venerdì 26 dicembre 2014

Convinzioni incerte.

            
Non me ne importa niente di tutta questa gente intorno. Sto seduto per conto mio sulla carrozza del tram, e provo un grande fastidio quando le persone salgono, scendono, si muovono in questo spazio angusto, strusciandosi di qua e di là senza riguardi. Alla mia fermata infine scendo, e mi guardo attorno nel buio rischiarato dai lampioni stradali, in questa serata così insignificante.
Sono stato all’ospizio, oggi pomeriggio, a far visita ad una mia vecchia zia, l’unica parente che mi sia rimasta; era seduta, appoggiata dagli inservienti su una poltroncina, e mi ha guardato, forse senza neppure vedermi, perché mi sono accorto bene come non mi abbia neppure riconosciuto. Così ho detto qualcosa a voce alta, ho aspirato leggermente quell’odore di vecchio e di malato, ho usato con lei alcune sciocche frasi di circostanza, poi sono venuto via.
Certo, non sono uno che sia riuscito mai a stare al passo con i tempi, non sono stato neppure capace di adeguare i miei argomenti a quelli di tutti, e cosi non ho mai frequentato dei caffè, o gli altri luoghi di conversazione; me ne sono rimasto sempre per conto mio e basta. Forse è stato un errore, sicuramente, ma non posso certo iniziare adesso che sono in là con gli anni e vivo ormai talmente solo da risolvermi a parlare col gatto e qualche volta con lo specchio.
A cosa serve tutto questo, penso qualche volta. Le cose vanno avanti per conto proprio, le persone quando cammino per la strada certe volte mi guardano come se fossi uno diverso da qualsiasi altro. Ma io lascio correre, niente di questo mi riguarda, i giudizi di tutti neanche mi sfiorano, sono soltanto un tizio disinteressato di parecchie cose, vorrei dire, uno che si lascia  accompagnare semplicemente dalle sue abitudini.
Perché mai dovrei cambiare, rifletto in seguito, per quale motivo mettermi a parlare con tutta questa gente che non sa neppure cosa dire, a cui le parole non costano un bel niente, escono loro di bocca come vapore, come respiro d'affanno dopo una lunga corsa. Resto da solo, preferisco così che confondermi con chi non sa neppure misurare dei pensieri, e quindi neanche quei sottili dubbi che si insinuano a volte nella mente e non se ne vanno più, per nessun motivo.
Possiedo poco, rifletto, forse niente; proprio perché le mie povere cose le ho tenute sempre per me, senza porgerle in giro assieme magari a qualche bel sorriso, accompagnando tutto quanto con quelle stesse parole così gradite a molti. Ma non ha importanza alcuna, mi dico; va bene in questo modo, non voglio compromessi: rientro in casa, sto col gatto, mi occupo dei miei pensieri e di nient’altro. Mi siedo sopra la poltrona, lascio che il gatto venga sopra le mie ginocchia, poi gli dico che è tutto a posto, il suo cibo sta di là, tra poco ne metterò una porzione dentro la sua ciotola.
Mi alzo, elenco con calma i miei gesti casalinghi, e so per certo che non ci sarà bisogno d'altro, almeno per stasera. Cosa m’importa di queste feste così finte, di questi auguri che rimarranno perlopiù lettera morta, di tutta la patina che non porterà mai niente di diverso. Mi siedo, suonano alla porta: è il mio vicino, dice che stasera sono invitato a cena a casa sua, insieme a tutta quanta la sua famiglia. Non può pensarmi tutto solo, spiega, e poi vuole parlarmi dei gatti ed anche di altre cose. Lo guardo, non mi risolvo a rispondere niente, ma la mia volontà sento che vacilla. Accetto, dico alla fine sottovoce: in fondo c’è ancora tempo per la solitudine.


Bruno Magnolfi

lunedì 22 dicembre 2014

Direzione meravigliosa.

            

Pur piccola, comunque persino troppo vasta quella piazza delle medaglie d'oro per non mostrare come molte delle persone che avrebbero potuto esserci davvero avessero invece deciso, probabilmente proprio all'ultimo momento, di non aderire affatto almeno per quella volta alla manifestazione generale del pensiero collettivo. Non ha alcuna importanza, sostiene lei; poi dice: noi dovevamo comunque essere qui, almeno la nostra presenza era richiesta, anzi era assolutamente necessaria, il resto invece può anche mostrarsi maggiormente marginale. Di fatto quella specie di raduno risulta soltanto l'elementare dimostrazione che esistono ancora persone capaci di riflettere almeno alcune delle proprie idee in modo piuttosto diverso da molti, e questo loro parere in base ai fatti evidenziati assume indubbiamente, soprattutto in certi casi, una propria oggettiva importanza.
Lui al contrario è perplesso, si guarda attorno, poi torna ad osservare lei che pare comunque accontentarsi. Forse non si poteva pretendere di più con la scarsa informazione che siamo riusciti a dare, le dice. Lei annuisce, loro non hanno né bandiera né striscione, sono soltanto due individui qualsiasi che in mezzo a diversi altri sparuti personaggi cercano di dare almeno un senso definito ad alcuni dei loro pensieri. E’ difficile, si dicono, evidenziare delle idee senza mostrare contemporaneamente alcuna appartenenza: sembra quasi impossibile, ma nessuno tra i normali cittadini pare interessato a cose di questo tipo; sono temi che non caratterizzano immediatamente il contesto esatto in cui si muovono, forse per questo sfuggono, paiono addirittura insignificanti. Eppure loro due, comunque sia, in quella piazza ci sono e non sono soli: qualcun altro ha pur aderito a quella causa, ed adesso è lì, sta mostrando la sua faccia, e soprattutto evidenzia il proprio consenso su quanto  stabilito. Tutti si stringono la mano, si sorridono, indicano ognuno qualcosa di comune, e tutto questo pare già del tutto sufficiente alla causa a cui hanno dato adesione.
Loro due si spostano attorno alla piazza, quasi nella nervosa ricerca di qualcosa che sembra proprio non riescono a trovare, e infine lei dice semplicemente che avrebbe improvvisamente bisogno di un caffè, e lui volentieri l'accompagna in un piccolo locale proprio lì vicino. Si siedono, si guardano, lui affronta l'argomento spiegando che non c'è niente per cui prendersela, le cose a volte sono più difficili di quanto si vorrebbe, e lei annuisce a quelle parole. In certi casi mi dipingo una realtà diversa da quella che è, dice lei; però va bene così, devo imparare ad accontentarmi anche delle piccole cose.
Quando tornano sulla piazza qualcuno ha già iniziato ad andarsene, ma la giornata sostanzialmente grigia fino a quel momento mostra adesso nella parte bassa del cielo una striscia di aranciato disegnata dal tramonto del sole, e le facciate delle case tutt'attorno paiono improvvisamente accendersi di serenità. Lei sorride, la manifestazione in quel momento pare sciogliersi, la gente se ne va, ma la serata ad un tratto sembra quasi incoraggiante. Vorrebbe fermare tutti lei, ringraziarli uno per uno, dire loro che in fondo è stato bello ritrovarsi in quella maniera, anche se alla fine tutto il loro sforzo non servirà probabilmente proprio a niente. Siamo stati qui insieme, vicini, almeno per un momento, pensa adesso; ed eravamo uniti, accostati da una stessa idea, le pare quasi di poter dire a tutti. In fondo è questo ciò che conta per davvero: guardare qualcosa insieme, tutti verso una stessa direzione.


Bruno Magnolfi

martedì 16 dicembre 2014

Ingombro evidente.

            

Quando lei è scivolata sul pavimento, sull'immediato forse mi sono addirittura dispiaciuto dentro di me: in quel momento mia moglie mi pareva soltanto, forse anche per via del pancione, una povera disgraziata ridicola ed assolutamente senza valore; però quando le ho sferrato con tutta la forza che ho trovato il primo calcio sul fianco, ho immediatamente provato una grande soddisfazione, proprio come se stessi scaricando in quei colpi, peraltro assolutamente necessari, tutta la tensione da me accumulata negli ultimi tempi. Lei ha subito urlato qualcosa, certo, forse ha anche proseguito a lamentarsi piangendo, non lo ricordo neppure, ma questo non ha provocato altro in me che farmi stringere i denti dalla rabbia per continuare ancora a colpirla, ad umiliarla, a schiacciarla sotto di me, proprio come in quel momento si meritava. Poi, una volta stanco, sull’immediato volevo quasi andarmene via, uscire al più presto da quella casa, prendere una boccata d’aria da qualche altra parte e dimenticarmi in fretta di quanto successo, però accanto a me ho visto il solito divano all'interno della nostra stanza, e con la fronte sudata per lo sforzo mi ci sono seduto, cercando di riprendermi e di calmare il mio fiato corto.
Lei a quel punto era ancora a terra e si reggeva il fianco e la pancia, ma ora piangeva e basta, quasi in silenzio, senza parlare, praticamente senza più darmi noia. Ho pensato che in fondo forse mi sarebbe quasi dispiaciuto avesse perso il bambino, però ero anche convinto che quel trattamento fosse esattamente quanto meritava, e poi alla fine mi pareva che questi non fossero neppure del tutto dei fatti che mi riguardavano. O meglio, il caso che ci fossimo sposati quasi un anno prima, secondo me non doveva assolutamente darle il permesso di fare tutto quello che le pareva, questo pensavo. Poi è chiaro che con una donna non si può mai sapere chi possa essere veramente il padre del bambino quando partorisce, e quindi per questo non era necessariamente cosa che mi riguardasse. Le avevo già detto più volte che doveva alla svelta farsi togliere quell'ingombro, ma lei no, voleva tenerlo per sé ad ogni costo, diceva, ma io immaginavo che si comportasse così soltanto per farmi un dispetto, per intralciarmi, ecco. Per questo ho perso le staffe, non perché fossi ubriaco o cose del genere.
Quando si è tirata su ho visto subito che aveva perso del sangue, non molto comunque, così dapprima mi sono sentito quasi umiliato da quella sua specie di messinscena, poi ho compreso che le cose alla fine si erano già messe piuttosto bene, e che in pratica non c'era neanche bisogno di altro. Ma subito dopo ho anche capito che lei stava probabilmente pensando di telefonare al pronto soccorso, ma senza mettermi in mezzo ho lasciato che lo facesse, e sono rimasto semplicemente seduto con la mia birra e i miei pensieri: in fondo era giusto che si facesse vedere nelle sue condizioni, non c'era niente di male in tutto questo. Sei caduta per le scale, le ho detto però a voce alta e con forza, non cercare di dire in giro altre cretinate. Lei tremava e non ha replicato un bel niente, e questo forse non mi è del tutto piaciuto. Non cercare di fregarmi, ho urlato ancora; la colpa di tutto è soltanto tua, e tu lo sai bene.
Quindi sono uscito, ho fatto un giretto da solo, e quando sono tornato lei non c'era già più, o almeno così mi è sembrato. Ho pensato che tutto adesso sarebbe andato al suo posto e che non ci sarebbero stati altri problemi. In fondo ciò che desideravo era soltanto riprendere la mia vita di sempre e finirla una volta per tutte con quelle scemenze. Ma quando ho avuto la sensazione che qualcosa non stava andando per il verso giusto, ho provato improvvisamente paura. Sono tornato ad uscire e mi sono infilato nascosto in un portone buio poco distante. Sono arrivati poco dopo dei piedipiatti, e questo non mi è piaciuto per niente. Adesso mi guardo attorno e ancora non capisco cosa ci sia di male in quello che ho fatto: lei è caduta lungo le scale, io non c'entro per niente, anzi, mi dispiace di ciò che è accaduto; ma domani penso che potrò andare tranquillamente ad un posto di polizia e dirlo ben chiaro tutto questo, senza assolutamente problemi.


Bruno Magnolfi

mercoledì 10 dicembre 2014

Viaggio della rinuncia.

           

Ho quasi paura, fa lui sottovoce proseguendo a guidare. L'altro finge di non averlo sentito. La donna, al fianco del posto di guida, dice che secondo lei devono in ogni caso spingersi in avanti. Fuori dall'abitacolo la notte appare impenetrabile, i fari della macchina rischiarano di fronte a loro una porzione ridicola di asfalto. Perché accade tutto in questo momento, riprende a chiedersi la donna a voce alta; perché mai proprio in questo momento. Nessuno risponde, tanto appare retorica quella domanda.
Alla fine di questo viaggio sicuramente molte cose saranno diverse, dice l'altro. Lui prosegue a guidare, ma dopo pochi minuti dice che forse sarebbe meglio se si fermassero, almeno per qualche minuto. L'altro non perde neppure tempo a chiedere il motivo della sosta, si limita a sbuffare e lascia che poco dopo la loro auto si immetta nella piazzola di un distributore di benzina ormai chiuso. Accanto all’area, sottolineato da un’insegna luminosa, c'è un piccolo autogrill ancora in funzione; la donna fa cenno che potrebbero andare lì e prendersi almeno qualcosa da bere.
Scendono in silenzio, entrano ordinatamente nel piccolo locale e si siedono ad un tavolo. Bene, dice l'altro con ironia, non ci resta che fare una bella chiacchierata come dei buoni amici. Lui non risponde, si limita a guardare da qualche parte con l'aria di chi vorrebbe essere altrove. La donna ordina al cameriere del caffè per tutti, poi spiega che secondo lei non c’è motivo per farsi prendere dai nervi. L’uomo del bar porta quanto ordinato, osserva tutti con aria quasi di sospetto, ma serve le tazze ed il resto senza dire niente. Lui gli chiede quanta strada ci sia ancora prima di giungere in città, e l’uomo dice semplicemente: non molto, senza aggiungere altro.
Quando tornano a salire sull’auto lo fanno un po’ svogliatamente, quasi provando sofferenza. L’altro dice senza mezzi termini che non ha più molta voglia di spingersi ancora in avanti, ma l’autista riprende a guidare quasi non avesse sentito niente. La donna si sistema sopra al sedile come meglio può, e dopo poco chiude gli occhi, proprio mentre una fila di lampioni a bordo strada mostra le facciate delle case di una piccola frazione.
Proseguono ancora in silenzio per circa mezz’ora o poco meno, infine delle forti illuminazioni mostrano già da lontano che stanno per giungere nella città. La donna si scuote, tira fuori dalla borsa alcune cose insieme ad un piccolo foglio con su scritto l’indirizzo dove devono recarsi; l’altro, sui sedili posteriori, appoggia le braccia agli schienali davanti a sé, quasi per essere maggiormente partecipe di quella fase.
Lui rallenta la guida, le strade cittadine si aprono agli inizi nell’interno di una periferia sostanzialmente anonima, ma poi alcuni viali sfociano invece in larghe piazze, alcune anche alberate. Alla fine la strada che cercano si staglia improvvisamente di fronte a loro, quasi in modo magico, così la macchina rallenta, si accosta, e poi va a fermarsi in un parcheggio libero.
Sono arrivati, adesso devono soltanto scendere, suonare il campanello come pattuito, salire le scale e riunirsi con gli altri che probabilmente sono già tutti arrivati: ma un brivido di fatto sembra attraversarli. Il motore e i fari spenti mostrano un vuoto terribile, il silenzio che si forma sembra quasi parlare per loro. Che facciamo, chiede la donna. L’altro la guarda restando in silenzio. Lui alla fine dice soltanto: andiamocene via, riavviando il motore.

Bruno Magnolfi


venerdì 5 dicembre 2014

Luce nuova.

            

L'immagine non è molto nitida. Lei appare raffigurata di fianco, seduta, china sul tavolo illuminato da una lampada fioca; forse sta scrivendo qualcosa, o magari sottolinea una parola o una frase importante che ha appena finito di leggere. A dire il vero, quella che tiene nella mano destra potrebbe addirittura essere una matita, e lei potrebbe tentare, come altre volte ha fatto, di dare forma ad un disegno che in seguito magari completerà con dei piccoli pennelli e dei colori. Probabilmente, da quello che si riesce a vedere, anche il resto della stanza in cui è immersa in quella penombra è essenziale, proprio come la sua figura, persino priva di inutili elementi di decoro.
Ora, si sa che spesso lei scende le scale del suo appartamento, e certe volte va a trascorrere un'ora nella saletta di un caffè lì vicino, insieme ad una sua amica. Oggi le ha raccontato di un sogno, giusto poco prima, quando si sono viste in quel locale; un sogno di molti anni addietro, ma che lei non ha mai dimenticato, quasi come fosse una cosa preziosa, da conservare.
Spesso lei scrive o disegna i fatti che cerca di tenere a memoria, perché la sua vera paura è che tutto di sé all’improvviso svanisca, evapori, proprio come fosse qualcosa che praticamente non  è mai accaduto. Però è anche vero che molto spesso le sue descrizioni le prendono un po’ la mano, e nello stesso momento in cui le sue parole finiscono sopra la carta, ecco che qualcosa inizia magicamente a cambiare, come se una nuova realtà stesse cercando di sovrapporsi a quell’altra.
Lei in questi casi sorride, prosegue comunque con il suo intento, forse aggiunge anche dei disegni alle sue frasi, tanto per cercare di essere ancora più esplicativa, ma spesso quella fedeltà con la memoria che lei vorrebbe tanto, sembra subdolamente annullarsi, lasciando variare direttamente in lei stessa, poco per volta ma sensibilmente, proprio quei suoi ricordi.
La sua amica leggendo quella pagina di diario che riguarda il suo sogno, le ha detto che qualcosa sembra diverso rispetto al racconto che ne ha fatto a voce, e lei si è come risentita, innervosendosi, tanto da voler cambiare argomento: forse non dovevo proprio parlarti di queste cose, le ha detto secca. Ma quando poi è tornata da sola nel suo appartamento, non ha potuto fare a meno di ripensare a quanto era successo.
Un sogno è qualcosa che appartiene alla tua intimità più profonda, ha pensato. Non se ne può cambiare il senso soltanto perché le parole mal si adattano alla sua descrizione. Chi possiamo mai essere, se non proprio le cose che abbiamo dentro, ciò che più fortemente di tutto il resto abbiamo pensato, desiderato, sperato, tanto da renderle figurate e illuminanti persino durante il nostro sonno, quando la nostra mente è del tutto autonoma.
Poi ha ripreso la sua posizione seduta davanti a quel tavolo: alcune carte davanti, il libro iniziato, la matita, gli utensili di ogni giorno per cercare di essere maggiormente se stessa. Ha tracciato un percorso, una linea contorta e complessa la cui decifrazione forse non riesce a portare la mente da alcuna parte. Ed infine è rimasta così, perplessa, piena di dubbi.
Poi la sua immagine si è fatta più chiara; maggiore luce è come arrivata dalla finestra, il bianco dei fogli ha mostrato ciò che c’era ancora da fare, lei si è scossa, ha ripreso il lavoro iniziato, ha ripensato a quanto aveva cercato di fare fino ad allora, ed infine si è soffermata di nuovo sul suo vecchio sogno: ma ha deciso in un attimo che forse adesso non aveva più alcuna importanza, c’era altro che urgeva, così si è alzata dalla sua sedia ed ha sorriso alla luce.  

Bruno Magnolfi



martedì 2 dicembre 2014

Vertigine momentanea.



Si rannicchia sullo scomodo sedile di quel treno locale, Tonio, ed osserva, senza farsene accorgere, una ragazza sola in fondo al vagone che è salita proprio all’ultimo momento prima della partenza. Non è da molto tempo che la mamma quelle due volte a settimana gli lascia raggiungere il Centro Sanitario senza che nessuno lo accompagni, anche se lei al pomeriggio lo aspetta sempre nella piccola stazione quando torna. Ma lui non ha paura, si sente bene, e quella mezz’ora sul treno tutto sommato gli piace, anche perché in molti lo conoscono e lo salutano sempre.
Non guarda mai fuori dai finestrini, questo è vero, la velocità gli mette sempre una grande apprensione, però dentro al vagone ci sta bene, riesce a trovare quasi sempre delle persone simpatiche che parlano con lui, gli battono una mano sulla spalla, si fanno raccontare tutto quello che fa e che gli passa per la testa. Ma oggi purtroppo non c’è molta gente su quel treno, lui si è sistemato su un sedile vuoto e ad un tratto ha sentito come un brivido, quasi provasse improvvisamente il bisogno di avere la sua mamma vicino, proprio come quando era più piccolo.
Sei proprio un bel ragazzone, gli dicono sempre tutti quanti quando lo incontrano, e Tonio però sa di avere quasi trent’anni, e che quella è l’età giusta per andare da solo fin dove gli pare; ma qualche volta, proprio come adesso, non si sente perfettamente a suo agio, e senza avere intorno almeno qualcuno che conosce, sente di non starci molto bene in giro, persino su quel treno che gli piace. Così guarda di nuovo quella bella ragazza, laggiù in fondo, e forse vorrebbe averla conosciuta precedentemente, averla almeno già vista là sopra, gli piacerebbe magari fosse una di quelle tante persone che a volte gli sorridono, che lo chiamano per nome, che lo salutano con allegria; ma non è così.
Si rannicchia di più, stringe i ginocchi magri con le sue braccia, la ragazza lo nota magari per un momento, ma poi torna con indifferenza a guardare fuori dai finestrini. Sono qui, vorrebbe dirle Tonio: forse potremmo avvicinarci un po’ tra noi, pensa, sorridere insieme, parlare magari di questo viaggio; e forse anche di come si trascorrono le giornate, queste giornate spesso piene di gente e di chiacchiere, e di domande a cui dobbiamo rispondere, e di compiti a cui bisogna far fronte. Si potrebbe diventare amici, magari, scambiarsi i nostri nomi, stringersi la mano come si fa in tutti questi casi. Ma lei non lo guarda, e lui forse adesso inizia a stare male.
Si volta verso il finestrino allora, ma per non vedere tutta quella velocità del paesaggio che fugge, si mette subito una mano sopra gli occhi. Neppure il controllore passa in questa strana giornata, pensa Tonio: sono solo, forse neppure la mamma sarà alla stazione ad aspettarmi. Improvvisamente lui sente che non gli importa più di niente, forse neanche di scendere a quella stazione: vuole soltanto dormire, ecco; sdraiarsi alla meglio sopra al sedile e lasciare che il treno lo porti fin dove vuole, senza lasciare a lui di preoccuparsi più di niente.
Qualcosa sta succedendo, pensa Tonio, non posso farci nulla, le cose accadono senza che nessuno possa interromperle. Sente anche la voglia di piangere, senza che ci sia un vero motivo per farlo. Toglie la mano dagli occhi, guarda per un attimo quella campagna e quelle case che corrono, nel mezzo del niente, che vanno chissà dove, e prova una sottile vertigine. Poi si fa prendere del tutto da quel panorama, si incolla al finestrino, osserva le colline lontane, pensa alle persone ferme che magari vedono il treno passare, e lui dentro, dietro quel vetro.
Tonio prova un grande malessere, forse vorrebbe che tutto improvvisamente si fermasse, desidera fortemente essere già a casa, con la sua mamma, oppure addirittura tornare al Centro, e ricominciare a parlare ancora con il dottore, riflettere meglio sulle sue domande, provare a dargli delle risposte ancora migliori di quello che ha sempre fatto. Poi si gira, torna di nuovo a rannicchiarsi sopra al sedile. Ma neppure la ragazza laggiù è più al suo posto, non c’è, si è spostata, forse è andata via: no, non se n’era neppure accorto, ma lei adesso è li, accanto a lui, proprio vicino, e adesso lo guarda e gli sorride, gli dice di stare tranquillo, e che va tutto bene, e che la prossima fermata sarà proprio la nostra, gli spiega; potremo scendere assieme, gli dice, e ritrovare in un attimo la mamma.


Bruno Magnolfi