lunedì 29 luglio 2013

Real Alta Velocità. (Pausa n. 3).

           
            Trascorro settimane di indifferenza verso tutto, rimanendo seduto in una vecchia poltrona sfondata davanti al televisore. Poi mi alzo, esco, salgo su un autobus ed arrivo diritto fino al capolinea, in una periferia assurda di palazzoni. In un condominio occupato da disgraziati salgo le scale ancora a cemento cercando un amico che sono sicuro abita qui. Sono stato in questo posto soltanto in una occasione, ma è la prima volta che sono da solo, e forse per questo mi sento osservato mentre ascolto parecchie voci che si esprimono urlando oltre i muri stonacati dei pianerottoli. Potrei benissimo essere sotto il tiro di una carabina ad aria compressa, penso, il cui sparo non è assolutamente mortale, ma è silenzioso, e se colpisce la zona dei testicoli può provocare dei danni irreparabili e tali da non farmi tornare mai più la voglia di farmi vedere in questi paraggi.
L’amico non c’è, mi dice un tizio che richiude subito dopo la porta senza darmi nessuna indicazione, ed io, sempre mostrando le mani ben lontane dal corpo e dalle tasche, ritorno da basso, e vado a sedermi su un muretto di mattoni accatastati poco distante in mezzo alla polvere, cercando di riflettere su ciò che posso fare di meglio. Nessun numero di telefono, nessuna rubrica in questo ambiente, posso solo tornare di nuovo. Una cicciona con la gonna troppo corta, mentre cammina per i fatti propri, dice che potrebbe farmi un pompino per cinque euro. Non ho soldi, rispondo, e osservo la mia figura svanire dietro la retina dei suoi occhi. La immagino mentre sputa per terra la sborra acquosa di qualche vecchio, ed un leggero urto di vomito mi prende, forse perché non mangio qualcosa di serio, che non siano i panini ketchup e maionese del Burgy, ormai da giorni.
            Dei ragazzi là attorno tirano in malo modo pedate a un pallone. Sembrano quasi violentemente cercare di svagarsi, ma il quotidiano è ad alta velocità, penso mentre li guardo: se questi ragazzi non riusciranno a cogliere il giusto momento saranno esclusi per sempre da tutto. Devo tornare per forza da queste parti domani, rifletto, a cercare l’amico magari in orario diverso da oggi. E’ un piccolo spacciatore, una persona tranquilla e cortese, se non riesco a farmi dare una mano da lui non ho altra scelta che borseggiare una vecchia. La realtà da queste parti sembra lasciare alle spalle una radiografia di se stessa ogni pochi minuti, e i risultati si possono quasi apprezzare sui monitor dei cellulari in mano e in tasca a chiunque in tutta la zona, anche se risultano un vezzo, degli oggetti praticamente inservibili e inutili, dei talismani contemporanei.
            Affronto un buon tratto a piedi tanto per perdere tempo e pensare a qualcosa, poi sosto ad una fermata per prendere l’autobus, assieme ad un paio di neri che continuano a parlare tra loro con voce persino troppo alta. Ammazzerei chi non sa stare al suo posto, rifletto, ma devo imparare la tolleranza come arma per fronteggiare ogni tipo di avversità. Studio i quartieri, le persone che vedo, tutta la città che scorre fuori dai vetri, poi scendo di corsa dal mezzo pubblico, quando avvisto ad un’altra fermata la ferrea divisa del controllore di biglietti.
            Attraverso l’intero quartiere pulcioso dove c’è la mia stanza, e poi torno immediatamente alla fida poltrona sfondata, giusto per accorgermi che il televisore è rimasto acceso per tutto il tempo, sintonizzato su un programma qualsiasi che mi pare di non avere mai visto. Meglio così, penso: alla fine è proprio come se non mi fossi mai mosso da qui. Devo continuare a studiare, rifletto, alla fine sono sicuro che mi risulterà assolutamente chiaro e evidente il percorso da fare.


            Bruno Magnolfi

giovedì 25 luglio 2013

Soffio di vita. (Bionda, naturalmente).

            
            Osservo da lontano la lunga fila di luci accese da poco sul litorale, in un’altra zona del golfo, e la sensazione visiva dell’esistenza di persone che si muovono, che stanno organizzando la loro serata, che magari in questo esatto momento si stanno già preparando per andarsene a cena, all’improvviso mi fa sentire tranquilla. E’ trascorso soltanto un anno da quando sono partita da questo luogo di mare e di villeggiatura a cui mi sento così intimamente legata, eppure non so perché mi sembra sia trascorso molto più tempo. Non è accaduto niente di fondamentale da allora, ma questo alla fine non ha troppa importanza, perché in fondo penso che le cose siano comunque andate avanti, ed anche le variazioni più impercettibili, quelle che certe volte davvero neppure si notano, spesso vadano apprezzate come fossero vere piccole rivoluzioni globali.
            Ho preso una camera nel medesimo albergo di un anno fa, ed un paio di persone mi hanno salutata con un certo calore riconoscendomi. Da qui riesco ancora a pensare intensamente a mia madre, al ricordo dei suoi silenzi apparenti, in realtà pieni di voce e di parole, mentre proseguo a camminare sul marciapiede della strada costiera. Credo proprio però che i miei sforzi interpretativi dei segni che conservo di lei, debbano adesso interrompersi, prima che il mio comportamento diventi una vera patologia; e credo proprio che la cosa migliore sia che tutto questo avvenga proprio qui, dove il suo sottile soffiarmi la verità in un orecchio, mi ha fatto scoprire tanto di lei e di me.
            Chissà dove sarà a quest’ora quella nave petroliera che l’estate passata era rimasta ancorata per giorni laggiù, vicino all’orizzonte, penso all’improvviso, quasi alla ricerca di un legame che adesso non c’è più. Forse queste cose hanno un suo tempo per esplicarsi, per chiarire qualcosa di sé; poi diventa inutile, addirittura dannoso cercarne ancora un aggiornamento: resta soltanto un filo di memoria, che non può essere né esatta né riduttiva, ma anzi, per certi versi può risultare capace di rendere tutto quanto nella nostra mente ancora più magico e ricco.
            Poi interrompo il cammino, mi volto lungo la strada e alla fine torno quasi frettolosamente verso la mia camera d’albergo. Probabilmente ho già visto tutto ciò che desideravo vedere, ho preso le decisioni che avevo da prendere, non ho necessità di spingermi ancora più avanti: dormirò in questo letto stanotte, domani mattina poi partirò, credo non abbia alcun senso trattenersi ancora in questi paraggi. Però vorrei lasciare qualcosa di me in questo luogo che tante cose, senza volerle, ha lasciato a me con grande naturalezza. C’è una candela bianca su un tavolinetto della mia camera: l’accendo, attendo con pazienza che la fiamma sia ben definita, che lasci fondere quel poco di cera che serve, poi la sollevo.
            La prendo, mi sposto, mi accosto allo specchio ovale incorniciato sulla parete, e avvicino il mio viso a quella superficie illuminata dalla fiammella; ecco, penso, adesso non sono più quella bionda che la mia stessa esistenza sembrava avermi voluto far essere, ho lasciato negli ultimi tempi che i miei capelli perdessero il colore delle tinture e riprendessero il loro tono naturale. Mi guardo ancora un momento, sostengo non calma la candela tra me e questo specchio, e infine, quasi con gli occhi chiusi, spengo la fiamma con un forte sbuffo di fiato. La cera calda spruzzata sopra lo specchio sarà la mia firma, il mio piccolo soffio di vita, tutto il ricordo di me e di questo passato, per quanto non possa resistere a lungo; e comunque il mio grazie a questo luogo di mare.


            Bruno Magnolfi

lunedì 22 luglio 2013

Occasioni sfiorate. (Pausa n. 2).

            

            Un uomo, seduto davanti ad un bar di paese, mi osserva senza interesse mentre percorro lentamente con la mia automobile la strada provinciale che attraversa quel gruppo di case e passa praticamente davanti ai suoi piedi. Sta lì, nel caldo estivo e indolente del primo pomeriggio, la tazzina di caffè già consumato sul piano del tavolino accanto a sé, le braccia a riposo, lo sguardo quasi perso nel niente. Rallento, accosto la macchina, mi fermo, scendo con flemma, torno indietro di quei pochi passi fino all’entrata del bar.
            Buongiorno, dico all’uomo da solo che sta evitando di guardarmi in modo diretto; lui allora mi concede una sbirciata con un minimo di cura, è sicuro che non mi conosce, forse non gli resto neppure troppo simpatico, penso, però bofonchia qualcosa pressoché incomprensibile come fosse un saluto. Posso offrirle un caffè, magari mentre ne prendo uno anche io, gli fo. Va bene, dice lui, e il cameriere incuriosito che guarda giusto in quell’attimo verso di me per valutare quali intenzioni io abbia, mette subito sotto pressione la macchina e procede al volo con il suo lavoro.
            Mi siedo dalla parte opposta del tavolino e assieme, io e l’uomo, guardiamo la strada praticamente deserta a quell’ora calda e un po’ uggiosa. Chissà quante cose sono successe lungo questa via, proprio davanti a queste case, fo io tanto per cercare di parlare. Lui annuisce, ma prosegue a restare in silenzio. Qualcosa è successo, dice alla fine, ma non è di alcun interesse pensare troppo a cose del genere, avvenute non so neanche più quanti anni fa. Una ragazza attraversava la strada, un giorno, sorridente, quasi di corsa, giusto per fermare me e il mio amico, non avevamo neppure vent’anni a quell’epoca, e poi dava un bacio frettoloso al mio amico, per poi andarsene, frettolosamente, nella stessa maniera come era arrivata.
            La conoscevamo di vista, ma non ci avevamo parlato neppure una volta; rimanemmo di stucco, incapaci di proseguire con le nostre cose come se nulla fosse successo. Nei giorni seguenti non accadde un bel niente, il mio amico era troppo timido per andare a cercarla o chiederle qualcosa incontrandola magari per caso. Così in seguito lei si era trovata un fidanzato e quel suo gesto era rimasto senza alcun seguito. Certe volte mi chiedo cosa avrei fatto io se fosse accaduta a me la medesima cosa. Lei era bella, la più bella di tutte le ragazze della nostra età, e il suo sorriso metteva quasi soggezione, ma io credo avrei superato qualsiasi timore, e sarei andato da lei, le avrei parlato, avrei cercato in ogni caso di dare un seguito a quella faccenda.
            Arrivano i caffè, mettiamo lo zucchero, giriamo nelle tazzine con i cucchiaini. Va bene, dico io, però non si può vivere soltanto di rimpianti, mentre mi porto alla bocca il primo piccolo sorso caldo e cremoso. Lo so, dice lui, ma poi non è successo più niente di buono, soltanto le solite cose che si possono immaginare con facilità. Beve il suo caffè guardando ancora la polvere sopra la strada, poi appoggia la tazzina sul tavolino, e dice ancora: non me ne importava un bel niente di quella ragazza, ma sapere che la mia vita avrebbe potuto prendere un svolta diversa, questo si che mi interessava, anche se all’epoca non lo sapevo neppure, non immaginavo che forse poteva essere quella la mia buona occasione. Infine si alza, mi ringrazia con un saluto appena accennato, quindi, senza un briciolo di fretta, se ne va. Attraversa la strada e fatti pochi passi entra dentro un portone sparendo alla vista.
Rifletto un momento su quanto mi ha detto, mi sembra davvero quasi incredibile rimanere ancorati ad un ricordo del genere, poi però lascio i soldi dei caffè al cameriere, mi alzo da quella sedia di plastica e riprendo per la mia strada. Adesso mi pare di vederla quella ragazza, mi fa quasi star male non essere stato lì, esattamente in quel momento, così mi fermo e mi volto; forse, in qualche maniera, penso tra me, la sto proprio cercando.


            Bruno Magnolfi    

martedì 16 luglio 2013

Senza colore.

            

            Un uomo non è mai del tutto libero, dicono, tantomeno se si chiama Ernesto, così come si chiama lui, e se come lui va tutti i giorni a piedi dalla sua catapecchia fino alla frazione Ramazzotti, per lavorare come bracciante, a giornata, come gli altri, nel podere di quei Conti Lanzi, proprietari dei terreni. C’è un caporale là sul posto, ogni mattina li aspetta, ed impartisce gli ordini, poche parole essenziali dette in malo modo, con voce rauca e decisa, con le maniere di chi considera quella manciata di lavoratori quasi una semplice nullità. Sono in cinque, a volte in sei, ma Ernesto è l’unico italiano, gli altri sono tutti senegalesi, conoscono poche parole nella lingua di quel caporale, ma ugualmente capiscono tutto alla perfezione.
            Ernesto non parla con nessuno, ascolta i comandi, ripete a volte le parole dentro di sé, poi abbassa la testa, mostrando segno che ha compreso, e subito si muove, prende gli attrezzi che gli servono, si mette a lavorare, insieme agli altri. Mentre suda sotto al sole pensa che fra qualche giorno sarà sabato, la sera indosserà la sua camicia pulita, andrà a piedi di nuovo, come tutti i giorni, fino alla frazione Ramazzotti, al circolino del paese, e passerà la sera a bere e a ridere insieme agli altri uomini. Al circolino i senegalesi non ci vanno, restano tutti nella loro stalla anche al sabato, e non si fanno mai vedere in giro quando gli uomini del posto hanno bevuto e parlano tra loro a voce alta.
            Ad Ernesto non importa, ride quando gli altri ridono, lascia che qualcuno lo prenda in giro come sempre, si sente ogni tanto al centro dell’attenzione e forse non gli importa d’altro, almeno al sabato. Però non gli piace quando qualcuno parla male dei senegalesi, e dice qualcosa contro di loro soltanto perché appaiono differenti. Non sono suoi amici quei ragazzi magri e neri, non ha molto da spartire con loro, lo sa bene, però quelli sudano sotto al sole insieme a lui, e questo per Ernesto è forse più importante d qualsiasi altro elemento.
            Sarai mica diventato come loro, gli dicono a volte al circolino, e lui quasi sempre se la ride. Poi però lo spingono fuori, durante un giorno forse un po’ diverso, e hanno la faccia brutta, gli dicono a muso duro che almeno quella sera lui deve andarsene da lì, sei soltanto come loro, gli ripetono, nessuno ride, e qualcuno da dietro gli assesta all’improvviso una legnata nella schiena. Ernesto cade subito a terra nella polvere della strada davanti al circolino, nessuno lo difende, nessuno gli chiede di rialzarsi, se ne vanno, e a lui pare impossibile che stia accadendo tutto questo.
            Ma non è tanto grave per una pelle dura come lui, si rialza da solo, si mette a camminare, si sente soltanto un po’ dolorante dappertutto, ma ce la fa a ritornare alle sue due stanze dove abita. Gli viene da piangere mentre percorre al buio tutto quel tratto di strada che lo separa dalla sua branda, c’è qualcosa sicuramente che non ha capito, qualcosa che non vuole proprio entrargli nella testa.  Adesso però si sente un po’ più amico dei senegalesi, loro sudano sotto al sole proprio come lui, e lui ha qualcosa da condividere con loro: andrà da loro la prossima volta, starà nella stalla dove stanno loro anche di sabato, e saprà che c’è qualcosa in più da accennare con la testa, anche se non ci sono le parole nella lingua giusta per spiegarsi.
            Starà lì con loro, nel buio di quella stalla dove abitano quei musi neri, e c’è quel sudare tutto il giorno che adesso li accomuna anche di più, e se quando qualche volta ci sarà da schierarsi da qualche parte, adesso Ernesto sa perfettamente da quale lato dovrà mettersi.


            Bruno Magnolfi      

venerdì 12 luglio 2013

Variazioni (cortometraggio n. 5).

            
            Lei era rientrata in casa aprendo la porta lentamente e quasi in silenzio. Sei tu, Federica?, aveva detto lui dall’altra stanza. Lei non aveva risposto, però aveva tolto lo spolverino con una calma accentuata, appoggiandolo semplicemente su una sedia dell’ingresso. Cosa è successo?, aveva chiesto lui affacciandosi alla porta che dava sul corridoio e tenendo ancora in mano il giornale aperto che aveva letto fino allora aspettandola. Non lo so, aveva risposto lei senza guardarlo; all’improvviso però mi sento stufa di tutto.
            Lui l’aveva osservata quasi incredulo delle parole udite, poi aveva detto in un soffio: siediti, parliamone, cerchiamo una soluzione. No, aveva detto lei quasi attraversando la sua persona con uno sguardo freddo e deciso, con una voce all’improvviso quasi troppo alta. Devo andarmene, non posso fare altrimenti. Probabilmente solo a quel punto lui aveva avvertito tutta la portata drammatica e immediata della situazione, così aveva cercato di dire una delle prime cose che gli erano passate convulsamente nella testa, buttandola lì quasi senza cercarne propriamente il senso.
            Ma dove vuoi andare?, aveva detto in un soffio; e poi per quale motivo andartene via, così, su due piedi. Mi dispiace, aveva risposto lei ancora con freddezza, e intanto con la mano era andata a cercare di nuovo lo spolverino che le era rimasto accanto, come se tutto quanto c’era da dire, con quelle poche parole, fosse già stato detto. Devo dare coerenza alle mie idee, aggiunse, e anche alle mie sensazioni. Accettando ancora questa vita di sempre, mi sentirei soltanto falsa con me stessa e perfino con te.
            Non riesco a capire, cercava di dire lui quasi imbambolato. Lo so, lo immagino, lo interrompeva Federica; anche in me per certi versi tutto si snoda d’un tratto in modo poco comprensibile, però sento che devo fare così, altrimenti non potrò più farlo, in nessun’altra maniera. Forse è un periodo, azzardò tanto per dargli una flebile speranza; forse però sopra al mio calendario c’è scritto in questo modo sulla data di oggi: è il mio giorno giusto per fare certe scelte, ed io non posso disattenderlo.
            Lui la osservava rivestirsi notando in lei la stessa calma che aveva conservato fino allora; poi la guardava ancora avvicinarsi alla porta in fondo al loro ingresso, socchiudere l’uscio, dire ciao già da una distanza quasi incolmabile, come se quella voce fosse l’eco di qualcosa che era ormai soltanto dentro ai suoi ricordi. Mosse un passo indeciso verso Federica, ma lei aveva già richiuso dietro di sé quella porta, e la solitudine improvvisa che pareva d’improvviso calare in lui lungo il corridoio, sembrava addirittura superiore persino alla forza che gli serviva per reagire.
            Appoggiò il giornale, si volse intorno per rendersi conto di cosa rimanesse di lei dentro le stanze. Osservò i mobili, l’armadio, le stampe incorniciate sopra i muri, un piccolo vaso di fiori secchi sopra il piano di cucina. Infine raggiunse la finestra, e senza aprirla guardò fuori la strada e il marciapiede di fronte, simili a sempre, senza un solo accenno di qualche variazione. Tornò a sedersi immaginando che tutto fosse ancora da accadere: riprese il giornale, scorse in fretta l’articolo che aveva iniziato a leggere appena poco prima, ma dopo un attimo si disinteressò di tutto. Forse c’era ancora qualcosa da salvare, rifletteva; i miei pensieri adesso non possono perdere di logica; ci vuole forza, ci vuole resistenza, ed io devo pur averne di riserva nascosta in qualche angolo.


            Bruno Magnolfi 

venerdì 5 luglio 2013

Risate sforzate.

            
            Certe volte mi metto qui, seduta, quasi senza pensieri. Osservo i colori del tramonto, mi meraviglio delle sue sfumature, e lascio che la prima sera mi sollevi da questa panchina e mi porti via con sé, quasi con naturalezza. Rientro a casa come alleggerita della mia solitudine, praticamente soddisfatta per aver partecipato come spettatrice a questa manifestazione di natura, e d’improvviso, salendo i gradini del palazzo dove abito, mi sento bene, pronta ad affrontare le piccole cose ordinarie e qualche volta pesanti da cui sono circondata. 
            La mia vicina di pianerottolo spesso mi osserva rientrare dalla sua finestra: non dice niente, si limita a salutarmi sempre nella medesima maniera quando mi incontra. Non esprime mai un giudizio sui miei comportamenti, non allunga mai una parola in più, ma io so benissimo che non è d’accordo su come io affronto le giornate. Una volta la settimana pulisco le scale del nostro condominio, e gli altri giorni, rigorosamente durante la mattina, vado a fare la stessa cosa in altre palazzine del quartiere. In tanti mi salutano e parlano con me, credo di essere piuttosto benvoluta da tutti coloro che mi conoscono e mi vedono sempre indaffarata.
            Buongiorno, mi dice al contrario la vicina senza alcuna enfasi. Lei spazza la soglia del suo portoncino, scuote la stuoia che usa per pulirsi la suola delle scarpe, osserva il corrimano per vedere se c’è sopra ancora della polvere, o se qualche cicca di sigaretta sia rimasta in un angolo tra due gradini. Buongiorno, le rispondo, e al pomeriggio vado come sempre ai giardinetti poco distanti, a mettermi seduta per un’ora a leggere qualcosa, e ad aspettare che la sera mi regali di nuovo i suoi colori, fino a poco prima che la luce inizi a scarseggiare. 
            Lei mi osserva dalla sua finestra, forse anche da lontano mentre resto seduta alla panchina: immagina qualcosa di me che non riesco a togliere dalla sua mente, neppure cercando di fare tutto quanto al meglio che posso. Lei vuole mostrarmi che mi guarda, ed il suo sguardo è giudicante, anche se non si permette mai di dire una parola su di me, o sul mio lavoro.
            Vado avanti a fare la vita di sempre, però mi logoro ad incontrarla sulle scale o sulla strada davanti al nostro condominio, ed ultimamente ha iniziato a darmi fastidio anche il suo saluto, così privo di accenti, come un verso o un gesto ripetuto meccanicamente, che non dice alcunché dei suoi pensieri.  Certe volte vorrei affrontarla, chiederle cosa ci sia che non va, piangere con disperazione di fronte a lei e mostrarmi debole, pronta a contentarla se mai ci fosse questa possibilità. Invece tutto va avanti ogni giorno come sempre.
            La ripetizione dei gesti e dei comportamenti mi sta portando verso un punto di saturazione, però dico sempre dentro di me che devo resistere, devo cercare di fare in maniera che tutto questo risulti qualcosa che mi è estraneo. A volte penso che dovrei allontanarmi da tutto, prendere per strada e andare dritta, senza voltarmi, e tornare indietro solo dopo che qualcuno avrà iniziato a notare la mia assenza. Non provo odio per la mia vicina, però farei di tutto per ottenere che il suo sguardo mi evitasse, che andasse a posarsi su una qualsiasi altra persona. Stasera l’ho guardata fissa mentre mi guardava: mi sono messa a ridere, e poi ho tirato dritto. Farò così d’ora in avanti, mi sforzerò di divertirmi dei suoi comportamenti, come di un clown sulla pista del circo.

            Bruno Magnolfi

            

martedì 2 luglio 2013

Gioco di donna.

            
            Lei appariva completamente assorta quando qualche volta da sola ripensava a quel lungo periodo di tanti anni prima. Era ancora una ragazza a quell’epoca, e in seguito non aveva più saputo spiegarsi perché si fosse lasciata andare a fare sesso con quella gran quantità di uomini perlopiù sconosciuti, a volte anche già sposati e con molti più anni di lei, quasi che questo comportamento le potesse apportare un arricchimento progressivo della personalità. Dopo gli anni universitari si era trovata un marito, quasi a chiudere definitivamente con quel periodo, proprio come le pareva facessero tutte le amiche e conoscenti che aveva frequentato fino ad allora, e la sua vita aveva preso da quel momento in avanti un corso molto più ordinario. Adesso erano trascorsi ormai oltre cinquant’anni, e dopo il suo sofferto divorzio non aveva più voluto saperne degli uomini, anche se ancora non riusciva a spiegarsi come mai il suo comportamento avesse subito tante alternanze.
            Forse, per semplice reazione, a un certo punto aveva avuto schifo degli uomini, rifletteva ogni tanto, quasi che ogni interesse per loro da un certo momento in avanti fosse definitivamente tramontato. Aveva studiato, lavorato, viaggiato, interpretando la realtà come chiunque, senza mai neppure cercare di porsi troppo in evidenza sugli altri. E la sua scelta di entrare in una casa di riposo, per lei che ormai si sentiva sola e indifesa pur senza soffrirne, era invece stata netta, senza ripensamenti, forse perché la condivisione della giornata con altri vecchi le era sembrata perfetta per lei, un ulteriore accrescimento di sensibilità e di esperienza.
            Si era fatta un amico del cuore là dentro, con il quale ogni giorno parlava di tutto, spesso anche del passato, evidentemente, senza però mai affrontare con lui quel suo periodo più oscuro. Certi giorni lo teneva per mano, scambiava con lui tenerezze, come quasi mai era accaduto nella sua vita. Teresa, diceva lui: non ho mai conosciuto una donna simile a te. Lei sorrideva, guardava avanti, forse provava addirittura vergogna di essere proprio in quella maniera. Sono stata molto diversa da ora, diceva quelle volte sottovoce. Lui annuiva, poi parlavano d’altro.
            La scansione della giornata sembrava una certezza a cui affidare persino i propri pensieri, ma Teresa conservava per sé uno spunto di personalità che spesso brillava. Lui la cercava fin dal mattino, a volte sembravano persino inseparabili, ma c’erano giorni in cui lei era sfuggente, si metteva da sola su una sedia in fondo al salone, e pensava, semplicemente. Qualcuno si avvicinava, le diceva qualcosa, ma lei liquidava ogni intruso con un semplice gesto.
            Sono stata molto diversa, ripeteva a lui in altre occasioni. Lo so, diceva lui, ma a me non interessa come tu possa esserti dimostrata quando non ti conoscevo. Mi piaci adesso, forse perché è soltanto in questo momento che puoi manifestare con piena libertà ciò che avevi voglia di essere. Teresa sorrideva, guardava ancora qualcosa avanti a sé, forse provava la voglia di dire che c’erano stati dei grossi errori nella sua esistenza, forse sentiva il bisogno di confidare tutto quanto a qualcuno, di cercare di spiegare almeno in parte quei suoi tanti sbagli. Poi però tornava a nascondersi, ed il suo intercalare con quel passato diventava poco per volta quasi un semplice gioco, un divertimento qualsiasi, una maniera per togliere in qualche modo l’importanza che quel tratto di vita poteva avere assunto per lei e per chiunque; come se perfino quello fosse un altro suo gioco tra i tanti a cui probabilmente le era sempre piaciuto giocare, semplicemente. 


            Bruno Magnolfi