sabato 31 dicembre 2011

(Profilo n. 15). A spasso nel mondo.

         

            La piazzetta del paese, da un anno all’altro, appariva identica, invariabile, con le sue panchine di legno nel centro, intorno alle quali erano state ricavate delle aiuole che costituivano nell’insieme un piccolo giardinetto, con quattro alberi di tiglio messi in modo simmetrico, dalle foglie verde scuro perennemente polverose. Lui, potevi incontrarlo lì, seduto, generalmente intento a leggere qualche giornale, immerso nei suoi pensieri, o certe volte impegnato a scrivere qualcosa sopra a dei fogli bianchi, o anche sopra qualche vecchio quaderno. 
            Nessuno ricordava di averlo mai visto lavorare, o occuparsi di qualcosa, forse un’invalidità permanente lo aveva reso inabile a qualsiasi attività, o forse aveva una piccola rendita che gli permetteva di mandare avanti le giornate così, senza uno scopo preciso. In ogni caso stava là, in modo assiduo, da solo, praticamente in ogni stagione, come se quello fosse l’unico luogo dove si trovasse a suo agio, in pace, soddisfatto di sé e delle sue riflessioni. Lo salutavamo, è evidente, se si incontrava lungo il marciapiede, quando magari se ne tornava verso casa, ma lui rispondeva in genere con appena un bofonchio, segno evidente della sua scarsa disponibilità verso gli altri.
            Una volta dei ragazzetti gli avevano urlato dietro qualcosa, tanto per ridere, ma lui non si era preoccupato più del dovuto. Si era fermato, aveva girato indietro solo metà del suo corpo, ed era semplicemente rimasto lì per qualche minuto, ad osservare quel gruppo che si allontanava, come se già soltanto quello sguardo fosse una punizione più che sufficiente. La maggior parte delle volte, però, nessuno faceva mai troppo caso alla sua persona, come se la sua figura fosse scontata, facesse parte di quel panorama paesano, e non ci fosse da preoccuparsene troppo.
            Un giorno qualsiasi, poi, senza neppure un motivo apparente, come fosse per la prima volta, lui aveva iniziato a parlare. All’improvviso chissà che cosa era scattato dentro di lui, aveva iniziato a fermare per strada qualcuno, e gli chiedeva qualcosa, e poi di seguito iniziava a parlare di sé, delle sue convinzioni, di ciò che pensava, a volte addirittura anche della sua opinione sul nostro piccolo paese. Da un giorno all’altro aveva iniziato a parlare di tutto con tutti, anche di cose che non interessavano troppo, come se dovesse rifarsi di un lungo periodo solitario, in cui non aveva detto niente. Raccontava che a lui sarebbe piaciuto girare, andarsene a spasso nel mondo, e questo ai più di noialtri sembrava praticamente incredibile, proprio lui che era sempre sembrata la persona più inamovibile tra tutti, quasi incastrata dentro a quelle poche abitudini di cui aveva fatto sfoggio da sempre. Eppure adesso questo diceva.
            E infine sparì dalla strada, d’improvviso, come si fosse stufato di tutto, come se avesse iniziato a cercare di starsene in casa il più a lungo possibile. Non lo si vedeva più nella solita piazzetta, non si incontrava lungo la via, ma nessuno stette davvero a preoccuparsi di quella sua nuova stranezza, e il fatto di non incontrarlo sul marciapiede, per alcuni fu quasi motivo di alleggerimento, rispetto a quei suoi discorsi un po’ noiosi e inconcludenti. Così passarono alcune settimane, forse anche di più, e solo per caso si scoprì a un certo punto che era partito. Allora parve mancare di più a tutti noi, e molti solo allora si ricordarono di essere suoi concittadini, e qualcuno prese quasi a parlarne con nostalgia, come se quella assenza fosse una perdita per coloro che lo avevano conosciuto, anche se alla fine parecchi paesani si abituarono velocemente a non incontrarlo più sul marciapiede, perché lui era andato via veramente, e ognuno se ne dovette fare una propria ragione: era andato sul serio, come a qualcuno aveva confessato di voler fare prima o dopo, ed ora era possibile soltanto immaginarlo in chissà quali dei suoi giri, sicuramente a spasso nel mondo.


            Bruno Magnolfi  

martedì 27 dicembre 2011

In attesa del vento.

            
Seduto in un bar all’aperto Renato osserva la strada. Non c’è niente da vedere, se non la polvere accumulata sui bordi, e le auto che ogni tanto transitano da li, come fossero impegnate nella invariabile ricerca dell’introvabile. Il cameriere, disimpegnato dal locale deserto, si fa sulla porta, dice: è una giornata allentata, e sorride. Renato lo guarda, chiede un altro caffè, poi si corregge: un succo di frutta, alla pesca. Dovrebbe andarsene, pensa, fare qualcosa, ma si sente indeciso su tutto, non riesce neppure a immaginarsi qualcosa di positivo.
Il cameriere lo serve, lui resta immobile, pensa che il tempo gettato via in quella maniera non tornerà mai, poi si accende una delle sue sigarette. Un’auto si ferma a tre o quattro metri, una donna chiede un’informazione qualsiasi, Renato indica con la mano qualcosa, senza parlare, quella riparte con un grazie sbiadito. Il caldo del pomeriggio si fa sentire, un isolato più avanti c’è il mare, ogni tanto se ne avverte il profumo, pur nella calma di vento.
Non succederà niente, non può succedere niente, pensa lui senza sorpresa. Poi si alza da quella sedia, tira fuori di tasca qualche moneta e paga le sue consumazioni, quindi si volta, inizia a camminare lentamente nella stessa direzione che ha indicato alla donna dell’auto, e va avanti, quasi senza pensieri. Raggiunge la piccola chiesa bianca dei marinai, lungo la via, e dietro l’angolo vede la macchina parcheggiata accanto al marciapiede. La donna sta uscendo dal portone di una delle case poco distanti, lo vede, sorride, dice qualcosa che Renato non riesce a comprendere. Lei passa da dietro alla sua vettura, apre lo sportello, si volta di nuovo, ha forse bisogno di un passaggio? dice con lo sguardo più serio.
Lui prosegue a camminare verso la donna, non le risponde, ma arriva allo sportello dell’auto accanto al marciapiede, si ferma appena un secondo, lo apre e si mette seduto. Lei avvia il motore, innesta la marcia e guarda la strada mentre la sua vettura va avanti diritta. Dove andiamo?, gli fa. Non saprei, dice lui, mi basta muovermi un po’, scoprire che questa giornata ha un qualche senso, che la vita non è fatta soltanto per vegetare e perdersi nell’attesa di niente, o del vento.


Bruno Magnolfi

lunedì 26 dicembre 2011

L'eclissi di tutti i pensieri.


L’immagine costruita nella mente sembra perfetta, quasi più di una fotografia già scattata e stampata. Ripercorro lentamente le linee che ho intravisto, ed incornicio i personaggi così come li ho immediatamente pensati. Un uomo, di profilo, in primo piano, con le sue rughe sottili, che osserva da una parte qualcosa che non è possibile vedere, e intanto assume un’espressione compiaciuta, quasi sorridente. Due ragazze, un po’ più lontano, alle sue spalle, che camminano serie, quasi senza interesse: la strada sembra poco più di un viottolo, mentre si snoda tra qualche casa di pietra, forse un piccolo borgo di campagna, e sullo sfondo alcune piccole colline qualsiasi, dove qualcuno sta lavorando la terra. 
Mi distraggo girando per casa, spostando qualcosa da una parte e dall’altra, accendo la radio, ascolto qualche notizia, mi raggiunge ad un tratto una musica che pare lontana, quasi fuori da quelle mie stanze. Allora prendo un foglio di carta e qualche matita, ma tutto mi appare sbagliato, anche il solo sedermi al tavolino vicino ad una finestra. Ripenso all’immagine che soltanto poco fa mi era sembrata indelebile, senza neanche sapere perché, ma scopro che qualcosa è cambiato, il senso di ciò che mi era passato sugli occhi soltanto un attimo fa, adesso è diverso. 
Inutile inerpicarsi a comprendere, penso senza interesse; ogni variazione porta un segno che sfugge, e anche se riesco a convincermi dell’importanza di fissare dei punti salienti, il tempo che passa si prende un’immediata rivincita, e rende insulso qualsiasi tentativo. Cerco di disegnare il profilo dell’uomo con pochi segni leggeri: lui ad un tratto si volta verso di me, mi osserva conservando il suo vago sorriso. Si è avvicinato dentro al mio foglio, ha occupato ormai tutto lo spazio, sembra quasi che voglia parlarmi, ma rimane in silenzio. Non è affatto uno specchio, penso mentre proseguo a tracciarne i dettagli, è una persona che non conosco quella che scruta nella mia mente, ma è proprio inutile che io cerchi di sfuggire a quel suo controllo: è lì, ma anche dentro di me, anche qua attorno, devo semplicemente affrontarla, non esiste una possibilità differente.
Mi alzo, riprendo a camminare nelle mie stanze, la radio gracchia qualcosa. Il foglio di carta, sollevato da una piccola corrente d’aria che ho prodotto muovendomi, scivola a terra rovesciandosi. Lo tiro su prendendone un margine: l’uomo disegnato ormai è una macchia grigia scomposta che adesso non ha più alcuna sembianza, così lo appallottolo e lo getto dentro al cestino. Non ha senso che cerchi di definire sempre qualcosa, penso mentre ripongo carta e matite: è soltanto quel filo sottile che scorre lentamente senza rumore, che serve a comprendere come tutto si snodi in mezzo alla massa scomposta dei propri pensieri; ad un tratto è come se si fermasse, tu allarghi lo sguardo, senti che è quello il momento in cui tutto è chiaro e la realtà sembra svelarsi. Poi, come un’eclissi improvvisa, si rabbuiano tutte le cose che avevi immaginato in quell’attimo, e il pensiero riparte, senza radici, sperso nello spazio infinito.


Bruno Magnolfi

venerdì 23 dicembre 2011

La prova decisiva.

            
            Nella saletta d’attesa, lei aveva detto qualcosa senza cambiare espressione, lui era rimasto in silenzio, continuando a guardare il movimento di gente fuori dai vetri. Una persona era passata davanti alla loro fila di sedie, raggiungendo il binario dove, da lì a poco, sarebbe sopraggiunto un treno veloce, e lui aveva pensato qualcosa, poi si era frugato dentro una tasca e aveva osservato per un secondo il profilo di lei, ma quasi senza interesse. Quella fuga da tutto, pensata nei giorni precedenti come una liberazione, come unica soluzione a tutti gli affanni, doveva diventare il coronamento del loro rapporto, ma già ancora prima della partenza mostrava crepe e contraddizioni nel loro diverso modo di riflettere su quel futuro nebbioso.
            Andavano via, questo si, lasciandosi alle spalle tante cose, una manciata di soldi dentro le tasche e la voglia di ricominciare esattamente da quel punto, loro due insieme, a sostenersi l’un l’altra, come fosse possibile azzerare ogni passato. Era difficile far combaciare le idee, i propositi: avevano sei mesi di autonomia, forse anche di più, poi avrebbero dovuto far funzionare le cose, trovare un lavoro, sistemarsi in qualche maniera.
            Nella sala d’attesa, i tubi al neon sul soffitto generavano una luce nervosa, capace di distogliere qualsiasi pensiero positivo: lei sentiva dentro di sé la voglia di parlare, forse di spiegare a qualcuno la scelta estrema ormai già decisa, ma si accontentava di osservare le persone indifferenti, quasi che in quelle facce seriose stesse il segreto di tutto il futuro. Lui si sentiva convinto di ciò che avrebbero dovuto affrontare, ripassava mentalmente ogni gesto che avrebbe messo in pratica già dal giorno seguente, e il resto gli pareva soltanto una sciocchezza di cui liberarsi al più presto. Dai megafoni una voce metallica seguitava imperterrita ad annunciare arrivi, partenze, ritardi, itinerari più o meno famosi, e la gente proseguiva a spostarsi da una parte all’altra della stazione, seguendo indicazioni ed orari.
            Poi qualcosa parve librarsi nell’aria: lui le aveva toccato una mano come se avesse bisogno di quel minuto contatto per sentire che non era da solo; lei aveva sorriso, come a rassicurarlo da ogni pensiero diverso, che non fosse quella convinzione profonda che doveva mostrarsi superiore a qualsiasi ripensamento. Mancavano ormai poche decine di minuti prima di sentire la voce annunciare quel loro treno, il momento si mostrava importante, forse, da qualche parte del loro veloce riflettere, era già arrivata la proiezione di loro due a distanza di un anno, o di due. Lui aveva tirato fuori la mano da dentro la tasca, l’aveva osservata quasi a convincersi che contenesse davvero i biglietti di sola andata per quella destinazione decisa, poi di nuovo era tornato ad osservare il viso di lei, come depositaria di una verità che all’improvviso pareva sfuggirgli.
            Lei lo aveva guardato con un calmo sorriso stampato sopra la faccia, aveva ascoltato la voce che annunciava finalmente, da un punto remoto dell’universo, il loro futuro, e aveva cercato di infondergli un po’ di coraggio, quasi una spinta ulteriore a perseguire ciò che avevano deciso in comune. Si erano alzati in piedi, senza fretta, guardandosi, lui sentiva vicina la commozione, lei gli aveva strinto un braccio quasi a rassicurarlo; poi, lentamente, avevano preso a camminare verso il marciapiede che era stato indicato, si erano guardati ancora diverse volte negli occhi senza parlare, e infine, quasi immersi in uno stato di insensibilità, avevano preso posto dentro il loro scompartimento, ormai quasi sicuri che tutto quanto sarebbe crollato nei giorni seguenti.


            Bruno Magnolfi    

domenica 18 dicembre 2011

Il luogo fondamentale di ogni riflessione.

            
            Ciò che è accaduto, soltanto in minima parte somiglia a quello che avevo previsto, il resto è frutto dell’eventualità, del caso, di pura combinazione. Camminavo lungo le strade , cercavo quasi di carpire dall’aria i fondamentali della situazione, e intanto perseguivo la coerenza come elemento di peculiarità e distinzione. Un uomo mi aveva fermato, soltanto per avvertirmi di qualcosa che non andava nel mio aspetto: assomigliavo, secondo lui, ad un individuo isolato, che aveva come perduto il senso della propria esistenza. Risposi in fretta, seccato, che era assolutamente vero il contrario, il mio girare in mezzo alla gente era soltanto la semplice ricerca confermativa di ciò in cui credevo.
            L’altro, alle mie parole, aveva assunto una strana espressione, e abbassando lo sguardo aveva spiegato, secondo lui, che quello era un metodo assolutamente sbagliato: sarei rimasto persuaso delle mie idee in ogni caso, e anzi, avrei rafforzato così ogni mia convinzione, anche se ognuna di loro fosse stata assurda e irreale. Questo ragionamento mi aveva lasciato perplesso, e proseguendo avevo chiesto all’uomo di accompagnarmi in un caffè poco distante, in modo da spiegarmi con calma tutto il suo punto di vista.
            Ci eravamo scambiati, là dentro, seduti ad un tavolino, moltissime idee e convinzioni, ma le cose, a dire la verità, erano andate un po’ per le lunghe, e quando eravamo usciti da quel locale, dopo avere bevuto diversi bicchierini di acquavite, era tardi, e le strade erano quasi deserte. Mi ero subito offerto di accompagnarlo fino a casa, giusto naturalmente per terminare gli ultimi discorsi che avevamo da fare, ma quando si era giunti nella via dove lui abitava, mi era parso subito che gli argomenti che avevamo toccato fossero tutti rimasti nell’aria, da completare, come se ancora moltissimi aspetti fossero ancora da prendere del tutto in esame.
            Mi innervosii terribilmente della sua caparbietà nel voler ritirarsi lasciandomi lì, fino a spingermi addirittura ad offenderlo, pur di smuovere la sua voglia di completezza che senz’altro provava, ma non ci fu niente da fare. Maledetto, allora gli dissi, lei è una persona impossibile, che neppure crede a ciò di cui parla, un insulso, insomma, indegno di considerarsi un uomo davvero. Non so cosa di preciso accadde in quel preciso momento, sicuramente non riuscii a conservare la calma necessaria, qualcosa si rimescolò al mio interno, e allora presi una pietra e lo colpii sulla testa, lasciandolo a terra, forse morto.
            Immediatamente fuggii, probabilmente nessuno mi aveva notato, il sangue mi bolliva all’interno, ero preda di una febbre pazzesca. Raggiunsi velocemente il mio appartamento e mi chiusi a chiave nella mia camera, dove rimasi per un numero imprecisato di giorni, preda di un delirio quasi costante, accettando soltanto del tè e restando da solo per tutto il periodo. Poi, poco per volta, riuscii a scrollarmi di dosso quei forti malesseri, fui capace di riprendere lentamente la mia vita normale, e di ricominciare a pensare le cose quasi come avevo fatto fino ad allora. Non mi importava niente di ciò che era accaduto, non mi interessava per nulla il passato con tutto ciò che questo pareva comportare: adesso era il futuro il luogo di ogni mia riflessione, nient’altro.


            Bruno Magnolfi  

venerdì 16 dicembre 2011

Un albero vicino a cui piangere.

           
            Presto, sali, aveva detto Rino alla ragazza nello stesso momento in cui le aveva aperto lo sportello della sua auto, senza neppure che fosse particolarmente chiaro il motivo di tutta la fretta. Lei aveva eseguito, si era seduta e lo aveva osservato per un attimo come cercando nel profilo del viso una spiegazione sul luogo dove stessero andando. Lui, con gesti precisi, aveva fatto riprendere velocità all’automobile, poi aveva svoltato ad alcuni incroci, e con il suo modo di comportarsi, aveva dimostrato subito, con grande evidenza, di sapere perfettamente dove stesse recandosi.
            Erano rimasti in silenzio per alcuni minuti, Rino pareva concentrato nella sua guida, la ragazza guardava la strada davanti alla macchina, come cercando di decifrare ciò che passava davanti ai suoi occhi. Il pomeriggio di quella giornata continuava ad essere uggioso nella stessa maniera come lo era stata tutta la mattina, e il tergicristallo esibiva con metodo un piccolo rumore a ogni giro, quasi un lamento. Credo di non essere mai stata da queste parti, aveva detto lei come tra sé, e lui aveva annuito conservando l’espressione del viso quasi imbronciato. Infine aveva risposto qualcosa che non significava un bel niente: andiamo da un amico, aveva spiegato, prendendo per una strada ormai fuori città, costeggiando un canale e una fila di alberi vecchi e mezzi rinsecchiti.
            La ragazza aveva iniziato a provare un certo disagio, forse dato dalla paura che qualcosa le stesse sfuggendo di mano, e in fondo non aveva alcuna volontà di fare cose particolari, neppure di conoscere quell’amico di Rino. Già, Rino: se ci pensava un po’ meglio, le veniva a mente che non era neanche troppo tempo che lo frequentava; le era sembrato da subito un ragazzo come gli altri, per questo aveva accettato varie volte di uscire con lui, anche se in fondo, della sua personalità, che ne sapeva? Avevano anche parlato poco tra loro da quando avevano iniziato a vedersi, e non c’era ancora stato il tempo necessario per chiarire perfettamente i loro punti di vista, di questo era certa.
            A lei adesso sembrava addirittura di non avergli detto niente di sé, di non avergli spiegato per nulla cosa pensava davvero, il limite oltre il quale non avrebbe voluto mai andare, per esempio, e altre cose del genere. Forse lui aveva addirittura travisato qualche discorso che lei si era lasciata sfuggire, soltanto per sentirsi più grande, per darsi maggiore importanza. Adesso però le pareva il momento: avrebbe voluto dirgli qualcosa, interrompere quella corsa in auto assolutamente insensata, avrebbe desiderato con tutta se stessa che Rino voltasse la macchina, che la riportasse indietro, nel suo quartiere, dove poteva magari recarsi al solito bar, in un posto dove lei provava il senso di sicurezza, in mezzo alla gente che conosceva, dove nessuna preoccupazione le avrebbe mai sfiorato la mente, ma adesso si sentiva quasi paralizzata, non riusciva più neppure a parlare.
            Rino infine aveva accostato la macchina al bordo stradale, dopo avere rallentato gradualmente l’andatura, e si era andato a fermare proprio in prossimità di una vasta piazzola in terra battuta, accanto ad un campo scuro probabilmente arato da poco. Aveva spento il motore, si era voltato lentamente verso la ragazza, ma soltanto per dire : ecco, ti presento il mio amico, il più grosso albero di quercia che io abbia mai conosciuto. La ragazza allora aveva osservato con occhi increduli la pianta enorme vicino alla strada, ne aveva osservato il tronco larghissimo e la miriade di rami e di foglie che ne formavano la chioma, poi era tornata a volgere il suo sguardo su Rino, e le era venuto da piangere, anche se ormai non sapeva neppure spiegarsi il perché.


            Bruno Magnolfi

lunedì 12 dicembre 2011

Sovrano nel suo regno.

            

            Un ronzio interno, da qualche parte, forse un fremito, non so; probabilmente soltanto una sensazione, ma di quelle forti, che ti lasciano senza parole, che stanno probabilmente ad indicare che è successo qualcosa, come se improvvisamente avesse  mutato posizione un elemento, magari semplice, marginale, ma su cui quasi certamente si appoggiavano tante altre cose. Osservo attorno e mi pare tutto stia al proprio posto, poi cerco con calma di localizzare dentro di me quel qualcosa che è cambiato, che non è più com’era prima.
            Una sciocchezza, ecco qual è il risultato di tutte le mie preoccupazioni, penso; eppure se mi fermo, se resto in ascolto di ogni inezia, se cerco di starmene completamente immobile, è come se provassi di nuovo quella inedita sensazione di prima, come fosse ancora qui, insieme a me, forse dentro di me: un componente che non conoscevo, penso, e che salta fuori all’improvviso a cambiare chissà cosa delle mie giornate. Ed è questo che mi fa veramente paura: dover cambiare, affrontare uno scenario completamente nuovo, cercando di resistere all’attacco di un’entità sconosciuta, di un’intollerabile essere che in un attimo diversifica la mia realtà.
            Mi sistemo seduto, calmo, fingo quasi indifferenza, cerco di riflettere, ma ho la fronte sudata, so perfettamente che devo reagire in qualche maniera, e questo mi procura ansia, mi predispone in maniera totalmente negativa nell’attesa di un rivolgimento a cui dovrò partecipare con tutto me stesso, così come ormai pare incontrovertibile. Non provo dolore, almeno per ora, niente di localizzato, eppure un’uggia insopportabile continua a mortificarmi, regalandomi un’irrequietezza che neppure immaginavo possibile.
            Un ronzio, forse un fremito, non so neppure definire cosa possa essere avvenuto effettivamente, ma sicuramente tutto questo è l’ambasciatore di qualcosa di grave, un depauperamento generale e improvviso di tutto il mio organismo, forse, che non è senz’altro pronto ad affrontare una cosa di quel genere. Osservo i miei oggetti di sempre e mi sembra impossibile che tutto possa rimanere così indifferentemente al proprio posto: sollevo un libro che avevo appoggiato su uno scaffale da chissà quanto tempo, per leggerlo quando mi sarebbe andato, e penso che non potrò più neanche guardarlo, probabilmente, diverrà tra breve una cosa inutile nelle mie mani, come tutto ciò che c’è all’interno di questa stanza, che mi apparirà un luogo quasi ostile .
            Poi mi scuoto, torno ad alzarmi, e passeggio nervosamente nel mio appartamento: sono perduto, penso, è evidente. Devo cercare di fare mente locale, e sistemare tutte le cose che posso, prima che sopraggiunga il peggio, l’incommensurabile, quel cambiamento che non potrà permettere più la tranquillità di cui avevo goduto fino adesso. Muovo le mani e il corpo nervosamente, non riesco a comportarmi in una maniera differente, tutto mi crolla addosso, quasi come fossi preda del mio stesso disagio. Qualcuno suona il campanello, ci mancava solo questo, penso, sarà un vicino o un conoscente a cui dovrò spiegare tutta questa situazione, un signor nessuno al quale riferire di ogni sintomo che provo, ogni dettaglio del mio claustrofobico stato d’animo, di questa maledetta sensazione che tutto sia alla fine, ormai perduto, disperso nel nostro mondo di polvere e di roccia.
            Apro, è il mio dirimpettaio: mi guarda, ci mette un secondo o due prima di parlare, poi si decide: ci scusi, dice ad occhi spalancati, come di chi sta cercando di dialogare con il diavolo, o qualcosa di quel genere. Stiamo spostando alcuni mobili, nel nostro appartamento; ci dispiace di causarle qualche piccolo disagio.


            Bruno Magnolfi  

giovedì 8 dicembre 2011

Nei pressi dello spirito libero.

           
            Non credo provi dolore quando cerca di muoversi e di camminare, è possibile che soltanto l’impedimento alla gamba paralizzata lo porti ad assumere quella posizione piegata su un fianco, che probabilmente con l’andare degli anni gli ha procurato altri problemi gravi alla schiena, alle spalle, forse anche a qualche organo interno. Eppure non si lamenta, anzi spesso sorride, cerca come di sopperire alla vista del suo corpo sgraziato con certe espressioni dolci del viso, insieme ad un modo in fondo molto tranquillo e disteso di fare e di dire le cose.
            Entra nel locale con calma, saluta cortesemente, e infine si siede, sicuramente con un certo sollievo, e poi resta lì, fermo e in silenzio, con uno sguardo che qualche volta sembra incapace persino di vedere le cose più semplici, concentrato in chissà quali pensieri, forse in riflessioni lontane, quasi irraggiungibili. Sceglie sempre, in quel nostro caffè dalle larghe vetrine, dove lavoro tutto il giorno come cameriere, un piccolo tavolino in un angolo, dove non può dare fastidio a nessuno, ma da dove, contemporaneamente, riesce quasi ad affacciarsi sul mondo, cioè sulla strada e sul largo marciapiede lì accanto, giusto per osservare con attenzione tutte le persone che si trovano a transitare, per caso o per abitudine, di là da quei vetri.
            Osserva, stringe gli occhi, muove lentamente la testa, mentre conserva quella sua posizione incredibile, tutto piegato su un fianco, poi sorseggia con calma il suo tè, e resta dentro al locale per un’ora, certe volte anche due, quasi ogni pomeriggio. In qualche occasione, quando ci sono pochi clienti, lo osservo da dietro al bancone, magari mentre asciugo qualche tazzina o sistemo i bicchieri da aperitivo: non gli dico mai niente più di quanto sia necessario, eppure sono contento quando lui è seduto al suo tavolino; è come se, con il suo sguardo particolare, guardasse le cose e le persone anche per me, che probabilmente non so neppure guardarle, almeno in quella maniera come riesce a vederle lui, io che sto lavorando, sono impegnato a seguire i clienti, non posso certo avere la sua sensibilità e neppure il suo tempo.
            Non so neanche come si chiami, però ogni volta che arriva lo servo per primo, senza mai farlo aspettare, come per una sorta di rispetto profondo, e lo chiamo signore, semplicemente, come d’altronde si conviene verso un cliente. Certe volte lo guardo e mi sembra di averlo visto da sempre, lui mi saluta, paga la sua consumazione, poi se ne va, lentamente, con il suo bastone speciale, con quell’incedere strascicato che certe volte deve risultargli insopportabile, odioso, e allora io esco da dietro al bancone, lo supero, e poi con un gesto elegante gli apro lo porta.
            Lui abita poco distante, lo vedo quando apre il portone del caseggiato un po’ anonimo che fronteggia il lato opposto di questa strada, il suo appartamento è al piano terra, non potrebbe affrontare le scale, e certe volte lo noto quando dietro le tende accende il lampadario durante la sera, e rimane dietro a quella finestra, giusto per dare timidamente un’altra sbirciata lungo la via. Non so per quale motivo, ma per me è diventato quasi un punto di riferimento, ammiro il coraggio con cui affronta la vita, senza darsi per vinto, senza lamentarsi di niente, ci sono certe volte che vorrei assomigliargli, poi mi viene da sorridere quando ci penso, e un filo di tristezza mi prende, ma non so neanche bene perché: sistemo i bicchieri e le tazzine, allora, e lascio correre via i miei pensieri, gli altri clienti non si accorgono neanche di lui, e allora allontano ogni indugio, e infine mi chiedo: perché mai proprio io dovrei essere diverso da loro?


            Bruno Magnolfi    

martedì 6 dicembre 2011

Al margine dei pensieri correnti.

            
Sono in piedi, immobile, sopra questo cavalcavia ferroviario, e osservo le case e le strade di questo quartiere qua sotto, mentre, senza neppure volerlo, mi vengono in mente i piccoli fatti della vita quotidiana che probabilmente si stanno verificando proprio laggiù, da qualche parte. E’ pericoloso stare qui, ne sono cosciente, specialmente a quest’ora della tarda serata, quando inizia a far buio: sono già transitati due treni, i macchinisti mi hanno notato e hanno fatto fischiare forte le loro sirene; sicuramente hanno già telefonato a qualche divisa, verranno a controllare tra poco, devo sbrigarmi, non ho molto tempo.
Ho scavalcato la recinzione senza farmi notare, ho percorso lo stretto viottolo che porta fino al punto più in alto, dove lo sguardo spazia lontano, e adesso una massa di pensieri ha iniziato a martellarmi dentro la testa. Non vorrei pensare, non vorrei pensare a niente, vorrei soltanto starmene qui, respirare quest’aria densa della città, perdermi in questo tramonto sulla periferia, e osservare le luci che continuano ad accendersi, come fosse uno spettacolo unico, di una natura incontaminata da tutto, da tutte le brutture che accadono.
Mi piacerebbe scavare una nicchia nelle travature di cemento di questo posto: restarmene qui, ad osservare questo scorcio della città, lontano dalle cose di sempre, fuori dagli egoismi di tutti, distante dalla battaglia di sopravvivenza che va avanti ogni giorno. Se anche ne avessi la voglia, non saprei neppure cosa o chi portare con me qualche volta nel mio luogo segreto: probabilmente starei lì da solo, senza nient’altro, in quel piccolo spazio dove rifugiare me stesso, e questo è tutto ciò di cui avrei veramente bisogno, un buco ignoto a chiunque, una piccola tana dove ritirarmi in silenzio, in solitudine, lontano ed esterno a ogni logica.    
Non so neppure cosa mi trattenga dal gettarmi di sotto dall’alto di questo ponte: forse l’abitudine a tirare avanti in qualche maniera, forse la sottile speranza che qualcosa possa davvero cambiare. Devo andarmene da qui, verranno le divise tra poco, mi porteranno al comando per farmi la solita ramanzina, poi mi butteranno per strada quando sarà troppo tardi anche per trovare un posto dove passare la notte. Lo sanno che dopo un certo orario non resta che andarsene alla stazione, a ciondolare nelle sale d’attesa, ma non gli importa un bel niente di te, neanche di lasciarti dormire almeno qualche ora al comando.
Qualcuno mi ha detto che la gente come me è semplicemente il risultato di tanti errori sociali, ma sono soltanto parole, a me non importa un bel niente che si cerchi di fare della teoria sulla mia condizione. Però vorrei starmene qui, tutte le volte che voglio: godermi lo spettacolo delle luci che continuano ad accendersi dentro le case, e vedere le macchine che corrono lungo il viale là in fondo, immaginando che tutto sia a posto, che c’è forse un piccolo spazio per tutti, anche per chi si è ritrovato così al margine delle cose ordinarie. Non lo so perché sono qui, non cerco di provocare nessuno, neanche quei macchinisti che mi guardano e segnalano la mia posizione: vorrei stare qui come si sta dentro a una casa, con l’intimità di se stessi, e godere del senso profondo di sentirsi persona, rispettato dagli altri, elevato dai propri pensieri, da quanto si possa essere stati capaci di vivere, in un modo o nell’altro, degni di essere, oltre ogni giudizio. Nient’altro.


Bruno Magnolfi

sabato 3 dicembre 2011

Monumento d'uomo.

            
            Per tutta la notte il dolore alla mano non mi aveva mai abbandonato. Non ero quasi riuscito a prendere sonno, e nel dormiveglia sentivo qualcosa alle dita che proprio non andava, ma ciò nonostante sapevo di aver fatto la cosa migliore, e questo mi dava ampio conforto. Rivedevo la scena in cui colpivo con un pugno ben assestato il volto di quell’imbecille, che per non dare la precedenza alla mia auto, proprio in prossimità dell’incrocio, aveva rischiato di rovinarmi la carrozzeria, e quando gli avevo presentato le mie rimostranze dal finestrino, aveva oltretutto inveito contro di me, urlando e mostrandosi subito aggressivo. Forse ero stato un po’ sbrigativo, si, certo, lo ammetto senza problemi, però non avrei potuto far altro, e poi riflettendoci, era in fondo proprio quello che si meritava.
            Rivedevo la scena, i gesti, la sua brutta espressione; risentivo quelle poche parole che ci eravamo scambiati, ripensavo tutto quanto, e mi pareva che ogni cosa si fosse svolta in maniera perfetta: l’imbecille aveva avuto la lezione che ci voleva, non si sarebbe meritato un trattamento diverso, ed io con piacere lo immaginavo al pronto soccorso a farsi curare la faccia tremendamente indolenzita. Certo che il pugno che gli avevo rifilato era stato davvero notevole, tanto che quando avevo ripreso posto sulla mia macchina, anche per evitare di doverlo colpire di nuovo, lo avevo lasciato sdraiato sopra l’asfalto, ma era evidentemente soltanto una sua scena per cercare di mettermi in qualche difficoltà.  
            Generalmente non mi piace fare il violento, trovo che le cose il più delle volte si possono aggiustare anche in altra maniera, però secondo me in certi casi proprio non si può farne a meno: agire diventa l’unico modo per sistemare le proprie faccende, ne sono assolutamente sicuro. In fondo non mi importava un bel niente di quel cretino totale, non l’avevo mai visto e sarebbe rimasto per me uno sconosciuto completo: un deficiente qualsiasi, che non sa neppure guidare una macchina, che pretende di essere dalla parte del giusto, e va in giro così, senza usare il cervello, soltanto perché gli altri sono perfino troppo buoni a permettergli cose del genere. Probabilmente era già molto tempo che qualcuno doveva dargli una bella lezione, che sia stato io oppure un altro, alla fine, è solamente un dettaglio.
            Però il mio pugno probabilmente era stato un po’ troppo forte, pensavo prima di alzarmi dal letto, come se avessi messo dentro quel gesto anche qualcosa di mio, un rancore che magari coltivavo da tempo, un nervosismo che spesso non trovava un canale preciso verso cui indirizzarsi, se non un’occasione del genere. Il dolore alle dita, per tutta la notte, era la prova evidente che avevo accettato addirittura di farmi del male, pur di riuscire a scaricare la tensione accumulata negli ultimi tempi. Pensavo che il giorno seguente non mi sarebbe importato più niente della mia mano, l’avrei tenuta a riposo per qualche tempo e tutto sarebbe tornato esattamente com’era: mi chiedevo soltanto cosa doveva essere veramente successo a quel povero scemo che avevo lasciato là a terra. Forse era riuscito ad alzarsi da solo, subito dopo; forse aveva addirittura dovuto farsi aiutare. Probabilmente gli avevo buttato giù un dente, o anche più d’uno; forse gli avevo rotto persino la mascella. Ma in fondo, alla fine di tutti i pensieri, cosa mai mi importava: ero sicuro che un uomo deve comportarsi da uomo, almeno in certe occasioni, il resto erano soltanto sciocchezze.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 30 novembre 2011

Disattenzioni ordinarie.

            

Lei continua ad osservarlo, cercando di sorridere ancora per qualche secondo, ma quasi senza interesse per quello che lui ha appena finito di dire; poi, per abitudine, volge lo sguardo da un’altra parte, lasciando che lui apra il pacchetto e quella piccola scatola colorata, con dentro il regalo. Forse non sarà un giorno da ricordare, pensa in un attimo, ma quando al mattino lei ha notato quell’oggetto dentro al negozio, non ha potuto fare a meno di farlo incartare e acquistarlo, come fosse fatto apposta per quella serata. Lui, in queste occasioni, si sente un bambino senza difese: guarda la carta ed è certo di riuscire ad accettare qualsiasi cosa sia presente dentro alla confezione invitante, pronto come sempre a fingere meraviglia e piacere, per quell’evidente e garantita interpretazione dei suoi desideri.
            Scorrono alcuni momenti senza che ci sia in mezzo alcuna parola, come non ci fosse né capo né coda in quella situazione un po’ assurda; lei si accende una delle sue sigarette, comprende ormai di aver fatto un errore, pur innocente, ma si giustifica con il suo entusiasmo forse eccessivo, infine con il pensiero cerca di portarsi in avanti almeno di un’ora, quando ormai loro due si saranno già salutati, e a lei sarà stato possibile, forse, ritrovare il proprio equilibrio. Eppure le dispiace davvero non riuscire ad essere maggiormente spontanea in situazioni del genere, anche se è convinta che in lui, in certi casi, non esista un barlume di sensibilità per questo tipo di cose.
            Alla fine lui pensa che tutto stia veramente ruotando attorno all’oggetto nascosto dentro la scatola, così, pur proseguendo a dire qualche sciocchezza, cerca di pensare al motivo che possa avere dettato quel tipo di scelta, ma non ne trova, e allora sente un brivido di assoluta amarezza verso il gesto di lei, che gli appare come sorretto dal niente. Dice fra sé: forse non dovrei pensare in questa maniera, poi cerca di prendere ancora del tempo. Lei, quasi per un automatismo, ritrova il sorriso, ma solo un momento più tardi il suo errore inizia a pesarle: adesso è cosciente di aver cercato qualcosa soltanto per accontentare se stessa, ma non può annullare quel gesto.
            Improvvisamente appare evidente che i loro pensieri divergono, e di colpo tra loro sembra sia proprio l’oggetto ancora incartato a funzionare come catalizzatore nei confronti del sottile malessere che stanno provando, mostrando nudo, peraltro, quello strano equilibrio nel loro rapporto di cui adesso misurano una sensazione di sicura mancanza: lei ha ormai perso del tutto il significato del moto spontaneo da cui è stata spinta al mattino; lui sente di non riuscire stavolta ad essere così bravo da accettare quella semplice forma di distensione dei loro rapporti, incartata e concentrata dentro alla scatola.
            Posso aprirlo quando tu sarai andata via? fa lui con uno sforzo di sincerità. Certo, dice lei che si sente improvvisamente sollevata da quella situazione tortuosa in cui non sa neanche più come abbia fatto a cadere. Finisce la sua sigaretta, si alza, lo abbraccia, come fa sempre: devo andare, gli dice. Quando esce da quel caffè, dove si sono incontrati tantissime volte da quando si sono conosciuti, sa che il suo cuore non sanguina, che i suoi pensieri, anzi, sono tornati quasi del tutto al loro posto, e la situazione adesso le pare praticamente sotto controllo.
            Lui resta seduto, si lascia servire dal cameriere del vino rosso, lo sorseggia dal calice come fosse un liquore, quindi paga la consumazione con profonda e rassegnata lentezza, e infine esce da quel locale, lasciando sul tavolino, forse soltanto per sbadataggine, il pacchetto ancora incartato.


            Bruno Magnolfi 

lunedì 28 novembre 2011

L'infinito niente.

            
            Va bene così, in qualsiasi caso, sia che con indifferenza si lasci scricchiolare le scarpe sulla ghiaia, vivendo qualsiasi ragionamento soltanto al presente, sia che la memoria, nonostante ogni sforzo di concentrazione, non ce la faccia neppure a sorreggere i dettagli del passato, lasciandoci solo interpretazioni arbitrarie e soggettive. Sono i pensieri adesso che da soli si muovono nell’aria, quasi come non ci fosse altro da fare, se non percorrere i contorni di immagini sfuggenti, generalmente assemblate con i resti di molte cose vecchie. Si prosegue a muoversi all’interno di percorsi consueti, fingendo di sapere che tutto ciò che conta stia all’interno di uno spazio circoscritto, ascoltando con curiosità soltanto i rumori che giungono da fuori, filtrati solamente dalla propria sensibilità.
            Luigi esce di casa, gira senza meta per parecchie strade, poi finge di perdersi, forse per un innato desiderio di riuscire a non essere presente a tutta la logica da cui è attraversato, e sente la necessità di confondere le cose, di scoprire che esiste qualcosa di diverso da tutto ciò che già gli sembra di conoscere. Qualcuno probabilmente gli dice che ha sbagliato, non ci sono gli elementi che desidera, ma lui risponde che non ha alcuna importanza, che è possibile introdursi così a fondo nei dettagli, da riuscire a perdere anche il senso della certezza di quell’esserci davvero. Solo così, annullando tutto, è possibile recuperare ciò che conta, pensa quasi per istinto, senza una precisa consapevolezza.
            C’è una donna che lo guarda, lui si ferma, lascia che il meccanismo classico della reciproca attrazione si compia nonostante qualsiasi perplessità. Luigi parla con la donna, conosce il suo nome, sa chi sia, il suo metodo di pensare e di costruirsi dei modelli a cui affidarsi. Infine le sorride, senza che neppure una parola adatta ne confermi l’espressione, lasciando che il silenzio intervenga a rendere più vaga qualsiasi sensazione. La donna guarda altrove, forse si interrompe la loro comunicazione, non ci sono più punti d’appoggio che giustifichino quel minimo dialogo. Già, si deve parlare per capirsi, ma forse è sufficiente scambiarsi soltanto dei segnali che magari neppure rispondono ad alcuna razionalità.
            Serve spostarsi, rimescolare l’acqua diventata troppo limpida, in modo che tutto torni torbido, ricco di ingredienti e di impurità che possono restare anche degli anni in sospensione, e mostrare bene su cosa sia possibile fare affidamento, cosa ci sia davvero in fondo a tutto. La donna non comprende, rimane immobile ma ha già raggiunto un diverso piano di consapevolezza. Allora Luigi sente di nuovo scricchiolare le proprie scarpe sulla ghiaia, e infine le fa un segno, soltanto un gesto in aria, e non gli importa se nessuno se ne accorge, neppure lei: va bene così, forse non potrebbe neanche andare in nessuna altra maniera.


            Bruno Magnolfi 

venerdì 25 novembre 2011

A fianco di Chiunque (ripresa cinematografica n.8).

            
            L’immagine appare estremamente rallentata. L’automobile passa oltre, seguendo una debole curva che va a stringere poco più avanti. Penso non ci sia niente di male nel fare questo sogno in modo ricorrente, così certe volte ci rifletto sopra, anche mentre sto facendo altre cose, e in questa maniera cerco di capire cosa possa succedere in seguito, dove riesca a portare questa strada asfaltata in cui io resto fermo ad osservare continuamente la medesima sequenza, nell’attesa, certe volte spasmodica, che accada qualcosa di diverso, o che io trovi un proseguo, uno sbocco, o una qualsiasi conclusione.
            L’auto supera me, poi continua con regolarità la sua corsa: c’è qualcuno alla guida del mezzo, ma è soltanto un’ombra pressoché indefinita, un certo signor Chiunque forse disinteressato degli altri: la sua concentrazione sta nella guida, nel disegno esatto che le ruote della macchina riescono a compiere sopra l’asfalto stradale. Non riesco a immaginare il compimento della parabola, neppure ciò che accada oltre la curva disegnata dalla vettura, però studio quel breve percorso, lo traccio ancora mille volte nei miei pensieri, attendo con pazienza infinita che una piccola variabile intervenga improvvisa a dare compimento al sogno e a giustificarne finalmente quel senso.
            Giro a piedi per il mio quartiere, incontro persone di cui so qualcosa, o che potrei comunque conoscere, mi soffermo a immaginarne i pensieri, i dubbi, le preoccupazioni, ma di tutta quella gente alla fine non riesco comprendere altro, niente che possa essermi utile, comunque niente che risolva in qualche maniera gli interrogativi sottili che permangono nella mia mente. Poi vado avanti, mi fermo lungo la strada e attendo con pazienza che il mio sogno si faccia avanti, si sovrapponga a quella realtà, e che l’ombra nera alla guida del mezzo stringa la sua debole curva a velocità rallentata e costante, proseguendo con linearità, senza intoppi, e senza che io possa minimamente intervenire sul suo percorso.
            A volte penso che tutta la sfida finale delle mie cose avvenga tra me e quell’autista: osservo la sua guida rilassata, quasi beffarda, la lentezza con la quale mi supera, si allarga lungo la sua carreggiata, per poi rientrare accostandosi al margine della strada diritta, come fosse la cosa più normale del mondo. Forse si solleva un blando vapore laggiù in fondo, come a mostrare che tutto è sotto controllo, che l’aria calda della serata spinge verso il tramonto del sole, verso il rinnovamento continuo della realtà.
            L’auto prosegue imperterrita nel superarmi, sfugge quasi dal mio campo visivo, i fotogrammi rallentati non riescono a definirne la velocità, che forse è elevata, oltre qualsiasi prudenza: esplode qualcosa laggiù, si interrompe un contorno di oggetti contro quel cielo al tramonto, l’ombra nera alla guida va a fondersi contro qualcosa che sfugge al controllo di qualsiasi ulteriore pensiero, poi tutto sfuma nell’aria, come uno sgranamento nella pellicola.


            Bruno Magnolfi 

mercoledì 23 novembre 2011

La sconosciuta volontà.

            

            Il frammento di disegno mostra la zona del mento e della bocca di un volto sconosciuto, eppure, a giudicare dai bordi di quel foglio, non sembra neanche che tutta la figura della faccia possa mai essere riuscita ad entrare sulla superficie della carta, tanto sono grandi quei dettagli rispetto ai margini iniziali. Ad osservare bene tutto l’insieme, il foglio non pare propriamente neppure strappato per incidente o per usura, quanto lacerato poco per volta, in modo da togliere esattamente quelle parti che non interessava minimamente di mostrare, o forse che lo rendessero del tutto irriconoscibile, magari ambiguo, se non a chi aveva completato a suo tempo quel disegno.
            Il signor Dante osserva accuratamente ogni dettaglio, annota sul suo quaderno tutti gli aspetti che riesce a scoprire nel disegno a carboncino, anche il tipo di carta che è stato usato, la matita con la quale presumibilmente si è costruito tutto quel ritratto, e via dicendo. Non sa cosa potrà mai tirar fuori da lì, visto che quel brandello di carta spiegazzato è uscito dalla polvere di uno scaffale alto della libreria del quartiere dove a volte si reca, senza che non ne sapesse niente neanche il suo amico Vannini, proprietario di quel piccolo negozio da più di vent’anni. Sulle prime ambedue avevano dato poco peso al ritrovamento, ma in seguito, quando il signor Dante è tornato a casa sua con quel fogliaccio piegato in una tasca, per qualche strano motivo gli è sembrato quello un oggetto estremamente importante, qualcosa sicuramente a cui dover dedicare almeno un po’ di tutto il tempo libero che ha.
            Sotto alla luce di una lampada forte osserva meglio il chiaroscuro formato dai segni di quel carboncino: gli pare tutto disegnato con una mano esperta, quella bocca sembra risaltare sopra al foglio, sicuramente fa parte di un viso femminile, una donna non giovane, una persona forse austera, fermata in un momento di profonda serietà, quasi non ci fosse, da parte di quella modella così particolare, neppure il piacere di lasciarsi ritrarre. Forse è proprio questo il punto che attrae il signor Dante: una persona lascia che si segua con la matita il profilo del suo viso, che si immaginino i suoi pensieri sotto all’espressione, che si dedichi qualcosa alla sua vita, a quel momento esatto della sua esistenza, come per darne un risalto, per ricordarne in seguito tutto ciò che ne ha contribuito alla concreta formazione, ma da quell’attività non ne trae alcun piacere, anzi, la subisce, forse, ne assume un’idea e un’espressione amara, come fosse quello, probabilmente, l’elemento maggiormente caratterizzante.
            Il signor Dante non riesce a capire: guarda il segno definito, indaga sulla piega che si forma nel ritratto agli angoli di quella bocca, cerca di raffrontare quella porzione di faccia con chi conosce bene, con chi sa, probabilmente, che potrebbe anche assumere un’espressione simile, ma non trova relazione, non riesce a comprendere ciò che possa aver determinato quello che adesso ha sotto agli occhi. Si alza dalla scrivania, riguarda per un attimo gli appunti che ha vergato sopra al suo quaderno, e in un attimo gli pare che tutte le variabili possibili siano capaci di determinare differenze: ci pensa a fondo, e in un attimo sente che tutto è equivocabile, non è possibile trarre una linea definita da ciò che ha osservato così a lungo. Affascinante il frammento da comporre, pensa; fantastico pensare le stesse cose che sono state immaginate da persone a lui estranee; incredibile riuscire a ricostruire i sentimenti di chi è stato per un attimo sotto ai riflettori. Ma è tutto troppo fuorviante, pensa: non mi lascerò prendere da qualcosa che sta così fuori da me; straccerò quel foglio, lo ridurrò a pezzetti, farò sicuramente in questo modo la volontà della persona che là sopra vi è ritratta.


            Bruno Magnolfi

lunedì 21 novembre 2011

La scuola di comportamento (ripresa cinematografica n. 7).

            
            Mi ritrovo sdraiato per terra. Ho dolori da tutte le parti, ma uno è più forte degli altri, allo stomaco. Ho appena finito di vomitare, datemi una mano ragazzi, dico con voce che non è quasi la mia. Sono andati, si è così, gli altri sono tutti spariti. In questa strada non c’è neanche luce, ed io non riesco neppure a tenermi su in piedi. Mi è arrivato un diretto preciso allo stomaco, dico, non ho proprio potuto far niente. Sono tutti vigliacchi, dicono assieme i ragazzi: erano in troppi, non avremmo mai potuto far niente di buono con loro. Non importa, dico in qualche maniera, adesso mi passa, forse non è niente, mi basta respirare un po’ d’aria.
            Mi tengono su, mi fanno fare due passi; mi sento uno straccio, dico con un filo di voce. Adesso andiamo a bere qualcosa, dice qualcuno dei miei amici, togliamoci alla svelta da qui. Si torna verso le macchine, sento una fitta che mi prende alle gambe, alla pancia, alla testa, a tutte le parti del corpo. Ragazzi non ce la faccio, dico con dispiacere. Ti portiamo al pronto soccorso, fa uno; no, ora gli passa, fa un altro. Fai più luce con quell’accendino, mi pare bianco come un cadavere.
            Va bene, va bene, fa il capo; però tu inventa qualcosa, dì che eri da solo, che sei caduto lungo la strada, e che noi ti abbiamo soltanto aiutato. Vorrei solo la luce, dico a me stesso, soltanto un po’ della luce che si intravede in fondo alla strada. Avrei potuto essere a casa a guardarmi un programma alla televisione, penso, senza neanche una preoccupazione qualsiasi, e invece eccomi qui, a vomitare e a sentirmi così male che non so neppure se riuscirò ancora a resistere. Va bene, va bene, dicono tutti, è tutto sotto controllo. Adesso andiamo alle macchine e in un attimo sei al pronto soccorso. Ti fanno una bella iniezione di antidolorifico e sei già a posto; dai, prova a camminare che ti aiutiamo.
            Così faccio due passi e mi accascio: non ce la faccio, dico, mi dispiace, non ce la faccio per niente. Mi prendono in due o in tre, mi portano lentamente fino alla macchina. Io chiudo gli occhi, lascio fare tutto quello che vogliono, sento intorno a me tante cose confuse, poi, dopo appena un momento, immerso ancora nel buio, mi accorgo che sono già sopra ad una barella, qualcuno mi guarda e mi palpa, rottura della milza, dice un altro sopra di me, altri armeggiano intorno, mentre le lampade al neon passano in alto.
Mi tagliano i peli sopra la pancia, alla svelta, mi infilano degli aghi dentro le vene, vanno di corsa, hanno fretta, penso, poi ho un ultimo pensiero prima di entrare dentro la sala: comunque sia ne valeva la pena, ne sono sicuro, il resto è solo sfortuna, certe volte va bene, in certi casi tutto va storto, stasera doveva proprio andare così.
Forse.


Bruno Magnolfi

domenica 20 novembre 2011

La linea immaginaria di collegamento.

           

            Tutto quanto è mosso dall’angoscia. Tutti sono pronti a muovere i propri pensieri e le proprie capacità quando la paura li prende, il terrore senza spiegazione avanza. Osservo la punta della scarpa. Sollevando la parte della gamba oltre il ginocchio la porto all’altezza giusta, in maniera che si posizioni sulla retta che collega il mio occhio destro alla presa di corrente elettrica sul muro, proprio davanti a me.
            Sono da solo in questa saletta, l’avvocato non è ancora arrivato, provo una vaga voglia di prendere ed andarmene, ignorare tutto quello che riguarda questa causa di divorzio che si frappone in maniera decisa tra me e il futuro, ma resisto, cerco di distrarmi, di perdere del tempo, di rimanere qui ma di non pensare a niente.
            Non ho alcuna voglia di parlare ad un estraneo di mia moglie, del passato, del rapporto che ha legato le nostre vite per tutti questi anni; ma non ho scelta, so che quando uscirò da questo studio probabilmente mi sentirò diverso, avrò guardato con razionalità qualcosa che non avrei voluto mai mettere sotto al microscopio. Eppure le cose si corrompono con una facilità incredibile, e allora resto, cerco di sentirmi il più possibile disposto anche a questa operazione.
            Un dolore sottile nello stomaco inizia lentamente a farsi strada, la punta della scarpa non riesce a stare più di tanto sulla retta, la mia posizione deve ritornare naturale, seduto su questa poltroncina, senza possibilità di assumere differenti posizioni. Cerco di pensare a ciò che devo dire all’avvocato, ma lo stomaco si stringe ulteriormente, non riesco neppure più a rendermi conto che cosa io stia veramente cercando di salvare.
            Vorrei aprire la finestra, gridare aiuto nella strada, quasi un incendio nella stanza minacciasse la mia incolumità; poi penso che tra poche decine di anni saremo tutti morti, e questo mi fa sentire meglio, come se anche gli errori con il tempo divenissero una stupida cosa, fino quasi ad annullarsi. Credo per me sia una tortura rimanere ancora qui in attesa: sto male, è ormai evidente, ciò nonostante penso che devo andare avanti, affrontare ciò che è inevitabile, tirare su la testa, mostrarmi conscio di tutti i passaggi che dovrò sicuramente sostenere.   
            L’avvocato non arriva, ormai io sono in piedi, mi guardo attorno, ho bisogno di sentirmi via da lì, ma non riesco a decidermi ad andarmene. Poi un pensiero mi passa per la testa: qualcosa di tutto quanto ciò che andrà legalizzato non mi è chiaro, ho probabilmente rifiutato fino adesso di affrontarlo, ma c’è un piccolo peduncolo che ancora lega questo mio matrimonio, ed io non posso disconoscerlo, forse non è fondamentale, eppure va chiarito, va risolto, deve essere capito.
            Torno a sedermi; non so neppure a che cosa stia pensando, dico tra me con voce bassa. Probabilmente ho un po’ di febbre, non è certo la giornata migliore per affrontare certe cose, ma non sono mai stato un pavido, ho sempre cercato di fare ciò che dovevo, dico a voce già più alta, sarà così anche stavolta.
Poi sento un rumore lungo il corridoio, ci siamo, penso tra me, non potrò più tirarmi indietro, non ci sarà più altra possibilità per mettere in discussione tutto quanto: le cose prenderanno presto a correre, non riuscirò più in nessun caso a ritornarne indietro. E’ il futuro che mi fa paura, penso all’improvviso: torno a tirare su la gamba, a guardare la punta del piede che si frappone davanti alla presa di corrente; poi decido: saluterò l’avvocato senza spiegargli niente, penso, e subito dopo me ne andrò da qui.


Bruno Magnolfi

venerdì 18 novembre 2011

Quasi una favola urbana.

            
            Oggi ho deciso di non uscire da casa. Stamani non ho neppure aperto le tende delle finestre, neanche gli scuri; ho lasciato che la luce del sole rimanesse al di fuori, a rischiarare le facciate delle case, gli alberi dei giardinetti, i cappelli delle signore eleganti lungo i marciapiedi. Ho atteso con pazienza che i rumori nei muri attorno al mio appartamento divenissero più familiari, si lasciassero riconoscere, poco per volta, e alla fine ho deciso che non avevo voglia di niente, che non avevo bisogno di nulla. Così mi sono seduto, ho pensato qualcosa, ma forse anche questa attività mi è stata dettata soltanto da una sciocca abitudine.
            Poi è suonato il telefono, qualcuno ha detto con voce rauca il mio nome, mi ha chiesto sgarbatamente cosa facessi ancora rinchiuso nella mia casa, ma io mi sono limitato a riferire che la salute precaria, almeno quel giorno, non mi permetteva di uscire, nient’altro. L’altro ha insistito, voleva sapere la ragione principale che mi aveva fatto maturare quella splendida scelta, calcando con ironia quella frase, e ancora: se quella malattia di cui parlavo tanto, così importante da bloccare i miei impegni, fosse dovuta realmente a qualcosa di serio. Allora ho cercato di spiegare meglio il mio punto di vista, ma cercando le parole più giuste mi sono un po’ impappinato, ho perso il filo del discorso che volevo imbastire, e in una pausa piena di disagio ho allargato il pensiero iniziando improvvisamente a parlare di altro, come cercando di eludere quelle domande, forse soltanto perché per mio parere c’erano adesso cose ben più importanti di cui discorrere.
            Tutto è sotto controllo, ho detto velocemente con voce bassa; il messaggio è stato inserito dove lei sa perfettamente, tra le righe di un annuncio economico di un giornale nazionale, e anche se questa telefonata risultasse controllata, nessuno saprebbe mai come ritrovare le informazioni principali. Il codice usato per questa operazione è il medesimo della volta precedente, e lei non si deve preoccupare per me, ho continuato quasi a riflettere, ma a voce alta, usando un timbro di voce che risultasse, sia per me che per lui, rassicurante; ciò che doveva essere fatto è stato già completato, il resto sarà soltanto frutto di scelte maturate da chi sappiamo nei prossimi giorni, ho detto senza lasciare che quello mi interrompesse.
            L’altro alla fine ha bofonchiato qualcosa tra sé, quindi ha riattaccato il telefono senza neppure salutarmi, ed io in quel momento ho sentito dei piccoli rumori elettronici lungo la linea, indizi evidenti a conferma del fatto che quel telefono era davvero sotto controllo. Allora ho staccato la spina, sono entrato nella cucina del mio appartamento e mi sono preso una mela da dentro la fruttiera nella dispensa. Infine mi sono seduto ed ho addentato con forza quel frutto, quasi fosse l’elemento da neutralizzare. Inizialmente non mi sono accorto del sapore poco ordinario, ed ho continuato a mordere la mela senza preoccuparmi di niente. Il veleno probabilmente ha iniziato a produrre i suoi effetti subito dopo: credo di aver perso i sensi in pochi secondi, tutto si è annebbiato velocemente, ed ho provato la voglia di vedere di nuovo quel sole rimasto chiuso fuori da lì, ma mi sono reso conto che era ormai troppo tardi.
            Al mio risveglio tutto era identico, e questo fatto mi è subito sembrato ancora peggiore di ciò che sarebbe mai stato possibile immaginare.       


            Bruno Magnolfi

lunedì 14 novembre 2011

Alla scoperta di un piccolo mondo.

            
            La febbre, accompagnata da un corollario di altri malesseri fastidiosissimi, mi aveva colpito all’improvviso in quella cittadina portuale a me completamente estranea e sconosciuta, costringendomi ad arrestare, almeno temporaneamente, quel lungo viaggio a cui cercavo di dar corso. Nella pensione dove avevo preso alloggio, la prima sera che ero giunto in quel luogo dopo due giorni di treno, una signora molto riservata mi aveva consegnato quanto mi serviva per passare la notte, compresa una cena leggera al piano terra dello stesso edificio, chiedendomi soltanto i dati dei miei documenti. Mi ero coricato portando nella mia stanza una tazza di una calda tisana, già avvertendo dentro di me la malattia che saliva, ed avevo sperato che tutto, con una buona dormita, sarebbe presto ritornato alla normalità.
            Fuori dalla mia finestra, invece, l’alba seguente si era mostrata con un’aria lattiginosa e poco invitante, e le voci e i rumori nelle strade vicine mi avevano fatto sentire più solo e straniero di quanto lo fossi davvero. Tutti più tardi si erano mostrati gentili, per primo il medico accorso al mio capezzale, e anche se non comprendevo perfettamente la loro lingua, ugualmente dalle loro parole capivo lo sforzo per darmi conforto e alleviare i dolori. In un mare piatto e nebbioso, la mia nave aveva fatto sentire lungamente la sirena con la quale annunciava la sua partenza, ed io, con uno sforzo notevole, ero a malapena riuscito ad accostarmi alla finestra della pensione, giusto per vedere la bianca scia di vapore che lasciava sortire dai suoi camini, mentre con lentezza andava a prendere il largo.
            La signora della pensione durante quel giorno era tornata molte volte ad informarsi sulle mie condizioni di salute, e fu premurosa e solerte nell’indurmi ad assumere le medicine prescritte e nel farmi preparare pasti adeguati, che mi tenessero in forze. Infine, dopo un numero imprecisato di giorni, iniziai a stare meglio. La mia nave non sarebbe tornata prima della settimana seguente, così, iniziando poco per volta ad uscire da quella pensione, almeno per brevi passeggiate, mi incuriosii di quel luogo, così particolare e incantevole.  
In fondo ad una stradina nei pressi del porto, si apriva un locale alla buona, dove vecchi marinai passavano il tempo davanti a una birra. Andai lì per qualche serata, trovandomi perfettamente a mio agio ad ascoltare le storie di mare che tutti amavano raccontarmi. La signora della pensione continuava con le sue gentilezze nei miei confronti, ed io le presi un regalo importante per cercare di sdebitarmi del daffare che le avevo recato. Quando arrivò il momento di salire sulla mia nave, il dispiacere che provai nel lasciare quel luogo, fu quasi pari al senso di forzato che assumeva quel mio andarmene via: così, salutai tutti, ma con le lacrime agli occhi, e partii davvero, proprio come avevo previsto, ma non riuscii a dimenticare quel posto affacciato sul mare, e fu tanto prepotente quel mio pensiero, che al ritorno dal mio viaggio ripassai di nuovo da lì, trovando tutto esattamente come quando l’avevo lasciato, scoprendo che c’era persino chi aveva atteso con impazienza quel mio ritorno.


Bruno Magnolfi    

venerdì 11 novembre 2011

Il percorso per giungere alla fine.

            

            “…In fondo non ha alcuna importanza che tu scorra rapidamente o meno queste parole. Tornerai a rileggerle più di una volta, ne sono sicuro, ne cercherai in fretta la fine, la conclusione adatta che serva a giustificare l’insieme, il ragionamento, e ti convincerai poco per volta che non c’è un vero senso che sorregge le cose, ti renderai conto che tutto spesso è precario, anche la struttura stessa di un discorso che, al contrario delle apparenze, vorrebbe essere logico…”. 
            Lei ripiega il foglio di carta che ha tra le mani, allontana lo sguardo, sa che non ha ancora compreso ciò che sta dietro alle frasi che ha appena letto, eppure sente la voglia di piangere, di disperarsi per qualcosa che avverte dentro di sé, pur non comprendendone il senso. Forse tutto è solo giocato attorno a qualcosa che riesce ad avvertire come di fondamentale importanza, eppure non sa proprio come riuscire a gestire quel qualcosa, comprenderlo appieno, ricavarne correttamente una visione d’insieme. Sa che tutto, d’ora in avanti, precipiterà senza rimedio, ne è certa, ma non riesce neppure a spiegarsi il perché, sa soltanto di essere assolutamente sicura che sarà proprio così, esattamente.
            La logica a cui si affida il discorso, indubbiamente è dentro a quelle parole che legge, ma lei non lo sa, non lo vuole sapere, riesce soltanto a comprendere che quella è una lettera d’addio, l’ultimo atto di un lungo periodo, del quale cerca, per una umana sopravvivenza e con ogni sistema che trova, di storpiarne la vera natura.
            Infine si alza lentamente dalla panchina sulla quale è rimasta seduta per un tempo più lungo di quanto sarebbe stato auspicabile, riprende a camminare sul marciapiede, lungo la strada che va verso il suo appartamento. Non sa cosa prepotentemente rispondere, non sa come sia meglio ribellarsi a quanto le accade, ma all’improvviso i suoi sentimenti sembrano qualcosa di inutile, quasi di decisamente dannoso: vorrebbe quasi infilarsi in un angolo dimenticato del mondo e non avere più alcun rapporto con essere vivente, ma decide in un lampo che non farà mai una cosa del genere. Poi sorride tra sé a quell’immagine, cercando una maniera per ritrovare la capacità di reagire. S’immagina la sua giornata tra un mese, o tra un anno, in cui solo un ricordo nostalgico di qualcosa che si è manifestato in un periodo della sua vita sarà ancora presente, ed avrà allora la coscienza precisa di quel solo ingrediente tra le sue cose, che doveva per forza mescolarsi così con tutto il resto.
            Poi torna a sedersi, gira quel foglio dalla parte bianca, prende una penna dalla sua borsa, e scrive con decisione, quasi di fretta:
            “Non tornerò a rileggere niente; non per capriccio o per una reazione un po’ isterica, quanto perché già da tempo era proprio così che avevo pensato dovessero andare le cose, e il dispiacere che provo è solo il semplice rendermi conto che non ci poteva essere una strada diversa. Giusto, tutto è precario, specialmente se non è sostenuto dalla volontà di chi potrebbe sorreggerlo, mostrando così quanta indecisione ci sia nei propri pensieri. Ed è esattamente quella, l’insicurezza, che ha la capacità di confondere l’importanza profonda di questo lasso di tempo, vissuto in maniera completa e meravigliosa, con la sua conclusione. A me resta molto di tutto il periodo, ed è questo per me l’elemento importante…”.
            Così, torna a ripiegare quel foglio di carta: non avrà bisogno di busta, pensa adesso con spirito rinfrancato; consegnerà il suo messaggio di persona, in un luogo affollato dove può facilmente incontrarlo quasi fosse un semplice caso, ma non gli parlerà più, saranno solamente quelle parole la conclusione di tutto tra loro, non ce ne potranno essere altre.


            Bruno Magnolfi     

martedì 8 novembre 2011

la coscienza della solidarietà.

            
            Il silenzio, la solitudine e l’immobilismo, sono le tre condizioni principali per sentirsi in pace con tutti e con se stessi. In genere, lui si piazza seduto ad un caffè che si apre lungo il marciapiede del viale, e che tiene le sedie all’aperto e gli ombrelloni allargati anche nei giorni invernali. Lui trascorre in quel luogo quasi ogni mattina, si gira con piacere la sciarpa sopra al collo nel sole autunnale, e lascia che il traffico della città gli scorra vicino, come se non lo riguardasse, quasi con indifferenza. 
            Sta fermo a quel tavolino per un’ora, certe volte anche di più, sorseggia del tè caldo con una calma infinita, e scrive qualcosa sopra i fogli di un’agendina tascabile, fingendo impegni che forse dimentica appena un momento dopo, subito dopo che se li è appuntati. Forse si sente un cittadino modello, forse pensa che tutti prima o poi debbano invidiare quella sua libertà, in quella stessa maniera come lui riesce a sentirla e a provarla, e forse pensa che sono in pochi, alla fine, che riescono a vivere così, fuori da ogni schema, forse liberi, almeno in quella semplice apparenza.
            Invece un mattino gli si presenta una persona, lo guarda in faccia un attimo, gli spiega senza mezze parole che oramai non c’è più tempo per cose di quel genere, quelle in cui lui, quasi senza rendersene conto, si sta perdendo, giorno dopo giorno; e che le possibilità ormai andate sprecate non ritorneranno ulteriormente, in nessun caso. Gli dice che deve avere maggiore coscienza delle tante cose ormai gettate alle ortiche definitivamente, e soprattutto che adesso è doveroso per lui trovare un elemento di diversità da quella tristezza, da quella sorta di incapacità, da quel comportamento forse creduto congenito nella sua persona, almeno fino adesso, ma probabilmente soltanto per convenienza, soltanto per quel credersi, in maniera senz’altro profondamente errata, un cittadino normale, forse anche migliore di altri, e in qualche modo utile a qualcosa.
            Sembrano discorsi da squilibrati, pensa lui, avrebbe quasi voglia di rispondergli in modo sgarbato, senza tanti complimenti, ma poi riflette che forse qualcosa di vero c’è in quelle parole, e che forse si è troppo appiattito, e chissà probabilmente da quanto tempo, nel compiere sempre le medesime attività. Così resta in silenzio, quasi turbato, lascia che l’altro gli spieghi ancora qualcosa, e infine si alza, paga al cameriere la sua consumazione, e segue senza remore quella persona, ormai deciso a capire dov’è che può avere sbagliato, e soprattutto come potrà in futuro cambiare il percorso della sua vita.     
            Gli viene indicata la direzione del viale verso dove le auto proseguono a transitare come sempre hanno fatto, e lui osserva quell’andare continuo, quasi insensato; lascia che quell’immagine gli si imprima negli occhi, poi si gira e per la prima volta comprende che non deve fare più ciò che gli torna spontaneo, naturale, come un individuo disinteressato di tutto. Deve impegnarsi, reagire, magari anche con un inevitabile sforzo, in ciò che c’è di più giusto, di più utile agli altri, perché è quella l’unica strada, l’unica possibilità che ha per sentirsi davvero diverso e migliore; e non ce ne può essere un’altra.


            Bruno Magnolfi 

sabato 5 novembre 2011

A seguito di una linea lontana.

          
            Sul retro della mia casa c’è un’auto senza le ruote e un piccolo orto recintato in maniera precaria subito prima di un appezzamento di terra abbandonato, pieno di erbacce e di rovi. Fuggo là dietro, ogni volta che mio padre viene da me per picchiarmi. In genere, di ciò che sta per succedere, me ne accorgo già molto prima che tutto precipiti, anche se in genere non ne comprendo mai il vero motivo: mi basta vedergli lo sguardo, la fronte corrugata, il sopracciglio che si alza in maniera nervosa. Mia madre non fa quasi niente per tenermi distante da lui, ma ho visto qualche volta che ci sono le spinte e gli schiaffi anche per lei se si mette di mezzo, così da qualche tempo sto molto più accorto e cerco di evitare qualsiasi problema ulteriore: rasento con calma i mobili della cucina e infilo appena possibile la porta sul retro della nostra casa di legno, andando velocemente a nascondermi in mezzo ai cespugli.
            Lontano da dove mi piazzo, oltre una fila distante alberi, si vedono decollare gli aerei nella leggera foschia che in genere aleggia laggiù. Non invidio nessuno dei passeggeri che immagino sopra, soltanto mi piace osservare quella lentezza remota con cui quei missili bianchi si avvitano in cielo durante quella curva maestosa. Certe volte, quando più tardi mia mamma mi chiama, io rientro in casa, svogliatamente, e spesso l’abbraccio, come se una solidarietà silenziosa si ponesse ad un tratto tra noi, quando lui si è sdraiato sul letto o se n’è andato fuori da casa. In dei casi vorrei anche parlarle degli aeroplani, di come li vedo nella loro larga parabola mentre salgono in aria, ma credo che non riuscirei ad usare le parole più adatte, finendo per rovinare quello che davvero vorrei farle capire.
            Così in genere rimango là fermo, in silenzio, seduto al tavolo della cucina a mangiare da solo con gli occhi nel piatto, mentre lei in piedi mi guarda senza dirmi alcuna parola, forse perché non ne ha più di parole, immagino, ma soltanto deboli pensieri che non riescono più a librarsi nell’aria. Forse non importa neppure, penso, forse avrei voglia soltanto di sapere che cosa guarda quando si rende conto di non sapere neanche verso dove spostarsi, che probabilmente non ha quasi più niente da seguire con gli occhi. Infine aspetto ancora che mi dica qualcosa, che si smuova da quel torpore in cui in certi casi sembra cadere, e continuo ad oscillare tra la rabbia interna che generalmente mi prende, e quella pena costante che sembra non abbandonare neppure per poco la nostra casa di legno.
            Poi lei a volte viene da me, è come se mi sorridesse, anche se non lo fa; mi accorgo che avrebbe voglia di piangere, sa che oramai sono cresciuto, che sono già grande, ma resta lì, senza far niente, probabilmente sa che non può lasciarsi andare ad una cosa del genere. Allora cerco di interrompere quella sospensione di tempo che mi stringe come una morsa: sai mamma, vorrei dirle tutto di un fiato; dietro a quegli alberi, laggiù nella foschia, ci sono gli aeroplani che decollano. Io vado lì soltanto per seguire la loro curva ascendente nell’aria, soltanto per quello; e sono contento quando ce n’è uno da guardare nel cielo al tramonto, e non so per quale motivo, ma mi pare sempre la cosa più bella e più importante che io abbia mai visto.     


            Bruno Magnolfi

venerdì 4 novembre 2011

Faccia da negro.

            
            Generalmente sta fermo, appoggiato a qualcosa. In certi casi invece si muove camminando in modo dinoccolato, e dondolando svogliatamente raggiunge qualcuno dei ragazzi e gli dice sottovoce qualcosa, giusto per fare conversazione. Non gli piace troppo passare le serate davanti a quel bar a non fare niente, però proprio non sa dove altro potersene andare. Certe volte preferirebbe restare al lavoro, nel più grande ospedale della città. Gli piace parecchio quando qualcuno là dentro gli chiede qualcosa scambiandolo per un vero infermiere, anche se lui in realtà svolge soltanto le mansioni di un ordinario inserviente. Però ugualmente si sente utile agli altri, sa che il suo lavoro partecipa ad un insieme di cose che portano avanti tutto quel grande ingranaggio là dentro, e questo gli basta.
            E’ ancora giovane, probabilmente dovrebbe trovarsi una bella ragazza, come fanno quegli altri, però lui è timido, e poi soprattutto si sente ancora proiettato alla scoperta del mondo, e ritiene di avere ancora moltissime cose da imparare e pensare, non può frenare quel suo percorso soltanto per una cosa del genere. Certe volte osserva i degenti del suo reparto, e gli pare incredibile che una sola persona riesca a racchiudere tante cose come ognuno di loro, e quando li sente parlare, confidare i propri timori ai parenti o agli infermieri, rimane talmente stupefatto che qualcuno del personale nei corridoi trova sempre la maniera di prenderlo in giro.
            L’umanità gli sembra tutta meravigliosa, e gli pare proprio che ognuno abbia dentro di sé talmente tante cose da dire, che lui in qualche caso si spaventa perfino di qualche discorso che si trova ad ascoltare, ma si sente attratto da tutti, specialmente da coloro che sono nati lontano, chissà in quale paese e in quale realtà, proprio come lui, che è un trovatello, uno che probabilmente non conoscerà mai i suoi genitori.  
            Così se ne sta assieme agli altri davanti a quel bar anche stasera, come parecchie altre sere, quando proprio non è di turno giù all’ospedale. Ogni tanto qualcuno di loro gli dice qualcosa, gli lancia qualche battuta, ma in fondo tra quei ragazzi non c’è quasi nessuno che cerca di prenderlo in giro, i più lo rispettano, anche se dicono che ha la faccia un po’ strana e che riesce ad assumere certe espressioni diverse da tutti; tutti sanno però che è uno che vede ogni giorno gli aspetti più duri della vita e delle miserie del mondo, e questo elemento è davvero importante, e forse è proprio quello che conta più di ogni altro, anche tra loro.


            Bruno Magnolfi

martedì 1 novembre 2011

Amarezza contemporanea.

            
            Su quello spiazzo costituito da rocce grigie irregolari, come una specie di piccola altura, l’uomo primitivo osserva la fitta vegetazione del bosco poco sotto di lui. Sa che da li a poco deve affrontare il suo nemico temibile che adesso forse si nasconde là dentro, ciò nonostante sembra essere preso da una strana e insolita calma, come se tutto questo lo riguardasse soltanto in minima parte. Ha già provato altre volte a restare da solo, unico dominatore del luogo, e nella proiezione che in quei casi se ne è dato, ha assaporato il gusto profondo di quella dimostrazione di forza, come di qualcosa di meraviglioso. Ma adesso, chissà perché, tutto questo non gli pare più tanto importante, o meglio, pensa alla sfida nei confronti dell’altro, e prova soltanto il timore che una volta abbattuto il suo simile, molto nei suoi giorni quasi si privi di qualsiasi significato.
            Gli sembra forse inutile adesso seguire i suoi istinti profondi, come sempre peraltro ha fatto nella sua vita: sente che i suoi pensieri di oggi lo trascinano da tutt’altra parte, anzi, gli pare urgente e importante che lui assuma come fondamentale quel diverso punto di vista, quasi che le sue idee, la sua maniera di essere, il suo comportarsi, abbiano improvvisamente necessità di un confronto più costruttivo, di una diversa opinione con cui misurarsi, magari addirittura di un aspetto critico differente da quello che ha sempre avuto.
            Questo, riflette l’uomo primitivo sopra l’altura, mentre continua a starsene eretto su quel luogo così giusto per tenere sotto controllo la zona, anche se in fondo a lui non interessa quasi più rimanersene lì, come se la sua mente in quegli ultimi giorni avesse maturato un diverso convincimento su tutto, un modo di vedere le cose distante da quella che è stata la sua opinione di sempre. Sa che il nemico è là attorno, rintanato nel fitto della vegetazione, da qualche parte, eppure gli pare quasi di non temerlo neanche: gli sembra sciocco il loro contrapporsi come animali, quel farsi guerra per una sciocca supremazia, tanto da immaginare al contrario un possibile sodalizio e un’alleanza fruttuosa fra loro, un patto da stringere, forse, qualcosa di diverso da sempre, ma che possa servire maggiormente ai loro simili scopi.
            Poi accade qualcosa, un ramo d’albero cade a terra spezzato, una pietra vortica dentro l’aria, lui si china timoroso ad osservare quanto sta per succedere. Quasi non importa chi sarà tra di noi a cadere a terra ammazzato, pensa; in quel caso avremo perso ambedue, non avremo maturato nessuna possibilità di tentare un’esistenza diversa, una differente maniera di vedere le cose. Infine si alza, tiene tra le mani una pietra di discrete dimensioni, sa che ha un vantaggio notevole sull’altro restando sopra l’altura, e infine lo vede, è lì, poco sotto di lui, sta brandendo qualcosa, lo minaccia, così, quasi d’istinto, scaglia la sua arma dall’alto colpendolo in pieno, proprio sopra la testa.  
            L’uomo primitivo scende velocemente ad osservare da vicino quel corpo, l’altro a terra esala oramai gli ultimi suoi respiri, lui lo guarda, forse prova un senso di dispiacere dentro di sé. Infine torna ad osservare la vegetazione indifferente attorno alle rocce: adesso lui è più solo, ne ha quasi certezza, sente che il suo punto di vista egoistico forse è profondamente sbagliato, ne è quasi cosciente, eppure non rinuncia a quell’ultimo sprezzo, e sputa, come ha fatto altre volte in casi del genere, sopra a quel cadavere immobile.


            Bruno Magnolfi