martedì 28 giugno 2011

Scena n. 19. Più importante di tutto.

            
            Sono io, dice Gerri ancora prima di entrare sul palco. La donna seduta si volge nella direzione da cui proviene la voce, solleva lo sguardo verso il pubblico assumendo un’espressione perplessa, poi lo riabbassa tornando alle sue cose. Lui, appena entrato si ferma, appoggia le mani sulle ginocchia come mimando la grande fatica che ha fatto per arrivare fin lì, guarda in basso, fa due o tre forti respiri, poi dice: si, sono qui, sono tornato di nuovo.
            La donna prosegue con le mani indaffarate sul tavolo a rinfilare alcune piccole perle di vetro colorato ad una collana, e dopo un istante, senza neppure muoversi di un solo millimetro, dice: e cosa saresti venuto a fare, stavolta, Gerardo? Gerri la guarda come se quella fosse la domanda più assurda che potesse ascoltare, infine, dopo una pausa, dice: soltanto oggi mi sono reso conto che in tutti questi anni, da quando ti ho conosciuta, non ti ho mai parlato della cosa per me più importante di tutte. Però adesso, entrando qui dentro, nella tua casa, trovandoti qui, come sempre, calma, tranquilla, come ti ho sempre veduta, mi sembra che quanto avevo da dirti tu lo possa quasi sminuire con la tua impassibilità, che tu possa addirittura restare indifferente a quanto io vorrei dirti.  Perciò, sto pensando che forse è meglio se non dico niente.
            Ma se tu non mi dici il motivo per cui sei arrivato fin qui, Gerardo, dice la donna, non potrai mai sapere quale sia la mia vera opinione in proposito, e rimarrai così con un dubbio. E’ vero, dice Gerri, questo lo so; però potrebbe in quel caso rimanere dentro di me una speranza, quella di riuscire, non so, tra un giorno, o tra un anno, a dirti questa mia cosa, ed in tutto questo tempo potrei immaginarmi nel modo che voglio la tua reazione alle mie parole, quello che potrai dire o pensare quando saprai tutto quanto, il tuo atteggiamento nel venire a conoscenza di qualcosa che non sapevi e forse neppure ti immaginavi.
            Va bene, dice la donna, ma in questa maniera per me è come se quanto tu avevi da dirmi non avesse alcuna importanza, non esistesse per niente, in quanto non so neppure di che cosa si tratta. Oppure secondo te dovrei provare qualche curiosità solo perché mi hai parlato in questa maniera? No, niente affatto, dice Gerri. Non puoi essere curiosa di qualcosa che non sai cosa sia, e poi, in tutti questi anni da quando ci conosciamo, non mi hai mai fatto alcuna domanda, perciò non penso tu abbia voglia di sapere qualcosa di me. Quello che non ti ho mai detto, a dire il vero, non l’ho mai detto neppure ad altri, e quindi si vede che è proprio una cosa che devo tenere per me.
            Però in questo modo, dice la donna, potresti rimanere chissà quanto tempo a rimuginare qualcosa, Gerardo, quando al contrario adesso potresti liberartene una volta per tutte, non credi? Questo è vero, dice Gerri, però può essere piacevole trattenere per se stessi una piccola cosa, una piccola verità che si può dare agli altri in qualsiasi momento, e che proprio per questo diventa preziosa, perché si può scegliere il momento esatto in cui dirla. Ma allora, dice la donna muovendo la testa, sei venuto fin qui, Gerardo, solo per dirmi che tieni celato un segreto, qualcosa che non mi vuoi rivelare? Può darsi, dice Gerri, ma tutto questo ormai non ha alcuna importanza. Sto bene sapendo che trattengo qualcosa di cui posso parlarti quando sarà il momento opportuno, è come se avessi un regalo per te, un dono fatto di niente, qualcosa che posso donarti in qualsiasi momento.


            Bruno Magnolfi

domenica 26 giugno 2011

Differenti solitudini.

            

            Quel giorno non c’era anima viva sulle panchine dei soliti giardinetti, nonostante il pomeriggio fosse così invitante, luminoso, con una brezza leggera che faceva muovere le foglie degli alberi e rendeva tutto estremamente piacevole. Leo si era seduto, aveva scorso i titoli della prima pagina del quotidiano che si era portato fin lì ben riposto dentro a una tasca, poi si era lasciato come distrarre dai propri pensieri, dalla ghiaia chiara del vialetto e dai cespugli intorno, di colore verde brillante. Infine aveva alzato lo sguardo verso una lontana finestra spalancata inserita nel palazzo che gli restava proprio di fronte, subito oltre la strada.
            Si sentiva quasi spossato, senza nessuna particolare volontà, e invece sembrava proprio che qualcuno, quasi affacciato a quella finestra, stesse continuando ad osservare la sua debolezza: era un uomo, immobile, con le mani leggermente appoggiate sopra al davanzale, che continuava a star lì con gli occhi puntati proprio su lui, come se quella persona non avesse altro da fare se non starsene a guardare un uomo seduto, e non avesse proprio nient’altro di cui preoccuparsi. Leo aveva abbassato lo sguardo tornando a guardare la ghiaia ma tenendo quella finestra ai limiti del suo campo visivo, in modo da accorgersi se e quando quell’uomo si fosse stufato di quel rimanersene lì a curiosare. Aveva lasciato passare qualche minuto, geloso della propria riservatezza, del suo starsene solo, irritato dall’intransigenza con la quale qualcuno sembrava voler compromettere la sua solitudine, ma niente era cambiato.   
            Aveva pensato, giusto per svagarsi, a qualcosa di cui doveva occuparsi più tardi, prima di rientrare a casa sua, poi era tornato ad alzare la faccia verso quell’uomo, per una sorta di indagine, tanto per vedere fino a che punto poteva mai spingersi l’altro. Era stato allora, quasi d’istinto, che gli aveva fatto un cenno con una mano, qualcosa a mezzo tra un saluto e un gesto di sfida, come a mostrargli che ormai lo aveva scoperto, e che non era accettabile quella curiosità troppo accesa. Si era subito pentito, era evidente, non c’era alcun motivo per cui lasciarsi prendere dal nervosismo. L’altro invece in un attimo era sparito, proprio come si fosse vergognato di quello scrutare i comportamenti delle persone, ma dopo un po’ era tornato a farsi vedere, risistemandosi nella medesima posizione di prima.
            Leo lo aveva ignorato, in fondo ognuno poteva certo fare ciò che voleva, si era detto tra sé, così aveva riaperto di nuovo il giornale riprendendo a leggiucchiarne qualcosa ma senza troppo interesse. L’uomo era sempre al suo posto, come se non avesse niente di meglio da fare se non tenere d’occhio quel suo starsene lì, seduto su quella panchina, a godersi l’aria piacevole di quella bella giornata. Alla fine però Leo si era stufato, si era alzato e aveva ripiegato i fogli del giornale nella convinzione di andarsene da quei giardinetti, stanco di essere tenuto così sotto controllo. Ma l’uomo alla finestra, all’improvviso, non c’era più, e quindi Leo si era dovuto limitare a spostarsi solo di qualche metro, ammirare dei fiorellini in un’aiuola, fare due passi sulla ghiaia, per poi tornare a sedersi sulla medesima panchina dov’era poco prima. 
            L’uomo, dopo due o tre minuti, era tornato alla finestra, aveva appoggiato di nuovo le mani sopra al davanzale, aveva messo a fuoco la zona di giardinetto dove si trovava Leo, ed infine era rimasto lì, immobile, proprio come prima. Leo adesso si sentiva più indulgente verso quello sguardo sui suoi movimenti, anzi gli pareva in qualche modo rassicurante la presenza pur lontana di quell’uomo, così era rimasto fermo e seduto per almeno dieci minuti, lasciandosi ancora guardare e guardando a sua volta i cespugli dei giardinetti. Infine aveva consultato il suo orologio da polso e aveva deciso che era l’ora di tornarsene a casa, e quasi sorridendo dentro di sé aveva dato un’ultima occhiata all’uomo ancora fermo a quella finestra: doveva andare, pareva dicesse Leo a quella presenza, ma non c’era da preoccuparsi, sarebbe tornato il giorno seguente, all’incirca alla medesima ora, si sarebbe seduto sulla stessa panchina, e si sarebbe lasciato ancora osservare, in fondo non c’era niente di male, anzi, adesso gli pareva importante quello scambio silenzioso di sguardi, lui già ci contava, sicuro ormai di poter considerare, quella tra loro, quasi una nuova amicizia.  


            Bruno Magnolfi

giovedì 23 giugno 2011

Dalla stessa parte (ripresa cinematografica n. 1).

            
            Non c’è niente di male, pensa Riccardo; cammino, giro con calma queste strade monotone, rifletto sulle mie cose, incontro altra gente che mi viene incontro, e a qualcuno sorrido, come se una sorta di solidarietà ci posizionasse vicino, o almeno dallo stesso lato del mondo. In fondo tutte le persone sono buone, penso, non si sognerebbero mai di fare del male, sono solo le condizioni di vita che certe volte riservano degli strani malesseri, che ci mettono in una condizione difficile, in cui la realtà viene vissuta come qualcosa di ostile, di mal digeribile, ed ecco che l’insopportabilità nei confronti degli altri è subito prossima, e tutto si perde in una nuvola confusa e misteriosa entro la quale ci scagliamo contro il primo che capita.
            A me non accadrà mai niente del genere, penso; e intanto Riccardo percorre una strada ed osserva lo strano modo di camminare di un’anziana signora che lo precede: si muove con una lentezza quasi estenuante, come se qualsiasi movimento le procurasse dolore, e guarda soltanto il tratto di via davanti ai suoi piedi, come se niente di ciò da cui è circondata la interessasse. Lui l’affianca con calma, e con una certa metodica le sfiora un braccio, tanto per rompere il filo dei pensieri di cui sembra preda; lei volta la faccia verso Riccardo, lo scruta, ha quasi uno sguardo di rimprovero nei suoi confronti, e intanto piega la bocca in una espressione forse amareggiata, come se tutto ciò che non riesce a tenere sotto controllo fosse a lei estraneo, quasi un fastidio.
            Lui le sorride, le chiede se vuole essere aiutata ad attraversare la strada, a portarle la borsa o ad esserle di sostegno in qualcosa del genere, ma lei non risponde, continua a fissarlo, si ferma, aspetta soltanto che Riccardo se ne vada. Un osso duro questa signora, penso; non riesce a capire che si possono avere dei gesti generosi verso gli altri, non ha poi alcuna importanza se non ne abbiamo motivo apparente per farli. Lei sta ferma e guarda Riccardo, e anche lui adesso si è arrestato ad una distanza di un metro o anche più. Continua a sorridere come per incoraggiarla, ma lei si volta di fianco, lo scarta, e riprende la medesima andatura di prima, come se non avesse neppure il tempo per potergli rispondere.
            La lascio perdere, in fondo non mi interessa battibeccare con una persona del genere, però sono dispiaciuto, non se ne trova facilmente di persone simili a me, penso, proiettate così verso gli altri. Riprende a camminare con un certo disagio, Riccardo, come se qualcuno lo avesse sgridato, come gli avessero detto che non serve a nessuno, ma dopo pochi passi qualcuno lo chiama da dietro: giovanotto, gli dicono, ed è la stessa signora di prima a chiamarlo; le è caduto qualcosa, mi fa, lì a terra, subito dietro di lei. Mi volto, osservo il mio fazzoletto sul marciapiede, sono pronto quasi a sorridere, a ringraziare, ad abbassarmi per raccogliere quanto è scivolato dalla mia tasca, ma poi ci ripenso: non importa, dico, oggi posso fare a meno di tutto, persino di un fazzoletto, e riprendo la mia camminata.
            No, non c’è niente di male, pensa ancora Riccardo; posso girare fino allo strenuo delle forze lungo queste strade, e continuare a pensare tutto quello che voglio, ma forse non imparerò mai quanto sia difficile sentirsi davvero con gli altri, assieme a loro, dalla medesima parte, come non esistesse neppure una possibilità differente.


            Bruno Magnolfi   

martedì 21 giugno 2011

Indifeso dietro la porta.

            

            D’improvviso ho paura. Il mio appartamento è costituito soltanto da tre piccole stanze, e per abitudine cerco sempre di tenere il più possibile chiusa ogni porta che divide ognuna dall’altra. Se passo dal minuscolo ingresso per andare in cucina, per esempio, richiudo sempre l’uscio di legno alle mie spalle, come per una sorta di sicurezza, o per immaginarmi una maggiore distanza tra me e il mondo esterno. Ma la maggior parte del tempo che ho, e abitando da solo ne ho molto, lo trascorro nel mio salottino a leggere qualche buon libro, a sfogliare alcuni giornali, a pensare alle mille cose che spesso mi passano dentro la testa.
            Poi ho sentito un rumore, non forte, ma come di qualcosa che venisse spostato sul pavimento, una sedia, un oggetto qualsiasi, però non fuori, sulle scale del condominio o in qualche appartamento vicino: quel qualcosa o qualcuno che produceva rumore era subito dietro alla porta del mio salotto, ne ero sicuro, proprio dentro all’appartamento che abito, tanto che ho provato il moto spontaneo di rifugiarmi sul fianco della libreria, di appiattirmi contro l’angolo del muro, oppure di accucciarmi nel piccolo spazio sotto al mio scrittoio.
            Ho atteso qualche minuto in completo silenzio, evitando addirittura di respirare, immobile, e non sono riuscito a sentire nient’altro, come se tutto fosse piombato di nuovo nella normalità; così, movendo lentamente i miei piedi, lasciando strisciare silenziosamente le mie pantofole sul pavimento, sono arrivato vicino alla porta e mi sono appoggiato alla parete, dalla parte dei cardini, in modo tale che se qualcuno si fosse provato ad aprire ed entrare nella mia stanza, mi avrebbe concesso almeno il tempo per vedere chi era, o di provare a fare qualcosa, di difendermi, di non farmi sorprendere proprio come uno sciocco.
            Poi ho sentito un altro rumore, uno scricchiolio leggero, quasi confuso, e mi ha dato l’impressione precisa di qualcuno che dietro alla porta si stava movendo con circospezione, come cercando di conservare l’effetto sorpresa nei miei confronti, e in quel momento la mia paura quasi paralizzante è tornata a mostrarsi con tutto il suo impeto. Sono rimasto lì fermo, ed ho lasciato che il tempo scorresse senza muovere un muscolo. Infine, dopo quasi mezz’ora in cui sono rimasto appoggiato in ascolto e con le mani che non volevano smetterla di tremolare, mi sono deciso ad appoggiare l’orecchio alla porta, e non ho sentito un bel niente, ma ho aspettato ancora altro tempo prima di spingere la maniglia ed aprire.
            Nell’ingresso non c’era nessuno, giusto delle buste di vecchia corrispondenza che erano cadute da un mobiletto, ed una finestra che con ogni evidenza si era aperta col vento, ma questo non è stato per nulla sufficiente a togliermi quella maledetta paura: ho cercato di essere razionale, di dire a me stesso che non c’era proprio niente di cui preoccuparsi, eppure la paura sembrava ormai essere entrata dentro di me, come una componente con la quale avrei dovuto fare i conti da oggi in avanti. Per questo ho deciso per i giorni a venire di chiudere a chiave tutte le porte: non so cosa io possa aspettare dal mio futuro, però cercherò di non farmi cogliere impreparato, o almeno di rendere il più difficile possibile qualsiasi cosa, come un animale braccato privo di qualsiasi difesa, che riesce soltanto a nascondersi, ad infilarsi dentro alla tana, e ad attendere il peggio, ormai cosciente che qualcosa sicuramente accadrà. 


            Bruno Magnolfi     

domenica 19 giugno 2011

Tra solide mura.

            
            Lo so che là fuori ci sono un sacco di persone. Ma non importa, io mi limito ad osservarle qualche volta, quando mi affaccio alla finestra, anche se soltanto per pochi minuti, nel terrore che qualcuno possa voltare lo sguardo fin su in alto, su di me, incuriosito forse dai miei modi, dalla mia perenne titubanza, dalla mia espressione preoccupata. Resto in casa, certo, per tutto il tempo che questo mi è possibile, però certe volte mi rendo conto, dai rumori e dagli schiamazzi, che ci sono dei ragazzi che stanno giocando a rincorrersi nel cortile sul retro, oppure che qualche giovanotto sta strombazzando lungo la strada con la sua motocicletta o con la sua automobile. 
            Ascolto attonito lo stridore dei freni delle vetture, certe volte, e sento di provare paura per tutto ciò che può accadere da un momento all’altro. Così quando devo uscire di casa lo faccio con circospezione, osservando attorno a me tutto quanto possa manifestarsi come un pericolo: lancio continuamente occhiate a destra ed a sinistra, cammino il più vicino possibile ai muri delle case, non saluto mai nessuno, anche se incontro qualche vicino che forse riesce a riconoscermi; non me la sento di rischiare che qualcuno mi rivolga delle domande, che mi chiedano magari le solite ovvietà: come io stia, se mi sembri una giornata bella, o forse se per quel giorno, come sembra, io mi sia deciso a fare una deliziosa passeggiata.
            Non ho alcun interesse nel far parte di una conversazione costituita di convenienze e di formalità: immagino tutta quella serie di persone che mi vengono vicino, che mi osservano, rivolgono proprio a me tutti i loro discorsetti insulsi, ed io provo un formidabile desiderio di rifugiarmi di nuovo dentro casa, di allontanarmi il più possibile da loro, da quei loro modi insopportabili. Immagino che qualcuno ormai si immagini tutto di me, che sappia della mia esistenza ritirata, e forse mi controlli, fingendo di leggere il giornale da sopra al marciapiede, probabilmente proprio sotto a queste mie finestre.
            Certe volte poi, a notte fonda, quando tutti ormai sono a dormire, ecco che mi sveglio, mi alzo dal letto con circospezione, vado in cucina e mi bevo un sorso d’acqua. In certi casi mi avvicino alla finestra, guardo la strada deserta, rischiarata dai lampioni: i miei pensieri mi spingono laggiù, lungo la strada, in mezzo a quelle case che riesco ad osservare, e mi ritrovo a girellare tra quei marciapiedi deserti, a godere di quel meraviglioso silenzio, di tutto quel deserto di persone, di quella gigantesca assenza, ma infine avverto tutto questo come un gesto inutile, perché non avrebbe alcun significato, solo per questo, immaginarsi di essere libero dalle mie preoccupazioni, così attendo con pazienza il risveglio di tutta la città, il lento riavviarsi dei fermenti, della voglia di fare di tutte le persone, di tutta quella gente che si muove, che si guarda attorno, che sta attenta alle cose, e che sa perfettamente come io sia ancora qui, dietro alla finestra, soltanto momentaneamente protetto da queste mie solide mura.


            Bruno Magnolfi    

mercoledì 15 giugno 2011

Ormai insensato.

            
Non aveva da fare molta strada a piedi tra la sua casa e quel negozio. Dieci minuti, un quarto d’ora al massimo, e spesso, quasi senza rendersene conto, ecco che si ritrovava lì, davanti a quella piccola libreria poco frequentata, sull’angolo tra una delle vie principali ed un vicolo stretto e buio della città. Non c’era niente di male a passare là di fronte camminando sopra al largo marciapiede, dare un’occhiata alla vetrina, accorgersi che dentro, insieme alla signora Laura, non c’erano quasi mai dei clienti, anche se questo in fondo non era poi troppo importante, e tutto pareva scorrere ugualmente, con la signora sempre presa a sistemare e a dare ordine a tutti gli scaffali.
            Certe volte Duilio vi era entrato dentro, non molto spesso a dire la verità, aveva detto buongiorno con il suo miglior sorriso, e poi si era lasciato catturare dai tavoli e dai ripiani colmi di libri, dilungandosi sopra le costole dei volumi esposti, e in genere aveva finito per sfilarne uno, consultarne le note, soppesarne il titolo, l’autore, e ogni altro dettaglio apprezzabile, e con tutta la calma e la lentezza degna di un acquisto responsabile, aveva concluso per acquistare proprio quel volume. Oltre la scelta gli piaceva anche quel momento: appoggiava il libro sul piccolo bancone dietro cui, indaffaratissima, stava la signora Laura, sempre con gli occhi bassi, quasi indifferente a tutto se non agli elenchi dei titoli che aggiornava di continuo. Lui tirava fuori il suo portamonete, senza dire niente, ne estraeva la quantità esatta di soldi, si lasciava rinvoltare il libro dentro ad un foglio di carta, quindi ringraziando usciva dal negozio.
Lei lo aveva visto tante volte passare davanti alla vetrina, certamente lo aveva notato fermarsi là di fronte, dare un’occhiata generale e poi tornare a passeggiare; probabilmente doveva abitare proprio qui vicino, doveva aver pensato, e poi non doveva avere gusti precisi nelle sue letture: spaziava da un genere ad un altro, in maniera quasi casuale, anche se era entrato dentro al negozio non più di quattro o cinque volte. Lui non avrebbe mai dichiarato di aver ricominciato a leggere dei libri solo da quando aveva scoperto quella libreria: era una cosa triste, quasi un segreto, forse una cosa di cui provare un po’ di vergogna; eppure dopo la volta che aveva iniziato, non era più riuscito a sfuggire a quel rito, a quella passeggiata quasi quotidiana fino lì, per soppesare le copertine delle nuove uscite e delle novità editoriali.
La signora Laura non lo guardava, non gli diceva niente, e quel senso di libertà che Duilio respirava standosene là dentro accanto a tutte quelle parole stampate sopra la carta bianca, gli pareva come un sentimento che non aveva mai provato prima. Non aveva neppure mai chiesto niente alla signora, un parere su un libro o su un autore, un’opinione qualsiasi, anche se si vedeva che lei se ne intendeva: non voleva rompere quella sorta di magia che si instaurava quando entrava tra quegli scaffali, con quel profumo caratteristico di stampa, e lei lo lasciava fare, quasi per rispetto. Gli piaceva stare lì, misurarsi con quel tempio, pur piccolo com’era, dato da quella semplice magia che ci doveva essere dietro ad ogni libro. La signora non gli diceva niente, forse comprensiva di quel suo stato d’animo, e per niente al mondo pareva interporre a quel comportamento la sua attività di commerciante oppure qualche sua curiosità leggera.
            Infine tutto si dissolse, come ogni cosa: fu sufficiente un gesto, una parola azzardata, un minuto segnale di qualcosa che ormai stava cambiando, senza neppure sapere perché: Duilio cambiò il suo percorso, da un giorno all’altro, la signora Luisa rimase troppo distante dalla sua abitazione, e lui si ritrovò a pensare che bisogna essere forti su ogni decisione e non restare nostalgici di qualcosa quando ormai non ha più senso.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 8 giugno 2011

Soltanto sassi, fuori da qui.

            
            Si doveva passeggiare, non si poteva fare altro, ed io pensavo che invece avrei potuto tirare un sasso e colpire chiunque, chiunque volessi; questo pensavo quando si passeggiava. Le persone mi guardavano, ma io non desideravo mai essere guardato, perciò chiudevo gli occhi, a volte, oppure guardavo da tutta un’altra parte. Poi lasciavo perdere tutti quei loro sguardi, la smorfia che in genere facevo era di indifferenza, come se non mi interessasse niente, o non fossi proprio lì, ma all’improvviso pensavo di nuovo che con facilità avrei potuto colpirli tutti quanti con un sasso, bastava lo avessi voluto.
            L’accompagnatore diceva che quello si chiamava passeggiare, ma a me non importava niente: mi guardavano, questo era essenziale e tremendo, ed io pensavo che un giorno o l’altro avrei dovuto farli smettere. Non era il posto mio, quel passeggiare, troppa gente, e fortunatamente da ogni parte al bordo della strada c’erano dei sassi e mi sentivo protetto in qualche modo, capace di colpire gli individui che guardavano con una semplice sassata. Sembravano tutti contenti di guardare, e continuavano a parlare e a volgere lo sguardo da una parte all’altra e inevitabilmente su di me.
            L’accompagnatore mi chiedeva qualcosa, ma di rado, tanto io non rispondevo: grugnivo ogni tanto, questo si, ma solo per fargli capire che avrei potuto tirare dei sassi in qualsiasi momento e colpire tutte le persone che guardavano. Non lo sopportavo quel passeggiare, c’era la gente, era tremendo. Rimpiangevo la mia stanza, starmene da solo in tutta pace: continuare a passeggiare in quel modo con quella gente dallo sguardo curioso non mi riusciva di mandarlo giù. Perciò stavo in silenzio, e se chiudevo gli occhi vedevo i sassi che avrei potuto tirare, soltanto se lo avessi voluto.
            Invece ogni giorno l’accompagnatore mi veniva a prendere per portarmi a quella passeggiata, ed io lasciavo fare, pensavo che magari quel giorno non ci sarebbero state quelle solite persone, ma invece erano là, come ogni volta, e guardavano, ed io avevo voglia proprio di prenderli a sassate. Quando l’accompagnatore mi lasciò accostato al muretto per andare a parlare con qualcuno che forse conosceva, non riuscii proprio a resistere: presi un sasso, uno di quelli grossi, e lo tirai con tutta la mia forza. Feci bene, sono sicuro, perché da quel giorno non ci fu più per me la passeggiata.


            Bruno Magnolfi

lunedì 6 giugno 2011

Senza altre possibilità.

         
Forse ci sarebbe stato ancora qualcosa da dire sulla nostra faccenda, pensavo tra me ormai da solo nel mio piccolo appartamento di due stanze al terzo piano, dopo che lei era rimasta davanti a me in piedi per pochi minuti, sufficienti soltanto per comunicarmi le sue ragioni, e senza neppure appoggiare la sua borsetta, ma adesso se n’era ormai andata, chiudendo definitivamente la nostra timida storia. Avevo pensato molte altre cose mentre lei mi parlava e affiancava velocemente l’una con l’altra tutte le sue buone ragioni per cui aveva deciso che era meglio non proseguire a vederci, ma quasi per una sorta di pigrizia, o di incantamento, ero rimasto per quasi tutto quel tempo in silenzio, ascoltando le sue opinioni mentre osservavo un bicchiere trasparente che tenevo tra le mani sul tavolo, e mi sentivo come un bambino che non crede fino in fondo al rimprovero che gli viene rivolto, e si attende da un attimo all’altro un gesto simpatico, forse un sorriso, una parola distensiva, qualcosa che di colpo spazzi via tutto il resto. 
            Invece lei alla fine aveva aperto leggermente la porta, ed era rimasta per un attimo lì, senza guardarmi, lo sguardo nel vuoto, e infine aveva varcato la soglia richiudendo alla svelta quello spiraglio dietro le spalle, con un unico gesto. Ero tornato con lo sguardo su quel mio bicchiere già vuoto, senza muovermi neppure di un millimetro, e poi, dopo un bel po’, mi ero alzato dal tavolo, ma quasi svogliatamente, giusto per andare ad appoggiare gli avambracci sul davanzale della finestra. Lei era là, sul marciapiede, l’avevo notata immediatamente, si era fermata ed aveva girato lo sguardo in alto verso il mio appartamento, rimanendo in piedi ed immobile, proprio come me, ma ormai forse molto più lontana di come appariva.
            Dopo pochi secondi avevo accostato la tenda, incapace di avere un pensiero che non fosse dettato da quel senso di vuoto e quell’indifferenza improvvisa che saliva dentro di me: avrei forse voluto disperarmi, oppure correrle dietro, o ancora cercare in qualche modo di fermare quei pochi minuti che inesorabili continuavano a scorrere con menefreghismo, ma sentivo che era impossibile, ciò che stava avvenendo era quanto probabilmente già maturato in quegli ultimi tempi, non ci poteva essere un ripensamento, era così, senza nessuna variazione possibile.


            Bruno Magnolfi  

sabato 4 giugno 2011

Una ragione per piangere.

            

Ero entrato nella casa della mia famiglia quasi trafelato, arrivando in ritardo rispetto all’orario che avevamo pattuito, essendomi attardando al solito bar con i miei amici, quasi con indifferenza rispetto al fatto che tutti quanti ormai mi stessero aspettando e che presumibilmente si fossero già sistemati al piano superiore, seduti e immobili intorno al grande tavolo lucido della nostra grande sala da pranzo. Avevo deciso di sposarmi, si proprio così, e una volta che avevo iniziato a dirlo in giro alle persone che mi conoscevano, mi era sembrata sempre di più la cosa migliore da fare in quel periodo, anche se tutti i miei parenti erano stati chiamati a raccolta dai miei genitori per cercare di parlarmi e di convincermi in qualche maniera a rinunciare a quel passo, perché quella ragazza che avevo scelto era giudicata poco bene in tutto il nostro paese, e la sua famiglia era composta secondo tutti soltanto da persone disgraziate.
Non ci potevo fare niente se loro volevano pensare quelle stupidaggini, forse ero anche stufo delle raccomandazioni continue dei miei genitori e di tutte quelle occhiate di rimprovero, perché tanto avevo sempre fatto come mi era parso, ed adesso sarei andato fino in fondo di quanto avevo detto, proprio per dimostrare che sapevo tener testa a tutti quanti. Però, già nel girare la chiave nel portone, mi era presa un’uggia, un desiderio profondo di andarmene da un’altra parte, di evitare quell’incontro: avevo parcheggiato la mia moto in una strada laterale, tornando a casa, proprio per scongiurare che qualcuno mi notasse mentre rientravo, e già scostando il portone senza far rumore, pensavo tra me che forse ero ancora in tempo per andarmene e inventarmi in seguito una scusa, qualcosa di plausibile. 
Era vero che non avevo trovato ancora un lavoro che mi andasse bene, dopo che, visti i risultati, mi ero definitivamente ritirato dal liceo, ma questo non voleva dire niente: mi sarei sistemato in qualche modo, ne ero sicuro, e poi c’era mio padre che di soldi ne aveva anche per me, ed io, suo unico figlio, avevo sempre saputo di poter contare in qualsiasi caso su di lui. La mia ragazza sarebbe venuta ad abitare insieme a noi, la mia stanza era grande, ci potevamo sistemare bene, non c’era proprio niente di strano. Però quei parenti, tutti quei miei zii, un po’ mi incutevano paura: alzavano la voce, a volte, li conoscevo, dicevano le cose sempre dirette, guardandoti negli occhi, senza starci mai a girare intorno alle cose, per questo continuavo a muovermi silenziosamente nell’ingresso senza decidermi a salire.
Certo, non potevo andarmene, questo era assodato: però dovevo inventarmi qualche cosa per cercare almeno di variare gli argomenti da affrontare. Mi sentivo nervoso adesso, avrei fatto di tutto per non dover salire quelle scale, per non dovermi presentare sulla porta di quella sala odiosa e dover magari sorridere a tutta quella gente seria, compita e giudicante. Pensavo alla mia ragazza e in quel momento avrei voluto essere con lei a svagarmi, a spassarmela senza tante preoccupazioni, ma era impossibile, quello era un passo a cui dovevo dare un seguito, non potevo proprio fare in altro modo.
Mi ero accostato al grande armadio in legno scuro e pesante da sempre su un lato dell’ingresso mentre pensavo, e mi era quasi venuta voglia di nascondermi là dentro, giusto per dare un aspetto scherzoso alla faccenda. E invece, quasi rispondendo ad un automatismo, avevo infilato una mano tra il muro e il mobile, quasi per provare il legno, e facendo forza mi ero accorto che l’armadio si muoveva leggermente, pur pesante e grande com’era. Allora mi ero impegnato con tutt’e due le mani, appoggiando anche un ginocchio al muro per dare maggior spinta, e tirandone la parte alta con tutta la mia forza quell’armadio si era andato sempre più ad inclinare sul avanti, finendo per cadere rovesciato in un sol colpo, fracassandosi e provocando un gran rumore di legno che si scollava e si spezzava. Ante che si staccavano dai cardini, cassetti interni e scaffali che si rompevano, questo accadeva in un attimo all’armadio, mettendosi alla fine quasi di traverso sul pavimento dell’ingresso. Tutti in quell’attimo corsero da sopra, fermandosi dall’altra parte dei rottami di legno, e mi trovarono meravigliato quasi quanto loro: sentivo dentro di me che forse avrei potuto addirittura piangere, lì davanti a tutti, ma neanche pensandoci con calma riuscii a trovare un buon motivo per farlo veramente.


Bruno Magnolfi 

mercoledì 1 giugno 2011

Il paradiso terribile.

            Osservando in un angolo di quel grande giardino, la parte forse un po’ più in ombra ma maggiormente ricca di cespugli e di vegetazione, affacciandosi semplicemente ad una finestra sul retro del nostro palazzo, in certi casi solo scansando la tendina e guardando fuori dai vetri, era facile riuscire a scorgerla lì, seduta, ferma, lo sguardo basso, le mani sul grembo, quasi una statua, o una pianta tra le altre oppure un albero, praticamente una figura che si immaginava fosse indifferente a tutto il resto. Ci si poteva anche incuriosire, rimanere più a lungo a scrutarne l’espressione identica, l’abbigliamento sempre un po’ castigato e stravagante, ma non si riusciva mai ad ottenere quel qualcosa di più che pareva sempre impellente, come sull’orlo di arrivare da un momento a quell’altro da lei, da quel suo sguardo immobile.
            Certe volte poi, una folata di vento, come un estraneo che entri dall’alto, sorvolando d’un balzo le alte mura su tutti e tre i lati di quel grande giardino a pianta quadrata, arrivava a scompigliarle quei lunghi capelli spesso malamente legati in una coda, lasciandole cadere una ciocca sul viso, o andandole addirittura sugli occhi. E lei in quei casi, con un medesimo gesto sempre identico, quasi usuale, la si poteva osservare intenta a riassettarsi lentamente proprio quel ciuffo, accarezzandosi la parte posteriore di un orecchio, per poi subito far ritornare la sua mano nella posizione di sempre, come non potesse essere ammesso qualcosa di differente, un umore diverso, una voglia di osservare la realtà in un altro modo.
            La chiamavamo Annetta noi del condominio, forse solo perché ci appariva minuta, invidiando quell’appartamento al piano terra sul cui retro si apriva quel grande giardino, usato solo da lei, anche se piuttosto assiduamente. Però Annetta aveva nella sua figura un magnetismo indubbio che era difficile da spiegare, e spesso qualcuno di noi dava un’occhiata là, fuori dalla finestra, soltanto per vedere se c’era, subito rassicurandoci con la sua immagine, come se soltanto a vederla tutto apparisse all’improvviso al suo posto, completo di ogni dettaglio. Nessuno l’aveva mai vista o sentita parlare, e non era possibile incontrarla nell’andito del nostro palazzo o comunque fuori da lì, pareva fosse malata, una persona estranea al mondo, una creatura costretta ad una vita lontana da tutto, ormai piegata alla sua malasorte.
            Difficile anche sentirne parlare, tutti sapevano che c’era, che era là, seduta su quella panchina in angolo, ma i sentimenti che risvegliava in tutti coloro che volentieri la osservavano, erano difficilmente condivisibili, e poi c’era ben poco da dire di una persona così. Qualche volta ai piedi del nostro palazzo si vedeva uscire la mamma, una persona già anziana, che non aveva neppure bisogno di dirle qualcosa: Annetta al solo notarla si alzava, andava verso di lei, rientrava in casa come rispondendo in maniera corretta ad un richiamo preciso, ad un’indicazione importante.
            Forse, senza dircelo, ci tenevamo davvero a quella ragazza sfortunata, la cui vita in fondo si svolgeva lì, in quel piccolo terribile paradiso, e forse in noi, ragazzi curiosi pieni di illusioni e di futuro, ci infondeva senza saperlo quel tanto di umanità che non avremmo mai saputo dove altro prendere. Se ne andò, Annetta, in un giorno qualsiasi, ma per noi tutti rimase ancora lì, al suo posto, ancora per molti, molti anni.


            Bruno Magnolfi