro, andarono incontro l’un l’altro, ma quando furono vicini, Germano disse soltanto: “… scusa, non ho tempo per te, adesso…”.

            Bruno Magnolfi


domenica 26 luglio 2009

Una relazione difficile.


            Uscii di casa con la coscienza precisa di non essermi mai mosso, e di essere rimasto lì, a discutere ancora con Manuela. Immaginavo senza sforzo quello che ancora avrei potuto dirle, e con la stessa facilità tutto ciò che probabilmente lei avrebbe risposto. “Sei assente con me, nella nostra relazione. Ti sei abituato ad avermi attorno, come ci si abitua a fare ogni giorno meccanicamente una stessa cosa, senza metterci più alcun impegno, senza passione, senza amore, niente…”. Era lì il problema. Era vero quello che diceva Manuela, ma per me l’amore era esattamente quello, difficile spiegarlo: abituarsi talmente tanto l’uno all’altra da non dover più scegliere e soffrire, ma far conto sempre su quella presenza, su quell’appoggio, quella stabilità di cose. Manuela era capace di perdere la testa per un’idea, per una voglia improvvisa, per una convinzione, le sfuggivano altre cose, ma era quasi impossibile renderle presente quali fossero. Certe volte la convinzione che qualcosa sia in un modo e non possa manifestarsi in nessun altra maniera è talmente forte da levarci la vista. Per me era sempre stato diverso, ma spesso il mio dividere le mie convinzioni in variate possibilità da prendere in considerazione prima di decidere qualsiasi definitiva scelta era tale, da portarmi ad apparire un ambiguo, poco deciso, privo di qualsiasi punto fermo. Anche il mio uscire di casa, quel giorno, era solo una cosa tra tante. Non avevo sbattuto la porta, non avevo tirato fuori una frase ad effetto prima di andarmene; avevamo discusso, io avevo detto qualcosa, poi ero rimasto in silenzio come attratto da qualcosa che andavo cercando, un tassello perduto nel mosaico del nostro conoscerci a fondo, da così tanto tempo da essermi dimenticato com’era stato all’inizio, quando lei diceva che era tutto diverso, e sentiva arrivare da me un amore che adesso era andato. Come si fa, pensavo, a rimanere sempre gli stessi? Indipendentemente dalla coerenza, la nostra natura ci fa trasformare, trovare nuovi elementi sulla strada che continuiamo a percorrere, non può essere diverso. Fumai una sigaretta passeggiando e continuando a pensare, ma non riuscivo a trovare alcuna soluzione per tornare da Manuela e dirle qualcosa che schiarisse i nostri rapporti, ci rendesse più comprensivi l’uno dell’altra, ma ero convinto non ci fosse alcuna maniera per sciogliere il nodo; così rientrai in casa, guardai Manuela seduta su una poltrona e dissi soltanto: “lasciamoci”, e quella parola mai fino ad allora affrontata, sciolse come d’incanto i nostri malesseri.

            Bruno Magnolfi


venerdì 24 luglio 2009

Solidarietà.



            Le due donne non si conoscevano, e si erano recate in quel centro commerciale per ragioni diverse. Elena non voleva farsi trovare in casa quando sarebbe tornato suo marito, era in collera con lui, e da un po’ di tempo le cose tra loro non andavano bene. Franca invece aveva solo voglia di vedere un po’ di gente, farsi un giro senza impegno e sperare di incontrare qualcuno da salutare. Ambedue avevano girato tra i tanti negozi della galleria, erano entrate a provarsi una gonna o una camicetta, poi si erano trovate vicine quando il ladro era uscito di corsa dal Computer Center. Era assurdo rubare qualcosa là dentro, lo sapeva anche un bambino, c’erano gli allarmi, le guardie private, tutta la gente, era impossibile uscire da lì indenni. Eppure era successo, e quando quel ragazzo, con in tasca semplicemente un telefono, era inciampato nella foga di correre, si era trovato a rotolare per terra proprio sui piedi di Franca. Lei si era chinata, lo aveva guardato per una attimo in faccia, poi gli aveva teso una mano per aiutarlo a rimettersi in piedi. La guardia era arrivata trafelata dopo un minuto, ma in mezzo a tutta la folla non si era resa conto che il ladro era lì, e aveva continuato a cercarlo più avanti, forse sperando che qualcuno lo avesse fermato. Elena, accanto, aveva visto tutta la scena, e si era avvicinata ancora di più cercando di capire che cosa accadesse e come mai quel ladruncolo non veniva consegnato alla guardia. Le due donne si erano date soltanto un’occhiata, forse trovando un’intesa, mentre il ragazzo, con i capelli leggermente arruffati, mostrava un’espressione del viso talmente spaurita che era impossibile non avere pena per lui. Intanto altre persone stavano accorrendo, e le due donne, senza neppure parlarsi, avevano preso sottobraccio il ragazzo con il fare più naturale del mondo, allontanandosi con calma da lì. “Ma cosa hai rubato?”, chiese Elena sottovoce al ragazzo, quando furono in una zona tranquilla, e lui, che probabilmente adesso era preda della vergogna, si mise a piangere lentamente, coprendosi il viso con una mano. Arrivarono così fino alle porte scorrevoli, e il ragazzo, senza dire parola, se ne andò a passo svelto per conto proprio, perdendosi in mezzo allo sterminato parcheggio per auto. Le due donne allora si presentarono, si sentivano accumunate da qualcosa, ma il loro imbarazzo era forte, così non riuscivano a trovare l’argomento più adatto per potersi spiegare. Certe volte all’interno di una qualunque persona convive un istinto superiore a qualsiasi volontà razionale. E’ difficile manifestare questa proprietà senza condizioni speciali, però in certi casi succede, ed è come un riscoprire se stessi, un trovare dentro di sé qualcosa che fino ad un attimo prima non era ritenuto possibile. Elena e Franca guardandosi si sentivano migliori di quello che avevano pensato fino ad allora ognuna di sé: non era soltanto la solidarietà con un ragazzo che non sa neppure cosa sta combinando, era qualcosa di più; era la coscienza secondo la quale decidere in qualsiasi momento dove sta la linea di discrimine tra ciò che è importante e ciò che invece non lo è affatto. Troppo tempo, sembravano dirsi, avevano trascorso loro due a confondersi con luoghi comuni, consigli di altri seguiti alla lettera, comportamenti e pensieri normali per persone che da adesso non si sentivano più. C’era altro da fare e pensare, e da quel momento sapevano che dipendeva da loro. Poi le due donne risero quando decisero di prendersi assieme un caffè dentro al bar del centro commerciale. Non c’era niente di male in tutto quel loro percorso, forse ogni cosa deve essere raggiunta solo con uno sforzo o con un sacrificio che spesso spaventa, ma a volte la solidarietà è superiore a ciò che si immagina, e adesso ne erano pienamente coscienti.

            Bruno Magnolfi


giovedì 23 luglio 2009

Solo un bacio.



            L’espressione dolce della ragazza in quel contesto appariva terribile. Per lavoro lui era costretto a transitare spesso lungo quella strada statale, serpeggiante nella vegetazione del bosco tra due paesi vicini. Aveva notato quella ragazza perché non si poteva fare a meno di avere lo sguardo attratto da lei. Certi giorni portava dei vestiti quasi eleganti, ricercati, per colore e per foggia, che a lei stavano bene, a volte con delle vistose collane, con dei foulards, dei cappelli, si vedeva che all’abbigliamento ci teneva parecchio. Quando era lì, sempre al suo solito posto, una piazzola vicino alla strada, piena di alberi verdi, appartata, stava molto spesso al telefono; però continuava a guardare la strada, a farsi notare da chi transitava, in fondo faceva parte del suo lavoro, ma senza mai fare un gesto, un accenno, nemmeno un sorriso, a chi le passava davanti, come se fosse impassibile, sempre con la stessa espressione. Lui non aveva mai neanche rallentato passando con la sua macchina, però era rimasto attratto da quella figura, fin da quando l’aveva vista per la prima volta, oltre quel margine consueto di strada, monotono e senza particolari di sorta se non fosse stato per lei, così al di fuori della norma corrente, così bello il suo viso e pesante la sua condizione da fargli desiderare col cuore di non vederla di nuovo, la volta seguente, in quella piazzola. Invece, quando poi si ritrovava a passare, lei era lì, anche se aveva notato ci stava soltanto per qualche ora del giorno, e poi basta. Una volta, passando, lui le aveva fatto un timido gesto con una mano, giusto un saluto, nient’altro, e lei gli aveva risposto con lo stesso identico gesto. Lui non aveva mai pagato l’amore, rifiutava persino l’idea, la sua distanza di principio con quella ragazza era forte, eppure gli sembrava che qualcosa li unisse, come se dentro quel gesto ci fosse un’intesa superiore ai loro diversi destini. Aveva continuato a passare, ogni volta, e ogni volta a rivolgerle lo stesso saluto, a cui lei rispondeva, come per un’amicizia assodata, adesso aggiungendo un leggero sorriso. Si sentiva ridicolo, gli pareva tutto un assurdo vorticare dei tempi che masticavano persone come fossero pezzi di carne dati ad un’orda di lupi affamati. Eppure quel filo che lo legava a quello stupidissimo saluto era per lui diventato importante, più di tante altre cose. Aveva già pensato più volte di fermarsi con la sua macchina su quella piazzola, chiedere a quella ragazza il suo nome, sentirne la voce, scambiare con lei due parole qualsiasi e poi via, ognuno per sé, senza preoccuparsi neppure di spengere il motore dell’auto: ma gli risultava difficile, non voleva assolutamente essere scambiato per ciò che non era, gli piaceva la persona, non ciò che faceva. Poi, un pomeriggio diverso dagli altri, lei era da sola, e lui accostò la sua macchina. Lei lo vide, lo riconobbe, ma non si mosse, rimase dov’era, ad una distanza di cinque o sei metri, e indirizzò verso di lui un profondo sorriso. “Ciao”, disse lui, e poi, come se un nodo gli stringesse la gola, non riuscì a dire altro. Allora lei lo aiutò, sollevò la sua mano, senza smettere il suo largo sorriso, e portata la mano alla bocca, fece il gesto di inviargli un suo bacio, con calma, con  tenerezza, forse con una spontaneità che aveva quasi rimosso. A lui non restò altro da fare che rinviarle lo stesso suo bacio, con il medesimo gesto, in un’intesa perfetta; poi, riprese la strada.

            Bruno Magnolfi


mercoledì 22 luglio 2009

In fuga da tutto.



            Dopo la logica euforia iniziale, negli anni ’60, quando fu confermato in paese che in quella zona, assieme al tracciato, avrebbero costruito l’ingesso e l’uscita dall’autostrada, qualcuno comprensibilmente si chiese a chi servisse veramente il casello, visto che in tutta quella parte della provincia abitavano appena poche migliaia di persone. Però ci si era abituati quasi subito a quella novità positiva, e Renato, che aveva fatto domanda per lavorare al casello come esercente, fu felice più di ogni altro quando seppe di essere assunto in quel posto di lavoro così vicino al paese. Rispettavano i turni, lui e i suoi colleghi, lavorando a volte di giorno e a volte di notte, perché il casello era sempre in funzione, anche se erano pochi i veicoli in transito. Per questo motivo Renato certe volte si portava qualcosa da leggere nella sua cabina di vetro; poi, quando arrivava un veicolo, si faceva consegnare il biglietto, prendeva i soldi relativi al percorso, e consegnava il resto con precisione. La maggior parte delle persone che transitava era gente del suo paese, li conosceva, così certe volte scambiava un saluto o due parole di corsa, ma il resto del giorno era monotono e basta. Di notte poi era anche peggio. In una rotazione completa passavano si e no trenta o quaranta veicoli, e tutto quel turno senza far niente era lungo, infinito. Poi, quella volta, alle due della notte, arrivò una macchina bianca. C’era una donna all’interno, che tirò giù il finestrino, lo guardò, poi gli chiese se poteva aiutarla. “Certo”, disse Renato, e lei uscì dal casello, parcheggiò in una zona dove la sua macchina era poco visibile, e poi si gettò nelle sue braccia, come fosse il suo salvatore. Disse di chiamarsi Fernanda, che dietro di lei c’era un uomo crudele, che la inseguiva, ma lei non voleva più avere a che fare con quell’uomo senza cervello. La nascose lì dentro, Renato, in quella sua cabina di vetro, facendola sedere per terra e continuando imperterrito con il suo lavoro. Dopo pochi minuti arrivò quell’uomo che Fernanda gli aveva descritto, si guardò attorno, poi gli chiese qualcosa, ma Renato fu pronto a rispondergli che non era passata da lì nessuna donna sopra ad una macchina bianca. Quando rimasero soli, lui e Fernanda, parlarono a lungo delle loro esistenze, e quando il suo turno di lavoro al casello fu terminato, se ne andarono assieme verso la sua abitazione, al paese vicino. Si misero assieme, lui e lei, da quella notte in avanti e senza porsi troppe domande, e Fernanda in capo ad un mese pareva perfetta nel ruolo in cui si era trovata. Renato viveva per lei, e tutto era quasi un miracolo di quell’autostrada. Poi, una volta, dopo un altro turno di notte, Renato tornò a casa e Fernanda non era più lì; non ci furono drammi, Renato non si mosse per andare a cercarla: pianse, si sentì disperato, ma fu cosciente che quel che era successo era una cosa ammissibile, quasi prevista tra le cose possibili. Nel suo paese, per tutti, lui era solo il casellante dell’autostrada, nient’altro, m lui si sentiva migliore di quel ruolo che si era trovato, e soprattutto superiore a qualsiasi possibile critica che gli avevano mosso i suoi compaesani e che in seguito avrebbero saputo gettargli dietro le spalle. Perciò, quando l’orario di inizio del turno lo riportò al suo casello, e lo inchiodò dentro alla sua cabina di vetro, lui riprese come niente fosse successo il suo lavoro, ma cominciò fin da allora a sperare di rivedere Fernanda, per darle ancora una mano, sperando con tutte le forze che aveva, che lei ancora una volta passasse da lì, a chiedere ancora il suo aiuto, perché lui sarebbe stato pronto di nuovo, in qualsiasi momento, a vivere ancora per lei, per quella donna qualsiasi, in fuga sull’autostrada di tutti.

Bruno Magnolfi


martedì 21 luglio 2009

Inutile tentativo.



            Durante le ultime ore di quell’estenuante viaggio che gli stava esaurendo tutte le forze rimaste, per resistere aveva cercato di pensare a quando era piccolo, e a suo padre, prima di tutto, prima che gli scontri con le milizie se lo portassero via. Aveva ripensato anche alla casa, la casa di pietre con l’orto e il cortile, agli alberi verdi, alle galline ed ai campi, alle staccionate che nei suoi ricordi delimitavano così bene gli spazi, e poi tutta la campagna d’intorno, a perdita d’occhio. Non sapeva come sarebbe stato il futuro una volta uscito dal doppiofondo del camion, non sapeva neanche cosa avrebbe trovato, forse un lavoro, un amico, un posto dove abitare, però sapeva che tutti quei suoi ricordi d’infanzia, prima che la guerra avesse portato via tutto da lì, da dove lui era nato, ecco, quei ricordi lui avrebbe dovuto scordarli, evitare di pensarli di nuovo, evitare di parlare agli altri di sé, abbassare sempre la testa e affrontare ogni volta quello che gli veniva chiesto di fare, questo era il futuro per lui, senza dubbio, ne era pienamente cosciente. Dentro a quello spazio di ferro erano in tre, e neppure potevano muoversi, schiacciati com’erano, nel buio tra le lamiere del camion; un filo d’aria arrivava da una sottile fessura da un lato, e poi quel rumore assordante e continuo, e le curve, una dietro quell’altra, che continuavano a far muovere il suo stomaco vuoto da giorni, in un desiderio implacabile di vomitare e di fermare quell’assurda corsa nel niente. Assieme alla scarsissima aria da fuori, arrivava l’odore delle strade straniere, odore di gomma bruciata, di asfalto, di gasolio e di terra. Non riusciva neppure più a immaginare se fuori era giorno o se era scesa la notte, l’unica cosa che continuava a martellargli i pensieri erano quelle ruote di camion che sotto di lui avanzavano verso qualcosa di incognito, che rotolavano avanti avvicinandosi sempre di più al momento in cui sarebbe finito quel viaggio pazzesco, quella corsa da clandestini indesiderati da tutti, che potevano solo pagarsi quell’ultimo tentativo e nient’altro nella loro vita rognosa, inferiore a qualsiasi aspettativa di uomini. Quelle ruote andavano avanti, ma forse lui avrebbe voluto fermarle coi suoi pensieri, dire forte nella sua lingua che non era possibile, non poteva essergli toccata una vita di stenti così, un sentirsi preda del mondo e di tutti, non avere nient’altro che vent’anni, una maglietta, dei jeans sopra la pelle, e una faccia che era meglio mescolare da ora in avanti a tante altre facce, una volta arrivati, per non essere differente a quella degli altri, quelli che erano partiti prima di lui e che adesso si erano spersi in quelle terre straniere, e forse con tanti anni di sacrificio erano riusciti a conquistarsi la dignità di extracomunitari buoni, bravi, che non creano complicazioni, ma lavorano e basta, e annullano tutto di sé. Lui non si sentiva così, aveva voglia di vivere, di gridare in maniera esauriente che lui era vivo dentro a quella tomba di ferro, che aveva pensato già tutto quello che aveva potuto pensare, e le sue idee, passate attraverso quelle prove incredibili, adesso erano pronte per tutti, ad essere divulgate tra quanti avrebbero ancora dovuto passare la soglia di quel dolore inumano dopo di lui. Poi si calmava, cercava un respiro che gli riportasse la voglia di vita, di essere vivo, di pensare una semplice briciola di positivo che ci doveva pur essere dentro a quella situazione impossibile. E infine il camion rallentò, lui sentì l’odore forte dei freni in azione, e subito dopo gente che parlava in una lingua che lui non aveva mai conosciuto, e quei bastoni che picchiavano forte sopra alle lamiere che contenevano loro, e alla fine l’apertura del varco che li aveva sepolti per giorni, e la luce diretta, fortissima, e il loro sentirsi quasi incoscienti, imbambolati, privi di qualsiasi possibilità di reagire a quelle domande incomprensibili, assurde, piene di rabbia, di odio senza che loro si sentissero davvero colpevoli, se non di essere lì, ancora vivi. Strattonati, tempestati da mille domande, non avevano più voglia di niente, forse neppure di vivere, ma qualcuno, forse per pietà umana, disse con voce pacata, in una lingua a loro comprensibile, che sarebbero stati rimpatriati di nuovo, che purtroppo non c’era bisogno di loro in quella nazione.


Bruno Magnolfi

lunedì 20 luglio 2009

Di fronte alla strada.



            Quasi ogni giorno, da quasi due mesi, tornando a casa dopo il lavoro trovavo quella donna dall’età indefinita tra i trenta e i quaranta, affacciata ad una finestra del suo appartamento, ad osservare la strada ed il traffico. Era l’inquilina del primo piano di un palazzo di faccia a quello dove si trovava il mio appartamento, la conoscevo solo perché la vedevo dentro a quella finestra, e pur non sapendo niente di lei, non l’avevo neanche mai incontrata per strada, mi ero in fretta così abituato a quella sua costante presenza a quell’ora, verso le sei del pomeriggio, quando abitualmente rientravo, che quando certe volte non c’era, e la sua finestra era deserta, un po’ mi mancava, e la giornata mi sembrava diversa dal solito. Quella donna non guardava mai verso di me, non volgeva lo sguardo dalla mia parte mentre scendevo dall’auto, e poi, quando io, con modi meccanici, prendevo dal portabagagli la mia borsa coi documenti d’ufficio, ed estraevo di tasca la chiave di casa per inserirla nel portone di legno, lei continuava a star là, la vedevo con la coda dell’occhio, intenta ad osservare un po’ tutto e un po’ niente, il via vai della strada e tutto il gran gruppo dei vicini di casa che andavano e venivano per le loro faccende, quasi indifferente a quel traffico che però era la sola variabile nel suo campo visivo. Agli inizi mi aveva dato fastidio, pensavo al suo registro mentale che elencava gli orari di tutti, le loro abitudini, i comportamenti usuali e quelli al di fuori delle solite cose, e a quel suo formarsi poco per volta un’idea precisa e completa di ogni persona che abitava in quel nostro quartiere; ma in seguito mi ero così abituato a quella presenza, che al contrario ero contento se rientrando trovavo quella donna al suo posto, con gli avambracci appoggiati sul davanzale, le spalle e la faccia incorniciate dalla finestra, in mezzo a due piccoli vasi di fiori. A mia moglie le avevo chiesto un volta all’inizio qualcosa di lei, ma mia moglie non l’aveva neanche notata, così parlai d’altro cercando di dare a quell’argomento il valore di niente. Al mattino, quando uscivo di casa, quella finestra era chiusa, però in qualche modo restava il suo sapore in mezzo a quei vasi di fiori, e alle volte mi pareva augurasse una buona giornata, come se una scia di quel suo essere lì in qualche ora del giorno, avesse un messaggio per tutti, spandendo ottimismo, positività, un auspicio di buona giornata. Una sera, rientrando più tardi del solito, quando tutti erano a cena e la strada appariva deserta, mi ero spinto fino a guardare la fila di nomi sui campanelli. Si chiamava Bianchini, avevo scoperto, ma era il suo nome quello che mi sarebbe piaciuto sapere, e sul campanello non c’era. Poi, una sera che avevo festeggiato assieme agli altri in ufficio il pensionamento di un nostro collega, e avevo bevuto qualcosa di alcolico, arrivai a parcheggiare la macchina con un’euforia che raramente avevo provato. Spensi il motore, aprii lo sportello, poi guardai nella direzione di quella finestra. Lei era là, come sempre, e vidi che le era caduto qualcosa dal davanzale, e adesso volteggiava nell’aria, senza che lei si fosse accorta di niente. In un attimo fui sotto a quella finestra, attratto da quella occasione fortuita, raccolsi quel foglio di carta da terra e volsi la faccia verso di lei. Dissi qualcosa, e lei si mosse, rispose, ma senza guardarmi, o almeno non in modo diretto. Mi disse con voce flautata: “…signore, per favore, può portarmi quel foglio fino al portone del mio appartamento, le vengo ad aprire…”. Così io entrai dentro al palazzo, corsi su per quella rampa di scale, arrivai sul pianerottolo, e lei aprì la porta di casa. Non avevo guardato quel foglio, ma mentre salivo ne avevo sentito dentro alle dita una grana formata da piccoli buchi, che ancora non mi avevano aiutato ad arrivare a capire; poi lei fu su l’uscio, e mi guardò a modo suo, senza vedermi, ed io iniziai a percorrere in un lampo tutto il suo tempo passato a quella finestra a interpretare i rumori, a comprendere quel mondo di fuori difficile, estraneo, pieno zeppo di insidie, e restai immobile, senza trovare parole. Avrei avuto voglia di stringerla, di dirle che il mondo era bello solo perché c’era lei, che mi sarebbe piaciuto descriverle con le parole più adatte tutto quello che lei non poteva vedere, che per me non era importante quel suo problema, che era bellissima, che avrei voluto tanto aiutarla, dedicare a lei tutto il mio tempo, tutta la vita, ma riuscii a consegnarle soltanto il suo foglio e poi tornai a casa.

            Bruno Magnolfi


domenica 19 luglio 2009

Nato su Marte.



            A quella festa di compleanno era andato solo perché Marco aveva insistito parecchio, come se mancare per me quella sera avesse significato perdere una grande opportunità nella vita. Conoscevo Marco fin da quando eravamo bambini, e ricordavo picchealtro i suoi atteggiamenti di allora che non avevo mai digerito, pur sentendolo amico, per esempio quando aveva sostenuto che era nato su Marte, o che conosceva la possibilità di trasformare in metallo prezioso qualsiasi cosa volesse. Certo, avevamo forse dieci anni, e nessuno tra quanti eravamo aveva mai creduto a quelle e altre idiozie che riusciva a inventarsi, però i suoi modi di raccontare le cose erano unici, particolari, spesso tirando fuori parole che noi altri non avevano neanche mai sentito prima di allora, e lui con grande scioltezza riusciva a buttarcele lì, come cose qualsiasi, lasciandoci esterrefatti e stupiti, a chiederci dove avesse trovato tutta quella cultura e quelle notizie che parevano venirgli da dentro, senza bisogno di pensare neanche, solo così, per parlare, forse soltanto per spostare un pochino il nostro punto di vista indolente. Con Marco mi ero sempre sentito a disagio, come stare assieme a qualcuno che senza preavviso ti pone domande importanti, su argomenti che non hai mai neanche affrontato, o ti dice cose delle quali non riesci ad avere una qualsiasi opinione, però sa anche aiutarti nei compiti a scuola, e a volte ti regala un oggetto, qualcosa che è suo, che all’improvviso gli diventa superfluo, e tu non ti sentiresti così a posto con lui da poterlo accettare, però non puoi rifiutare qualcosa che ti viene donato in quella maniera, senza alcun sacrificio. A periodi saltuari Marco era sempre tornato a farsi sentire, a chiedere cosa fosse successo mentre lui era all’estero, o impegnato in qualcuna delle sue attività da pazzoide, perso dietro a un’idea o a un progetto di vita; però io alzavo il telefono, e lui all’improvviso era lì, come ci fossimo visti poche ore prima, con quella maniera entusiasta di dire le cose, con le sue frasi leggere con cui mi faceva capire insuccessi o traguardi raggiunti, senza mai dare né agli uni, ma neppure a quegli altri, un valore eccessivo. Poi all’improvviso mi aveva chiamato per quel suo compleanno, di cui io non avevo memoria di averne festeggiato un altro con lui. Mi aveva indicato un locale e un orario, dove mi immaginavo si sarebbero riunite parecchie persone, dove tutto sembrava all’insegna di una festa grandiosa, come ci si sarebbe aspettato da lui. Invece, quando arrivai, mi resi conto che eravamo solo noi due: aveva prenotato un tavolo, Marco, in quel ristorante, e mi aveva fatto sedere di fronte, per guardarmi negli occhi. Mi ero sentito ridicolo con il mio pacchettino regalo e il mio abbigliamento da sera, ma a lui non importava per niente, voleva solo guardarmi, parlare di sé e farmi domande, come sempre aveva fatto, niente di nuovo. Quando uscimmo di lì, pronti per salutarci, disse che sarebbe partito nei giorni seguenti, non ci saremmo più visti, che aveva un tumore, e se lo andava a curare in America, e dovevo salutargli tutti coloro che lo conoscevano. Io ero senza parole, all’improvviso tutta la vita, tutti i nostri discorsi, i tentativi per essere amici erano lì, dentro al pacco regalo che tenevo ancora tra le mie mani, e tutto finiva, prima ancora che si fosse deciso qualcosa. Ma non potevo far niente, era un addio il suo saluto, non c’erano possibilità differenti. Tornava su Marte, il mio Marco, dove era nato davvero, adesso ne ero più che sicuro, e dove probabilmente aveva sempre vissuto.

            Bruno Magnolfi  


            

sabato 18 luglio 2009

La realtà delle cose.



            Alberto era entrato nell’autogrill con la svogliatezza di chi ha fatto passare l’ora giusta per il pranzo, ed adesso non sa più capire se ha ancora fame o sarebbe meglio, persino con se stesso, fingere di avere già mangiato qualcosa, e continuare la sua strada a diritto, indifferente al suo stomaco vuoto. Al contrario, una volta entrato là dentro, quasi per una assodata abitudine che accomunava quasi tutti coloro che per una ragione o per l’altra giravano avanti e indietro per le autostrade di quella regione, si era subito fatto servire un croissant salato al prosciutto, assieme ad un bicchiere di tè freddo al limone. Era stato mentre addentava il primo morso, o forse il secondo, che dal tavolino per le persone di fretta, dove si stava all’impiedi, con il piccolo piano ancora un po’ bricioloso dei passati avventori, nella calma data dalle poche persone presenti in quell’ora di quel pigro pomeriggio appena iniziato, era entrata la coppia. Parlavano molto, però sottovoce, cercavano una cartina stradale che indicasse qualcosa, così si erano subito messi a sfogliarle e a guardarle negli espositori sul fondo. Lei avrà avuto 45 anni, lui forse qualcuno di meno, ma tra i due lei sfoggiava uno stile, nel modo di camminare, nel portamento, nell’espressione del viso, che gettava nell’ombra assoluta il suo sparuto compagno. Ci fu uno scambio di sguardi, con Alberto, quando lei passò davanti al suo tavolino, giusto un momento, ma sufficiente a dare un accento alle cose.  L’abbigliamento di lei era sobrio, ma nello stesso tempo era come se in qualche particolare poco evidente ci fosse una studiata sensualità, che probabilmente non traspariva agli occhi di tutti, anzi, forse solo lui l’aveva notata, come un codice strano, tramite il quale solo chi possedeva la giusta lunghezza d’onda riusciva a comprendere l‘intero messaggio. Alberto con mossa studiata e con quel minimo di disinteresse, si era girato dalla parte dei tavolini deserti, dando le spalle alla coppia, e forse passarono diversi minuti sonnacchiosi e indolenti nel niente assoluto di un pomeriggio qualsiasi in quell’autogrill anonimo dell’autostrada. Quando Alberto tornò a girarsi verso la donna, in maniera quasi automatica, le loro occhiate si incrociarono ancora, e ambedue sostennero lo sguardo uno negli occhi dell’altra, quasi a scambiarsi quel fluido magico di cui avevano piena coscienza, e fu solo a quel punto che intervenne qualcosa a cambiare la monotonia triste di quell’autogrill. Alberto aveva finito di bere anche il suo ultimo sorso di tè, e la donna, da sola, si era incamminata verso la zona dei telefoni e della toilette. Alberto la seguì, rispondendo ad un automatismo di cui non aveva memoria, e quando arrivò nel corridoio antistante alle porte dei bagni separate di uomini e donne, lei era lì ferma, che cercava qualcosa nella sua borsa. Alberto si fermò appena ad un passo, lei alzò lo sguardo e lui disse: “ciao”, come a una ritrovata amicizia. Anche lei, più sottovoce e accompagnandolo con un sorriso appena abbozzato, gli inviò lo stesso saluto, poi sollevò leggermente una mano verso di lui, e Alberto, avvicinandosi a lei, le sfiorò con il viso i capelli. Avvicinarono appena le bocche, senza baciarsi, e in quel morbidissimo abbraccio lasciarono palpitare ogni loro desiderio d’amore, tutta l’intuizione che a volte porta vicini un uomo e una donna, senza che niente possa spiegarne il magnetismo che ne accelera i moti. Infine, indietreggiando di qualche centimetro, sorrisero, ambedue nella stessa esatta maniera, e ripresero con coraggio e lentezza i loro separati percorsi, con la coscienza che niente, neanche il senso di sacrificio che sicuramente provavano, era adatto a cambiarne i tracciati.

            Bruno Magnolfi


venerdì 17 luglio 2009

La scelta del caso.


            I due ragazzi, terminato l’anno scolastico,  si erano imbarcati sul traghetto per l’Elba verso l’ora di pranzo, ed erano arrivati a Porto Ferraio in una fresca e stupenda giornata di sole del luglio avanzato. Fuori dal porto e dal paese, coi loro zaini completi di sacco a pelo leggero e poche altre cose, avevano subito cercato un posto tranquillo dove poter passare la notte a dormire sull’erba, e nella pineta vicina avevano visto un posto perfetto. Tornati in paese, alla prima ragazza che avevano incontrato, ferma davanti alla piazza, avevano chiesto qual’era la strada migliore per Marina di Campo, e quando un’altra ragazza aveva raggiunto la prima, si erano messi tutti e quattro a parlare di diverse altre cose, presentandosi e scambiandosi qualche battuta di spirito. Antonio e Alessandro erano orgogliosi di girare facendo autostop, e Maria Vittoria e Melania, sorelle di Napoli in vacanza nell’isola con la loro famiglia, sembravano piacevolmente sorprese di aver conosciuto, appena arrivate, due ragazzi coraggiosi e simpatici. Dopo qualche minuto, causa impegni delle ragazze, i quattro si erano salutati, e Antonio e Alessandro, avviandosi lungo la strada per iniziare quel giro dell’Elba, ragione primaria che li aveva portati fin lì, si sentirono un po’ dispiaciuti di non poter dare seguito a quella conoscenza fortuita. Fu solo in serata che l’ultimo passaggio li riportò a Porto Ferraio, dopo essersi fermati in due o tre spiagge diverse e aver compiuto un giro completo delle coste dell’isola, e quasi come per un appuntamento fissato, si imbatterono di nuovo in Maria Vittoria e Melania. Passarono la serata in un bar sulla spiaggia, e quando si salutarono riaccompagnando le ragazze all’albergo dov’erano alloggiate, si scambiarono indirizzi e numeri di telefono. Il giorno seguente Antonio e Alessandro girarono ancora per l’Elba, ma in serata si sentirono stanchi e troppo timidi per andare all’albergo delle ragazze a chiedere di loro, così presero di nuovo il traghetto e andarono via. Quattro anni dopo, per gli strani giri che a volte compie la vita, Antonio da solo arrivò a Napoli, senza aver rivisto prima quelle ragazze dell’Elba, soltanto dopo aver scritto una cartolina a Melania in cui diceva di averla veduta, mentre era su un autobus, in una piazza toscana. Lei aveva risposto con gioia e cortesia, era stata davvero in quei giorni in visita in quella città, e la combinazione di cose era tale che ambedue non potevano evitare di vedersi di nuovo. Fu suo ospite per tre o quattro giorni, e furono giorni agitati, nervosi, ma per molti versi stupendi. Non si videro più, ma stavolta per scelta.

            Bruno Magnolfi


giovedì 16 luglio 2009

Gli amanti della fine del Giorno.



            Il silenzio nella radura era perfetto. Il Presidente dell’Associazione, una volta che tutti erano scesi dalle loro auto private parcheggiate alla meglio al bordo della strada statale, e affrontato con le loro scarpe da trekking il lungo sentiero che li aveva portati fin lì, si era auspicato, da parte di tutti, e nella sua mente sin da quando aveva convocato quella bella comitiva di quasi cinquanta persone in quell’insolito posto di meditazione e d’incontro, un riguardo adeguato al motivo che li aveva spinti in quel luogo, ed un rispetto coerente con gli scopi della loro escursione. Mancava ancora molto al tramonto del Sole, ma alcuni membri del gruppo avevano già mostrato dei segni evidenti di frenesia e agitazione. In quella primavera avanzata le colline apparivano verdi, e le piante rigogliose e brillanti, formicolanti di vita. Il piccolo lago al fondo della vallata specchiava tremolando il cielo ancora luminoso e azzurrino, e la luce nell’aria aveva ormai preso il colore di un giallo sempre più teso verso l’arancio. Tutti si erano portati delle coperte per sistemarsi seduti o sdraiati sul prato destinato alla loro riunione, e camminando con gli zaini colmi di oggetti diversi, non ultime le lampade portatili per illuminare la strada al ritorno, ognuno aveva continuato a parlare in maniera vivace, conversando con il proprio vicino delle proprie emozioni, e dell’ultima riunione che si era tenuta, o magari di quella che l’aveva preceduta, distillando con parole forbite, pensieri, sensazioni, esperienze, tutto quello che avevano tratto da quelle serate. Poi ognuno si era sistemato nel posto assegnato, e ogni conversazione lentamente aveva spento la foga iniziale, lasciando ad un progressivo silenzio e ad un uso sempre più rarefatto delle parole, la porzione di tempo sempre più breve, fino alla scomparsa definitiva del Giorno. Il Presidente dell’Associazione, solo con i gesti delle sue mani, aveva richiamato l’attenzione di tutti su di un gruppo, affascinante per forme e colori, di nuvole ammantate di arancio, su un lato della porzione di cielo che era stata assunto a spettacolo per quella serata, e quando il disco solare era entrato in contatto con la collina di fronte, traspirando la luce tra i rami degli alberi che sembravano mani ammalate a reclamare una goccia di linfa vitale, una soffusa vocale di infantile stupore era sfuggita alla maggior parte dei membri presenti. La porzione di tempo che intercorreva tra quel circoscritto momento e l’istante in cui anche l’ultimo barbaglio di Sole spariva, era ben definito, e alcuni riuscivano a provare un’estasi vera solo in quel determinato lasso di tempo, come se tutto il resto dell’intera giornata concentrasse la forza, la determinazione, la sua vera sostanza, solo in quei pochi minuti. Poi il Sole, ormai rosso, si avviò a compiere l’ultimo balzo, lasciando la porzione di cielo interamente avviluppata dalla sua ingombrante presenza e sparendo infine alla vista, e in quell’attimo stesso qualcuno lanciò delle grida soffuse assolutamente involontarie, proprio nel momento in cui il cielo rimaneva privo del suo potente inquilino, lasciando il suo spazio sterminato preda del nulla.      


            Bruno Magnolfi

mercoledì 15 luglio 2009

Divisi da un muro.



            Era tardi, e dentro a quel bar erano rimasti appena in tre o in quattro. Martino e Maksim, seduti ai de lati di un tavolino di plastica, non avevano voglia di tornarsene a casa, forse perché il loro alloggio aveva quel senso di sgradevole e di estraneo che solo poche cose al mondo sanno avere così. Venivano da due paesi diversi, così era inutile star lì a perdersi in nostalgie senza senso, e l’unico argomento su cui conversare ogni sera era il lavoro, il maledetto lavoro, la loro lunga, estenuante, faticosa giornata del loro lavoro. Neanche il futuro, così incerto ed in mano a una sorte di cui era impossibile prevedere i capricci, poteva dare materia alle loro parole dietro al bicchiere, così tutto era condensato attorno al presente, la giornata appena trascorsa, tutt’al più la precedente, nient’altro. A Martino piaceva indagare su modi e i comportamenti degli altri operai, e ancor più sulle maniere di quei geometri che dirigevano i loro lavori in cantiere, spesso senza saperne i segreti; Maksim invece prendeva tutto per scherzo, cercava sempre il lato più divertente di qualsiasi vicenda, e parlava con ironia delle cose, dei comportamenti degli altri, delle parole sfuggite di bocca a qualcuno. Il loro piacere di ogni giornata era tutto ridotto a quell’ora, da soli com’erano, perché con gli altri era difficile legare anche dentro al cantiere, e tutti, anche loro, avevano le famiglie lontane, e per questo ambedue avrebbero prolungato quel tempo della bevuta in quel bar oltre ogni misura. Però quella sera Martino aveva iniziato dei discorsi che non erano piaciuti a Maksim. Aveva detto che il loro geometra, quello che assisteva ai lavori, era un povero sciocco, uno a cui si poteva raccontargli le storie e lui le prendeva sempre sul serio, che non riusciva mai ad imporsi col direttore lavori, che si lasciava fregare dagli altri, senza notare la differenza tra chi era onesto e chi non lo era, e che quando lo prendevi di punta era il primo ad abbassare lo sguardo. No, su questo lui non era proprio d’accordo. Il geometra era bravo, li aveva sempre aiutati, certe volte si era preso i rimbrotti del direttore lavori o dell’ingegnere pur di non dare la colpa di qualcosa a qualche operaio. Maksim valutava le cose, e vedeva che il lavoro quasi ogni giorno scorreva senza quella oppressione che a volte si era sentita con altri assistenti, senza quei momenti sgradevoli di quando era stato presente il titolare della società a ricordare per tutti che era lui a firmare gli assegni, che loro erano niente, e se voleva li faceva tornare ai loro paesi, senza quei privilegi, così li chiamava, senza quella fortuna che la sua impresa forniva loro ogni mese. No, quel geometra non era come il titolare della ditta, sempre tirato, nervoso, pronto a dire che se le cose andavano male la colpa era loro, di quegli operai scansafatiche, che si doveva fare di più. Lui non diceva così, organizzava le cose e aspettava che ogni lavoratore esprimesse se stesso nel proprio lavoro, come se ognuno si sentisse una parte di un insieme di cose che, solidale e amalgamato, riusciva a dare il meglio di sé solo costituendo una squadra affiatata. Quando poi uscirono assieme dal bar non erano ancora d’accordo, ognuno continuava a dire le proprie ragioni, anche se la birra aveva già fatto molto, e quando alla fine Martino disse soltanto: “ma chi se ne frega di quel geometra stronzo!”, tanto per ridere, anche Maksim fu d’accordo e si fecero una risata comune. La vita in cantiere alla fine era la loro, quella di loro operai, e tutti quegli altri, quelli che tenevano in mano i progetti e gli strumenti per misurare le cose e valutare il loro lavoro, erano di un’altra materia, stavano tutti dall’altra parte del fosso, i loro mondi erano separati da un muro, divisi per sempre.

            Bruno Magnolfi


martedì 14 luglio 2009

Fantasia malata.



            La malattia, strisciante e antipatica, mi aveva recluso da solo nella mia casa per quasi due mesi, e adesso che avevo iniziato quel lungo periodo di convalescenza, così come avevano diagnosticato i dottori,  e avrei potuto iniziare gradualmente ad uscire, a girare in mezzo alla gente, ad andare in qualche negozio o ad assistere a qualche spettacolo, in realtà preferivo restarmene in casa, proprio per scelta, a pensare, a rileggere quei vecchi libri che avevo, e a non preoccuparmi di niente. A dire tutta la verità il contatto con la gente mi procurava un’uggia pazzesca. Già il solo dover condividere lo stesso spazio minuto di un autobus, un ascensore, un locale qualsiasi, zeppo di persone sudate, con il fiato pesante, i capelli in disordine, la faccia sgradevole anche solo alla vista, mi faceva rivoltare lo stomaco, mi procurava una nausea che difficilmente avrei mai superato. In casa c’era il silenzio, la calma, e i miei pensieri fluivano lentamente lungo il soffitto della mia camera, proprio sopra al mio letto, ed il tempo scorreva in maniera diversa, a seconda l’ora del giorno, o del mio umore, o di altre cose meno spiegabili, risultando contratto, in certe occasioni, o disteso, in momenti diversi. Ripercorrevo certe volte dentro di me, come un ricordo piacevole, una sequenza monotona di immagini che vedevano da angolazioni variate, certe volte anche insolite, il mio corpo immobile posizionato in modo diverso dentro alla casa. Le bianche pareti delle stanze, disadorne da sempre di quadri o di altri oggetti da appendere, funzionavano in maniera apprezzabile, con la loro ruvida grana, a costituire lo sfondo contro il quale immaginavo le mie posizioni. Quelle immagini non avevano assolutamente colore, ma le sfumature inesauribili tra il bianco ed il nero erano tali che ogni dettaglio risultava presente, con la sua tonalità definita, con i contorni netti e evidenti, con il contrasto tra lo spigolo e il piano in grande evidenza, e dentro ai riquadri con cui componevo i ritratti, gli scarsissimi oggetti che vi restavano inseriti all’interno, parlavano un proprio linguaggio, evidenziavano qualcosa di sé, o del loro manifestarsi come materia. Il mio corpo aveva sempre posizioni il più naturale possibile: seduto, in piedi appoggiato ad un muro, supino; e tutti i miei muscoli, come anche i miei nervi, e l’espressione del viso, durante quelle lunghe ore di posa, risultavano sottoposte a dura prova nel conservare la plasticità che serviva, l’estemporaneità della situazione pensata, la naturalezza di ogni dettaglio. Certe volte arrivavo alla sera completamente spossato, ed allora riaprivo i miei libri migliori, ed andavo alle pagine note, contrassegnate con dei segnali diversi a seconda l’importanza che avevo dato a suo tempo alle parole evidenziate da righe sottili impresse a matita, e tramite quelle ripercorrevo le frasi che, quando avevo letto tutti interi quei libri, mi erano apparse identificative in modo maggiore di altre, o curiose, o importanti per qualche motivo legato ai miei modi di essere, di leggere, di pensare le cose. Quando la malattia riprese il suo corso, lo fece senza dare avvisaglie, ma io seppi da subito che stavolta non avrei avuto bisogno di quei dottori noiosi, così continuai semplicemente a dar corso ai miei giorni con le stesse cose precise, percorrendo la mia casa e i miei libri come infiniti sentieri, che mi lasciavano scrutare ogni dettaglio e ogni elemento costitutivo dei paesaggi che si aprivano ogni giorno intorno ai miei occhi, come il raggiungere una estrema pace interiore, dove la malattia era solo un’estranea, e la mia fantasia bastava a se stessa.

            Bruno Magnolfi


lunedì 13 luglio 2009

Lo sbaglio.



            La ragazza si era seduta su una delle sei o sette panchine deserte sparpagliate su quella chiazza di verde compressa tra il viale e un muro di cinta di una villa privata. Il suo cagnolino scorrazzava sull’erba annusando ora i cespugli, ora i tronchi di quella decina di alberi giovani piantati in tempi recenti dentro al giardino senza grandi criteri di simmetria e di varietà vegetale. Si era portata con sé una rivista illustrata che adesso sfogliava senza troppo interesse aspettando che il suo Pinco si fosse annoiato di girare e annusare, e avesse voglia anche lui di tornarsene a casa. Il giovane vigile urbano, arrivato probabilmente da dietro, le chiese subito con un modo sgarbato se il cane era suo. La ragazza disse di sì, alzandosi in piedi e chiamando il suo cane a gran voce, chiedendo allo stesso tempo a quel vigile se ci fosse qualche problema. “In questo giardino è proibito tenere i cani senza il guinzaglio”, disse il giovane vigile urbano con lo stessa maniera di prima, dura e seriosa. “Non lo sapevo”, disse lei con vero stupore e con una soggezione crescente, “ma in questo momento, oltre io e lei, non c’è proprio nessuno, a chi potrebbe dar noia il mio cagnolino?”. “Va bene”, continuò il suo pensiero il vigile urbano, sempre senza guardarla, “ma, le devo fare una multa”. “La prego”, riprese la ragazza con la voce incrinata; “stavamo giusto per andarcene, io e il mio Pinco, per questa volta non potrebbe essere un po’ comprensivo?”. Ma il vigile aveva già estratto un suo taccuino sul quale compilava normalmente le multe, e per far questo aveva preso anche la penna per scrivere. La ragazza si sentiva ferita da quella situazione sgradevole, e per di più non riusciva a provare realmente quel senso di colpa che la multa avrebbe dovuto farle sentire, e al contrario, l’atteggiamento del vigile urbano, con il quale continuava a darsi del lei, ma che avrebbe potuto benissimo essere uno dei ragazzi della sua comitiva, era tale che per questo motivo le venne da piangere, in maniera anche intensa. Il vigile urbano a sua volta rimase colpito da quella reazione, e cercò di dire qualche parola che potesse giustificare il suo agire e ammorbidisse le cose, ma il risultato fu solo che anche Pinco, avvicinatosi a loro con fare curioso, si mise a guaire per solidarietà piena con la sua padroncina. La situazione era del tutto fuori controllo, il vigile urbano non sapeva più cosa fare, e la ragazza forse avrebbe voluto anche chiedere scusa della reazione che aveva mostrato, ma ambedue rimanevano lì, di spalle uno all’altro, in una figurazione teatrale di assurdo completo. Dopo un paio di minuti il vigile urbano disse: “…va bene, non ti faccio la multa, però adesso smetti, è assurdo che tu reagisca così…”. La ragazza allora si volse, lo osservò per un attimo accorgendosi che anche lui la stava guardando, cercò di sorridergli per mostrare la sua gratitudine, ma riuscì solo ad avere un nuovo attacco di pianto, con forti singhiozzi, fino al punto che il vigile urbano si rese ben conto che c’era qualcosa di assolutamente più serio, di una semplice multa, che faceva soffrire così quella ragazza. Le chiese soltanto se poteva esserle utile, cercò di instaurare un dialogo, mentre aveva già voglia di stringerla, di accarezzarle i capelli, di consolarla da qualsiasi dolore lei si sentisse oppressa in quel modo, ma la ragazza, messo il guinzaglio al suo Pinco con una mossa veloce, aveva iniziato a camminare con passo spedito verso il cancello d’ingresso di quel minuto giardino, e in pochi passi era sparita alla vista del vigile urbano, che in un attimo era rimasto da solo, pieno di dubbi su tutto, ma soprattutto continuando a chiedersi cosa, perché, dove avesse sbagliato.

            Bruno Magnolfi


domenica 12 luglio 2009

Lo scorpione.



            Tutti e otto d’accordo, quanti eravamo, avevamo parcheggiato il furgone fuori dalle meravigliose mura di cinta della città, nei pressi di uno dei varchi che immettevano all’interno di Marrakesh, non immaginandosi affatto che ci sarebbero volute ben sette ore, una volta visitata la medina e tutta la sterminata città, per ritrovare la stessa porta e quindi il furgone. Su una piccola ferita ad un piede che mi ero procurato con la fibbia di un sandalo, si andavano continuamente a posare delle mosche antipatiche, interessate probabilmente alle piccole croste che si erano formate sopra la pelle, a volte in gruppi di tre o quattro alla volta, e le ritrovavo, ogni volta che la mia attenzione era attirata da altro, concentrate in quel pizzicarmi, in quel succhiare le croste. Rientrammo che era ormai buio in quello che chiamavano camping, appena fuori città, di fatto composto da due docce fredde e due cessi, al centro di una spianata di polvere e basta. Con i fari del nostro furgone, rientrando verso le tende che avevamo piantato al mattino, illuminammo qualcosa di piccolo che correva sopra la polvere e andava a infilarsi in dei piccoli buchi dentro la sabbia: scorpioni dal corpo giallastro, grandi almeno dieci centimetri, irritati della nostra presenza, con l’artiglio su in alto, pronto a colpire. Ne presi una vivo e lo chiusi dentro a un grosso barattolo senza sapere di preciso che farci. La Rita non era contenta. Avevamo litigato in tutti i modi possibili, fin da quando eravamo partiti, tre settimane più addietro, e lei, arrivati a quel punto, piuttosto che dirmi di  nuovo cos’era che non sopportava di me, preferiva evitarmi. Allo scorpione, strappando un’ala con l’unghia, detti qualcuna di quelle antipatiche mosche che mi infastidivano, e lui le pinzava con le sue chele, trafiggendole lentamente con il suo pungiglione, succhiandone in seguito le parti più molli. Con la Rita non filava in nessuna maniera il nostro rapporto iniziato da un anno, ed io non riuscivo a capirne il perché. I giorni seguenti traversammo l’Atlante, poi ci spingemmo più a sud. In capo a tre o quattro giorni avevamo raggiunto il confine, che non era segnato da niente. Una colonna militare di soldati che dal Marocco entrava dentro la Mauritania, ci disse di evitare di spingerci oltre: sotto Tam Tam, spiegarono, era tutto veramente pericoloso; i sarhawi erano gente che non si faceva alcun scupolo, era meglio evitare problemi, ci dissero. Visitammo un’oasi di gente un po’ ambigua, in barba a quello che ci avevano detto quei militari, ma nel giro di poco annusammo realmente il pericolo; seguimmo il consiglio che ci avevano dato i soldati, e risalimmo più a nord, rientrando in Marocco, lungo la costa, e pieni di sudore e di polvere come eravamo, ci concedemmo un bagno liberatorio dentro all’oceano, al bordo di una spiaggia larga centinaia di metri, dove non c’era nessuno, e le onde si abbattevano enormi come cascate. Io e la Rita nell’acqua ci ritrovammo abbracciati, non sapevamo neppure perché, forse per un sentimento latente al quale non sapevamo dar seguito, poi, quando uscimmo dall’acqua, arrivò un marocchino solo per dirci che i pescecani, poco più al largo, usualmente facevano stragi. Quando rientrammo in Italia lo scorpione era sempre dentro al barattolo, fissato dentro al furgone. Con la Rita non sapevamo proprio che dirci, secondo lei ogni mio atteggiamento era legato al mio bisogno di comportarmi da maschio, e già solo per questo negativo e perverso. Dodici anni più tardi, dopo che l’avevo completamente persa di vista, mi confessò la sua latente omosessualità, che ad iniziare da allora, da quel nostro viaggio in Marocco, aveva covato dentro di sé, e della quale io non ero neanche riuscito ad avere un sospetto. Arrivai a casa dei miei genitori ancora con lo scorpione dentro al barattolo, alla fine di quel periodo intenso e complesso: mio padre sembrava contento delle mie esperienze e di quel mio viaggio così avventuroso; poi andò sulla spiaggia, riempì di sabbia il barattolo con dentro quello scorpione ancor vivo, e per essere sicuro di tutto, andò al largo con la sua barca, e affondò il barattolo in mare.   

            Bruno Magnolfi


sabato 11 luglio 2009

Più umano di tutti.



            Appena la vide si rese subito conto, pur non conoscendola affatto, che se quella donna ancor bella, pur di un’età già avanzata, era venuta da lui, con gli occhi bassi e con la faccia seriosa, significava che non c’era nessuno, oltre il prete, con cui lei poteva parlare. Don Pino dentro al quartiere era conosciuto da tutti, e tutti lo trattavano come uno di loro, ma spesso la chiesa, quando diceva la messa, era troppo spaziosa per dare quel senso di intimo che lui avrebbe voluto avere con i suoi parrocchiani. Una chiesa in cemento, moderna, che sapeva ancora di quelle bestemmie che gli operai per costruirla probabilmente avevano detto, e i muri alti, i cornicioni, i pavimenti a piastrelle, quasi parlavano dell’imprenditore che aveva vinto la gara per la sua costruzione, indifferente che fosse una scuola, una casa, un residence o un bordello. Ma quella era la vita concreta, l’abbrutimento e il malessere di vivere in funzione dei soldi, per potersi permettere qualcosa di più, più degli altri, più di quelli dai quali ci si voleva distinguere, in una corsa assurda e sfrenata che non aveva valori, ed adesso era inutile cercare di infonderli in chi spesso non capiva neanche di quali argomenti era meglio parlare. Don Pino cercava di essere onesto con tutti, diceva le cose così come le aveva pensate, e non faceva proseliti fingendo che quello fosse il suo solo compito. Anzi, non parlava per niente di Dio, se quell’argomento era di troppo, ma si sfegatava per far emergere l’umanità che c’era in ciascuna di quelle persone che cercavano di porre rimedio a tutto quello che avevano o non avevano fatto con una semplice confessione affrettata, o con qualche preghiera, alcuni solo con una visita alla chiesa e un segno di croce. Era da solo, quel pomeriggio, nella penombra fresca e composta tra i banchi vicini all’altare, aveva recitato una messa, al mattino, in memoria di Mario, l’amato fratello, morto già da due anni, ed adesso si sentiva come privo di forze. Quella donna dal fare deciso non aveva alcuna familiarità con la fede, era evidente, ragione di più per ascoltare con maggior attenzione tutto quello che era andata a dirgli fin lì, forse per avere un consiglio, o un responso, o solo per sfogarsi e liberare la mente da qualcosa tenuto nascosto da chissà quanto tempo. “Ho un figlio”, gli disse lei senza preamboli, “adesso ha quasi vent’anni, ed è suo nipote, l’ho avuto con Mario, suo fratello che è morto ormai da due anni precisi”. “Com’è possibile?”, farfugliò frastornato Don Pino, ma lei lo interruppe sollevandosi dalla panca dove era rimasta accucciata per quei pochi minuti. “Non voglio niente,” lo anticipò, “sono venuta qui solo per dirglielo”. Don Pino era confuso, cercò di dire qualcosa che però non riuscì a far trattenere la donna; poi, quando vide che usciva di chiesa senza voltarsi, rinunciò a qualsiasi altra cosa. In un attimo gli parve che tutto fosse ancora da essere, che ancora si potessero scegliere i ruoli, che ci fosse ancora tutto da dire, e capirsi, spiegarsi, definire le cose che erano giuste al posto di quelle sbagliate, come se lui avesse adesso vent’anni, e fosse ancora con Mario a parlare del mondo. Poi, ritrovò il luogo in cui si trovava. Era quella la vita, pensò, amori impulsivi, passioni brucianti che alle volte lasciavano segni tangibili. In un lampo di memoria improvviso vide infine davanti il fratello, proprio così come lo ricordava, e non seppe spiegarsi il perché, ma gli parve di volergli più bene, lo sentì ancor più fratello, e più vicino di prima. 

            Bruno Magnolfi


venerdì 10 luglio 2009

Il male.



            Iniziai con un sottile dolore a una gamba, in una zona appena sopra al ginocchio. Passarono i giorni ma quel penetrante dolore non voleva passare. Concentrai i miei pensieri proprio intorno a quel male, per parecchie sere, da solo, in silenzio. Infine scomparve. Poco tempo più tardi, una sensazione di affaticamento perenne iniziò a farsi sentire dentro al mio addome, in una zona compresa tra i polmoni e lo stomaco. Pensai quasi di tutto: qualcosa che continuavo a mangiare e a cui ero allergico senza saperlo, l’aria inquinata di questa periferia puzzolente, il mio nervosismo perenne. Mi concentravo, combattevo il dolore, che intanto aveva iniziato ad emergere, con la forza di tutti i pensieri che avevo, ma i risultati sperati non c’erano. Per esorcizzare il mio male iniziai a pensare alle cose più brutte: ulcera, tumore, principio di infarto, qualunque cosa mi sembrava possibile. Pensai alla mia morte come ad un evento vicino, ma continuavo a passare le sere concentrandomi sulle mie sofferenze, e tutto mi sembrava sempre più legato ad un semplice filo sottile. Mi sentivo sempre più in bilico tra il conservare tutto quello che ero, se il mio malessere si fosse in breve risolto, e il perdere tutto in una babele infinita di ospedali, dottori, ricoveri, che avrebbero tolto in un attimo la mia libertà di pensiero, il mio equilibrio col mondo, il mio vivere così come lo avevo impostato da sempre. Confidavo ogni sera nel pensiero finale, prima di dormire il mio sonno agitato, pieno di incubi e di zone non chiare: tutto si sarebbe in qualche modo risolto, forse bastava girarmi nel letto nella posizione più giusta, su un fianco, oppure sull’altro, e tutto sarebbe passato. Mi svegliai una mattina con l’assenza miracolosa e insperata di ogni dolore: era la prova esauriente di superiorità del pensiero rispetto alla carne, al concreto, alla vile materia. Passò un po’ di tempo, poi lo stesso dolore riprese. Stavolta non ci poteva essere alcun fraintendimento. Cominciai a combattere il male con una forza cocciuta che contrastava il dolore, e tanto sforzai la mia mente che alla fine non sentivo più niente. Sapevo che il male era presente, qualcosa lavorava dentro di me senza che potessi realmente aggredirlo, ma io ne tenevo a bada il vigore, e con indifferenza superiore a qualsiasi negativo sentire, ne neutralizzavo il potere. In quel periodo la mia vita si era di fatto avvitata attorno a quel duello supremo, gettandosi dietro le spalle ogni altro risvolto, ma il fondamentale equilibrio tra il dentro ed il fuori, del quale ero sempre stato sostenitore agguerrito, si era confuso in mezzo ai miei sforzi; la mia giornata apparentemente sembrava identica a prima, ma in realtà era radicalmente diversa. C’ero e non c’ero, mi sentivo sparire in ogni attimo che pensavo al futuro, tenevo frenato ogni mio desiderio che mi spingesse più in là del presente, proprio ad evitare qualsiasi delusione. Quando iniziai ad avere gli attacchi di tosse non mi parve neppure un peggioramento inatteso: anzi, questo espellere aria e catarri, mi parve mostrasse fuori di me qualcosa che c’era e che faceva parte del mio intimo esistere; niente di meglio se non essere chiaro, esauriente, sincero con tutti. Ero quasi felice di mostrarmi agli altri come ammalato: giustificava ogni mio comportarmi, i pensieri contorti, il mio agire a volte enigmatico, il mio corpo dalla forma non bella, forse devastato al suo interno da chissà quali tarme che ne rodevano l’intimo, ne succhiavano le parti più molli, quelle più fragili e a disposizione di ogni predatore di umani. Infine, mi fu raccontato, che in preda ad un attacco di tosse e di asma, fui raccolto privo di sensi su un marciapiede di fronte alla mia abitazione. Trascorsi soltanto tre giorni in quella clinica medica, e quando ne uscii ero apparentemente guarito. Tutto era a posto, dissero i medici, ma dentro di me, in quelle zone dove non si poteva scrutare con il semplice ausilio di uno dei loro strumenti, mi sentivo definitivamente cambiato, e quel fulcro sul quale il mio equilibrio aveva sempre trovato la maniera per essere vivo, efficace, presente, completamente perduto, come la mia identità che da allora non avrei più saputo qual’era.


Bruno Magnolfi 

giovedì 9 luglio 2009

La ladra.


            All’interno del suo quartiere quel supermercato che avevano aperto un paio di anni prima era diventato in pochissimo tempo il punto di riferimento per tutti, e quei minuscoli giardinetti che avevano ricavato davanti alle invitanti porte di vetro scorrevoli, erano adesso un luogo di ritrovo per anziani e ragazzi. I piccoli negozi in tutta la zona o avevano chiuso o si erano accontentati di fare una vita di stenti. Il supermercato invece marciava spedito con le sue insegne, le luci, i colori brillanti in ogni suo arredo, ed era sempre pieno di gente, praticamente a qualsiasi ora del giorno. Emiliana faceva pulizie nelle case, due ore da una parte, due ore da un’altra, aveva sempre fatto così. Chi la conosceva la fermava per strada e diceva: “la signora Mariotti cerca una donna per dare la cera sui pavimenti”, oppure: “al civico 18 vorrebbero qualcuno per pulire dei vetri”, e lei andava, e con quel passaparola se l’era sempre cavata benone, anche con l’aiuto del giornalaio che aveva sempre notizie da darle, o anche tramite la sua amica Marcella, che vendeva i vestiti da donna in un negozietto ad un angolo, e teneva rapporti con tante persone. Certe volte era rimasta senza lavoro, ma le bastava girare un po’ lungo le strade del suo quartiere, salutare tutta la gente che conosceva, e qualcosa trovava sempre da fare. Ma quell’ultimo mese era stato diverso. Nessuno l’aveva cercata, lei aveva anche chiesto un po’ in giro come sempre faceva, ma a parte casa Novelli, dove regolarmente andava due volte la settimana a pulire le stanze di due poveri vecchi, per il resto non aveva trovato da fare nient’altro. I pochi soldi che teneva da parte non voleva assolutamente toccarli, erano per casi più estremi, pensava, così era andata quel giorno al supermercato tanto per vedere che aria tirava. Era entrata, aveva preso il carrello come facevano gli altri, aveva girato tra gli scaffali. Facevano gola le confezioni di roba da mangiare sistemate in gran numero tra i corridoi, ma costavano tanto, e lei proprio adesso non poteva permettersi molto. Emiliana non seppe spiegarsi come le entrò nella borsa la scatola di caffè macinato, forse non se ne accorse neppure. Nel carrello aveva messo del pane, la frutta, una confezione di pasta, ed era andata alla cassa. Aveva regolarmente pagato e poi era uscita, ma con un brivido in fondo alla schiena e un pensiero che non riusciva a estirpare: “sei ladra!” diceva il pensiero, e lei si sentiva morire. Nei giorni seguenti tornò qualche volta al supermercato e lasciò scivolare nella sua borsa ancora qualcosa, ma quel pomeriggio qualcuno l’aveva notata, avevano avvertito la cassa, e l’avevano portata fin dentro l’ufficio del direttore, senza farsi troppo notare. In piedi, di fronte a quell’uomo con la giacca pulita e stirata, lei seppe di essere una povera donna, e lo disse. Ma fu solo a quel punto che ebbe ben chiaro che il mondo non era fatto per tutti. 


Bruno Magnolfi 

mercoledì 8 luglio 2009

Via!

           


            L’Alto Dirigente della multinazionale era andato presto in ufficio, molto prima che gli impiegati entrassero anche loro nel palazzo dai vetri oscurati che oramai da tantissimi anni era la sede della struttura. Gli piaceva arrivare presto a lavoro, almeno nei giorni in cui non era in qualche altro luogo del mondo a sbrigare gli affari necessari all’azienda. Gli piaceva parcheggiare la macchina nel garage riservato, entrare con calma nell’ingresso deserto al piano terreno, salutare il portiere di turno, lasciarsi chiamare da lui, con un gesto di goduta cortesia, l’unico ascensore tra i tre disponibili che arrivava fino all’ultimo piano, quello dei soli dirigenti e delle loro rispettive segretarie. Ma quel giorno qualcosa di particolare era dentro di lui: si volse verso il portiere, lo guardò dentro agli occhi, come a cercare di ricordarsi il suo volto, poi sparì tra le porte scorrevoli. Una mail gli aveva diagnosticato il tumore che lui sospettava da tempo, opportunamente nello stesso momento in cui la sua azienda era sull’orlo del baratro: un deficit colossale, chiusi i finanziamenti bancari, chiusi gli aiuti di stato, futuro azzerato. Con sua moglie non aveva parlato di niente, in fondo erano tutti argomenti per lo più disdicevoli, era meglio usare la giusta distanza; così aveva pensato di gettarsi semplicemente di sotto dall’ultimo piano del suo bel palazzo dai vetri oscurati, senza lasciare neppure un biglietto di scuse, ma nella nottata, trascorsa a pensare, aveva scartato la soluzione: troppo plateale e poi stomachevole. Aveva anche  respinto l’idea di usare quella vecchia pistola che teneva in qualche cassetto dentro al suo ufficio, la sua segretaria non avrebbe gradito trovarlo in un lago di sangue. Restava la fuga, anzi, la cosa migliore sarebbe stata quella di razziare dei soldi, quanti di più e dove era possibile, e sparire per sempre in un esilio dorato di qualche paradiso dei tropici a godersi gli ultimi anni di vita. Perciò in quel mattino era necessario arrivare a decidere. Seduto alla sua scrivania, aspettando qualcosa di cui non immaginava neppure i contorni, con il cielo appena fuori dai vetri, l’Alto Dirigente si sentiva tremare. Un’ora, due al massimo, e le cose avrebbero preso una piega che sarebbe poi stato impossibile distendere. Arrivò, con una certa saggezza, la sua segretaria, che sapeva del suo vizio di entrare per primo in ufficio, ma lui la affrontò, chiedendole subito di visionare certi rapporti e alcuni documenti ancora prima che lei avesse tolto il soprabito. Poi, nervosamente, l’Alto Dirigente passeggiò più di una volta nei corridoi di quell’ultimo piano dai pavimenti di specchio, osservò quel suo ufficio di pelle e di acciaio, riguardò la sua scrivania con sopra gli oggetti della sua vita, si soffermò davanti alla sua segretaria che nell’ufficio di fianco stava già lavorando per lui, e infine premette il pulsante dell’ascensore pneumatico che in un soffio gli aprì le sue porte. Nell’ingresso il portiere era ancora al suo posto. L’Alto Dirigente della multinazionale, scartando qualsiasi altro percorso, si mosse verso di lui, con decisione, si fermò di fronte al suo banco, lo guardò in fondo agli occhi, gli strinse la mano superando quello stupore che immaginava nell’altro, e poi andò via.

Bruno Magnolfi

martedì 7 luglio 2009

Un artista.



            “Buongiorno signor Ernesto”, gli aveva detto anche quel mattino la sua vicina di casa, una donna anziana molto cortese, residente in un terra tetto con piccolo giardino, quasi uguale a quello dove abitava lui, lasciatogli dai suoi genitori, che non mancava mai di salutarlo regalandogli un grande sorriso, in qualsiasi occasione. Era stata lei, Ernesto non poteva certo dimenticarlo, la sua prima compratrice dei suoi quadri. “Sono bellissimi”, gli aveva detto tanti anni prima, quando ancora era in vita suo marito direttore di banca, e lui si era sentito lusingato da quelle parole incoraggianti. Naturalmente da quella volta Ernesto aveva continuato a dipingere, aveva partecipato a delle mostre, aveva vinto anche qualche premio, ma non c’era stato per lui quel salto di qualità che aveva sognato. Adesso erano ormai trascorsi quasi trent’anni, e tanto di quell’entusiasmo che aveva allora, ormai se n’era andato. Aveva invece continuato a fare l’insegnante d’arte alle scuole medie, a parlare con i ragazzi di tutte le grandi scuole artistiche della civiltà, e dei periodi storici, delle grandi figure della pittura, e a riempirsi la casa di tele che continuava a studiare nei minimi dettagli, e a dipingere con calma, dopo la scuola, elaborando tutto il suo sapere sopra a quelle superfici, che immancabilmente finivano per andarsi a coprire di polvere da qualche parte in casa sua. Qualche mese addietro la sua vicina gli aveva detto sottovoce: “...peccato, signor Ernesto…”, e lui era rimasto colpito da quelle semplici parole, ma non subito. “…nelle sue tele si vedeva il tocco dell’artista…”, aveva detto quella donna, che ancora andava con le amiche in giro per le mostre. Non le aveva dato peso, non aveva pensato troppo a quei significati, Ernesto, ma da quel momento gli si era instillata dentro una malinconia che mai aveva provato prima: gli dava noia quel pensiero, adesso, avrebbe voluto cancellarlo, dire ad alta voce che non era vero, lui non era un fallito, aveva dipinto qualche quadro, senza impegno, quasi per passare il tempo. Ma dentro di sé sapeva che non era vero, e quello strano struggimento che provava, si riaccendeva come per una dannazione ogni volta che vedeva la vicina: gli ricordava la sua incapacità ad essersi gettato a capofitto in ciò che più di qualsiasi altra cosa lo aveva mai interessato nella vita. Certe volte, specialmente quando si trovava da solo, gli sembrava terribile pensare di aver avuto delle possibilità di esistenza diverse da quel grigiore quotidiano, da tutta quella monotonia che lo aveva portato ormai quasi alla pensione, senza essersi infilato, come sarebbe stato probabilmente abbastanza naturale, in quella materia che almeno in quegli anni padroneggiava così bene. Così aveva iniziato ad odiare quella vecchia, ad evitarla tutte le volte che poteva, anche se abitava nella casa proprio a fianco della sua. Non sapeva proprio come uscirne, persino la strada dove viveva, e dove si trovavano tutte quelle villettine quasi uguali, con le facciate dai colori pallidi, pastello, le risultavano tutte odiose, come abitate da tante vecchie identiche, pronte in ogni ora del giorno a rinfacciargli, con il loro sorriso cortese, con quelle maniere educate e borghesi, che lui non ce l’aveva fatta, non era riuscito ad uscire da lì, ad essere artista, affrontando il mondo con un’altra faccia. Le sere specialmente, lo facevano sentire provato, e fu durante una di quelle, nel periodo estivo, quando tutto il vicinato si metteva nei propri giardinetti davanti casa a prendere il fresco, che lui tirò fuori tutte le sue tele ed iniziò a stenderle lì, sul marciapiede, per mostrarle a tutti. Uscirono da casa, curiosi, vennero vicino ma non tanto, ad ammirare le sue tele, qualcuno gli strinse la mano, come per suggellare la dipartita del suo cervello dalla normalità che imperava in quella strada, ma fu la vecchia, la sua vicina, che da sola andò vicino a lui, e con le lacrime agli occhi, chissà per cosa, gli disse solamente: “…bravo; bravo; l’artista, quando c’è, deve uscire, prima o poi…”.


Bruno Magnolfi

lunedì 6 luglio 2009

Solo una rosa.



            Vendere fiori non sempre era semplice. Si doveva avere un sorriso per tutti, come il commercio al dettaglio spesso richiede, però c’erano anche clienti che portavano i fiori sopra a una tomba, altri che invece omaggiavano i vivi, che facevano la corte a una donna, c’era chi festeggiava una nascita, o chi andava a una festa per un compleanno, e chi a un matrimonio. Poi c’erano quelli che amavano i fiori, indipendentemente da tutto, e in casa propria ne riempivano un vaso ogni giorno, e infine coloro dei quali non si capiva quale ragione ci fosse per spingerli lì. Uno di questi con uno strano cappello si era infilato dentro al negozio con l’aria di chi non sa che pesci pigliare, aveva girato con gli occhi tra tutti i colori e le specie di piante, infine aveva comprato solo una rosa. La settimana seguente era tornato, ed aveva ugualmente acquistato una semplice rosa. Poi non si era più fatto vedere per un lungo periodo, ma quando era tornato, ero da sola in negozio ed era quasi l’ora di chiudere, si era fatto ancora confezionare una rosa, la più bella che avessi, e alla fine, quando aveva pagato e non gli restava altro da fare che uscire, si era invece girato verso di me, mi aveva donato quel fiore, e in un fiato aveva spiegato: “Ciao, Marisa, tu non puoi riconoscermi, ma io sono Eugenio, il tuo compagno di giochi di quando avevamo dieci anni”. Naturalmente io rimasi di sasso, primo perché quell’uomo non assomigliava a nessuno che io ricordassi, poi perché non capivo quel suo comportamento un po’ ambiguo. Gli chiesi qualcosa per sincerarmi che fosse davvero l’Eugenio che io ricordavo tanti anni prima, e tutto emerse in poche parole come un miracolo dai nostri ricordi. Era impossibile non chiedergli che cosa gli fosse successo, perché non si fosse fatto riconoscere fin dalla prima volta, ma lui parlò di cose difficili da dire e spiegare, che era meglio per tutti non fare domande. Parlammo dei nostri anni bellissimi, di quando eravamo bambini, quando le cose erano ancora tutte da essere, e la vita pareva leggera, priva di serietà e di amarezze. Mi aiutò a chiudere il negozio, poi si rimase ambedue per un attimo fermi, in silenzio, da soli, lì, su quel marciapiede, e a me venne da piangere, in maniera un po’ stupida, forse infantile, mentre l’ora serale ovattava le cose e rendeva tutto forse più triste. La vita di ognuno di noi è un libro da scrivere, pensai, mentre salutavo Eugenio ignorando praticamente tutto di lui: però delle volte certe pagine combaciano in maniera inattesa, e forse è questo il senso di tutto, è sufficiente quell’attimo, anche se giunge solo una volta ogni tanto, perché dentro di sé ha già tutto, e non serve nient’altro.

            Bruno Magnolfi


domenica 5 luglio 2009

Inutile fuga.



            I bambini avevano a lungo continuato a rincorrersi sul prato spazioso, e Valerio li aveva distrattamente osservati, continuando a sorseggiare la birra seduto al tavolino del chiosco, sotto alla frescura dei grandi platani e dei tigli del parco che riempivano la vista di verde e tranquillità al margine di un viale sempre pieno di traffico. Il pomeriggio di quella domenica sembrava apparentemente scorrere via, calmo e distratto, senza problemi, lasciando alle spalle del giorno soltanto pensieri comuni e riflessioni ordinarie. Invece, solo qualche ora prima, a Valerio avevano detto che doveva fuggire. Alla sua vicina di casa i carabinieri avevano chiesto notizie di lui, e tutto era apparso già chiaro. Cambiando nome Valerio si era convinto, per quei dieci anni durante i quali aveva abitato in quella città, in quel palazzo senza caratteristiche degne di nota, di esser riuscito a lasciare il passato fuori dalla sua nuova vita. Non era così, doveva fuggire di nuovo, lasciare tutto quello che era riuscito a mettere assieme, trovare un’altra città, un altro nome, un nuovo lavoro. Forse non avrebbe neppure dovuto rientrare nel suo appartamento, nemmeno per prendere le cose più utili o più urgenti: sicuramente l’ingresso era osservato di notte e di giorno, la trappola senz’altro era pronta, ci sarebbe cascato come un pivello. Eppure stavolta, davanti alla birra, seduto in quel chiosco, Valerio si sentiva mancare la forza: non era facile abbandonare tutto quello che era riuscito a mettere assieme, andarsene ancora, interrompere quel flusso di vita che adesso era parso così regolare; e poi non riusciva neanche a immaginare in quale altro posto fuggire. Aveva ormai perso le conoscenze di un tempo, non sapeva neppure a chi poteva rivolgersi, adesso, e all’improvviso il suo mondo si riduceva ad un incubo, un incubo che aveva vissuto già tanti anni prima, ma con uno spirito del tutto diverso, con un’energia che adesso aveva perduto. Non avrebbe mai voluto finire la birra che teneva sul tavolo, non avrebbe mi voluto che i bambini smettessero di correre sul prato poco distante, il denso flusso di traffico lungo il viale doveva invece riprenderlo dentro di sé, portarlo verso qualcosa, era così, continuava ad imporre questo pensiero tra tutti quelli possibili, ma lui non riusciva a trovare una decisione da prendere. Alla fine si alzò, pagò la sua birra e si avviò verso casa: qualsiasi decisione da prendere sarebbe stata presa da altri, almeno quel giorno, Valerio non si sentiva capace di scegliere ancora qualcosa, forse era quello il suo limite, forse, da qualche parte sopra a quel libro pazzo sul suo destino, era scritto che quella domenica non era la migliore per lui.


Bruno Magnolfi

sabato 4 luglio 2009

Un uomo qualsiasi.



            L’uomo con un nome qualsiasi aveva già completato due volte il giro delle bancarelle presenti alla sagra. Aveva veduto qualcuno che conosceva di vista, seduto alle tavolate sul prato, dietro ad un bicchiere di vino o ad un boccale di birra, ma aveva fatto in maniera che nessuno lo salutasse o lo fermasse per dirgli qualcosa. “Sono tutti venuti in compagnia”, pensò, e questa riflessione lo fece star meglio, come se gli desse sollievo il fatto che in giro non ci fosse nessuno da solo, oltre lui. Ogni anno in paese quella festa era attesa da tutti, e tutti si asserbavano, per quelle poche serate, un senso di gioia e di sfrenatezza che durante il resto dell’anno non era comune. Si era fatto servire un panino da una ragazza dietro a un bancone di legno, e si era seduto ad un angolo mangiando con calma. In fondo non aveva da andare in nessun posto preciso, né tornare a casa, né altro, così poteva rimanersene seduto dov’era, ad osservare la luce di quel bel tramonto rosato che lentamente andava scemando. All’uomo con un nome qualsiasi gli piaceva quel senso di festa in quell’ora stupenda tra il giorno e la notte, la musica sparata dagli altoparlanti legati ai tronchi degli alberi, i ragazzi che urlavano e si correvano dietro, disseminando quell’aria profumata di cibi sfrigolanti sopra le griglie, di risate sguaiate e di richiami festosi. Aveva sempre fatto così, anche durante gli anni passati, restando da una parte a guardare i suoi compaesani che si ritrovavano, scambiandosi con gran facilità tutto quello che nei giorni normali era forse difficile per loro da mettere in mezzo. Non si sentiva uno di loro, non si era mai sentito parte della gente che abitava il paese, forse perché gli piaceva stare da solo a pensare e ad osservare le cose. Non era mai riuscito a trovare una collocazione, un ruolo qualsiasi con gli altri, troppo vecchio per fermarsi con quelli che erano giovani, troppo giovane per far comunella con i vecchi che passavano il tempo sulle panchine. Era sempre stato da solo, l’uomo con un nome qualsiasi, e tutti forse lo avevano sempre considerato soltanto un solitario per indole, o forse non lo avevano considerato per niente, solo uno con un nome qualsiasi, che non va ricordato, se c’è non fa peso, se non c’è non manca a nessuno. Però gli faceva piacere sognare una cosa: che tutti si sarebbero ricordati di lui nel giorno della sua morte, e lo avrebbero rispettato, forse sarebbero andati anche a rendergli visita, si sarebbero tolti il cappello, avrebbero appoggiato un fiore sulla sua bara, e forse avrebbero dimenticato, almeno in quel giorno, che lui aveva avuto per tutta la vita soltanto un nome qualsiasi.


Bruno Magnolfi