lunedì 29 settembre 2014

Ordinaria sanità.

           

Provo un dolore forte, invalidante, improvviso, dentro l' addome. Mi piego su un fianco, spengo la luce, stringo le mie viscere con uno sforzo, e dopo un attimo, nonostante tutto, il buio della stanza torna a darmi la momentanea sensazione di protezione avvolgente che cerco. Poi esco, indosso uno spolverino che copra la mia sofferenza e raggiungo la strada. Al parcheggio dei taxi salgo sul primo che trovo libero e chiedo immediatamente di portarmi in ospedale. L'autista mi osserva, forse pensa di me che io sia un tossico in preda ad una crisi di astinenza, in seguito però avvia il motore e ingrana la marcia. Immagino che tutto quello che vedo e che sento in questi pochi minuti siano le ultime volte di qualcosa che forse dovrò rimpiangere per chissà quanto tempo, magari anche per sempre. Il dolore è stabile, qualcosa di terribile sta accadendo sicuramente dentro di me, ma il panico iniziale sembra quasi che mi stia passando; d’altra parte sono convinto di fare la cosa più giusta, e questo mi dà subito sollievo. Dovrei forse telefonare a qualcuno, penso, avvertire gli altri di quanto sta succedendo, ma è quasi notte e il dolore che provo è così intimo che non saprei neppure spiegarlo.
Esco dal taxi, adesso mi trovo nei pressi del pronto soccorso, vedo la luce al neon all’esterno che lo segnala, mi dirigo da quella parte ed improvvisamente il dolore cessa del tutto. Vado avanti, c’è una panchina qua fuori, mi siedo. Una signora che non fa parte probabilmente del corpo medico, mi osserva mentre esce dalle porte scorrevoli. Aspetto. Lei mi dice che se devo chiedere qualcosa devo mettermi in coda, ed io alzo una mano lasciando in aria una risposta ambigua che mostra comunque la mia comprensione. Di fatto non so più cosa fare. Se cerco di andarmene e il dolore riprende potrei aver perso tempo prezioso. Se entro e mi faccio visitare non so neppure cosa spiegare ai dottori. Resto seduto, almeno per il momento.
Arrivano due autoambulanze quasi in contemporanea, roba grave, escono gli infermieri con le barelle e gli accorgimenti del caso, io guardo quanto succede e non riesco a decidere se ritenermi fortunato oppure no. Infine mi alzo, faccio due passi lungo questi giardinetti male illuminati, poi torno indietro e mi siedo di nuovo sulla panchina. La signora di prima ancora qua fuori torna a guardarmi.
Le dico che avevo un dolore incredibile fino a poco fa, ma adesso è passato, quasi come per un incantesimo. Lei non dice niente, la scelta di starmene qui è solo mia, lei non vuole interferire nelle mie cose. Penso di chiederle cosa farebbe al mio posto, e lei, quasi leggesse la mente degli altri, mi dice che forse una piccola visita da un medico non sarebbe da disprezzare. Annuisco, ma resto comunque ancora seduto qua fuori.
Infine, dopo altri dieci minuti, mi alzo, decido di entrare, anche soltanto per dare un’occhiata alle persone che ci sono là dentro, e come funzioni un servizio come questo. Le porte scorrono con un lieve fruscio appena mi avvicino, all’interno c’è gente e le luci sono forti e taglienti, mentre due infermiere in camice bianco si occupano di qualcosa dietro ad un semplice vetro. Le guardo con una certa distanza, ma mentre mi volto il dolore ripiglia e non posso far altro che cadere come uno straccio sul pavimento. Escono in due, mi prendono, mi sistemano rapidamente sopra una lettiga, io non so più se sono cosciente o mi sto soltanto immaginando la scena. Si aprono delle porte su un corridoio bianco, qualcuno dice delle cose vicino a me, ma non sento più niente: sono nelle mani di qualcun altro, posso perfino rilassarmi, nonostante il dolore. Chiudo gli occhi, va tutto bene, sono arrivato nel posto giusto.


Bruno Magnolfi

venerdì 26 settembre 2014

Capacità critica.

            

Non ci vuole niente a superare il forte senso di fastidio ed andare fino all'ufficio comunale per i reclami, pensa Lilia. In fondo è un suo diritto di cittadina riuscire a farsi rispettare. Intanto la puoi trovare seduta su una panchina dei giardinetti con gli occhi affondati dentro alle pagine di qualche libro, generalmente preso in prestito alla piccola biblioteca del suo quartiere. E' carina, lei, seria, ben educata, ma non molto sociale: preferisce starsene per conto proprio piuttosto che spartire gli spazi con altri.
Quando poi arriva all'ufficio appropriato, gli impiegati gliela fanno subito un po’ complicata: c'è da compilare un modulo, mettersi in coda, parlare brevemente con un incaricato, e infine attendere per diverse settimane via posta la risposta scritta al proprio domicilio. Non ha senso, pensa lei uscendo dall'edificio: qualcuno giudica tutto di me, persino la mia possibilità di chiedere chiarimenti celeri agli uffici dell'amministrazione pubblica.
Torna a sedersi sulla panchina ed a riaprire il suo libro. Non c'è altro da fare, pensa Lilia con un senso quasi di smarrimento. Nonostante la sua giovane età è già da molto abituata ad arrangiarsi da sé, anche se certe volte pensa che avrebbe proprio bisogno di aiuto, quell’aiuto che in genere purtroppo non riesce a chiedere, e forse neppure a desiderare davvero.
Il libro scorre sotto ai suoi occhi, ma i personaggi descritti sono distanti, non vivono esattamente quello che prova lei. Perché il suo disagio è dato semplicemente dal fatto che ciò che viene pubblicizzato e strombazzato da ogni parte e di cui si in genere si parla più spesso, la maggior parte delle volte non risponde affatto a verità. Lilia vorrebbe sempre che tutto scorresse in modo lineare e coerente, e certi intoppi organizzativi non li sopporta.
Si avvicina un signore, le sorride e si siede. Questo libro scorre bene, dice Lilia, ma io non ne sono contenta. Ho letto molte cose durante questi ultimi anni, ma all'improvviso mi sembra che la verità non sia mai passata da questi libri sui quali, spesso e volentieri, mi sono anche lasciata andare nella lettura. Anche questo che ho sotto gli occhi parla di molte cose, descrive benissimo parecchie situazioni, ma alla fine sembra proprio che i suoi contenuti siano tutti impalpabili, sfuggenti, in fondo di nessuna utilità. Non ho bisogno di un manuale per vivere, dice con convinzione, però non accetto neppure di vivere costantemente dentro una nuvola.
Il signore accanto a Lilia allora si alza, la guarda, pare riflettere; poi borbotta qualcosa di poco comprensibile, le prende il libro dalle mani e annuisce con la testa, come se quello che le ha sentito dire lo trovasse sostanzialmente d'accordo. Vorrei aiutarla, dice; eppure la capacità critica che adesso sfodera così bene, probabilmente non ci sarebbe in lei se questi volumi non l'avessero fatta scaturire nella sua coscienza. Lilia resta colpita da queste parole, riprende il libro dalle mani dell'uomo e lo saluta con un sorriso mentre lui la lascia sola.
Quando si alza dalla panchina ha un fremito: forse non serve aver maturato un punto di vista se non si comprende come sia meglio metterlo in pratica, pensa. Torna a casa camminando con una certa lentezza, e lungo la strada passa davanti una volta di più agli uffici comunali. Non c’è nessuno a quest’ora, riflette, ma non ha alcuna importanza. Domani tornerò qui, pensa ancora; cercherò di parlare con un superiore, col capufficio, con un dirigente, con il sindaco in persona se occorre, ma sono sicura che uscirò da questo edificio solo quando il mio reclamo sarà preso seriamente in esame.


Bruno Magnolfi

mercoledì 24 settembre 2014

Tempo perso.

            

Si riconosce subito, è quasi sufficiente sentirne la voce. Cammina per strada ed in molti si voltano per osservarlo; però è anche vero che altri lo ignorano, e spesso si comportano con lui come se fosse una persona qualsiasi. Non ha alcuna importanza, spiega Renato ad un microfono, credo in ogni caso di essere rimasta una persona semplice, in tutto questo tempo, e proprio non ci tengo ad essere sempre al centro dell'attenzione. Qualcuno si spinge a chiedergli come ci si sente ad essere così, ma lui sorride, si schernisce, ed in genere resta in silenzio. Poi si sposta, mostra di stare sempre impegnato, e sfugge normalmente a chiunque cerchi di trattenerlo. Ma alla fine puoi trovarlo all'ora di cena, da solo, nell’angolo di un caffè del centro all’ultima moda, mentre controlla il suo cellulare e sorseggia l’ aperitivo della casa.
La sua fortuna è stata una combinazione di cose, e poi soprattutto quella fotografia ben fatta, che ha stazionato addirittura per ore nei principali network della rete. Un successo così repentino è difficile da gestire, si dice in molti luoghi dove si sta molto attenti a cose del genere. Renato lo sa perfettamente. Deve approfittare del suo momento di celebrità, senza perdere un attimo, mostrare un volto spendibile anche per il futuro, piuttosto che bruciarsi in fretta; perché poi, con la stessa rapidità, potrebbe assolutamente ricadere, come spesso succede, e ritrovarsi come uno qualsiasi nell’oblio dell’anonimato. E lui ormai non potrebbe facilmente adattarsi ad una vita diversa da quella che adesso sta già assaporando. Certo, un’altra fotografia di successo potrebbe quasi renderlo personaggio immortale, ma non è così semplice.
In ogni caso lui si muove tantissimo nella città, gira nei luoghi dove si sa che staziona la gente che conta, forse sogna che qualcuno di loro gli chieda pubblicamente qualcosa, lo faccia parlare, lo introduca in qualche maniera negli ambienti di grido. Ha cercato persino di prepararsi per dare delle risposte argute e corrette, evitando la faccia di chi viene colto alla sprovvista, magari balbettando: bisogna sorridere, pensa, dare l’impressione di essere superiori a certe sciocchezze, dire le cose come se fosse la maniera più normale di stare con gli altri.
Logicamente nei primi giorni ci sono state delle interviste, ma in quelle Renato ha potuto soltanto essere né più né meno quello che è, non avrebbe mai potuto così rapidamente correggere le sue espressioni e la sua dizione da provinciale. Adesso però è il suo momento, si fa vedere davanti a qualche locale e tutti gli chiedono l’autografo, si fanno una foto con lui, magari gli chiedono qualcosa giusto per sentirne la voce. Quasi non si rende ancora conto di quello che gli sta capitando, e prima di andarsene a letto la sera, si guarda a lungo davanti allo specchio. Se almeno avessi studiato, pensa certe volte; potrei gestire ancora meglio la situazione, piuttosto che affidarmi a questi professionisti del settore che mi prendono un sacco di soldi. Ma forse è meglio così, riflette ancora: almeno non ho perso tempo.


Bruno Magnolfi

lunedì 22 settembre 2014

Quella volta.

            

Sul piccolo palco adesso non è rimasto nessuno. Svogliatamente sistemo i cavi e i microfoni, ma ho ancora nelle orecchie tutta quella musica, tutto quel ritmo, e soprattutto il suono del sassofono che stasera mi vibrava tra i denti come poche volte è già successo, quasi andasse da sé, libero e fluido, a far rimbalzare sopra le persone le note ora dolci ora graffianti, e a trascinare il resto. Forse sarà solo questa, tutta la soluzione al problema, mi dico: metterci l'anima, far tremare l’aria di ciò che sento, di quello che provo; oppure semplicemente è accaduto soltanto che stavolta mi sono lasciato andare un po' più di sempre, senza preoccuparmi troppo del resto.
Fra poco butterò giù un paio di birre, e forse un panino che mi hanno sicuramente lasciato queste brave persone della sagra, ridendo e scherzando insieme agli altri ragazzi del gruppo. Si ride, spesso, si finge ancora di divertirci tra noi, anche se gli anni sono trascorsi e non è successo quasi niente di quello che speravamo davvero. Si continua a suonare quasi come se fosse ancora la prima volta, ci diamo importanza, si cerca sempre di stare al centro dell’attenzione, e in diversi continuano a farci i complimenti, a dire che siamo bravi, che le facciamo davvero sognare queste platee un po’ di provincia.
Io certe volte dico che questa è soltanto la mia passione, non un secondo mestiere; ma di fatto questa attività è semplicemente la cosa migliore, secondo me, che sia mai riuscito a mettere assieme. Comunque adesso il sax è pulito, le ance sono riposte dentro le scatole, l’amplificazione è ormai tutta spenta, ma io quasi vorrei ancora suonare, vorrei ancora dire a tutti quanto ci sento per quel suono che esce dal mio strumento in serate come questa. Vorrei piangere per questa vita che fugge, senza che ancora io abbia capito il senso che ha.
La musica è immediatezza, vale soltanto per il momento in cui viene suonata, si dice, poi però lascia un’eco, anche se subito si spenge, anche troppo velocemente, e ti lascia quasi come se niente fosse successo. Il bassista mi batte una mano sopra la spalla: ci hai dato dentro stasera, mi dice. Sorrido, ma vorrei abbracciarlo: l’ho fatto per te, vorrei dirgli, o per qualcun altro che era qui, insieme a noi, e provava gli stessi nostri sentimenti, questo profondo struggimento che mai ci abbandona, almeno quando stiamo qua sopra a riproporre il nostro magico rito.
Mi chiamano, gli altri sono già lì, ci hanno sistemato ad un tavolo, hanno aperto una bottiglia di vino e ci servono qualcosa di caldo. Non voglio farmi vedere dagli altri con questa amarezza dipinta sul viso: e poi non so neppure da che cosa mi è derivata, e perché mai proprio stasera; in fondo, se qualcuno mi chiedesse qualcosa, non saprei neppure cosa rispondere. Scendo dal palco, sistemo certi spinotti tanto per prendere tempo, fingo anche di preoccuparmi di un componente tecnico, ma sento il crollo dentro di me, non so più cosa fare. Alla fine prendo coraggio, mi avvicino agli altri, mi siedo: ho un’espressione seria adesso. Mi guardano, sorridono per incoraggiarmi, hanno delle domande dipinte sui volti, ma nessuno si decide a chiedermi niente. Alla fine dico soltanto: ragazzi, stasera era l’ultima volta per me.


Bruno Magnolfi

venerdì 19 settembre 2014

Dietro la porta.

            

Se rimango vicino ad una porta non può accadermi niente. Con grande semplicità è la mia via di fuga, la possibilità che ho di andarmene, filarmene altrove esattamente quando lo voglio. Non sopporto che qualcuno mi guardi, che si sbircino le mie espressioni, oppure i miei modi di starmene qui. Socchiudo la porta, mi sposto, guardo a terra: nessuno può farmi del male. Arriva un tizio e chiede ad alta voce perché mai io stia ancora lì. Non ci parlo con questo, penso subito senza spostarmi, chieda pure in giro ad altri quello che vuole.
La porta viene spalancata di colpo per mostrare con evidenza che la mia postazione è scoperta, il mio rifugio è ormai patrimonio di tutti, quindi potrei abbandonarla, ma io imperterrito rimango fermo, e mi rannicchio nell’angolo col muro. Arriva subito la dottoressa che dice con parole pacate che io e lei insieme dovremmo fare due o tre cose, aggirando così il problema della mia apparente testardaggine. Non mi faccio fregare facilmente, penso, neppure per i tuoi occhioni e le tue belle maniere. Voglio stare qui. Poi, improvvisamente, si disinteressano tutti di me e se ne vanno.
Riaccosto come mi piace la porta con una mano, e proseguo a starne dietro: sono pronto a scappare, rifletto, immediatamente quando le cose si metteranno in una certa maniera. L'importante per me è non farmi mai prendere alla sprovvista, restare attento, pronto a reagire, reattivo a qualsiasi cosa possa accadere.
Torna la dottoressa, ha qualcosa in mano, una siringa. Mi paralizzo, vogliono fare un automa di me, penso subito, rendermi docile e arrendevole, senza nessun'altra possibilità. Sbatto la porta, prendo di corsa il corridoio, inciampo, ma riesco ad arrivare fino in fondo, poi mi appiattisco tra il muro e la prima altra porta che trovo. Silenzio, sembra che nessuno si muova, forse lasciano che mi calmi, magari che assapori con maggiore tranquillità il mio nuovo punto di vista. Non faccio del male a nessuno, penso restando in silenzio, ho tutto il diritto di starmene qui.
Alla fine la dottoressa, sempre restando ad una certa distanza e con la siringa sparita ormai chissà dove, dice che non devo intralciare il passaggio, poi però mi sorride, dice ancora che io sono uno che fa sempre il bravo, sa stare al suo posto, non ha bisogno di niente anche per capire quali siano le cose giuste per tutti. Mi piace quando parla così: non riesco a comprendere però quale problema ci sia nel lasciarmi dietro la porta.
Comunque resto fermo, adesso non ho bisogno neppure di difendermi, mi basta stare dietro questa porta, ed in questo modo sono sicuro che tutto ciò che potrebbe avvenire sarà presto svanito, dissolto, ed io in questo momento non ho affatto paura, anzi sono tranquillo, proprio come se niente potesse davvero accadermi.
La dottoressa continua a parlarmi mentre due infermieri mi bloccano improvvisamente da dietro: non è una mossa elegante da parte sua, penso, ma sono arrendevole, non faccio storie. Tornerò qui, penso, appena la dottoressa avrà finito il suo turno: mi piazzerò dietro alla porta e poco per volta imparerò come fare a difendere questa mia posizione; perché è il mio posto, questo, lo sento, avrò sempre più forza stando qui, e ad un certo punto nessuno potrà più impaurirmi o farmi del male, neppure se stringe una siringa nella sua mano.


Bruno Magnolfi 

martedì 16 settembre 2014

Perso, improvvisamente.

            
            Diego è sicuro di quello che fa. Torna a casa e Lorenza non c’è, ma lui sa già perfettamente dove trovarla. Riflette velocemente attorno a qualcosa che ha letto negli ultimi tempi sulla violenza alle donne, ma gli viene soltanto da sorridere: lui non sarà mai uno di quel genere, anche se lei se n'è andata. Soltanto vuole vederci chiaro nelle cose, nient’altro. La piccola cartoleria dove lavora l'amica di lei è poco distante, cosi ci pensa su un attimo, sono quattro passi, ed è già là. Non si è vista, gli viene subito riferito, e a lui pare per questo di sentirsi improvvisamente uno stupido, così impacciato, con il berretto dentro una mano, e non è per nulla abituato a cose del genere. Forse ha fatto male ad andare fino al negozio, pensa uscendo, e allora gira per le strade senza neppure una meta. Vuole stancarsi, lasciare indietro qualcosa, ed anche riflettere, forse, ma la sua testa è vuota, non sa neanche capire dove stia il suo errore, semmai ce ne sia uno.
Incontra un amico, lo saluta svogliatamente, forse vorrebbe spiegarsi, ma non sa neppure da che parte incominciare. Si infilano nel primo bar poco distante, si fanno servire due birre, sorridono per qualcosa che non sanno neppure cosa sia; poi Diego spiega quanto è accaduto. L’altro gli parla subito male di tutte le donne, gli dice di non preoccuparsi, che qualcosa comunque succederà, le cose si sistemeranno, e che in breve gli verrà pure in mente un'idea. Lui se lo lascia dire, ma intanto dentro di sé sente profondamente la voglia di ribellarsi, mentre questo pensiero convive contemporaneamente con il bisogno che prova della sua Lorenza. Improvvisamente non è più sicuro di nulla, guarda l’amico, ma lo vede distante, gli manca tutto, come se adesso non sapesse neanche più dove andare.
Forse mi hanno detto qualcosa di falso, dice. Forse Lorenza era proprio lì, magari nel retrobottega, a sorridere delle mie perplessità, magari a ridere di me, di quel mio impaccio. Dice che non sa più neanche cosa pensare, ma l’amico gli dice d’un tratto di avere già immaginato che prima o poi sarebbe successo qualcosa del genere; lo dice sottovoce, ma con convinzione: ti comportavi male con lei ultimamente, gli fa. Diego si sente colpito nel vivo, spalanca gli occhi, riflette: forse è vero, ma non se n’era neppure reso conto. Quando tornano ad uscire sulla strada, Diego si guarda attorno, come se lei fosse lì, da qualche parte immobile ad osservarlo. L’altro lo nota, e lui, anche soltanto per questo, se per combinazione la scorgesse davvero in fondo alla via, sa che gliela farebbe pagare, anche se continua a ripetersi che non vorrebbe.
I due ciondolano un po’ fino all’angolo, non ci sono molte altre parole da dirsi, perciò si salutano, ognuno per sé, a rimettere assieme ciò che ancora resiste. Diego non ha voglia di tornarsene a casa, controlla il telefono, nessuna chiamata. Si stravacca su di una panchina e resta lì, mentre le luci della sera si accendono. Forse potrebbe partire, andarsene chissà dove, senza neppure pensare di ritornare; ma riflette che sarebbe soltanto una debolezza, e lui non se la vuole permettere. Deve comportarsi esattamente come se nulla fosse accaduto, pensa, questo è il punto. Perciò Diego rientra in casa come ogni sera, senza cercare alcuna differenza con ogni altra sera; e lei è là, come sempre.


Bruno Magnolfi

martedì 9 settembre 2014

Sarà esattamente così.

            
            Sto bene dentro a questo sacco. Lascio sporgere appena la mia testa, e ogni tanto apro gli occhi per guardare avanti a me, verso l’inizio di questo vicolo, dove transita la strada principale, sempre affollata di gente e di macchine. Prima o dopo qualcuno mi scoprirà, mi pare evidente. Intanto resto qui a godermi questo posto. Da quando il laboratorio artigianale alle mie spalle ha chiuso, da qui non passa più nessuno, solo qualche gatto rognoso che non sa proprio dove altro andare. Io li odio i gatti, sono soltanto animali opportunisti, e basta.
            Lo so che io sono un vagabondo: ormai non cerco più neanche un lavoro, mi trascino di qua e di là e vado sempre a mangiare alla mensa dei poveri. Però questo posto è magico, mi rannicchio qua sotto la tettoia e mi sento subito in sintonia con tutta quanta la città, tanto provo piacere a stare in questo angolo. Forse dovrei fare un programma, avere un progetto, un’idea che mi porti fuori da questa situazione, ma la mia testa è vuota adesso, non riesco neppure a concentrarmi.
            Mi metto in piedi, riassetto le mie cose, arrivo fino all’angolo della strada, e resto per un po’ a guardare la gente che corre e tutto il resto. Poi torno indietro, scorro lungo le vetrate opache del laboratorio, infine trovo un finestrone che cede. Scavalco il muretto ed entro dentro. Ci sono rimasti alcuni macchinari polverosi in questi ambienti, il resto è silenzio ed abbandono, anche se tutto ancora parla di lavoro e di cose di cui occuparsi. Mi vengono quasi i brividi a rimanere qui, molto meglio per me tornare fuori ed infilami di nuovo nel mio sacco.
Riaccosto a dovere il finestrone e vado verso la mia roba. Adesso c’è un gatto rognoso che annusa qualcosa dalle mie parti. Vorrei assestargli una pedata, ma non ne vale neanche la pena, così lascio che se ne vada per conto proprio, appena mi avvicino. Certo, non posso continuare a lungo in questa maniera, devo pensare qualcosa da inventarmi, ma è come se non ci riuscissi, come se un’inerzia infinita mi trattenesse dal riflettere qualsiasi cosa diversa da questo lasciarmi andare steso dentro al sacco, sotto la tettoia.
In fondo a cosa servirebbe tutto questo, penso; questo darsi da fare, intendo, andare in giro, parlare con tutti assumendo un’espressione sorridente, chiedere qualcosa senza farlo mai pesare, far finta di essere adeguato, capace, e così via. Molto meglio gironzolare senza scopo qua d’attorno, annusare le mie cose, sdraiarmi ad occhi chiusi per un po’, e non pensare niente, nient’altro che queste riflessioni. Se non fosse per i gatti forse sarei addirittura contento delle mie giornate, ma quelli hanno il potere di mettersi sempre di mezzo a rovinarti le cose già solo con la loro presenza.
Faccio di tutto per tenerli a debita distanza, ma quei rognosi paiono rincorrermi, come se dentro di me ci fosse il potere di attirarli. A loro non importa un fico di niente e di nessuno, è evidente, riescono soltanto ad approfittare di tutto ciò di cui hanno bisogno. Ne ammazzerò qualcuno, uno di questi giorni,  soltanto prendendolo a pedate, giusto per fargli capire che non si può essere cosi come sono tutti loro. Gliela farò pagare, ne sono più che convinto, e anche loro devono sentirsi ben certi che andrà esattamente in questo modo.


Bruno Magnolfi

venerdì 5 settembre 2014

Senza alcuna direzione.

           
            Il portiere era da solo dietro al bancone del piccolo albergo. Aveva subito controllato la prenotazione, poi registrato i miei dati, verificato con una semplice occhiata che non avessi bagaglio, come forse già immaginava; poi aveva appoggiato sul piano orizzontale la chiave della mia camera. Dalla finestra non si vedeva molto, però si percepiva la presenza della città fuori da quell’arredamento ordinario e impersonale della semplice stanza: una città di provincia, con qualche chiesa antica e alcune opere d’arte forse da vedere, con le case disposte sui piani ondulati di due o tre colline. Lei sarebbe arrivata più tardi, come d’accordo.
            Mi ero sciacquato la faccia e le mani, prima di scendere al bar di fronte alla strada. Avevo deciso che avrei aspettato lì, piuttosto che farmi trovare in quella camera squallida. Alcuni tizi giocavano a  carte, altri parlavano di qualcosa poco importante. Non mi sentivo molto a mio agio neppure là dentro, però mi ero fatto servire un caffè, lo avevo bevuto velocemente e anche con scarsa soddisfazione; infine ero uscito da quel locale per fare due passi. La mia auto era parcheggiata trenta metri più avanti, ed adesso la sua vista mi dava il sollievo della via di salvezza, come se ne avessi davvero bisogno.
            C’era una vecchia seduta su una panchina, il piccolo cane vicino, al guinzaglio. Dissi qualcosa, come il prolungamento casuale di un pensiero svagato, e quella rispose di non preoccuparmi, che il cane era buono, praticamente si poteva fargli qualunque cosa. Mi abbassai per toccare un orecchio del cucciolo, e le chiavi tintinnarono nella mia tasca. Immaginai lei mentre stava arrivando, nervosa, concentrata su tutti i passaggi che doveva affrontare. La vidi triste, tesa, senza alcuna voglia vera di affrontare quella novità che le offrivo.
            Tornai indietro, una volta giunto al primo angolo di quella via; la vecchia adesso non c’era più, la panchina era libera, così mi sedetti al suo posto. Controllai il telefono muto, quasi per inerzia, poi mi parve di sentire la voglia profonda di essere altrove. Cercai convintamente di controllare ogni più piccola emozione, ripercorrendo la logica delle cose; infine sentii da qualche parte il desiderio di aver già superato in qualche maniera quei due giorni che ormai ci attendevano.
            Quando vidi la sua utilitaria, mentre lentamente percorreva la strada cercando un parcheggio, non mi mossi per niente da dove mi trovavo. Lei non mi aveva notato; spento il motore e sbattuto lo sportello era entrata subito dentro l’albergo. Immaginai tutti i pensieri di quel portiere fino ad allora impegnato probabilmente in un videogioco: le parole di lei mentre chiedeva se ero arrivato, i gesti usuali di lui sopra al bancone. Non mi decidevo ad alzarmi da quella panchina, mi chiedevo senza trovare risposta cosa dovessi davvero fare.  
            Alla fine il motore della mia auto mi scosse, una volta girata la chiave dentro al cruscotto: arrivai quasi senza respirare fino in fondo alla strada, poi tornai indietro come cercando la direzione per andare a riprendere l’autostrada, ma rallentai quasi incoscientemente, per andare a fermarmi proprio davanti a lei, ferma sul marciapiede. Ciao, dissi, abbassando il finestrino; e lei, con uno sguardo sfuggente, mi restituì in un attimo, senza usare parole, tutta le perplessità che c’erano in ognuno di noi, per quell’incontro che forse non portava proprio da alcuna parte.


            Bruno Magnolfi