sabato 29 febbraio 2020

Genio e furbizia.

         

            Osservo questi quattro tizi che ancora stanno attorno a me, e so per certo che da loro non mi arriverà mai niente di buono. “Siete delle nullità”, dico a tutti con voce non particolarmente alta, giusto per vedere se alla mia provocazione qualcuno abbia voglia davvero di reagire. Invece si mantengono tutti zitti, anche se proseguono a guardarmi, e a tenere le mani sprofondate nelle tasche, mentre sotto a questi lampioni sembrano persino in numero maggiore di quelli che realmente mi rimangono di fronte, come se le ombre che si sono formate dietro di loro riuscissero a moltiplicarne in qualche modo la presenza. Non hanno timore di nulla, mi guardano, sanno benissimo che è sufficiente allontanare lo sguardo che tengono sopra di me per farmi ripiombare immediatamente nel buio, lasciarmi isolato, completamente inascoltato, senza alcuna sponda. Non sono certo loro a farmi andare avanti, penso con determinazione; "non mi importa niente di voi", dico poi per sfida. Uno si muove, forse vuol dire qualcosa, ma cambia solamente posizione, senza fare altro, né dire alcunché. La situazione è estenuante, ma nello stesso momento in cui non avviene nulla, sono quasi contento che tutto in fondo resti così, ed io possa proseguire a mettere assieme le mie cose, senza alcuna influenza esterna.
            Poi fo il gesto di andarmene, anche perché sono un po’ stufo di tutta questa faccenda, ma loro adesso si mettono lentamente in movimento, come per seguirmi, quasi gli importasse veramente della mia condizione e dei miei prossimi indirizzi. “Ho avuto già molta pazienza con voi”, dico senza convinzione. Ed in fondo è vero, la cosa bella di tutto quanto è che io posso procedere così finché avrò fiato, senza nessuno che mi dia anche soltanto una minima relazione. "Sono parole", dico adesso per spiegare; "solo parole, che non hanno peso, non durano nulla, non hanno neanche un prezzo e forse neppure un vero valore". Uno dice sottovoce che a lui non interessa, gli va bene anche in questo modo, crede che ci sia comunque qualcosa di buono sotto, e prima o dopo verrà fuori. Gli sorrido: "sono proprio convinto di no", gli dico secco.
Quindi volto le spalle a tutti in modo definitivo; "me ne vado", gli fo a tutt'e quattro. "Comunque non vi dovete preoccupare, su quello che mi avete visto fare fino ad ora potete sempre contarci, anche nel prossimo futuro". In due fanno il tentativo di battere le mani, ma non per ironia, solo perché hanno compreso la mia indole, il mio modo di pormi, le mie parole, anche se ho cercato in tutte le maniere di riuscire a scoraggiarli. Esco dalla stanza, nessuno mi segue, adesso in fondo è molto più facile dire che non c'era alcun valore in tutto ciò che è stato fatto o detto: soltanto sciocchezze, si può affermare con facilità, e in questo modo seppellire in una sola volta qualsiasi sforzo. Già, perché qualsiasi artigiano se si impegna a fondo lascia una traccia di sé, di ciò che ha davvero desiderato fare, di quello che ha pensato, di tutto quanto avrebbe voluto spiegare alla fine con l'opera semplice delle sue mani.
Che cosa mi interessa, penso mentre sono ormai da solo lungo la strada che mi porta via; non sono loro che mi spiegheranno l'importanza di ciò a cui mi sono dedicato. Nessuno potrà dire che il mio è stato un approfittarsi di qualche situazione facile, un lavorare intorno a qualcosa che piacesse a tutti, a quello che oggigiorno va per la maggiore, e di cui forse adesso si potrebbe già dire che proprio l'individuo prodigatosi in tutto quel lavoro, sapesse bene adoperare al meglio il genio della furbizia, perché sono questi i termini che adesso vanno di più, e non la schiettezza.


Bruno Magnolfi
        

        

giovedì 27 febbraio 2020

Avanti così.


        

            "Tu; si, sei proprio tu che mi fai confondere". Dentro la stanzetta adibita ad ufficio si prendono le telefonate di richiesta dei preventivi, e certe volte quando il lavoro della giornata termina particolarmente presto, ci si ritrova a chiacchierare, in quei cinque o sei che fanno parte della squadra, per spiegare ciò che è stato fatto in quei giorni, dare qualche giudizio sul lavoro svolto, magari mettere alla gogna quei clienti esigenti e insopportabili, e poi ricordare le difficoltà con il mobilio più pesante e voluminoso, mentre i guanti di ognuno ancora fanno capolino da qualche tasca dei calzoni o del giubbotto. Il titolare ascolta tutti mentre sta seduto alla piccola scrivania, anche se qualcuno alza anche la voce per un motivo o per l'altro, subito però riabbassando i toni delle proprie proteste. Sono dei traslocatori, tutti ragazzi muscolosi, semplici, persone a cui non fa paura quasi niente di ciò che devono affrontare in ogni giornata. Ce n'è poi uno tra di loro che deve sempre lamentarsi, e trovare la maniera di incolpare gli altri di qualcosa che secondo il suo parere è venuto male, oppure gli ha richiesto una fatica superflua. "Sei sempre tu a dirmi cosa fare", fa ad un altro, "e così riesci soltanto a confondermi".
            “Calma ragazzi”, dice sempre qualcun altro, tirando fuori un maggior buon senso che non guasta mai. Quando si dividono per andarsene da lì, ed ognuno filare verso casa propria, lasciano alle loro spalle appena un accenno di saluto, un piccolo gesto amichevole, perché l’appuntamento è già fissato per il giorno seguente, alle prime luci dell’alba, o in certe stagioni, quando è ancora buio. Ognuno di loro sa di portare avanti un mestiere umile, in cui farsi male è una cosa semplicissima, per questo c’è bisogno di essere affiatati, e di poter contare in ogni momento uno sull’altro. Il titolare sta tutto il giorno in mezzo a loro, e lavora anche lui come tutti, limitandosi a dare qualche direttiva che gli altri volentieri seguono. Forse è il più dritto di tutti, naturalmente è anche quello che si mette in tasca qualche soldo in più, però va a parlare con le famiglie, prende accordi, stabilisce le date e ogni altro dettaglio, ed i ragazzi lo rispettano.
            Non c’è niente di nascosto dietro il loro lavoro, c’è soltanto da smontare i mobili, mettere ogni oggetto ben incartato negli scatoloni, trasportare tutti i pezzi con l’autocarro, e poi rimettere ogni cosa al proprio posto così come desidera il cliente. Lui ha imparato a distinguere a prima vista la persona che gli farà girare l’anima, oppure l’altro che al contrario si affida a chi ne sa di più. Assume sempre l’espressione seria e l’atteggiamento di chi naturalmente farà del suo meglio per andare incontro ad ogni esigenza. E poi spesso resta per un attimo in silenzio quando qualcuno gli dice qualcosa, come prendendo tempo, riflettendo il più possibile su ogni argomento, in maniera da aprire bocca solo quando è sicuro di quello che potrà rispondere. Non è un mestiere facile, e spesso viene la voglia di abbandonarlo e mettersi a fare un’altra cosa, pur di non dover spartire ogni giornata con famiglie angosciate dai problemi, oppure altre, che siccome pagano, credono di essere proprietarie di ogni cosa, e anche delle persone.
            Alla fine ci sono i ragazzi, che si fidano di lui e lo seguono senza mai battere ciglio, ma anche loro certe volte mostrano dei limiti, ed è allora che la fiducia in tutto viene a calare. In fondo lui è solo, specie quando rimane a fare due conti nel suo piccolo ufficio, ed anche se sa perfettamente cosa lo aspetta il giorno seguente, e poi anche le altre date più in avanti, però sa pure che ci dovrà essere comunque lui in tutti quei giorni, ad affrontare ogni più piccolo problema, e niente dovrà mai sfuggirgli, nulla dovrà essere lasciato al caso, e nessuna stanchezza dovrà mai prendergli le braccia, se vuole davvero tirare ancora avanti.  

            Bruno Magnolfi

mercoledì 26 febbraio 2020

Meno di niente.

      

            "Il controllo delle persone quando arrivano qui è un'attività della massima importanza", dice la donna attempata al giovane volontario che risulta da oggi in forze presso quella mensa per i poveri. "Qualche attaccabrighe mezzo ubriaco lo trovi quasi sempre in mezzo a tutti gli altri, purtroppo non c'è niente da fare". Il ragazzo la guarda, annuisce, comprende benissimo cosa ci sia da fare in quei casi; fino adesso immaginava di doversi occupare di altre cose in quel centro di volontariato, ma va bene anche così, l'importante per lui è semplicemente sentirsi utile agli altri. Per questa giornata staranno in due a regolamentare l'afflusso delle persone, ed anche per fornire le solite informazioni essenziali a chi le richiede, ma probabilmente già da domani lo metteranno all’entrata principale da solo. Si tratta anche di tenere a mente diversi dati, specialmente riguardanti coloro che mostrano l'aspetto più trasandato, e che non si fanno vedere quasi mai da quelle parti, per cui è necessaria anche una buona memoria per ricordarsi le facce di coloro che scorrono tra i nastri, ancora prima che ognuno di questi rilevi il proprio vassoio. "Qua dentro fai la pacchia", gli dice subito un tipo sorridente che deve essere abitudinario della mensa e sembra proprio conoscere tutti là dentro. Lui sorride a sua volta, tradisce un sottile moto di vergogna davanti a quell'umanità in parte timorosa di tutto, ed in parte già disperata, però sa che deve fare l'abitudine a qualsiasi situazione, e lo deve fare anche in fretta.
            “Ciao amico”, gli dice un altro che mostra con orgoglio al suo fianco una donna probabilmente straniera, con un’espressione sopra la faccia di chi ne ha passate di tutti i colori. “Buongiorno”, fa lui alle persone che stanno già facendo la fila, per poi osservare con maggiore attenzione coloro che appaiono sfiduciati di tutto, malmessi, quasi abbandonati al loro destino sin nella maniera di essere. Uno poi sembra parlare da solo, e visto che resta fermo, senza neanche avviarsi dietro alle altre persone, lui gli si avvicina, pur con metodo. “Non lo so”, fa quello tra sé, “io non lo so”. Lui gli pone allora qualche domanda generica, ma quello non dice altro, soltanto ripete di nuovo la stessa frase. Allora cerca di tirarlo da una parte per cercare di saperne di più, e quello lo segue, senza opporre alcuna resistenza. Appare magro, lo sguardo vuoto, il vestiario un disastro, i piedi gonfi dentro a scarpe sformate e a brandelli. Lui fa un cenno all’altra persona che lo aiuta, e l’altro si avvicina, dice che non lo conosce, forse non è della zona. “Se vuoi mangiare puoi metterti seduto ed io ti porto qualcosa”, gli fa lui. Ma l’uomo risponde ancora nella stessa maniera, di non saperlo, di non sapere neppure di che cosa abbia bisogno.
            Lo accompagnano in qualche modo tutt’e due ad un tavolo, praticamente sorreggendolo, lo fanno sedere, poi gli portano i piatti già pronti, e l’uomo inizia a spiluzzicare qualcosa, ma senza quella foga che si sarebbe potuta facilmente immaginare. “Mi dispiace”, dice quell’uomo a un certo punto, e dopo più niente. Gli si fanno altre domande, si cerca di conoscerne almeno il nome, la provenienza, di cosa abbia bisogno, ma lui nulla, non spiega niente a nessuno, continua soltanto a ripetere: “non lo so”. Poi smette del tutto, allontana leggermente da sé il piatto ancora quasi pieno, si guarda per un attimo attorno, e quindi, accostandosi a lui che è rimasto a seguirne con attenzione i comportamenti, gli fa: "dobbiamo stare attenti. Ci spiano, osservano la nostra condotta, vogliono sapere qualsiasi cosa di noi, tutto ciò che riguarda chiunque, anche quelli come noi che non siamo proprio nulla, appena un’inezia; perché in fondo è proprio vero che se anche cerchiamo di essere ancora persone, di fatto oramai non contiamo un bel niente".


            Bruno Magnolfi
       

martedì 25 febbraio 2020

Dentro l'edificio.

          

            Vado avanti lungo questo corridoio poco illuminato senza neanche sapere dove porta, anche perché arrivato a questo punto non posso proprio fare nient’altro. Non ricordo neppure in quale maniera io sia entrato dentro questo edificio, e soprattutto non conosco affatto il motivo che mi ha portato in questi ambienti, però tutte le porte che ho incontrato fino adesso durante il percorso sono risultate tutte chiuse ermeticamente. Arriva intanto di fronte a me un tizio strampalato con una sigaretta spenta in bocca: "forse me la può accendere", mi fa prima che possa dirgli qualcosa d’altro, ed io per riflesso condizionato rovisto subito nelle mie tasche fino a quando trovo dei fiammiferi. Mentre lui si serve della fiammella, gli chiedo se per caso ci sia un'uscita da quella parte, e lui mi fa subito cenno di si: "certamente", dice in un attimo, anzi, se vuole posso anche accompagnarla, che tanto non ho niente di importante da fare".
            Accetto, naturalmente, e così ci mettiamo a camminare in maniera molto calma, visto che lui sembra proprio non avere alcuna fretta, e dopo circa una ventina di metri o forse di più, viene spalancata di colpo una porta metallica di tipo tagliafuoco, ed ambedue ci ritroviamo in un attimo all’interno di un parcheggio all'aperto non proprio enorme, però abbastanza pieno di macchine ferme, in questa specie di terrazza scoperta che resta ad un'altezza di diversi metri dal piano della strada sottostante, all’apparenza del tutto deserta. Lui continua a fumare, e comunque si ferma, forse per farmi ammirare il grigio e piatto panorama che si vede da lì, mentre io intravedo la rampa di accesso a quel piazzale e quindi mi sento parzialmente tranquillizzato.
            "Potremmo farci un bicchierino", mi fa lui sempre con i suoi modi strani di gesticolare e di guardarsi attorno. Annuisco, in fondo non ho da recarmi in nessun luogo particolare, e così rientriamo nel labirinto dei corridoi, fino a ritrovarsi subito dopo in un minuscolo locale praticamente costituito soltanto dal bancone, dove a dire la verità c'è soltanto il barista, ed in questo momento nessun altro cliente, se non giusto noi due. Ci facciamo servire subito qualcosa, ed il tizio insieme a me dice al barista, come fosse una cosa di cui ridere, che "questo signore non riusciva neppure a trovare l'uscita". “Ha bisogno di un sostegno”, dice l’altro, quasi a sottintendere che io non sia del tutto in condizioni di girare da solo in questo edificio. Non replico, mi basta sapere che tra poco potrò andarmene, e lasciare alle spalle questa strana situazione. Il tizio mi lascia pagare, poi torniamo nel dedalo dei corridoi, ma lui mi chiede di aspettarlo un momento, sparendo dietro una porta lucida dove c’è scritto soltanto ‘direzione’.
            Attendo, mi accosto alla porta ma non avverto all’interno alcun rumore, quindi dopo qualche minuto busso con leggerezza, poi aspetto ancora, quindi mi decido a socchiudere l’uscio e a dare un’occhiata all’interno. Ci sono diverse persone sedute attorno ad un tavolo, tutte sotto a delle lampade che proiettano una luce bianca quasi sfolgorante, così richiudo la porta temendo di aver interrotto qualcosa di fondamentale. Credo nessuno mi abbia notato, così dopo qualche altro momento torno ad aprire e a chiedere notizie di una persona entrata là dentro da poco. Tutti adesso mi guardano con un certo sospetto, il tizio di prima non è tra di loro, nessuno si decide a rispondermi o a darmi qualche indicazione. Alla fine uno dice soltanto: "adesso non è proprio il momento”, così torno a chiudere la porta e a ritrovarmi semplicemente da solo.


            Bruno Magnolfi
     

          

lunedì 24 febbraio 2020

Sostituzione di componenti.

      

            "Sono stanca", dico quasi con indifferenza alla mia amica di sempre. Lei ride, è una persona solare, piena d'entusiasmo, positiva, difficile farle immaginare degli stati d’animo diversi dai suoi. “Non capisco di cosa”, dice lei alla fine. Entriamo nel centro commerciale senza avere niente di particolare da acquistare, e difatti, dopo un breve giretto nel lungo corridoio coperto dove si aprono svariati negozi, individuiamo i tavolini di una sala da tè e ci mettiamo sedute. “Non so”, fo io, “mi pare che tutto si stia risolvendo in una monotonia sconcertante: lavorare, tornare a casa, occuparsi delle solite cose, i medesimi gesti da compiere, identici praticamente ogni giorno. Un continuo ripetersi di ogni azione, insomma”. Lei mi ascolta, adesso sembra seria, naturalmente comprende che c’è qualcosa di importante in quello che dico. “Va bene”, mi fa; “però se non si può trovare una soluzione a cose del genere, tanto vale accettarle”.
            Dopo poco si accosta al nostro tavolo una coppia di persone che conoscono la mia amica, quindi la salutano, le dicono qualcosa di carino, mi stringono la mano quando vengo presentata. Ci spiegano che venire in posti come questo serve soltanto a perdere momentaneamente la propria personalità, e a sentirsi come tutti, quasi senza differenze. "In parte è vero", dico con tono tranquillo, "ma per certi versi stare in mezzo a tanta gente ti fa forse sentire più sola che mai". Si annuisce cercando una battuta qualsiasi per chiudere l'argomento, e così loro due un attimo dopo ci salutano e quindi se ne vanno, affermando di essere pronti per fare una nuova immersione tra facce sconosciute. La mia amica adesso sostiene che loro sono simpatici, li conosce da diversi anni anche se non li ha mai frequentati come dei veri e propri amici. "Sono conoscenze", aggiunge, "persone con cui scambi qualche parola e poi basta".
            Finisco il mio caffè, pago la nostra consumazione, poi ci alziamo e si riprende la passeggiata tra i tanti negozi. Infine usciamo senza essere state attirate da nulla di particolare, così risaliamo in macchina e ci avviamo verso le nostre abitazioni. "Posso anche dirti la verità", fa la mia amica ad un tratto. “Per un periodo di tempo piuttosto breve sono stata l'amante del tizio che ti ho prima presentato, senza che sua moglie abbia mai sospettato un bel niente". Io osservo la strada, accosto al marciapiede nei pressi di casa sua, e senza fingere meraviglia dico semplicemente che lui è un bell'uomo, per cui alla fine non ci trovo neppure niente di strano. "Forse è anche questa la maniera per non annoiarsi troppo in certe giornate", fa lei. La guardo, cerco le parole per esprimere il mio pensiero più vero, ma non trovandole, dico soltanto: "può darsi". Ma subito dopo avverto un'insufficienza grave in quello che ho detto, per cui proprio mentre la mia amica apre il suo sportello per scendere, le dico di fretta: "però se deve essere questa la maniera per ridare fiducia nella vita, ed anche un po’ gioia di vivere, magari è meglio cercare qualcosa di meno superficiale”. Lei mi guarda, riflette, poi fa: “tutto avviene in superficie, se ci pensi bene; il resto è composto soltanto da preoccupazioni profonde e spesso pesanti, che normalmente prendiamo in esame soltanto per sostituire quello che manca”.


            Bruno Magnolfi
          

         

sabato 22 febbraio 2020

Illustre sconosciuto.

          

            Mi sento completamente  demoralizzato. Così mi infilo in questo caffè-libreria dove ho saputo che oggi presentano una raccolta poetica, ed un tizio senza microfono dice a cinque persone che ha di fronte, che lui ha capito tutto, e che qualcosa dovrà pur succedere. Mi siedo ed ascolto distratto degli elogi e molti complimenti da parte di ognuno per tutti gli altri, poi mi sposto al bancone del bar dove mi faccio versare un bicchierino tanto per rimettermi in po'. “Una vera bomba innescata”, sento dire alle mie spalle da qualcuno che sicuramente se ne intende di certi argomenti, mentre intanto esco da lì senza avere nessuna idea di cos'altro fare. Sulla porta però incontro una donna che conosco di vista, e così la saluto, mentre fingo di essere arrivato anche io in quel momento. "Ho fatto tardi", fa lei, ed entra dentro con un grande sorriso, mentre le tengo la porta vetrata. "Ci sono ancora dei posti liberi", dico io quasi per ironia, e visto che non ho niente da fare l'accompagno nella saletta dove parlano adesso di grande letteratura.
            Ci sediamo vicini, e lei dice che in seguito vuole acquistare dei libri di narrativa, per cui avrà bisogno da me di qualche mio personale parere. Mi metto buono ad ascoltare qualcosa, e fortunatamente tutto si sbriga abbastanza velocemente, risolvendosi al momento in cui questo poeta che ha parlato fino adesso, firma le copie del volume che ha presentato, ed infine tutto il gruppo si scioglie. "Anche io scrivo qualche poesia", fa lei sottovoce mentre scorriamo qualche scaffale, ed io naturalmente mostro stupore. "Ci vuole sensibilità", le dico subito, "e poi molta attenzione ad ogni dettaglio". Lei sorride, prende in mano un volume qualsiasi da un ripiano e mi chiede una mia opinione. Improvviso una critica velata su un autore che naturalmente non ho mai letto, e lei mi ascolta e forse finge di credermi. Alla fine sceglie due libri e ci avviamo alla cassa.
            Quando usciamo da lì, lei dice subito che deve andarsene non so dove, così mi pianta sul marciapiede da solo, ed il mio sconforto naturalmente si fa ancora più pesante di prima. Così rientro nella libreria, vado dall’autore della raccolta poetica, impegnato adesso a rimettere a posto le sue molte cose, e gli faccio qualche domanda abbastanza generica, mentre prendo alcuni appunti su uno dei miei taccuini, spiegando che forse farò un articolo su di lui. Perciò parliamo abbondantemente, e poi mi lascio pagare da lui un bicchierino al bancone del bar. In sostanza il poeta dice le solite cose che conoscono tutti, sull’editoria marcia, sull’inutilità di scrivere, sull’angoscia che prende quando nessuno si accorge di te, nonostante tu abbia inviato in giro tutti i segnali possibili. Butto giù un sorso di grappa scadente, ed annuisco con grande naturalezza. Infine mi regala il suo libro autografato, ed io lo ringrazio di tutto, poi alla fine lo saluto.
            Quando esco ritrovo la tizia di prima, e subito lei dice con entusiasmo che mi stava appunto cercando. Mi fa gli elogi per aver acquistato quella raccolta poetica che ho ancora in mano, e poi spiega che possiamo tranquillamente andarcene a casa sua a parlare, che tanto non rimane molto distante da dove ci troviamo. Accetto, in fondo ho la giornata praticamente libera, e così mi metto a raccontarle della finta intervista che ho fatto all’autore, delle risposte che lui ha dato, ed anche di altre sciocchezze del genere. “Benissimo”, fa lei; “così adesso potrai spiegarmi qualcosa di quelle frasi così difficili, da cui non so mai tirarci fuori un bel niente". Naturalmente il fatto che io abbia già pubblicato diversi libri di racconti lo continuo a tenere assolutamente nascosto, sia a lei che a tutti gli altri; perché poi, tutto sommato, è parecchio meglio così.


Bruno Magnolfi
         

         

giovedì 20 febbraio 2020

Finalmente a casa.

            

            “Ha visto che bella frutta, signora”, fa lei ad una donna che passa, mentre continua instancabilmente a sistemare le arance e i mandarini nelle cassette sopra la sua bancarella del mercato rionale. Ormai sono anni che fa quella vita, ma non si lamenta, anche se c’è da alzarsi presto ogni mattina, stare tanto tempo all’aperto, e poi ci sono anche altri sacrifici da fare; però il pomeriggio ci si può riposare, ed in qualche maniera si riesce a tirare avanti. Sua sorella è meno estroversa di lei: le piace di più stare dietro la cassa, sorridere quando si mette a contare i soldi, o fare velocemente e con precisione il resto con le monete, e poi curare le forniture dei grossisti; ma per quanto riguarda incoraggiare i clienti, è meno portata di lei. In una giornata di pioggia come quella di oggi si vende pochissimo, però non si può farci niente, loro due stanno sotto la pensilina assegnata, ed ogni tanto guardano il cielo nella speranza che proponga almeno una tregua.
            Arriva questo tizio che si fa vedere ogni tanto, ed in genere prende una cassetta intera o anche due di mele grosse e di qualità, ma certe volte si orienta anche su qualche altro tipo di frutta. Guarda con attenzione cosa ci sia esposto oggi sopra quella bancarella che predilige, lancia un semplice buongiorno alle due sorelle, poi lascia che lei si faccia avanti per chiedergli che cosa in questo momento possa servirgli. “Mi piacerebbe avere il vostro spirito”, fa lui sorridendo mentre continua a guardare la frutta nelle tante cassette disposte inclinate in maniera molto invitante. Lei gli sorride: “con un tempo così anche noi però ci sentiamo un po’ tristi”, gli fa. "Conoscevo vostro padre", fa l'uomo; "una persona amante del proprio lavoro, che è riuscito in voi due a trasmettere i suoi sentimenti migliori". Le due sorelle ora assumono un sorriso malinconico, una cliente intanto chiude l'ombrello mentre si avvicina, e sceglie rapidamente un piccolo sacchetto di frutta.
            "Stare qui al banco probabilmente per certi clienti che ci vedono significa non avere neppure una vita diversa da questa. È come se tutto della nostra personalità si esaurisse nel ruolo che abbiamo in questo mercato", dice lei sottovoce e ridendo, una volta sistemate le cose con la signora. L'uomo annuisce, indica la cassetta di mele che ha scelto, la sorella gli fa un piccolo sconto sul prezzo indicato nel cartellino, così l'uomo paga, prende la frutta, ringrazia, e quindi se ne va. "Vorrei essere a casa", fa lei. Sua sorella la guarda con l'espressione di chi disconosce un pensiero del genere. "Forse quando è stato il momento di prendere delle decisioni, noi due potevamo anche scegliere qualcosa di diverso", aggiunge dopo qualche secondo. Si guardano, non hanno molto da dirsi intorno a quell'argomento. È avvenuto tutto di fretta, la scomparsa improvvisa di loro padre, loro due giovinette o poco più, che subito hanno cercato di sostenersi a vicenda nella decisione di portare avanti il mestiere della loro famiglia. Già, perché se una delle due avesse tentennato, probabilmente non ne avrebbero fatto di niente, ed ambedue si sarebbero occupate di altro.
            “Cosa ti importa adesso rivangare quello che è stato”, dice la sorella riordinando con cura i pochi quattrini dentro al cassetto. “Non lo so”, fa lei, “però a volte ci penso a come le cose riescono a prendere una propria strada, quasi in completa autonomia, e tu puoi soltanto andar dietro a quanto in qualche modo sembra già stabilito”. La sorella non dice niente, si limita a guardarla un momento e poi basta, perché non le piace sentir parlare in questa maniera: secondo lei non c’è stata una decisione migliore o peggiore di altre, ed anche se in apparenza loro due non hanno scelto un bel niente, proseguendo con semplicità a fare quello che faceva loro padre, di fatto c’è stata un’importante presa di coscienza di quanto era possibile o meno tenere nel pugno in quel preciso momento. Lei guarda sua sorella con espressione seria, e l’altra le fa: “comunque tieni duro”, chiudendo momentaneamente la cassa: “tra non molto ce ne andremo davvero; finalmente a casa”.


            Bruno Magnolfi 
   

         

mercoledì 19 febbraio 2020

Complotto inesistente.

            

            “Lasciami perdere”, gli fo subito quando apro l’uscio. Poi mi giro lasciando socchiusa la porta, ed il mio vicino di casa con l’espressione più seria che riesce ad assumere, mi segue nel mio piccolo appartamento in affitto. Così prendo due birre dal frigo, una l’appoggio sul tavolo, e subito dopo apro la mia; lui si serve senza dire niente. “Ho avuto una giornata pesante oggi, ti concedo soltanto dieci minuti e poi basta”, gli dico mentre mi siedo. Lui non fiata, mi guarda per un attimo, butta giù dopo un secondo un bel sorso della sua birra, poi si alza e fa un giro, come fosse nervoso. E’ chiaro che deve dirmi qualcosa, però forse non sa da che parte iniziare, e poi non riesce a rendersi conto se parlarne può tornargli utile oppure no. Infine affronta l’argomento che gli sta a cuore, e fa: "le ho dato un appuntamento preciso, e lei mi ha detto che andava bene; ma poi non si è neanche fatta vedere”. Lascio andare una bella risata, ma dopo un momento mi freno, perché può sembrare un comportamento offensivo. “Prova di nuovo”, gli fo con indifferenza.
            Lui attacca come sempre che non sa più che pesci pigliare, che non vuole piegarsi ai capricci di una ragazzina di quarant’anni, che forse sta sbagliando persona a cui dare corda, e così via. Lo fermo, gli dico che fino a quando non avrà le idee chiare nessuno potrà essergli davvero di aiuto. Lui abbassa la testa e torna a sedersi: si mostra sconfitto, dice che gli pareva stavolta di essere davvero sulla strada più giusta, di sentirsi in grado di affrontare una vera relazione, non una cosa tanto per fare. “Va bene”, gli fo; “fai trascorrere qualche giorno, almeno un paio di settimane, senza fare un bel niente, e vedrai che qualcosa succede”. Lui annuisce, butta giù un altro sorso della sua birra, poi appoggia la bottiglia vuota sul tavolo e dice che va via, ed io immagino che probabilmente farà proprio quello che gli ho suggerito. Lo guardo andarsene senza girarsi e poi chiudere la porta alle sue spalle, mentre io rimango fermo dove mi trovo, stanco ed anche affamato. 
            Mi alzo, apprezzo il silenzio, trovo nell’armadietto sopra ai fornelli un pezzo di pane ancora non del tutto indurito, così lo apro in due fette e mi faccio un panino con del salame che tiro fuori dal frigo. Mi accosto alla finestra per dare un’occhiata al cortile di sotto. Lo vedo uscire dalla porta sul retro e attraversare lo spiazzo. Poi alzo il telefono, mi risponde lei con una voce svagata. Le chiedo se le pare il caso di tenere sulla corda la gente, ma lei ride, dice che si sta solamente divertendo un pochino. Mi chiede se per caso non abbia voglia di farla salire da me, ma io le dico che sono stanco, ho voglia solamente di starmene da solo e riposarmi. Riattacco, finisco la birra, chiudo un attimo gli occhi. Poi sento bussare alla porta, apro svogliatamente: è di nuovo lui.
            "C'è qualcun altro dietro a questa faccenda", mi fa. Sbuffo, gli dico semplicemente che non può pretendere di trovare una ragazza immacolata per farci coppia fissa, ma lui è agitato, dice che non le sembrava una così, si sente soltanto preso in giro. “Ma lei è soltanto una che ha avuto le sue belle esperienze, è già stata sposata, non puoi comportarti come se fosse una di sedici anni”. Lui si siede, dice che adesso ha deciso. Ora vuole soltanto togliersela dalla testa al più presto, “tanto non potrà masi essere una relazione tranquilla, e finirà solo per rendermi matto”. Mi sdraio sul mio divano con le molle sfondate, e poi chiudo gli occhi. “Se hai deciso così è ancora più facile”, dico. Lui mi guarda mentre io mi metto seduto ed allargo le braccia, come per dimostrargli che non ho più energie neppure per starlo a sentire. “Tu sai qualcosa”, mi fa. Lo guardo, respiro, mi rimetto in piedi. “Sei un amico”, gli dico; “non potrei mai tirare una fregatura ad uno come te. Devi stare soltanto tranquillo, e smetterla di immaginarti dei complotti da tutte le parti”.


            Bruno Magnolfi 
        

       

martedì 18 febbraio 2020

Giuste opinioni.


     

            L’agenzia delle assicurazioni non è molto grande, ed esclusa una sala ampia che tramite una vetrina opaca si affaccia sulla strada adiacente, per il resto ha soltanto due uffici sul retro. In tutto sono in quattro i dipendenti a lavorare là dentro, escluso il dirigente della compagnia che comunque si fa vedere soltanto per un paio d’ore al massimo ogni settimana. Lei, nonostante vanti la maggiore anzianità di servizio là dentro, non è mai troppo contenta di quello che fa, anche se le sue amiche, quando si incontrano dopo la fine dell'orario di lavoro, le dicono tutte che il suo è un posto d’oro, un mestiere coi fiocchi, qualcosa di cui andare orgogliosi. A lei invece pare triste occuparsi ogni giorno delle medesime cose, fingere con la clientela e con i colleghi di essere sempre felice, sorridere a chiunque le si presenti davanti, e vestirsi ogni volta in maniera impeccabile, quasi fosse lei la direttrice. Talvolta se la prende per un attimo con gli altri impiegati dell’agenzia, mostra qualche scatto di nervosismo di cui in genere subito si pente, e si rende conto di essere sempre un po’ tesa. Però quello è il suo lavoro, ed almeno per il momento non può proprio fare niente di diverso.
            Poi arriva questo tizio, mai visto prima d’ora, in sostituzione di una collega ammalata, e dice con grandi gesti ed in mezzo a tante altre cose, che ognuno deve mostrarsi agli altri così come si sente. “Non sempre è possibile”, fa lei con un sorrisetto. La stampante principale continua a produrre gli elenchi aggiornati che arrivano direttamente dalla direzione della compagnia, e tutti là dentro sembrano concentrati sul proprio lavoro. “Non si può fingere a lungo”, fa lui; “ed ogni finzione produce nel tempo un gradino di incomunicabilità”. Lei non risponde, è abituata ad ingoiare le proprie opinioni, gli altri colleghi se ne stanno tutti buoni alle loro scrivanie, senza trovare su quell’argomento qualcosa da dire. Poi loro due vanno a prendersi un caffè in un locale poco lontano a metà mattinata. Lei dice che forse non ha tutti i torti, lui le sorride, come sapesse perfettamente cosa sta immaginando. “Certe volte sono stufa di questo lavoro”, fa lei in uno sfogo di cui subito si pente. Lui si limita a guardarla, non ha più alcun bisogno neppure di parlarle.
            “Non si può fare della semplice psicologia per inquadrare gli individui”, le dice dopo un bel po’ subito prima di rientrare. “Però sentirsi fuori posto certe volte è qualcosa che appare anche troppo evidente”. Lei si sente irritata, non le pare neanche possibile che arrivi uno qualsiasi a tirar giù dei giudizi sugli altri senza conoscere un po' meglio le persone. Riprendono le loro attività, lei naturalmente non ha più alcuna voglia di scambiare una sola parola con l’ultimo arrivato, ed in questo momento neppure con gli altri. Il lavoro va avanti, le polizze sono la normalità quotidiana là dentro, inutile fingere, sono loro che mandano avanti le cose in quell’ambiente.
            Poi arriva una telefonata, ed è lei pronta a rispondere: è il dirigente della loro compagnia assicurativa che spiega come questa settimana sicuramente non potrà farsi vedere in agenzia per una serie di impegni importanti. "In ogni caso vi ho mandato il mio braccio destro", dice senza calcare troppo le parole. Lei si sente arrossire di rabbia, saluta con cortesia e poi riattacca il telefono con gesto disperato; infine, dopo aver fatto trascorrere parecchi minuti, rialza la testa e lo sguardo dalla sua scrivania. Il sostituto è lì, in piena tranquillità, e quando lei si volta lui le sorride. Scoperta nei suoi pensieri più intimi, lei cerca di raccogliere tutti i suoi comportamenti maggiormente professionali, ma le viene quasi da piangere per la superficialità dimostrata. Lui poi si alza, le va vicino, dice che non ha trovato niente che non vada nel lavoro che portano avanti in quella agenzia. "Bisogna comunque sapersi accontentare", le fa adesso con un nuovo sorriso; "in fondo soltanto permettendo a noi stessi di essere quello che siamo, potremo trovare prima o dopo un vero equilibrio, anche se questa è soltanto un'opinione qualsiasi, non certo quella più giusta".

            Bruno Magnolfi

lunedì 17 febbraio 2020

Finta libertà.


    

            Le giornate scorrono identiche. Entro senza entusiasmo in un piccolo supermercato del mio quartiere all'ora di chiusura, giusto per acquistare qualcosa da mangiare a casa più tardi, ma non so neanche decidere di che cosa avrei davvero voglia. Scorro gli scaffali ed alla fine prendo solo una confezione di birre, del pane e del formaggio, considerato che non ho alcuna intenzione di cucinare. Abitare da soli ha il grande vantaggio di non dover dare spiegazioni a nessuno, anche se è facile così perdere il senso di molte cose. “Soltanto questo” dico alla ragazza seduta alla cassa, mostrando i miei acquisti. Lei mi guarda, non c’è nessun altro dopo di me, perciò se la prende comoda, digita qualcosa svogliatamente, e così appare sul video il conto finale. “Serata fiacca”, fo io tanto per dire una stupidaggine. “Tra un attimo chiudiamo”, fa lei, “ma io sono qui da stamani”. Intanto metto le mie cose con calma in un sacco di carta, e prendo lo scontrino che lei adesso mi porge.
            “Se vuoi ti aspetto”, le dico senza neppure riflettere di che cosa sto parlando, però lei subito sorride, poi guarda in basso, ed infine mi fa: “perché no; tanto non ho altro da fare”. Penso di colpo che se le andasse potrei anche acquistare qualcosa di più appetitoso là dentro il negozio, ed improvvisare in questo modo una cenetta appetitosa a casa mia. Ma infine le dico: “possiamo mangiare qualcosa insieme in una tavola calda; non ce la faccio più a passare le serate da solo”. La ragazza annuisce, forse anche per lei le cose girano nella stessa maniera: tornarsene a casa da soli è per chiunque di una tristezza terribile. Le dico che l’aspetto subito fuori dall’entrata del supermercato, e poi esco. Mi piazzo dentro la mia utilitaria ed attendo, e dopo un quarto d’ora lei esce, mostrando che senza quella divisa così anonima sembra proprio un’altra persona.    
            Penso che adesso questa ragazza sicuramente mi racconterà la storia della sua vita, e della maniera in cui sia finita purtroppo a lavorare in un posto del genere, dopo aver preso per anni lezioni di canto o magari di recitazione, o dopo aver fatto la ballerina per qualche tempo in dei locali senza futuro. Avrà quasi una ventina d’anni meno di me, rifletto, ma questo adesso poco importa, perché probabilmente siamo accumunati da qualcosa che ci brucia all’interno, e non ci lascia alcuno scampo, nonostante sia una specie di sofferenza inspiegabile. Mi dice ciao, entrando in macchina, ed io le sorrido: “c’è un posto dove vado a volte”, le dico; “per me va benissimo”, mi fa, “basta liberarmi la testa da tutti i clienti che chiedono sempre le medesime cose”. Si chiama Clara, mi dice, ma non vuole spiegarmi altro di sé, forse soltanto perché la sua storia è talmente consueta da non portare alcun beneficio alle cose di cui vuole parlare.
            “Questo quartiere è uno schifo”, mi fa senza premesse, ed io mi mostro d’accordo, perché in fondo anche io la penso nella stessa maniera, anche se mi sono ormai abituato a viverci dentro. “Certe volte le cose è difficile sceglierle”, dico. Lei abita a sette o otto fermate di tram dal supermercato, ma non le piace neanche lì: “sono tutti impiccioni i miei vicini di casa; controllano quello che faccio ed anche i miei orari”. Annuisco, penso che sia triste accorgersi giorno per giorno che invece di un briciolo di solidarietà, spesso troviamo intorno a noi soltanto chi ti fa la morale, e magari ti guarda con un giudizio già definito su quello che sei. Arriviamo, arresto la macchina, si entra in questo posto che non avevo mai calcolato così triste come lo vedo adesso, però ci sediamo ad un tavolo, ordiniamo qualcosa, e ci guardiamo negli occhi. Siamo esseri di confine penso, creature nate per tirare avanti alla meglio, arrabattarsi, scegliere delle scorciatoie per ogni scopo, e tenersi sempre ai margini di tutto, perché alla fine non ci sentiamo parte di niente. “Prendi pure quello che vuoi, Clara”, le fo. “Qui sono conosciuto, mi fanno credito”. Lei sorride; è bello essere insieme a qualcuno certe volte, mi ritrovo a pensare; anche se in questo momento insieme a questa ragazza mi sento come sempre dentro alla solita gabbia, da cui probabilmente non riusciremo in nessun caso a tirarci fuori, né io e neppure lei; e poi finiremo soltanto per fingere di essere liberi.

            Bruno Magnolfi

sabato 15 febbraio 2020

Giro di giostra.



            Pomeriggio. Lui entra nell'ufficio postale affollato e prende il numero per il turno allo sportello. Poi si libera un posto a sedere accanto ad una signora coi capelli probabilmente tinti ed il vestito sgargiante. "Sempre pieno di gente", fa lei. Lui si limita a sorridere, non sapendo cos'altro dire. I numeri scorrono lentamente sullo schermo di un grande visore, e le persone presenti, in maggioranza degli anziani, si alzano con regolarità dai loro posti e vanno a sistemarsi davanti ai vetri degli impiegati lungo il bancone. "Bisognerebbe non venire mai qua dentro", fa lui. Adesso è la signora che si limita a sorridere, forse per non apparire una chiacchierona. Lui tira fuori da una tasca alcuni fogli ed una busta, e si mette ad osservarli con attenzione, non sapendo cos'altro fare. Intanto ci sono delle persone che litigano in fondo alla sala, ma hanno almeno il buon gusto di non alzare troppo la voce, pur tenendo tra loro un evidente tono irritato. Lui vorrebbe alzarsi ed andarsene fuori per fumare una sigaretta, come già altri stanno facendo, però nel dubbio di dover intrattenersi con dei tabagisti insopportabili, resta seduto, in pratica senza prendere una vera decisione. "Ho il numero subito prima del suo”, dice lei, come fosse un destino già scritto. “Purtroppo io devo venire qui almeno una volta alla settimana", fa adesso la signora. Lui si volta un momento a guardarla, non volendo porre alcuna domanda da curiosi. "Sono vedova", aggiunge lei, come se questo stato giustificasse tutto.
            "Devo soltanto pagare una bolletta ed inviare una lettera", fa invece lui. "Ma se avessi saputo di dover perdere tutto questo tempo, probabilmente avrei rimandato". Poi qualcosa si muove, i litiganti adesso hanno quasi smesso di discutere, e sul visore sono scorsi in avanti diversi numeri, forse perché gli utenti di turno sono già andati via, però sono entrate diverse persone dentro la sala, quasi tutte insieme, come per un appuntamento preciso. Qualcuno dei nuovi arrivati poi si lamenta subito per l’attesa che si prospetta, ma tutti alla fine si piazzano buoni da qualche parte ad attendere. “Aspettare comunque non mi fa molta paura”, dice la signora interpretando l’argomento dei pensieri di tutti. “So essere paziente”. Lui si volta per un attimo a guardarla, come cercasse qualcosa in lei che le ultime parole gli hanno ricordato. “Non è poi così anziana”, pensa in questo momento; “avrà all’incirca la mia stessa età. Potrei averla già conosciuta da qualche parte”. Infine lui si alza e decide di andar fuori a fumare, visto che adesso gli argomenti con quella donna potrebbero diventare troppo personali e stringenti.
            Si accende subito una delle sue sigarette, e quattro o cinque tizi là attorno lo guardano come fossero delle mucche che ruminano, circondati dalla loro nube personale di nicotina. Lui si appoggia con una spalla ad un infisso dell’ingresso agli uffici, e guarda a terra, rendendosi conto con un certo disgusto che quel marciapiede è già pieno di mozziconi fumati. Quando torna ad alzare la testa gli pare che non manchi molto al suo turno, così rientra dentro dopo aver schiacciato con il piede il resto del suo tabacco. La signora di prima è ancora al suo posto ed adesso lo guarda, come per fargli capire che lo ha quasi aspettato, ma che anche lei adesso deve proprio alzarsi dalla sua sedia e presentarsi allo sportello. Lui l’osserva un momento avvicinandosi, poi le fa: “pare proprio che fra poco ci siamo”. Lei lo guarda con l’espressione un po’ triste, poi dice in un soffio: “è proprio vero; anche se a me adesso quasi dispiace”.

            Bruno Magnolfi    

         

giovedì 13 febbraio 2020

Cantante improvvisa.

          

            "Mi sarebbe sempre piaciuto cantare", dico io quasi in un sussurro. Poi ruoto leggermente la testa ed il dorso, per osservare se dietro di me qualcuno per caso avesse ascoltato con curiosità le mie parole, mentre io, con la mia amica di sempre, proseguiamo a fare la fila alla biglietteria di questa sala cinematografica, per assistere tra poco ad una pellicola appena messa in programmazione. Sorrido, in fondo non c'è niente di cui intimidirsi. "Il canto è la voce dell'anima", dico a lei con voce ancora più bassa. Qualcuno improvvisamente ride forte dietro di noi, e per un attimo immagino che ciò sia dovuto alle mie confessioni, anche se poi mi rendo conto che non c’è alcuna relazione tra le due cose. Con il mio spirito vorrei mettermi a cantare proprio qui, davanti a tutti, improvvisando senza musica un’aria che ricordo di più, lasciando a tutti la possibilità di gradire o meno le mie doti, anche se poi sorrido di nuovo dei miei pensieri assurdi, considerando comunque che anche questa rimane sempre una possibilità.
            Una volta, da bambina, ricordo di aver cantato una canzone infantile davanti a tutti i parenti e gli amici accorsi al mio settimo compleanno, e di essere stata bene per quei due o tre minuti, magnificamente. Appena intonata la prima frase, allora si era come dissolta la nebbia che mi avvolgeva fino ad un attimo prima, ed il resto aveva poi seguito come per una magia quell’inizio così inaspettato. La timidezza era subito scomparsa, e le parole intonate mi erano giunte alla bocca una dietro quell’altra, con gli attacchi giusti, la timbrica definita e anche decisa. Poi avevo chiuso con destrezza sul finale della canzoncina, ricevendo subito un sacco di applausi, anche se nessuno della mia famiglia mi aveva incoraggiato in seguito a prendere lezioni di canto, neppure quando ero diventata più grande, e lo avevo chiesto espressamente. 
            “Ci vuole soprattutto personalità”, le fo adesso alla mia amica. “Tirarsi fuori, mettere il meglio che ci riesce di dare in quelle note, e poi far trasparire la passione, il trasporto, la gioia, nel fare una cosa del genere”. La biglietteria di quel cinema prosegue a dispensare biglietti con il doppio strappo, e tra un attimo è il nostro turno, ormai ci sono soltanto due persone davanti. Infine noi due paghiamo e poi scorriamo subito su un lato, presentandoci all’inserviente di turno che ci lascia immettere dentro la sala, subito di là da una spessa tenda scura. Le poltroncine in file regolari sono fiocamente illuminate, e lo schermo bianco non mostra in questo momento alcuna immagine, nell’attesa dell’orario previsto, tra dieci minuti, per iniziare la proiezione.
            Scegliamo il posto e poi ci sediamo, ma subito dopo torno ad alzarmi in piedi mentre molte persone sono già comodamente sistemate e parlano quasi tutte tra loro a bassa voce. In quel momento inchinandomi un attimo dico soltanto alla mia amica: “scusami”; e poi senza altre incertezze inizio a cantare, un’aria ben nota, e con voce alta a sufficienza, qualcosa che probabilmente conoscono tutti, spianando la mia piena vocalità in questa grande sala. Avverto un silenzio profondo nelle pause della canzone, ma non mi fermo, non tremo, vado avanti decisa, so che questi spettatori riusciranno ad apprezzare il mio sforzo, questo coraggio che mi è preso stasera, lo stesso che mi aveva accompagnato quella volta quando ero piccola, a distanza di quarant'anni. Adesso mi guardo attorno con un mezzo sorriso, mi appoggio con fermezza sulle vocali, le allungo, scandisco al meglio le parole del brano, e poi canto, continuo a cantare, lascio ascoltare a chiunque la mia canzone; perché forse è proprio questa la cosa migliore che io abbia mai fatto, mi rendo conto improvvisamente: quella di essere fino in fondo me stessa.


            Bruno Magnolfi     
      

mercoledì 12 febbraio 2020

Disposizione amichevole.


           

            “Certe volte vorrei proprio andarmene da qui”, dice lui. “Non è solo il lavoro, ma soprattutto è questa mentalità che c’è in giro che non riesco più a sopportare”. Così tira un sasso nell’acqua del fiumiciattolo che lentamente gli scorre davanti, e guarda le piccole onde che subito si formano, fino a far tremolare l’erba dell’argine. L’altro non dice niente, però anche lui guarda l’acqua con interesse, come se sotto quella superficie ci fosse quasi la spiegazione di tutto. Poi ambedue si voltano, restano per qualche attimo senza dire niente, e alla fine riprendono con calma quel sentiero che corre sul terrapieno, prendendo la direzione verso la strada vicina, dove hanno parcheggiato la macchina. "Sono andato anche dal medico e gli ho chiesto come si faccia ad essere un po' meno demoralizzati, ma lui ha solo sorriso, e neppure mi ha risposto".
            Poi loro due decidono di prendersi un caffè prima di risalire sull’auto, così attraversano la strada per entrare in un piccolo locale della zona. "Qui tutti quanti sembrano fare il tifo solo per vederti andare alla malora; non c'è quasi mai della solidarietà per i tuoi problemi, soltanto gesti finti e qualche parola di circostanza", fa lui. L'altro annuisce, mette lo zucchero dentro alla tazzina, poi muove il cucchiaino. "Ormai solo i pessimisti come me riescono a vedere le cose con obiettività", prosegue lui. "Agli altri normalmente non conviene, quindi si voltano semplicemente da un'altra parte". Poi loro due lasciano i soldi sul bancone, tornano ad uscire per strada, e in un attimo salgono sopra la macchina. Lui ingrana la marcia, si immette nel traffico, poi dice: "ti accompagno a casa". “Si grazie”, fa l’altro; “purtroppo mia moglie mi sta aspettando, adesso devo tornare”.
            Si fermano ad un semaforo, un barbone chiede loro qualche spicciolo, lui trova una moneta ed abbassa il finestrino, lasciando il soldo nella mano bisognosa. Poi prendono a destra, attraversano una piazza piuttosto trafficata, ed infine si vanno a fermare lungo una via nei pressi dell’abitazione dell’amico. Quando si arresta il mezzo al fianco del marciapiede, ci sono dei ragazzi che urlano e ridono correndosi dietro. "Sono stanco", fa lui; mi sembra di aver esaurito ogni possibilità di miglioramento". L'altro lo guarda per un attimo, gli batte una mano sopra la spalla, poi esce ed infine chiude la portiera. Lui lo guarda mentre apre il portone e subito sparisce nell'andito.
            Poi torna ad ingranare la marcia della vettura, e quasi senza volerlo si ritrova esattamente dove erano stati loro due poco prima; così senza riflettere trova un posto per la sua macchina, e poi ritorna con calma sul terrapieno per riprendere quello stesso viottolo, ma dopo poco si ferma, e per rilassarsi va a sedere sulla riva del fiumiciattolo. Gli piace starsene lì, in quella calma subito fuori dal traffico, ad osservare la debole corrente dell’acqua che gli scorre davanti. Tutto uno di questi giorni dovrà passare, pensa con lo sguardo su quella superficie, e forse tra non molto ritorneranno le giornate serene, ed insieme la voglia di fare, di spingersi in avanti, di vedere ancora i colori nelle cose grigie che adesso mi stanno attorno. Probabilmente devo soltanto ritrovare la fiducia in me stesso, guardare al futuro, lasciare che il tempo poco per volta migliori le mie giornate.
            Infine si alza, riprende la sua passeggiata, cammina lungo quel corso d’acqua che adesso sembra proprio incoraggiarlo con la sua pur debole forza, che però è costante, e non sembra conoscere ostacoli. Quando torna a voltarsi per tornarsene indietro, scorge con sorpresa il suo amico. “Sono tornato a vedere se avevi bisogno di qualcosa”, gli dice quello, “e per chiederti se per caso avevi anche voglia di venire un po’ a casa mia, magari per mangiare insieme qualcosa. Potremmo parlare ancora della tua situazione, sempre che ti vada, e magari discutere insieme di qualche idea che ci possiamo far venire alla mente”. Quindi lui si ferma, lo guarda, sorride. “Certo”, gli fa; “sono a tua disposizione”; ed insieme si avviano.        

            Bruno Magnolfi

martedì 11 febbraio 2020

Spiegazioni superflue.

           

            In certe serate si fanno vedere anche le due sorelle, presso il solito circolino dove tutti i ragazzi trascorrono il tempo, in genere lasciandosi andare a delle battute di spirito piuttosto scontate, o restando semplicemente seduti davanti ai tavolini di plastica, con una lattina di birra in una mano, e conservando una calma quasi proverbiale, adatta per prenderne un sorso ogni tanto, naturalmente solo per farla durare più a lungo. Stanno ai margini della compagnia, e nessuno si è mai preoccupato di sapere se loro due siano veramente sorelle; di fatto non si assomigliano quasi per niente, però ridono spesso all’unisono, come mostrando una medesima sensibilità. Non parlano mai in quei pochi minuti in cui si trattengono lì, però ascoltano gli altri, sorridono, si guardano in giro, come fossero semplicemente due timide, trattenendosi ogni volta dal dare ogni minima spiegazione possibile sulla loro origine e sulla propria famiglia. Insieme poi si alzano, dicono ciao, quindi se ne vanno, senza neppure consultarsi fino a quell’attimo stesso.
            Qualche volta sono ben vestite, truccate, con i capelli legati ed in perfetto ordine, però di un colore diverso l’una dall’altra. Qualcuno dei ragazzi che per caso si è trovato a seguirle per un pezzo di strada, sostiene che parlano molto tra loro, e sembra anche di argomenti importanti, come si interessassero di problemi sociali, oppure di politica, o anche di affari di stato. Nessuno ha mai compreso che corso di studi frequentino, e se qualcuno lo chiede ad una delle due, loro si mettono subito a ridere, sfuggendo così alla domanda. Infine una dice: “ci sono argomenti di cui è difficile parlare pubblicamente”. Così uno incalza subito colei che ha parlato, e le fa: “però qui non siamo in un luogo veramente pubblico, visto che siamo sempre i medesimi a ritrovarci a questi tavolini”. Loro ridono adesso. Poi l’altra fa: “forse sarebbe necessario conoscersi meglio prima di affrontarli”. I ragazzi sorseggiano la birra, perplessi; a nessuno viene a mente di controbattere.
            Qualche sera più avanti poi, le sorelle tornano a farsi vedere. I ragazzi non si sentono del tutto in vena di sciogliere quegli enigmi che per natura si portano dietro, così le salutano e basta, senza parlare di niente, ed anzi restando a lungo tutti quanti in un completo silenzio. Una però dice qualcosa all'orecchio dell'altra, come si consultassero prima di un intervento già concordato. Poi l'altra fa: "non siamo veramente sorelle; una di noi due è stata adottata diversi anni fa dai nostri genitori. Ma non fa alcuna differenza, possiamo scambiare facilmente i nostri ruoli". I ragazzi rimangono ancora in silenzio, in un colpo solo queste due hanno chiarito quasi tutti i dubbi che circolavano sulla loro identità, ed anche se qualcuno si sente curioso su quale potrebbe essere davvero la figlia naturale, tutti però prendono un sorso di birra senza aggiungere nulla. Infine loro vanno via, con un semplice ciao, un sorriso usuale, e i loro modi consueti e precisi, quasi sincronizzati tra tutt’e due. "Ci hanno preso in giro", fa uno dei ragazzi. "Secondo me non c'è una sola parola di verità in quello che dicono". “Non ne capirei il motivo”, fa un altro con convinzione.
            La sera seguente le sorelle tornano ancora nel circolino, ma pur passando proprio davanti a tutti i ragazzi, adesso neppure si fermano, come se tutto quello che potevano aver avuto da dire a quella combriccola che si ritrova a quei tavolini, lo avessero in qualche modo già detto, e da adesso in avanti ogni altro discorso si mostrasse solamente una ripetizione. “Vedi come sono”, fa uno; “adesso si vergognano di aver chiarito le cose con noi”. Poi prende un sorso di birra. “Non credo”, fa un altro; “a me sembra che la loro fantasia le abbia portate a costruirsi un mondo di favola, ed ora sia diventato difficile per loro farlo combaciare con la realtà di ogni giorno”. Nessuno dopo questo ha da aggiungere altro, neppure quando le sorelle ripassano per andarsene chissà verso dove, perché le parole per tutti i ragazzi appaiono all’improvviso semplicemente superflue. 


            Bruno Magnolfi
          

         

lunedì 10 febbraio 2020

Risposte indefinibili.

       

            "Ho bisogno di aiuto. Forse anche soltanto per comprendere la mia situazione, visto che non so neppure spiegarmi come sono capitato qui in mezzo a voi", dico a questo amico che ho appena conosciuto; "però mi sono reso conto che se qualcuno non mi dà una mano, presto per me finirà sicuramente poco bene". Lui mi guarda con sospetto, cerca di alleggerire le mie parole con un sorrisetto che gli si forma con naturalezza sopra la faccia, poi, guardando altrove, mi fa: "non capisco da cosa o da chi dovresti essere protetto, in questa fase". Ed io: "non lo so neppure io di preciso, però ho come una sensazione, quasi il sospetto di un pericolo che mi sta sovrastando, ecco, proprio una vera minaccia, ed è probabilmente quella che mi spinge a parlare anche adesso". Poi mi siedo ad un tavolino, vicino ai giochi elettronici del bar, dove in diversi stanno buttando i loro soldi. Nessuno si accorge di me, e probabilmente anche questo amico, mi rendo conto, vorrebbe sganciarsi in fretta dai miei discorsi, per andarsene al più presto per i fatti propri.
            In fondo tutti hanno ragione ad assumere un comportamento normale tra di loro, ed essere più sospettosi soltanto con chi non conoscono, in modo da inserire una certa distanza nei comportamenti. Però non può essere neppure una colpa quella di non conoscere nessuno e non poter confidare in una qualche persona per comprendere appieno le cose giuste da compiere. Restare nell’ambiguità è come galleggiare a malapena in un mare burrascoso: prima o dopo qualche sorso d’acqua finirà nella bocca, e forse anche dentro ai polmoni. Mi guardo attorno soltanto per rendermi conto che se non sostengo da solo la mia situazione, nessuno verrà mai a preoccuparsi di me. Passa l’amico di prima: “potresti magari indicarmi a chi posso rivolgermi”, gli fo; “forse indicarmi un nome, un indirizzo, un numero di telefono”. Lui mi guarda; percepisco nei suoi occhi una distanza che difficilmente comprendo, ma che mi fa capire quanto a volte ci sia di non definito tra le persone, tanto da portare chiunque verso l’isolamento.
            Lascio perdere: non c’è niente di cui spiegarsi; la realtà è in questo modo, non posso certo io arrivare qui e pretendere di cambiarla. Poi vado per strada, giro a lungo nella tarda serata di questo paese dove sono capitato per caso, e dopo aver percorso le vie principali, torno dentro al locale di prima. Sono tutti ancora lì, dietro alle macchinette che mangiano soldi, e nessuno di loro si è preoccupato minimamente di qualcosa d’altro. “Siete persone senza spina dorsale”, dico a voce alta; “individui che si adagiano facilmente in una situazione attualmente favorevole, dimenticando del tutto i problemi che da qualche tempo hanno già superato, lasciandosi alle spalle qualcuno che si trova ad affrontare adesso le loro stesse condizioni di pochissimi mesi addietro”. Qualcuno si volta, mi guarda, sulla faccia l’espressione cattiva di chi vuole conservare quel poco che è riuscito ad ottenere, senza affrontare nessun nuovo sacrificio, specialmente per aiutare qualcun altro.
            Torno a sedermi ad un tavolino, ed adesso si siede con me anche l’amico di prima, con il solito sorrisetto stampato sopra la faccia. “Non siamo tutti uguali”, mi fa, “questo è bene che tu lo capisca. Però devi anche comprendere che ci sono delle regole da rispettare: si tratta di priorità che persistono, comportamenti che devono essere adottati da tutti, rispetto per coloro che hanno dovuto affrontare prima di te i tuoi stessi problemi. Si capisce che tu non possa arrivare qui come ultimo e pretendere la comprensione immediata del tuo caso; o addirittura che gli altri prestino piena attenzione ai tuoi problemi, Ci vorrà tempo, dedizione, pazienza, poi qualche cosa inizierà poco per volta a sbloccarsi. Ed anche tu a quel punto imparerai, con molta calma, come si possono affrontare certi argomenti, ed avere infine tutte le risposte che cerchi”.


            Bruno Magnolfi    
   

      

sabato 8 febbraio 2020

Completamente guarita.

         

            “Oggi sto bene”, dice lei mentre l’infermiera entra dentro la camera per farle la solita iniezione e raccogliere i parametri di base del suo stato di questa mattina. Sorride, ma non è una grande novità, visto che anche sotto agli attacchi di dolore più forti riesce a resistere e a non lamentarsi. “Forse ho soltanto qualcosa che non va dalle parti dello stomaco”, dice mentre cerca di muoversi nel suo letto attrezzato, facendo oscillare i tubicini con cui è collegata alle macchine. Fuori dai vetri di quella stanza la giornata appare radiosa, con un sole caldo ed intenso che fa venir voglia di fiorire anche le piante che non producono fiori in questa stagione. La notte è trascorsa in maniera normale, soltanto una volta, quando è passato il controllo, il collega l’ha trovata in debole aritmia cardiaca, come se lei in quel momento stesse facendo un brutto sogno, peraltro smentito.
            Ci sono numerose operazioni ordinarie da affrontare, come ogni mattina, dall’igiene del corpo, ai cambi degli aghi e anche dei sensori, ma il dolore allo stomaco di adesso è un segnale che pur non essendo fondamentale, non può essere certo trascurato. Così l’infermiera cerca di indagare più a fondo quale possa esserne il motivo, ma intanto le somministra un leggero succo di frutta da bere, per rendersi conto se non sia soltanto lo stomaco vuoto a produrlo. “Va meglio”, dice lei dopo un po’; “e poi il cortisone mi ha sempre procurato una certa acidità”. L’infermiera sorride, alla fine ne inizia a sapere di più la paziente che tutte le unità ospedaliere che le girano attorno; lei risponde al sorriso, le piace che chi le sta maggiormente vicino si renda conto che non è affatto un’ameba ormai abbandonata al proprio destino. Anzi, vorrebbe fare ogni giorno un sacco di cose, e spesso le fa: lèggere, avere notizie, scambiare opinioni con chi sia possibile, e poi tenere un diario, anche se la maggior parte delle volte si limita a dettare qualche frase, da scrivere dentro un quaderno, ad uno dei suoi familiari che vengono fin qui ogni tanto a farle una visita. 
            Per coloro che amano appuntarsi le cose, anche un'esperienza sanitaria del genere diventa una fonte importante a cui attingere. L'infermiera di turno per esempio non la guarda quasi mai in fondo agli occhi: “forse è troppo impegnata nelle cose da fare per permettersi un lusso del genere”, pensa lei qualche volta; "e poi non può certo lasciarsi coinvolgere dal caso umano che ogni volta si ritrova di fronte. Deve essere neutrale, al disopra dei sentimenti, e la sua professione per forza di cose la porta ad esaminare ogni corpo che si trova a trattare, come qualsiasi altro, senza fare mai differenze". Ecco, questo è un buon argomento da annotare sul suo diario: la contraddizione implicita che sta nel cercare la maggiore indifferenza verso una qualsiasi persona, nello stesso esatto momento in cui ci si sta occupando appieno e con dedizione del medesimo individuo. “Un lavoro difficile il vostro”, le fa lei sorridendo a quell’infermiera mentre cerca di osservarla nel compiere tutte quelle operazioni indispensabili che il suo mestiere le continua a dettare.
            “Che cosa importa adesso tutto questo”, pensa poi lei mentre prosegue nel suo momento di completo abbandono alle volontà altrui; “tra non molto passerà il medico di turno, forse ci sarà anche il primario di questo reparto insieme a qualche tirocinante, e tutti mi guarderanno, consulteranno la mia cartella, sentenzieranno qualcosa, ed io comunque resterò perfettamente in silenzio, lasciando con naturalezza a tutti coloro che mi ausculteranno il compito alto di decidere qualcosa della mia vita futura”. Questo è il passaggio maggiormente difficile: quello in cui ci si abbandona completamente a qualcun altro. “Come l’amore”, pensa lei all’improvviso; “quando la fiducia nella persona che sei convinta di amare è tale che quasi non tieni più neppure a te stessa, e lo scioglierti completo in questo sentimento, di colpo ti fa sentire bene, a posto, magnificamente. Quasi completamente guarita”.


            Bruno Magnolfi