mercoledì 30 giugno 2010

Una mostra per dilettanti.



Tutto era pronto, o quasi. Si era cercato di trovare un senso collettivo a quella mostra di fotografie di tanti autori diversi, scattate in situazioni e momenti lontani tra loro, ingrandite fino a raggiungere formati di dimensioni notevoli, anche in qualche caso sgranate nei dettagli, oppure leggermente fuori fuoco. Si era messa su una riunione, ma non si era trovato alcun compromesso, nonostante le idee numerose, e alla fine le cose erano rimaste nell’aria, senza un qualcosa di definitivo. Naturalmente i fotografi erano tutti dilettanti, amatori come quasi sempre era in uso di dire, e a loro non si poteva chiedere molto, salvo l’impegno, la passione, la voglia di mostrare il proprio punto di vista con la macchina fotografica, nient’altro. I soggetti inquadrati erano tanti: facce, espressioni, persone, paesaggi, oggetti grandi e piccoli di ogni tipo.
La Casa della Cultura aveva messo a disposizione, come sempre faceva in casi del genere, quelle due grandi sale, generalmente chiuse, lasciate libere ogni volta che qualcuno aveva da esporre qualcosa, per parlare di sé, per mostrare i propri lavori. Si erano ritrovati lì poco per volta, quei fotografi, incoraggiati dalla possibilità di esporre le proprie cose, ed avevano montato i loro lavori sopra a quelle pareti di stoffa bianca, sistemando l’illuminazione, piazzando nomi, titoli e date su cartellini in basso ad ogni inquadratura, come vere e proprie opere d’arte. Ma alla fine non si erano trovati d’accordo neppure sull’indicare una data certa di inaugurazione per quella mostra, anche se qualche curioso era già riuscito ad entrare là dentro ed osservare qualcosa. E non essendo riusciti a trovare un vero titolo per quella rassegna, tutti continuavano a dire “la mostra di foto”, senza stabilire un qualcosa di unificante.
Qualcuno tra coloro degli esterni che aveva osservato quello fotografie già installate, aveva stabilito che qualcuna era migliore di altre, e gli autori ignorati avevano subito iniziato a darne il merito alle luci migliori di cui si era appropriato qualcuno, o delle posizioni più in vista su quelle pareti di cui si era avvalso qualcun altro. La serata continuava a restare indecisa, si parlava del mese di marzo, ma nessuno lo credeva possibile. I fotografi, andando ogni sera alla Casa della Cultura per ricevere informazioni e sistemare qualcosa delle loro creazioni, di fatto continuavano a spostare le fotografie piazzandole più in angolo per dargli maggiore risalto, oppure al centro delle pareti per gli stessi motivi; alcuni accostavano, per colore o soggetto, i propri lavori a tutt’altre immagini, in modo da spiccare di più, modificando sempre e comunque anche quella parte di mostra già a posto, continuando a variare le cose e lamentandosi comunque di qualsiasi dettaglio, ma soprattutto dei colleghi con cui dividevano gli spazi, e maggiormente di coloro che non avevano ancora piazzato i loro lavori.
Qualcuno addirittura aveva iniziato a sostituire le proprie fotografie, senza farne troppa pubblicità, sostenendo con toni dimessi che vedendole lì assieme agli altri lavori, quelle già esposte avevano assunto un senso diverso, tanto da modificare il loro significato. Due o tre, addirittura, si erano messi, macchina fotografica in mano, a scattare nuove istantanee, tanto per cercare di portare altri lavori alla mostra e spiazzare tutti gli altri, magari proprio all’ultimo momento. Infine il dirigente della Casa della Cultura aveva trovato la data migliore per l’inaugurazione di quella mostra, visto che alla metà del mese seguente un sabato coincideva con il giorno di nascita di quella fondazione, ma quasi nessuno tra i fotografi trovò giusto sovrapporre le cose tra loro.
Così si lasciò passare anche quel giorno, e alcuni, anche per paura di vandali o ladri, iniziò in silenzio a riportare a casa propria i lavori già esposti. Tutti gli altri, nel giro di poche serate, fecero la medesima cosa, e alla fine la mostra, quasi completata fino a pochi giorni più indietro, si svuotò velocemente di tutte le fotografie già allestite, e gli autori impegnati in tutto quel periodo smisero anche di parlare di ciò che avrebbero voluto mostrare. Il presidente della Casa della Cultura alla fine definì una serata in cui fare una riunione per accordarsi su tutto quello che era rimasto in sospeso, ma con grande meraviglia di coloro che erano presenti a quella riunione, ci si dovette rendere conto che di quegli artisti non si era presentato nessuno.


Bruno Magnolfi    

martedì 29 giugno 2010

Una distanza uguale all'invidia.

            

            Forse dovrei proprio alzarmi da questa sedia, pensavo senza convinzione. Uscire, prendere l’autobus, arrivare fino all’ufficio del lavoro, strappare dalla macchinetta un foglietto con il numero e aspettare il mio turno per parlare con un’impiegata. Si sa, andandoci spesso a chiedere qualcosa in quegli uffici, magari fingendo di non aver capito la volta precedente, tentando di avere buoni rapporti con quella gente, e di essere disposti ad andare avanti e indietro con quei moduli da compilare, le domande da presentare, i documenti da aggiornare, alla fine qualcosa loro riescono a trovarti. Sanno indirizzarti, darti delle dritte, spiegarti come fare per presentarti bene a qualche colloquio. Però mi chiedo, a che serve trovare un lavoro, rispettare degli orari, faticare tutto il giorno dietro a cose di cui volentieri faccio a meno, avere rapporti antipatici con qualcuno che ti indica come comportarti e poi ti tiene d’occhio per vedere se rispondi agli incarichi che ti sono stati dati, se sei una persona affidabile, e altre cose di quel genere?
            Forse dovrei proprio preparare un curriculum vitae, inserirci tutte le esperienze della mia carriera lavorativa, magari pensate bene, messe in buona luce, qualcuna anche inventata, come se fossi uno scienziato che si piega a cercare un lavoretto per campare, ma il senso del ridicolo è superiore a qualsiasi volontà, e rimandare è semplice, basta stare qui, occuparsi d’altro, restare indifferenti a quanto è possibile fare, magari lasciare tutto ad un altro momento, quando questa attività di cercarmi un vero e proprio lavoro sarà proprio del tutto indispensabile.
            Forse è il mio carattere che non si lascia smuovere con facilità, probabilmente sono le notizie diffuse nei telegiornali che certe volte ascolto con un orecchio solo, e che non mi concedono grandi speranze per il mio futuro lavorativo, tanto da lasciarmi immobile su questa sedia, prostrato a pensare ad altre cose, gli amici, le ragazze, certi festini a base di birra e qualche pastiglia sciolta in acqua tonica. In fondo non ho neanche vent’anni, avrò tutta la vita per preoccuparmi del lavoro, di tutte quelle cose antipatiche in cui sono infagottate quelle persone così simili ai miei genitori, che non parlano altro che di soldi, di fine mese, di banche dove accumulare i loro miseri risparmi, di tredicesime e stipendi, e ancora di spese che non possono permettersi, e del calibro con cui misurare ogni cosa, come se tutto fosse quantificabile in quattrini e ore di lavoro.
Forse dovrei farmi un’idea più precisa sulla politica, le attività lavorative, i sindacati, i contratti collettivi, tutte quelle cose enormemente distanti da ciò che mi sembra importante davvero. In televisione intravedo gente ben vestita, che finge di essere preoccupata di qualcosa, qualcosa che riguarda gli altri, e spesso parlano in nome loro, quei loro che non includono chi parla, e li vedi già abbronzati quando è ancora giugno, e nessuno tra coloro che mostrano lì la propria faccia preoccupata, sembra aver mai fatto davvero qualcosa che non sia per loro stessi.
Forse, in fondo in fondo, potrei sollevarmi da questa sedia in qualsiasi momento, se ne valesse davvero la pena, ma sono sicuro che a nessuno interessa veramente, anzi, pare proprio che sia importante per tutti che io resti qui, a far parte della schiera di chi non si preoccupa di nulla, e lascia che la vita scorra per conto proprio, così che nessuno di noi che facciamo parte di questa generazione, avrà mai niente da obiettare a coloro che sono abbronzati tutto l’anno: che possiamo dire difatti: che hanno avuto fortuna, forse che vivono alle nostre spalle, che sono stati bravi anche se spesso ci risultano un po’ odiosi, è tutto vero, ma per questo è bene che rimangano lì, in televisione, che tanto non potremo mai sopportarli come persone in carne ed ossa, la loro esistenza è lontana dalle nostre giornate, ci separa da loro qualcosa grande quanto il mare.


Bruno Magnolfi     

lunedì 28 giugno 2010

In qualsiasi caso.

            

            “Non fa niente…”, aveva detto qualcuno dentro al negozio. La signora Lucia aveva finto di rimettere a posto sugli scaffali quella fila di camicette che sbadatamente aveva fatto cadere sul pavimento, ma la vergogna che aveva provato di fronte al negoziante e agli altri clienti era tale che ormai non riusciva a far niente se non peggiorare le cose. Così aveva preso uno dei capi, probabilmente della misura sbagliata, pagandolo in fretta alla cassa e prodigando molti sorrisi impacciati, poi finalmente era uscita da lì, come improvvisamente liberata da una sala delle torture.
            Le capitava sempre più spesso di compiere gesti non razionali, di inciampare sui gradini di casa per esempio, come se in tutti quegli anni non avesse ancora memorizzato dove fossero. Ne aveva anche parlato al suo medico, ma lui aveva minimizzato, era normale avere dei periodi così, per suo parere. Ma la signora Lucia si sentiva sempre più preoccupata, e più si impegnava a cercar di tenere sotto controllo le sue sbadataggini, più pareva che quelle, quasi a dispetto, le capitassero.
            Anche se i suoi figli erano già grandi e avevano una vita per conto proprio, lei, vivendo da sola dopo la morte per incidente di suo marito, non si sentiva un’anziana, anzi, certe volte le pareva di vivere una nuova giovinezza, tanto le prendeva la voglia di uscire, di fare delle cose, di incontrare persone. Così, per cercare di vedere più chiaro in quel fastidio che provava ogni giorno, si era fatta fare tutta una serie di analisi approfondite presso una clinica privata, senza passare da altre mani, solo lei e quel professore tanto gentile, che le aveva detto di tornare quel pomeriggio per i suoi risultati.
            Lei era andata per tempo, e con una vaga apprensione, ma convinta di stare in buona salute, aveva atteso il suo turno in una saletta con le luci soffuse. La ragazza sorridente le aveva detto che sarebbero stati sufficienti dieci minuti, e la signora Lucia aveva guardato il suo orologio, già proiettandosi in qualcosa che poteva fare quando fosse uscita da lì, con la cartella dei suoi risultati.
            “Si sieda, la prego…” aveva detto il professore gestendo la sua professionalità al meglio. “Non ci sono buone notizie…”, aveva aggiunto. “Lei ha un tumore, un tumore al cervello, e purtroppo di un tipo per il quale non è proprio pensabile intervenire. Si può curare, però, tenere sotto controllo, cercare di ritardarne la crescita quanto più è possibile, affrontare con coraggio, da donna forte quale lei è, un futuro fatto di altre analisi, di indagini ulteriori e continue, di medicina preventiva ad ogni livello, e lasciare che il suo corpo reagisca alle medicine”.
            La signora Lucia era uscita frastornata, come se quello che le era appena stato detto fosse riferito ad un’altra persona, e lei, sdoppiandosi, potesse ancora sostenere quello che le aveva detto il suo medico: “capita a tutti di avere dei periodi così…”. Però era tornata a casa senza riuscire a distogliere neanche un attimo i pensieri da quelle parole del professore, che sempre di più le parevano una sentenza finale, e quella batosta adesso sembrava fatta apposta per stritolare il periodo della sua vita in cui si sentiva più libera, più saggia, più convinta di sé, adesso che le giornate erano sgombre da tante cose di cui aveva dovuto occuparsi in passato.
            Poi si sedette, prese lentamente un libro di cui aveva iniziato la lettura qualche giorno più addietro, disposta ad immergersi in un’altra realtà, e le parve, sin dalle prime parole che le capitarono sotto agli occhi, meraviglioso, scritto in maniera davvero encomiabile. Ecco, pensò, così voglio essere, adesso che sono cosciente, che tocco con mano quello che presto mi capiterà: innamorata della mia vita, di ciò da cui sono circondata, curiosa degli altri, di chi riesce ad avere una sensibilità così alta. Non voglio rinchiudermi nella mia malattia, nel mio farmi pena da sola; ho bisogno di essere aperta, ascoltare ciò che dicono tutti, interpretare ogni realtà, perché è solo così che sarò continuamente certa di vivere, di interpretare il tempo che mi è stato concesso. Solo così sarò sicura di essere, qualsiasi cosa accadrà. 


            Bruno Magnolfi            

domenica 27 giugno 2010

La comprensione degli eventi.

            

            La scogliera era battuta dal vento, l’uomo da solo era rimasto a lungo ad osservare la superficie del mare biancheggiata di schiuma. La barca in difficoltà, con il motore in avaria e carica di turisti, si era fermata sottocosta, ma si intuiva subito che la cima dell’ancora non avrebbe potuto reggere a lungo. L’uomo aveva osservato tutto quanto con un certo distacco, come se in tutta la vita solo l’indifferenza fosse il sentimento vincitore tra quelli che avevano combattuto dentro al suo animo. Quasi niente ormai gli interessava di meno che preoccuparsi per gli altri, la sua solitudine lo aveva strappato da tutto, lasciandolo inerme nei confronti delle difficoltà che le persone certe volte erano costrette ad affrontare, convinto che la sua priorità fosse l’inedia, il lasciare che il mondo corresse per conto proprio, distante, senza neppure trarre un’idea o un giudizio sugli avvenimenti da cui in qualche caso era sfiorato.
Così quella gente in pericolo sopra la barca rivestiva solo l’aspetto di una giornata qualsiasi, un elemento della realtà da cui non si sentiva coinvolto. Ugualmente restava lì, nel vento, sull’alto delle rocce, a guardare quel mare minaccioso e a vedere le persone che dalla barca, poco per volta, si erano gettate tutte nell’acqua con i loro giubbotti salvagente, annaspando tra i marosi, pericolosamente vicini agli scogli. Niente poteva turbarlo, come se il destino di tutte le cose fosse segnato, e a nulla servisse correre, urlare, cercare di opporre la propria volontà contro gli eventi.
            Poco dopo la barca, strappando gli ormeggi, era andata a fracassarsi sopra gli scogli, e i turisti erano tutti riusciti in qualche maniera ad aggrapparsi alle rocce, meno che una persona, forse una donna, da sola, rimasta in balia delle onde, attaccata con disperazione a una tavola, che con il vento e le onde continuava ad essere spinta più avanti, sempre più avanti, lontana dagli altri. L’uomo osservava quanto accadeva sotto ai suoi occhi, consapevole che niente avrebbe potuto scuotere quella sua completa imperturbabilità.
            Non c’era egoismo nel suo comportamento, solo la coscienza di essere un niente, un fantasma, incapace di vivere e di intervenire, impossibilitato a compiere qualsiasi azione a favore degli altri. Infine perse di vista la donna, e all’improvviso tutto in lui parve mutare, come se quella realtà lo avesse colpito più di quanto si sarebbe aspettato. Si mosse da lì, riprese a camminare lungo la strada nell’alto della scogliera, nel vento che a tratti pareva volerlo portare con sé, fino a quando comprese che quella donna era in lui, adesso la sentiva, ed era salva, da qualche parte là sotto, la poteva osservare mentre respirava davanti ai suoi occhi, e sapeva, in qualche maniera, che quel segnale lo stava riportando alla vita, come se una forza pari a quella del mare spingesse anche lui.
            Si fermò, guardò l’orizzonte, gli parve di comprendere tutto.

            Bruno Magnolfi



                                                                                                           

sabato 26 giugno 2010

Una morale da rivedere.

            

            Durante una notte terribile una persona qualsiasi da sola correva braccata da pesanti giudizi. Nessuno aveva mai voluto veramente il suo male, però dubbi sulla sua condotta, ironie sui comportamenti, insistenze sui motivi dei suoi gesti, l’avevano portata poco per volta ad allontanarsi da tutti. Non sapeva dove avrebbe potuto trovare riparo, in quali luoghi la valutazione di sé sarebbe risultata meno importante, ininfluente ai fini della sua vita. Eppure fuggiva, e fuggendo mostrava il valore delle parole che l’avevano colpita, perseguitata, ridotta a brancolare nel buio alla ricerca di una calma anche interiore.
            Giovanna osservava alcuni ragazzi giocare in mezzo alla strada mentre aspettava l’autobus da sola, in un mano una busta di plastica, nell’altra il biglietto. Sette fermate e sarebbe discesa, come ogni sera, per andarsi a infilare in quel grosso palazzo di uffici dove svolgeva quel suo lavoro, da quasi tre anni. Faceva le pulizie, dalle sei alle nove, insieme a diverse colleghe, ognuna il suo piano, il proprio settore, divise in modo che ognuna fosse responsabile di ciò che faceva e non ci fossero chiacchiere e perdite di tempo. Conosceva gli uffici e le scrivanie della sua zona ormai a menadito, tanto da interpretare gusti e abitudini degli impiegati che nell’arco della giornata lavoravano lì, con il cestino della carta a destra o a sinistra, la scrivania riordinata o lasciata com’era, la sedia allineata o discosta, in un dialogo di oggetti che certe volte l’aveva persino divertita.
Lavorava a testa bassa, da sola, in silenzio, ma era una bella ragazza, Giovanna, a qualcuno pareva impossibile che non avesse fatto un po’ di carriera. Uno degli impiegati che una sera aveva fatto più tardi l’aveva notata, poco tempo più addietro, e si era subito fatto trovare in ufficio altre volte, spudoratamente per parlare con lei, per fare la sua conoscenza. All’impresa delle pulizie già non si parlava di altro, e Giovanna aveva chiesto al suo responsabile di cambiarla di piano, ma le altre si erano opposte, e tutto era diventato sempre più complicato.
Ma una volta Giovanna, che aveva trovato ancora quell’impiegato a aspettarla, con decisione era andato da lui, lo aveva guardato negli occhi, giusto per dirgli le cose com’erano, che doveva smetterla di farsi trovare ancora lì, per favore. Il giorno seguente tutti sapevano che quell’impiegato era stato con lei, non era difficile, diceva lui, bastava aspettarla. Così per lei quella era l’ultima sera di lavoro in quel palazzo di uffici. Aveva dato le dimissioni al mattino, alla sede della sua impresa, ma le avevano chiesto di lavorare ancora quel giorno se non voleva passare dei guai, e Giovanna si era lasciata convincere.
Aveva iniziato il suo turno puntuale, si era subito accorta che quella persona non c’era, così si era sentita tranquilla. Ma dopo poco era entrata dentro a un ufficio con il suo carrello attrezzato, e aveva visto che seduto ad attenderla c’era un altro impiegato, un collega del primo, e lei si era sentita sporca, perduta, infangata da gente priva di qualsiasi decente criterio. Così lo aveva ignorato, era uscita da quella stanza spostandosi in una successiva, e quando quello era andato da lei, le era venuto da piangere, ma l’impiegato non aveva capito il suo stato, e aveva sorriso, quasi scambiando quel gesto di lei per timidezza, per un pudore che era certo, con qualche semplice trucco, avrebbe velocemente perduto, mostrandosi quello che era realmente.


Bruno Magnolfi

venerdì 25 giugno 2010

Ordinarie tensioni esistenziali.

            

            Era inutile cercare ancora di dormire, era impossibile. I pensieri sorvolavano il letto come grosse nubi minacciose, aggrovigliate tra di loro. Senza neppure motivi apparenti, la tranquillità era irrimediabilmente perduta.


            Bruno Magnolfi

giovedì 24 giugno 2010

Il coraggio per ricominciare.

            

            Il signor Bernardini quella sera, nella fase del giorno in cui normalmente si preparava per andarsene a letto, e nonostante la sua età avanzata, si era messo un abito appropriato ed era uscito di casa, per la prima volta a quell’ora da un numero di anni così grande da non averne memoria. Sua moglie era morta da dodici giorni, e lui in quel breve tempo aveva come perduto l’equilibrio delle sue attività. Una scomparsa improvvisa lascia sempre esterrefatto chi rimane, specialmente se è anziano, ma nel suo caso era come venuto a mancare il punto di riferimento di ogni suo comportamento. La solitudine che il signor Bernardini aveva iniziato a provare girando da solo nel suo grande appartamento, era quasi indescrivibile, come se niente dei mobili, delle stanze, di tutti gli oggetti che aveva intorno, gli appartenesse davvero, e quasi che tutto avesse perduto importanza fino al punto da spingerlo a porsi domande su qualsiasi scontata certezza.
Non riusciva più a capire che cosa desiderasse davvero, il signor Bernardini, ma oltretutto anche i compiti a cui aveva sempre accudito pareva d’improvviso che in lui avessero perso importanza, come se la struttura stessa della giornata, anche gli orari e i comportamenti ordinari, si fossero svincolati dalle loro funzioni. Il suo medico gli aveva prescritto delle lievi cure adeguate a casi del genere, viste le sue condizioni di grande prostrazione, ma lui non le aveva seguite, deciso come si sentiva a scoprire delle realtà rimaste sopite dentro di lui per tantissimi anni. Nei primi giorni amici e parenti si erano dati il turno a telefonargli e a chiedergli se avesse bisogno di qualcosa, anche soltanto per riempire quelle giornate da pensionato qual’era, ma lui aveva con naturalezza rassicurato tutti quanti, tagliando alla svelta ogni argomento.     
La fase maggiormente complessa della giornata si era subito dimostrata proprio quella, la sera, quando anche i pensieri divenivano precari, senza un vero significato, e il suo desiderio più forte si mostrava qualcosa verso cui indirizzarsi, un interesse a cui dedicarsi per sopperire a tutte quelle mancanze. Così era uscito, pur vecchio com’era, e aveva fatto una passeggiata senza un itinerario preciso, muovendosi a caso e pensando soltanto a camminare. Quel moto era salutare, lasciava spendere le energie e rilassare la mente, e i pensieri, grazie a quei passi cadenzati, parevano svagarsi fluttuando sugli argomenti più vari.
Cercava di capire, il signor Bernardini, quali fossero adesso i suoi nuovi interessi, quale volontà nascondesse quel suo atteggiamento, anche se si sentiva confuso, a volte quasi smarrito. Rifletteva che non avrebbe potuto rinchiudersi in casa ad aspettare di morire d’inedia, era quello il punto essenziale che lo scuoteva. Voleva ancora vivere, questo era il principale sentimento, ma tutto intorno pareva non dargli seguito. Girava, camminava, scrutava nel buio, cercava di trovare la soluzione a quei suoi pensieri con la paura di trovare qualcuno che gli dicesse di tornarsene a casa.
Poi il suo sguardo era andato a incuriosirsi dell’insegna luminosa di un locale notturno lungo la strada, un posto dove si suonava musica jazz, e così si era avvicinato a quel grande ingresso per ascoltare. Era rimasto lì qualche minuto, rapito da quegli echi che arrivavano fin sulla strada, senza accorgersi che una ragazza gli si era accostata: “E’ la musica più trascinante che si possa ascoltare…”, gli aveva detto lei sottovoce.
Il signor Bernardini si era girato per osservare e forse per rispondere qualcosa alla donna, ma dentro a quegli occhi belli e sorridenti aveva visto in un lampo tutto quello che pareva inesorabilmente perduto nella sua vita: lo sguardo della ragazza era sorridente, piacevole, come mai ne aveva visto di simile, e prodigava coraggio, voglia di vivere, curiosità verso il mondo; così anche lui le sorrise, restando in silenzio, come se la differenza d’età non contasse un bel niente, compiacendosi di quelle parole. Continuò ancora per un attimo ad osservare quell’espressione, come per farne una scorta, poi, salutando quella ragazza con un inchino spiritoso e gentile, si avviò allegramente verso casa, convinto di avere compreso qualcosa di più su se stesso, e di sentire la forza e la determinazione per affrontare ancora la vita.


Bruno Magnolfi   

mercoledì 23 giugno 2010

La generosità verso gli ammalati.

           

            La donna era entrata in ospedale all’ora del passo, quando la gente affollava i corridoi e le sale da conversazione. Aveva salito le scale evitando gli ascensori, poi era arrivata al reparto di medicina generale, soffermandosi ad osservare le persone. Non aveva chiesto niente, aveva tirato fuori dalla sua borsetta un piccolo foglio con su scritto qualcosa, e con quello aveva cominciato a girare lungo le camere, lasciandosi sfiorare da infermieri e personale medico. Il suo abbigliamento era dimesso, lo sguardo triste, quasi spaurito.
Lentamente aveva percorso tutti i corridoi che si era trovata davanti, era andata vicino a degli ammalati, qualcuno tra i visitatori l’aveva guardata duramente; poi si era soffermata presso una grande vetrata da cui si dominava l’enorme parcheggio delle auto sottostanti. La donna aveva cercato di guardare lontano, oltre le case, dove qualche profilo di collina verdeggiava nel chiarore del sole. Le era parsa bella quella campagna, le faceva venire a mente quando era piccola e qualche volta l’avevano portata sui prati. Le venne da piangere, senza un vero motivo, forse proprio perché non trovava neppure un motivo per essere lì, da sola, senza nessuno di cui preoccuparsi, come sembrava facessero gli altri; tirò fuori il suo fazzoletto e si soffiò il naso, come se la sua condizione potesse risolversi così.
            Qualcuno, una signora forse, le toccò il braccio, come a cercare di darle una consolazione, ma lei si sentì quasi scoperta, perciò si girò di scatto e riprese velocemente a camminare, senza più voltarsi. Vagò ancora per i corridoi, infine trovò casualmente le scale e raggiunse l’uscita. Una sirena lontana indicava l’arrivo di un caso urgente al pronto soccorso, ma lei non ci badò, raggiunse la fermata degli autobus e attese con gli altri l’arrivo del mezzo pubblico.
Sono andata all’ospedale, raccontò alla casa protetta appena rientrata dalla sua fuga, sarei rimasta là dentro, come gli altri, ma c’era troppa gente, tutti chiedevano qualcosa, non riuscivano neppure a rimanere un attimo zitti, in silenzio, a pensare le cose. Non mi piace quel posto, bisogna andar lì solo se sei ammalato o se hai qualcuno a cui fare visita, altrimenti le persone ti chiedono che cosa stai facendo e tu facilmente perdi l’orientamento e persino il significato di tutti i tuoi gesti.
 La gente è cattiva, neppure lo sa, però si comporta come se tu fossi diverso da tutti. Non voglio sentirmi diversa, ma non mi va di andare in mezzo alla gente e sentire che gli altri ti guardano, che hanno voglia di sapere tutto di te, e se non sei come tutti allora non ti vogliono più, e ti dicono di tornartene a casa, di non farti vedere ancora in giro da sola, altrimenti prenderanno provvedimenti più seri. Resterò qui, insieme a voi, d’ora in avanti, non perché lo volete, ma perché sono io che non posso fare a meno di voi. Però non pensate di aver vinto: tornerò in quell’ospedale, dimostrerò a tutti che anch’io riesco a preoccuparmi degli altri, che anch’io sono capace di far visita agli ammalati; per generosità, però, non per dovere.


Bruno Magnolfi

martedì 22 giugno 2010

Sala giochi Las Vegas

            

            La ragazza, seduta con le amiche vicino ai bowling elettronici della sala giochi, lo aveva guardato diverse volte. Inizialmente lui non ci aveva neppure fatto caso, o meglio, aveva subito pensato di essere probabilmente spettinato, o di avere qualcosa sulla faccia o nell’abbigliamento che avesse incuriosito quella ragazza che a dire la verità non aveva neppure mai visto, ma in seguito si era sentito al centro di una attenzione che pur stimolandolo lo aveva messo fortemente a disagio. Per dissimulare la sua sensazione si era messo a parlare con i suoi amici delle prime cose che gli erano passate per la testa, spostandosi, gesticolando, declamando per scherzo qualcosa a voce più alta del necessario, guardandosi attorno ed osservando a sua volta da quella parte. I loro sguardi si erano incontrati più volte, non c’era niente dettato dal caso, era evidente.
Gli era venuto diverse volte da ridere in modo nervoso, per un attimo si era sentito il centro del mondo, ma aveva immaginato la sua faccia con le guance arrossate, così si era gettato per pochi minuti tra le pagine di un giornalino dimenticato su un tavolo; quando era tornato a sollevare lo sguardo aveva visto con terrore che lei e le sue amiche se ne stavano andando. Allora si era alzato anche lui dalla sedia, mentre i suoi amici lo osservavano come aspettandosi qualche altra stranezza, ma era soltanto rimasto lì, in piedi, senza parole, ad osservare quel gruppo di amiche che andavano via, senza riuscire a distoglierne gli occhi.
La ragazza di prima era arrivata quasi in fondo alla sala, aveva calcolato il momento migliore restando leggermente più indietro rispetto alle altre, poi si era voltata, e lo aveva guardato di nuovo, questa volta senza lasciare alcun dubbio. Lui aveva chiuso la bocca per deglutire, poi si era sentito improvvisamente perduto. Aveva aspettato ancora un momento, che tutte fossero uscite dalla sala giochi, ed era stato in quel momento che si era precipitato dietro di loro, immaginandosi di trovarle sul marciapiede, di poter ancora salvare qualcosa di quella situazione. Gli altri non gli avevano chiesto niente, restando con le gambe sopra ai braccioli delle sedie di plastica a mostrare indolenza e a dirsi qualcosa di strascicato, senza interesse.
Nella sala giochi ci saranno state venti o trenta persone, tutte a gruppetti, nella ricerca difficile di divertirsi e di passare una buona serata anche se assomigliava a tutte le altre. Qualche ragazza là dentro si lasciava abbracciare, tanto non c’erano occhi indiscreti, e qualcuna faceva la stupida in modo molto superiore a ciò che sarebbe stato normale. Le luci rosse e blu delle macchinette elettroniche lampeggiavano dando un aspetto irreale alle cose, i suoni sintetici parevano uscire da un film vecchio passato di nuovo in televisione, visto già troppe volte. Fuori il paese lasciava che quella sottile immoralità che provavano certe volte i ragazzi, fosse quasi tutta racchiusa là dentro, in quella noiosa sala giochi, e tutti si sentivano in qualche modo tranquilli.
Lui era arrivato sul marciapiede di corsa, senza avere pensato a qualcosa da chiedere o da dire; si era slanciato fuori dalla porta dipinta di nero sperando di nuovo semplicemente di incontrare i suoi occhi, di provare ancora quella sensazione fortissima di cui era stato preda fino ad allora. Lei era lì, da sola, lo stava aspettando, adesso aveva un’espressione meno sfacciata, e anche le sue braccia, i suoi gesti, si notavano come maggiormente composti, più attenti a spiccare di meno. Gli dette un’occhiata furtiva mentre lui si accostava quasi senza più fiato, attese ancora un momento, poi disse: “Scusami, ti avevo scambiato per un’altra persona…”.


Bruno Magnolfi      

lunedì 21 giugno 2010

Un fiore senza memoria.

          

            Sono annoiata, aveva detto lei senza alzare gli occhi dal libro. Lui si era voltato solo un attimo verso la poltrona sulla quale lei stava mezza sdraiata, poi era tornato ad osservare la strada di fronte, lungo il fiume della città. Non c’era molto movimento quel pomeriggio, probabilmente la gente sonnecchiava dentro alle case, proprio come facevano loro. Poi si era spostato per andare a cercare qualcosa dentro a un cassetto dello scrittoio, infine si era seduto.
            Forse se andassimo a fare una passeggiata mi passerebbe anche questo leggero mal di testa che mi tortura, aveva proseguito lei come parlando al suo libro. La luce, da dietro le tende della vetrata di quel salone, pareva come allargarsi là dentro, diffondendosi da tutte le parti come una materia trasparente e mielosa. Lui aveva preso una penna ed un foglio, e aveva scritto qualcosa, forse un appunto per il suo lavoro. Quando si era alzato dal tavolo era andato verso una delle due librerie da parete, e aveva cercato qualcosa tra gli scaffali chiusi dietro alle alte vetrine.
            Le giornate trascorse così mi sembrano infinite e prive di senso, aveva continuato lei dando voce a quei suoi pensieri. Poi si era riscossa, aveva appoggiato il suo libro su un tavolino da fumo, e si era sollevata lentamente, resistendo agli scatti nervosi con cui aveva voglia di muoversi. Si era avvicinata ai vetri, aveva girato una maniglia e socchiusa l’anta di un finestrone, come per assaporare il rumore che proveniva da fuori e far entrare il profumo del fiume.
            Dei ragazzi correvano ridendo lungo il marciapiede di fronte; il fiume, di là dalla spalletta, pareva il solito nastro grigiastro che andava a infilarsi sotto ai tre ponti in successione che si vedevano da quella prospettiva. Il resto era immobile, senza speranza. Lei si volse, nell’esatto momento in cui da dentro quel libro che lui aveva aperto restando in piedi accanto alla libreria, scivolava a terra un fiore secco, forse una rosellina rimasta schiacciata tra le pagine di quel volume per chissà quanti anni. Si avvicinò incuriosita mentre lui si chinava a raccogliere quell’insolito e delicato oggetto; poi, fermandosi appena ad un passo, cercò di scrutare l’espressione che pareva disegnarsi sul viso di lui, nell’osservare quel fiore.
            Una pausa di silenzio allargò i loro pensieri, nessuno aveva voglia di dire qualcosa. Infine un leggero colpo di vento spalancò l’anta del finestrone rimasta fino ad allora socchiusa, la tenda si mosse lentamente nell’aria, come se una mano invisibile ne avesse scorso i contorni, lei osservò quelle onde sinuose che si propagavano dentro al salone, poi pensò che qualcosa era entrato là dentro, o forse era uscito, chissà.


            Bruno Magnolfi

domenica 20 giugno 2010

Clandestino.

           

            Piegato su di me, con le braccia conserte, sdraiato in un angolo di questo vagone chiuso del primo treno merci su cui sono riuscito a salire, immagino alberi e case che sfilano intorno nella campagna sterminata di una regione qualsiasi. Sento la testa sempre più vuota, ascolto la mia vita ridotta ai minimi termini, lascio che il rumore fortissimo della terra che corre sotto di me mi faccia sentire leggero, quasi inconsistente. Qualche faccia mi passa davanti tra i miei pensieri, qualche espressione emerge dalla mia mente, tutto questo fa parte solo del mio passato, ma è lontano, perduto, io so che adesso sono qui, non conta nient’altro, e resto racchiuso in questa giacchetta logora che mi ripara dal freddo, anche se non so neppure dove realmente mi trovo, o dove sto andando. Non mi importa di niente, sento solo la vita dentro di me che vuol correre ancora, proprio come questo treno merci, disperato nella fuga tra le colline e le valli. Mi proietto in avanti, mi sento pronto per fuggire, nascondermi, rubare qualcosa; non lo so di chi sarà stata la responsabilità per spingermi qui, so che ho soltanto una vita, e la sento pulsare sotto la pelle, non sarò io a fermarla, devo andare, andare, finché non mi fermeranno, per forza. 


            Bruno Magnolfi

sabato 19 giugno 2010

Nei colori del tramonto.

            

            I braccianti di colore si erano riuniti tutti tra loro alla fine dell’orario di lavoro, ed erano rimasti lì, in silenzio, come non avessero nessun posto dove recarsi. Infine si erano incamminati lungo la strada sterrata, costeggiando la stalla delle vacche, e svogliatamente erano andati ad infilarsi nelle loro baracche di legno, oltre il rimessaggio degli attrezzi. Sul fianco della collina la vigna pareva scolpita, tanto appariva simmetrica e regolare, e adesso che il sole si era avvicinato alla terra, le tonalità di verde apparivano più morbide e più intense. Davanti alla sua casa il signor Giovanni, come lo chiamavano tutti, si era seduto sui gradini di pietra per togliersi la terra dalle suole dei suoi stivali, e aveva lasciato che il cane gli girasse attorno scodinzolando per giocare.
            Quello sarebbe stato l’ultimo anno, pensava; le ultime volte di quelle giornate intere passate ad andare avanti e indietro col trattore per inseguire qualcosa che non aveva dato i frutti sperati. Non importava neppure ripensarci adesso, alla fine della stagione sarebbero arrivati i nuovi proprietari, una società che avrebbe avuto meno scrupoli a sfruttare quella terra, lui sarebbe stato già lontano, a godersi il riposo, quei pochi soldi e gli ultimi anni della sua vita.
            Un’auto vecchia e scarburata era arrivata arrancando per la strada interpoderale, nessuno che il signor Giovanni ricordava di conoscere. L’uomo era sceso guardandosi attorno, si era avvicinato di qualche passo senza fretta, poi aveva guardato a terra prima di parlargli: “Cerco un lavoro”, aveva detto, “uno qualsiasi”. Poteva avere quarant’anni, ma era difficile giudicare. “Qua sono tutti neri”, aveva risposto con ruvidezza il signor Giovanni, tanto per trovare una scusa per togliergli qualsiasi idea falsa. “Per me va bene”, aveva detto semplicemente l’uomo, e quella risposta, forse inaspettata, era piaciuta al signor Giovanni.
            La mattina seguente quell’uomo aveva iniziato a lavorare insieme agli altri, dopo aver dormito nella notte dentro la sua macchina. Il signor Giovanni l’aveva osservato, non ricordava di aver mai conosciuto una persona del genere, ed era incuriosito. A sera lo invitò nella sua casa per regolarizzare il rapporto di lavoro, aprì qualche carta sopra al tavolo restando in piedi, e lo invitò a dirgli il nome e ad apporre la sua firma in fondo ai fogli. L’odore di terra e di sudore ristagnava intorno, i braccianti avevano intonato una nenia che si sentiva arrivare da lontano, quasi una vibrazione, come una mosca nella stanza. L’uomo fece quanto era richiesto, poi si volse per raggiungere la porta, ma si fermò, e senza che nessuno gli avesse chiesto niente, disse che la vita era strana, certe volte ti sbatteva nell’aria come una bandiera, ma non c’era da prendersela, le cose a volte andavano bene, a volte male.
            Il signor Giovanni non lo interruppe, ma dopo una pausa, a bassa voce, disse: “Vendo tutto, tra poco, anche a me non è andata benissimo; o almeno non come speravo…”. “Lo so”, disse l’uomo; “però bisogna anche imparare ad osservare i colori del tramonto, come quelli di stasera, e qualche volta lasciarsi affascinare, senza porsi troppe domande. Se si cerca sempre il meglio saremo sempre e soltanto dei perdenti”.


            Bruno Magnolfi

venerdì 18 giugno 2010

L'illuminazione di un giorno come tanti.

            

            L’uomo era uscito da casa senza un motivo, aveva passeggiato per un po’ lungo i marciapiedi cittadini, poi si era infilato in un caffè, giusto per farsi servire qualcosa e riposarsi. La donna, al tavolino accanto al suo, continuava a scrivere su un foglio di carta, forse una lettera, lasciando freddare la sua tazza di the e mostrando indifferenza verso tutto il resto. C’era un quotidiano, e l’uomo l’aveva sfogliato distrattamente. Poi, mentre girava la pagina per leggere meglio una notizia, aveva incontrato casualmente lo sguardo della donna, lei aveva sorriso come per una cortesia tra persone solitarie, e lui aveva detto sottovoce buonasera, senza espressioni. Lei poco dopo aveva piegato quel suo foglio per riporlo dentro la borsetta, aveva sollevato la tazza del suo the e si era guardata attorno, come alla ricerca di qualcosa. L’uomo aveva evitato di guardarla nuovamente, però aveva cercato dentro di sé un motivo per parlarle, incuriosito da quel suo sorriso dolce e aperto.
Il tardo pomeriggio attorno continuava a scorrere tranquillamente, con clienti che andavano e venivano, alcuni parlando tra di loro, altri salutandosi. Il cameriere aveva servito all’uomo un aperitivo, lui aveva ringraziato ed aveva accavallato le gambe, come a mostrare piena sicurezza di sé. La donna era rimasta ferma, forse lo aveva guardato nuovamente, poi aveva controllato il suo piccolo orologio. “Aspetta qualcuno?”, avrebbe potuto dirle lui, tanto per parlare di qualcosa, ma non lo fece, anzi trovò subito una domanda di quel genere qualcosa di cui si sarebbe potuto vergognare. Così si volse verso le vetrate, come a cercare di dare movimento al suo starsene seduto forse in modo troppo statico, e lei tornò a guardarlo, forse a sorridere di nuovo quasi leggendogli i pensieri, ma lui non dette peso alla cosa, e subito riaffondò il suo naso dentro a quel giornale. 
Intanto nel locale era entrato un piccolo gruppo di persone chiassose e gioviali, una di loro aveva detto qualcosa di divertente ad alta voce richiamando l’attenzione di tutti su di sé. L’uomo e la donna si erano guardati per un attimo come divertiti da quell’espressione, ma ambedue non avevano detto niente, limitandosi a scambiare un semplice barlume di solidarietà che sembrava non avere seguito. L’uomo infine aveva chiuso in modo definitivo il quotidiano, aveva sorseggiato il suo aperitivo, aveva volto la sua faccia in modo deciso verso di lei, ma lo aveva fatto proprio nel momento in cui la donna aveva aperto la sua borsetta per cercarvi qualcosa. Lui stava per dirle: “Scusi, le posso fare una domanda?”, senza sapere in realtà cosa chiederle davvero, ma in quell’attimo esatto lei si era alzata dalla sua poltroncina, si era avvicinata al banco del bar, aveva pagato la sua consumazione e in un solo attimo era uscita dal locale, quasi senza voltarsi verso di lui. 
L’uomo aveva atteso solo un minuto, forse due, pensando improvvisamente tra sé che forse lei lo aveva persino salutato prima di uscire, e che lui non si era neanche accorto di quella cortesia. Fu preso da una strana agitazione, si alzò alla svelta e infine con modi nervosi pagò anche lui l’aperitivo, uscendo quasi di fretta dal caffè. Fuori la serata era dolce e piacevole, le persone lungo i marciapiedi circolavano tranquille come sempre, tutto appariva in perfette condizioni e lui si trovò immobile, senza sapere cosa fare; attese qualche minuto fermo scrutando la strada, poi rassegnato capì che avrebbe dovuto incamminarsi verso casa, diventava assurdo e inutile per lui guardarsi ancora attorno, perdere del tempo inutilmente, cercare con gli occhi, come intanto continuava a fare, di rivedere quella donna, perché lei non c’era, pur con tutto il desiderio che aveva di trovarla non la poteva vedere più da alcuna parte, era sparita, volatilizzata. Infine parve rassegnarsi, si avviò per la sua strada e pur con quel senso vago di delusione che provava, seppe di star bene, di aver comunque vissuto una piccola esperienza, di esser stato accanto ad una donna che adesso gli sembrava unica, importante, forse rara, che aveva illuminato in modo indelebile quella sua giornata, anche se non avrebbe mai saputo spiegarne il motivo.


Bruno Magnolfi 

giovedì 17 giugno 2010

Di nuovo, fra qualche tempo.

            

            Non mi era piaciuta l’ironia leggera del guardiamarina su quel paio di giorni agli ormeggi che avevo deciso per la mia nave petroliera. In fondo ero io il comandante là sopra, ed ero responsabile di qualsiasi decisione. Aveva immaginato benissimo lui che ritardare voleva dire solo attendere la discesa del prezzo del greggio all’imbarco, naturalmente per via delle solite congiunture internazionali, ma a me la compagnia comunicava via radio le indicazioni da seguire, non potevo far altro, era evidente. Per far star buoni i ragazzi a bordo c’era sempre la vecchia scusa di evitare qualche burrasca, ma che potevo fare, non potevo lasciare che sospettassero qualcosa sulle buste di soldi extra che intascavo ad ogni fine missione. Il guardiamarina era un ragazzone tutto logica e controllo, non sapeva niente di come si fa per stare al mondo, con gli anni si sarebbe ammorbidito, ne ero sicuro, per adesso era meglio lasciarlo perdere.
            Eppoi secondo me era stato bello rimanere immobili per tutto quel tempo sottocosta, prendere il sole in coperta e fare le pulizie generali di tutte le cabine, meglio farlo davanti a terre amiche piuttosto che in acque poco sicure. Avevo dovuto cercare di smontare le illazioni del guardiamarina, però, portarlo con i pensieri da altre parti, e così, tanto per fargli qualche confidenza, mi ero inventato una storia su una donna, una ragazza bionda che avevo conosciuto anni addietro, un tipo tutto particolare, avevo detto, di quelle che ti capitano a tiro davvero poche volte. Mi ero lasciato andare a spiegargli, mentre eravamo all’ancora, che quella donna era solita trascorrere la stagione balneare in quel paese laggiù, in mezzo alla baia, e magari in quel momento esatto poteva tranquillamente essere lì, ad osservare proprio questa nostra stupida nave petroliera. 
            Mi aveva chiesto come l’avevo conosciuta, il mio secondo, ma a me era venuta voglia, mentre gli spiegavo tutta quanta la faccenda, di averla incontrata veramente una donna di quel genere, una persona tutt’altro che semplice, di quelle che anche se sono con te, pare che siano da tutt’altra parte, e ti affascinano continuamente con il loro modo di sottolineare dei particolari che tu normalmente non avresti neanche notato. Mi aveva parlato a lungo della sua famiglia, senza farmi mai capire troppo, con quel modo di spiegare le cose che sembra faccia i salti da un argomento all’altro, in modo sconclusionato, salvo lasciarti accorgere a un certo punto, che tutto quello che ti è stato detto è perfettamente collegato, e resta solo a te il compito di ricomporre i pezzi per comprenderne di più.  
            Il guardiamarina era rimasto colpito da quei miei racconti, si era lasciato prendere da quella storia, ed aveva anche evitato di fare delle domande fuori luogo. Così io avevo continuato, giusto per dirgli che in quei pochi giorni che avevo trascorso insieme a lei, con quella bionda intendo, avevo come dimenticato tutto il resto, annullata tutta la mia vita, e come per una sorta di magia particolare lei mi aveva annebbiato la mente con la sua personalità e con quei suoi modi insoliti. Era come se dentro quella donna fossero presenti diversi esseri, e che lei a volte si limitasse a interpretarne i pensieri, le volontà, forse i desideri, giocando tutto sul filo dell’intuito e delle sensazioni. Poco prima di perderci, cosa che ancora oggi non so perché sia avvenuta e né come, disse soltanto: “Ci rivedremo, non so quando, fra qualche tempo; e anche se saremo lontani sentiremo ugualmente di esserci accanto, proprio come adesso…”.   


            Bruno Magnolfi

mercoledì 16 giugno 2010

Il pontile sull'orizzonte.

            

            Il pontile si allungava sul mare, starsene lì senza far niente era come scivolare sul tempo. I pescatori se n’erano andati, qualche lento gabbiano incrociava poco distante in una bava di vento da ponente. Anche la nave non c’era più all’orizzonte, ormai da un giorno o anche due, ma aveva impresso così forte la sua presenza in quella zona di mare, che ora pareva che una nebbiolina leggera cercasse di colmare quel vuoto, e qualcosa ancora ci fosse, anche solo per un puro meccanismo di fantasia. Era bello guardare quel punto d’infinito e immaginarlo senza problemi: cattivi rapporti interpersonali, stupide liti, oggetti insignificanti trattati come preziosità. L’esistenza del mondo ne stava al di sopra, era evidente.
            Un uomo si era avvicinato con lentezza, lasciando scricchiolare le assi di legno sotto ai suoi piedi. Aveva osservato il mare scuro in quel tramonto di sole, aveva annusato l’aria come fanno solo i vecchi marinai, poi aveva abbassato la testa ed era rimasto lì, appoggiato al corrimano, come sopra al ponte di una nave. Poi, senza spostarsi, aveva tirato fuori dalla tasca un foglio di carta, lo aveva tenuto per qualche momento tra le mani, e infine aveva permesso che la brezza se lo portasse con sé sottovento, sfarfallando un po’ dentro l’aria, e infine lasciando che la carta si adagiasse sopra le onde delicate dell’acqua.
            Aveva continuato ad osservare quel foglio, per tutto il tempo che ancora era riuscito a vederne il chiarore, poi si era riscosso, e com’era venuto era andato. Quanto passato c’era da superare, da chiudere, una volta per tutte. Quante scuse ognuno di noi avrebbe dovuto presentare per qualcosa di non fatto, o non detto, o per incomprensioni minori che avevano dettato le vicende come elementi di prima grandezza. In fondo era quello un luogo giusto dove fare i conti con il proprio vissuto, né terraferma né mare, al cospetto di un orizzonte infinito solo qualche volta solcato da una nave scura e silenziosa, ma che adesso non c’era, non ingombrava per niente la prospettiva. 


            Bruno Magnolfi

martedì 15 giugno 2010

Un motivo qualsiasi.

           

            Il Rosso era entrato nel minimarket per rubacchiare qualcosa da mangiare. Non era malmesso nel vestiario e si era rasato il giorno avanti, nessuno poteva sospettare che fosse un barbone, uno che dormiva dove capitava. Non gli faceva piacere arrivare a quegli estremi, però in certi casi, quando la fame si faceva sentire cioè, non c’era una soluzione più semplice e immediata. Gli era venuto a mente addirittura di prendere una bottiglia di vino, se ce la faceva, non per sé, che a lui neanche piaceva bere, ma per quel paio di alcolizzati che si ritrovava sempre intorno quando andava alla stazione dei treni, gli unici che frequentava, e che erano sempre a lamentarsi e a chiedergli qualcosa.
Con questi pensieri aveva scorso il corridoio delle bibite, ma c’era della gente coi carrelli, non era il momento di nascondere una bottiglia nella sua giacca, così si era limitato a prenderne una per il collo e a tenerla in mano, con indifferenza. Una signora dalla voce antipatica gli aveva chiesto di aiutarla a prendere una confezione un po’ in alto, e lui si era allungato senza dir niente, con il massimo di naturalezza. La donna ringraziando lo aveva squadrato, come facevano a volte certe persone, poi si era disinteressata di lui.
Fu allora che il Rosso era passato in cima al corridoio degli scaffali per cercare il reparto dove tenevano i salumi e i formaggi, ma aveva visto qualcosa di strano dalle parti della cassiera, una ragazza giovane, che avrebbe potuto essere sua figlia. Un uomo in piedi le era accanto, e il Rosso immaginò che la stesse minacciando col coltello per farsi consegnare i soldi della cassa, dall’espressione di lei non si poteva pensare molto di diverso. Nessuno si era accorto della faccenda, così il Rosso si avvicinò per comprendere meglio le cose. Arrivò in silenzio alle spalle dell’uomo e si accorse subito che era proprio come lui aveva pensato. Non era mai stato un coraggioso, ma quella ragazza, pallida e impaurita com’era, gli faceva proprio pena, poteva benissimo essere sua figlia se solo la vita fosse stata un po’ più generosa con lui, così d’istinto gli venne voglia di spaccargli la bottiglia in testa a quel farabutto. Forse, se avesse pensato un po’ di più, il Rosso si sarebbe accorto che tra lui e quell’uomo c’era una differenza inferiore a quella che sentiva, ma le cose a volte non si fanno con i ragionamenti, ma col cuore.
Gli arrivò ad un passo mentre la ragazza terrorizzata e con la cassa aperta stava consegnando i soldi che aveva trovato, mentre l’uomo con la sua statura copriva quasi interamente tutti i gesti di ambedue. Il Rosso brandiva la sua bottiglia, forse con dei gesti più lenti del necessario, e l’uomo si girò verso di lui appena un attimo prima che potesse sferrargli il colpo previsto. L’uomo all’ultimo momento schivò la bottiglia, afferrò d’istinto la giacca del Rosso con la mano libera, come per tenerlo fermo, mentre con l’altra gli sferrava una pugnalata vigorosa allo stomaco. Il Rosso cadde a terra stringendo ancora la bottiglia di vino nella sua mano, che si ruppe in un attimo in mille frammenti spandendo sul pavimento tutto quel vino, l’uomo afferrò quanto poteva dei soldi e infilò la porta nello stesso momento in cui un paio di clienti iniziavano ad accorgersi di quanto stava accadendo. La cassiera adesso piangeva ed urlava, il Rosso sdraiato perdeva sangue come da un rubinetto aperto, e qualcuno si era piegato su di lui, ma si era immediatamente accorto che le sue condizioni erano critiche.
Una donna, forse la stessa che prima aveva aiutato, stava chiedendogli qualcosa, in ginocchio, piegata sulla sua faccia, ma non rispondeva più niente, il Rosso, non aveva più fiato, e anche se ne avesse avuto non aveva proprio niente da dire a degli estranei. All’improvviso sentiva dentro di sé la vita scappare, proprio da lui, che non gli importava poi molto della sua vita; vedeva, intorno al suo corpo tremante, una situazione pur annebbiata però così stupida, così insignificante, assurdamente in linea con tutte le sue cose, così come gli erano sempre accadute. Pensava, voleva ancora pensare, come per un ultimo atto della sua esistenza, ma la cosa che adesso gli sembrava dispiacergli maggiormente era solo per quella bottiglia, quella bottiglia di vino che non avrebbe più potuto portare ai suoi amici.


Bruno Magnolfi

lunedì 14 giugno 2010

La scia bianca a perdita d'occhio.

            

            I due avevano concluso insieme il loro turno di lavoro, si erano infilati svelti nelle cuccette, e si erano lavati e cambiati, proprio come se avessero avuto da recarsi in qualche posto. La navigazione aveva ripreso da quella mattina, ci sarebbe voluto quasi un mese per raggiungere il luogo di imbarco del greggio, poi altri due per tornare indietro fino al terminal della raffineria. Si era parlato per tutti quei giorni precedenti di preavvisi attendibili di burrasche, per questo il comandante aveva deciso una sosta, e c’era chi aveva abbassato lo sguardo a quelle notizie, ma in fondo era normale incontrare brutto tempo andando per mare.
Erano in trenta là sopra, tutti con anni di vita del genere dietro alle spalle, la lingua comune un inglese storpiato composto di poche parole e molti gesti esplicativi. Loro due invece si conoscevano da tanto, erano di Salerno, avevano iniziato insieme ad andare per mare, spesso parlavano tra loro fingendo di stare in vacanza, come se quei viaggi fossero di puro piacere. “Se domani c’è il sole sto tutto il giorno in coperta ad abbronzarmi la schiena”, dicevano per ridere. A volte giocavano a carte, per ingannare un’ora o anche due, e avevano sempre con sé la loro scorta di libri da leggere.
Ma la cosa più importante di tutte là sopra era quando a ciascuno nasceva la voglia di scrivere una lettera. C’era tempo per scegliere bene le cose da dire, le parole più adatte, le riflessioni meglio azzeccate, ma tutte le frasi non dovevano mai perdere l’entusiasmo e il piacere di mettere sulla carta qualcosa che nasceva d’impulso, come parlare, o sorridere di un gesto qualsiasi, o sentirsi felici per una bella serata. Ognuno si chiudeva in se stesso per scrivere, ma l’atto finale arrivava dopo avere già pensato tutte le cose, aver riflettuto su tutti gli argomenti da dire, anche se alla fine non erano certo quelle le attività più importanti.
Era ricevere posta la cosa fondamentale; ritrovare, aprendo la busta di carta recapitata nel porto dove facevano scalo, quel senso di attaccamento al proprio paese, quel riuscire a sapere cosa era accaduto, anche se erano piccoli fatti di nessuna importanza di cui parlava loro qualcuno della famiglia o un amico. Era come non perdere quel filo sottile che li legava alla vita di tutti, piegati in quell’inconfessato senso di sentirsi in esilio, lontani ma sempre vicini, con la testa ingombra perennemente di pensieri e ricordi che li accompagnavano per tutti quei mesi.
Il loro scrivere al confronto era un atto minore, un chiedere per carità un aiuto per superare tutto il viaggio. “Io sbarco”, spesso dicevano tra loro, come se solo sapere che la scelta era facile, a portata di mano, li facesse star meglio. Poi, dopo un breve riposo, ricominciava con regolarità il loro turno, e tutto continuava a procedere, come la scia della nave che biancheggiava dietro di loro, misurando la lontananza da tutto.


Bruno Magnolfi

domenica 13 giugno 2010

La terraferma specchiata sulla nave.

            

            Alla sera la nave petroliera stava ancora lì, quasi sulla linea dell’orizzonte, ferma nel mare, ormeggiata nell’attesa di chissà che cosa. Le luci sul ponte brillavano debolmente, lasciando immaginare qualche marinaio in coperta, con gli avambracci appoggiati sulla paratia, a parlare di donne e a fumarsi una sigaretta nella debole brezza della notte. Vista con quegli occhi, la terraferma era soltanto un profilo scuro e ondulato zeppo di grappoli di luci, sotto alle quali la gente passeggiava, godendosi il fresco e la serata. C’era tutto laggiù, in quella parte di mondo, e dalla distanza del braccio di mare che separava loro dalla terraferma, tutto appariva più semplice, più leggero, colmo di propositi a cui attendere, una volta sbarcati da quella nave puzzolente e oleosa, lentissima quando navigava a pieno carico. Eppure in quella lentezza si erano misurate tante volte le incommensurabili distanze, e così come si arrivava prima o poi ai terminal petroliferi di enormi raffinerie incendiate di apparente progresso e di lavoro, ugualmente per ciascun marinaio dallo stomaco robusto, ci doveva essere un futuro da qualche parte, un progetto giusto quanto un sogno, per chi aveva resistito per stagioni infinite nell’affrontare qualsiasi mareggiata, senza mai troppo scomporsi. Passò la notte, così, con la prua allungata in faccia al vento, e la mattina dopo la nave petroliera aveva salpato, e non c’era più in quell’angolo di mare.


            Bruno Magnolfi

sabato 12 giugno 2010

Sarò regista di teatro, da grande.

           

            Certe volte chiudevo gli occhi, per pochi istanti, come per pensare meglio qualcosa. Tante figurine silenziose iniziavano spesso a muoversi davanti a me, forse incoraggiate da quella penombra crepuscolare. Poi tutto in un attimo tornava ad essere il mondo reale di sempre, bastava un piccolo rumore, un disincanto qualsiasi, ed io bambino correvo a cercare in altri luoghi quei personaggi che affioravano così facilmente da sotto alle palpebre, come in un gioco di strano prestigio,di cui non potevo dar notizia a nessuno.
Certe mattine, nel bagno, lavavo il viso con acqua corrente, e sentivo sotto ai polpastrelli delle mie dita, quegli occhi che riuscivano a scorgere qualcosa che non sapevo neanche io cosa fosse, quello spazio scenico di legno, rialzato rispetto alla quota del pavimento di tutti, e sopra in continuo movimento quelle figurine di persone vestite ora come personaggi del circo, ora come cittadini di un’epoca antica, ora come domestici animali umanizzati, quasi come dentro ad una favola. Mi sentivo ricco di qualcosa che, ne ero sicuro, gli altri  non potevano assolutamente neppure immaginarsi, ed il mio straordinario mondo interiore pareva vivere in perfetta simbiosi con la realtà di ogni giorno.
            Crebbi, e la mia malattia iniziò a manifestarsi sempre più spesso, con attacchi violenti di tosse che qualche volta non lasciavano scampo, lasciandomi senza fiato per giorni ad osservare lo scuotere del capo dei tanti dottori chiamati dai miei genitori. Lottavo, non volevo rinchiudermi nella stanza dei sogni assieme alle mie figurine in movimento perenne, pur con quanto mi attraesse quel mondo, ma fu solo in un giorno qualsiasi che tutto d’improvviso parve cambiare.
Le figurine quella volta restavano ferme sopra quel tavolato, per la prima volta si erano tutte voltate a guardarmi, ed una di loro aveva preso a parlare, con voce bassa, appena percettibile: vieni da noi, aveva detto, è questo tutto ciò che ci aspettiamo da te…; ma io, pur con la grande dolcezza che mi ispiravano quelle parole, non volli ascoltare: aprii gli occhi e decisi che era ora di guarire, se non altro per imparare a destreggiarmi con loro, diventare il direttore, il regista di quelle figurine, colui che avrebbe assegnato a ciascuna di loro una parte vera nello spettacolo, e ne avrebbe diretto le scene; era questo il mio compito, adesso ne era sicuro, tutto il resto poteva attendere.


Bruno Magnolfi

venerdì 11 giugno 2010

Senza una fine vera.

            

            Ho avuto un’amante, qualche anno fa, diceva lui quasi con timidezza. In realtà nessuno dei due era sposato, non avevamo altre relazioni, ci dichiaravamo amanti solo per una voglia di clandestinità che ci aveva preso come in un gioco, e tenevamo un comportamento furtivo, come per difendere chissà quale parte di noi. La nostra relazione era totale, quando non eravamo insieme si continuava a pensare l’uno all’altra come per una fissazione da adolescenti, ci si dava appuntamenti ad ore sempre diverse e in luoghi improbabili; quando esaurimmo tutta la fantasia era l’ora di smettere, fu sufficiente non cercarsi, le nostre vite proseguirono senza sussulti.
Ci eravamo dati nomi di fantasia, Chérie, io la chiamavo, il suo nome vero lo seppi solo più tardi, adesso non lo ricordo neppure. Non ho nostalgia di quel lungo periodo, è solo che tu le assomigli, mi hai osservato in una maniera che mi ha ricordato qualcosa che aveva anche Chérie nel suo sguardo, ma in fondo il nostro cervello fa sempre una scelta di sensazioni con cui paragonare il presente, e forse, pur non volendo, è proprio quello che sto cercando di fare. Per il resto non c’è altro da dire, quando la nostra relazione evaporò per un lungo periodo non sentii affatto il bisogno di averne una nuova, fu come se quel rapporto così denso avesse riempito il tempo in modo maggiore del tempo reale, e che tutto quanto fosse stato sufficiente a coprire anche una porzione consistente del nostro futuro, e del mio forse fino ad adesso.
Non so perché ti ho guardato, perché ho cercato di parlarti, di invitarti al tavolino anonimo di questo caffè, sta di fatto che è il momento per me che qualcosa cambi, è nella natura, lo sento nell’aria, come la prima brezza dolce della primavera in anticipo quando l’inverno è ancora presente. Non potevamo incontrarci ieri o un altro giorno qualsiasi, era questo il momento, ed io ne sono felice. Non so quanto mi sia mai mancata Chérie, non vorrei mai ricercarla in te o in un’altra persona, non avrebbe alcun senso. Di fatto potresti benissimo essere lei, non cambierebbe una virgola di quello che ho visto nel momento in cui ci siamo guardati. Forse ci eravamo notati chissà quante altre volte io e te, ma non ci eravamo mai visti davvero, solo adesso le cose sembra siano favorevoli.
Probabilmente ci sarà ancora bisogno di fantasia, di creare qualcosa che adesso non sappiamo neppure immaginarci, ma sono sicuro che le nostre intuizioni e la sensibilità sapranno guidare ogni passo del nostro cammino, se mai decideremo di intraprenderlo. Per me sarà sufficiente venire a cercarti ancora qui, un giorno che avrò voglia di guardare nuovamente il tuo sguardo, per te basterà attendermi le volte che sentirai ancora la voglia di sapere come finisca questo racconto.


Bruno Magnolfi

giovedì 10 giugno 2010

La meccanica di un gesto qualsiasi.

            

            Generalmente indossava la camicia bianca col bottone del collo slacciato, con sopra una delle sue cravatte sottili, leggermente allentata, dalle sfumature scure, un po’ demodé. Prima di uscire si radeva con calma davanti allo specchio del bagno, concentrato su un’operazione da svolgere con la massima cura, fin nei dettagli, poi indossava uno dei tanti vestiti di cui era pieno il suo armadio. Usciva da casa tra le dieci e le undici, passava all’edicola dei giornali, salutava con un sorriso tutti coloro che lo conoscevano, poi passeggiava sul largo marciapiede del viale alberato, fermandosi a leggere per pochi minuti su qualche panchina. La prima sigaretta del giorno la fumava esattamente in quel momento, sotto al fresco degli alberi, aspirandone poche boccate.
I suoi capelli erano corti, ben pettinati con la riga a sinistra ed un ciuffetto sopra la fronte, la sua faccia era affilata, la carnagione del viso quasi scura, le piccole grinze d’espressione lasciavano immaginare una persona gioviale, simpatica, quasi leggera. Arrivava al caffè quando erano circa le dodici, dava sempre l’impressione di essere uscito da poco dall’ufficio o da una riunione importante, e di permettersi un aperitivo di fretta in quel locale dove conosceva quasi tutti. Scambiava qualche parola scherzosa, si faceva preparare un cocktail leggero, si sedeva ad un tavolino da solo, giusto per rileggere qualche titolo del suo giornale, e commentarlo qualche volta a voce alta, con gli altri presenti.
Normalmente quando usciva da lì andava direttamente in un ristorante che rimaneva vicino casa sua, e senza fretta si faceva servire un solo piatto, un primo o un secondo. Poi rientrava, giusto per farsi un caffè in solitudine nel suo appartamento, mentre si metteva tranquillo su una poltrona dopo aver tolto cravatta e camicia ed avere indossato un abbigliamento più comodo. Il resto della giornata seguiva più o meno lo stesso percorso, e la sua solitudine risultava comunque sempre piena di socialità. Difficile si lasciasse andare a qualcosa di diverso, si comportava così ormai da qualche anno, da quando era morto suo padre, e lui aveva lasciato il lavoro, ereditando alcuni appartamenti affittati che gli permettevano di vivere senza far niente di produttivo.
A volte si era posto il problema di come utilizzare tutto quel tempo libero, ma alla fine le cose più consone alla sua personalità erano quelle, aggiungendo qualche tiro al biliardo in tarda serata, o l’andare alle corse dei cavalli al pomeriggio della domenica. Non amava trattenersi a lungo in un posto o con qualche persona, stava bene solo spostandosi per raggiungere un locale o facendo un semplice gesto di saluto verso uno dei tanti conoscenti, il resto era qualcosa che restava al di fuori di sé, come se lui fosse pienamente cosciente di non riuscire veramente a far parte del mondo, ma soltanto di una piccola parte, quella scelta una volta per tutte, chiamandola vita, ma solo per una astrazione.

            Bruno Magnolfi


            

mercoledì 9 giugno 2010

Le amiche per sempre.

           

            La ragazza quel pomeriggio aveva ciondolato con le amiche per quasi un paio d’ore attorno a  quel chiosco di bibite, nel fresco dei giardinetti di piazza della fontana, ed anche se in certi momenti si era sentita annoiata, ugualmente aveva cercato di rimanere con loro il più a lungo possibile, soprattutto per capire cosa avrebbero deciso di fare le altre per quella serata di sabato. I maschi erano rimasti tutto il tempo a ridere e a fumare per conto loro intorno ad una panchina, e a nessuno era passato per la testa di organizzare qualcosa. Era stato solo quando si erano salutate che una di loro, con lo scooter già in moto, aveva detto a voce alta ad un’altra: “Ci vediamo alle dieci da Remo”, poi era partita in una nuvola di fumo grigiastro. Remo era un altro bar all’aperto del solito circuito dei sabato sera, niente di nuovo, tutto si prospettava come un film già veduto.
Una volta in camera sua, a casa dei suoi genitori, lei aveva impiegato però quasi un’ora per scegliere l’abbigliamento più adatto, qualcosa che la facesse apparire così trasandata da sentirsi a suo agio con le altre ragazze, anche se scegliere gli abbinamenti più adatti non era mai semplicissimo. Lei immaginava sempre che qualcuno dei maschi una volta si staccasse dal gruppo, così, senza preavviso, venisse da lei a chiedere di parlarle o a invitarla sul motorino ad andare da qualche altra parte. Non era un sogno d’amore, solo la voglia di sentirsi diversa. Ma se ci pensava a fondo non era neanche questo ciò che desiderava davvero. Anzi, se ci pensava per bene, non c’era nemmeno qualcosa che volesse di più, le sarebbe stato sufficiente non provare quella specie di noia che quasi sempre la coglieva, anche se spesso fingeva di stare allegra e di divertirsi. Però certe volte pensava che se avesse avuto un ragazzo forse avrebbe potuto scegliere un abbigliamento diverso, forse un po’ più elegante. No, era impossibile. Lei doveva essere esattamente come erano tutte le altre sue amiche, almeno fino a quando continuava a frequentarle, non c’era altro da fare.
Alle nove e trenta uscì di casa con la testa poco convinta di tutto, lasciò le raccomandazioni previste ai suoi genitori con spavalda sicurezza di sé e lasciandosi dietro un gran sorriso, poi si incamminò. Davanti al portone, forse aspettando qualcuno, c’era un suo vicino di casa, un ragazzone della sua età con la faccia sveglia e la testa sempre rapita da qualcosa da fare o di cui interessarsi. Lui la osservò per un attimo, le lanciò un saluto semplice e corretto, poi, come fosse la cosa più naturale del mondo, le chiese in tono di scherzo e semplicemente, senza guardarla: “Ma non sarà il caso di uscire qualche volta io e te, visto che perlomeno abitiamo vicino? Magari si potrebbe scoprire che forse siamo più affini di quello che avremmo mai sospettato”. Lei si soffermò per un attimo, allargò l’espressione in un sorriso leggero e sorpreso, poi volse la testa e si avviò per raggiungere in fretta le sue amiche, allontanando dalla mente qualsiasi altro pensiero: forse le ragazze erano già lì, la stavano aspettando, erano già tutte a quel bar, lo sapeva, non poteva tardare proprio lei.


Bruno Magnolfi

martedì 8 giugno 2010

La magia impensabile.

            

            Niente era stato risolto, pur con tutto l’impegno che lui aveva cercato di metterci, e alla fine si era sentito spossato, senza più alcuna capacità di reagire. I conti erano chiari, il suo piccolo negozio di ferramenta non ce la faceva più a pagare i fornitori di utensili e di materiali, la banca non finanziava un’attività in perdita e lui doveva ormai rassegnarsi, vendere le ultime cose e poi chiudere il suo esercizio. Dopo tutti quegli anni, un fallimento del genere non se lo sarebbe mai immaginato, ma era così, inutile lambiccarsi la testa ulteriormente, doveva solo voltare la pagina e pensare al futuro.
Ormai erano rimasti solo pochi articoli nella sua bottega, e i rari clienti gli lasciavano gran parte di quelle ultime settimane di attività quasi senza far niente. Fu quindi per ingannare un po’ il tempo che tirò fuori un vecchio tavolino di legno che teneva sul retro, e col fatto che gli utensili certo non gli mancavano, iniziò a lavorarci per restaurarlo, sistemandosi per quella attività proprio nello spazio che era sempre stato destinato alla vetrina. Diversi passanti, i più curiosi, si fermarono ad osservare il suo lavoro, gli chiesero qualche notizia, si interessarono di quella sua nuova attività. Uno gli chiese addirittura un preventivo di spesa per sistemare dei vecchi comodini, un altro gli disse che aveva un armadio ormai mezzo sgangherato ma d’epoca. In pochi giorni si ritrovò il negozio ingombro di mobili da risistemare, e pur buttando lì dei prezzi per quei lavori che inventava su due piedi, tutti parevano ben contenti della sua attività, tanto che nel giro di un mese i soldi, quasi per magia, avevano ricominciato a girare.
Lavorare il legno peraltro gli piaceva parecchio, ma la cosa più divertente era il fatto che lo faceva lasciandosi guardare da tutti attraverso la vecchia vetrina. Era un po’ come mettersi in mostra, ma in ogni ora del giorno su quel marciapiede c’era sempre qualcuno che si fermava a guardare, fornendogli così una pubblicità spontanea e gratuita. Le cose in poco tempo migliorarono, lui fece sostituire l’insegna sopra al negozio e fiscalmente cambiò attività, e in pochi mesi tutti i debiti contratti con il vecchio lavoro, quasi come per una magia insperata, furono saldati. 


            Bruno Magnolfi

lunedì 7 giugno 2010

Senza alcuna preoccupazione.

            

            Restavano lì, senza parlare, lasciando trascorrere il tempo come fosse un elemento senza importanza, seduti a quei tavolini di plastica all’aperto, riparati dal sole da due o tre ombrelloni marcati dalla pubblicità dei gelati. Erano soltanto dei vecchi, quasi inservibili, si sedevano al bar e guardavano chiunque passasse lungo la strada, si facevano fare un caffè o versare un’aranciata e rimanevano lì a lungo, ogni giorno per ore, con gli occhi piccoli e i modi lenti, quasi impercettibili. Erano sempre in quattro o in cinque, e a volte parlavano tra loro, ma a voce bassa, con delle bocche sdentate che pronunciavano una parola, due al massimo, poi si chiudevano di nuovo, contornate da rughe che ormai avevano deformato qualsiasi espressione.
Arrivò un giovanotto, in quel pomeriggio lento, chiese se poteva fare qualche fotografia, e loro dissero tutti di si, non ci vedevano niente di male, così il giovanotto tirò fuori da una borsa macchine e cavalletti e iniziò a scattare da tutte le posizioni, senza chiedere a nessuno di spostarsi o di guardare da una parte o dall’altra. Andò avanti in questa maniera quasi un’ora, poi pagò qualcosa da bere a tutti quanti, strinse la mano agli anziani e sorrise loro in modo cortese, augurando buona giornata e ringraziando più volte della loro pazienza.
“Diventeremo famosi”, disse uno di loro per scherzo quando tutto tornò nella totale normalità. “Ormai siamo gli ultimi…”, aggiunse un altro che non toglieva mai il suo cappello. “Gli ultimi a non preoccuparsi di niente”.


Bruno Magnolfi

domenica 6 giugno 2010

Vuoto di vento.

            

            All’improvviso, dopo una giornata afosa, inutile, priva di elementi di un qualche interesse, dalla mia finestra spalancata è sopraggiunta la sera, sotto forma di una brezza fresca, una folata leggera di aria nuova che in un attimo ha ridato vita alle cose. Mi sono girato ad osservare quell’entità impalpabile, a guardare quelle piccole foglie degli alberi che si muovevano svogliate in quell’aria, e sono rimasto rapito, immobile, imbambolato, ma giusto il tempo per convincermi che da quella finestra stava entrando soltanto tutto ciò di cui avevo bisogno.
Poi mi sono alzato dalla sedia, mi sono affacciato alla finestra ed ho guardato il cielo, lontano, là in fondo dove una schiuma di nuvole bianche pareva cercare di disegnare qualcosa, di dar forma ad oggetti impossibili. Apparentemente tutto è legato a minuscole cose, casuali variazioni di tempo e di temperatura, ho pensato: ma non è così, non è come noi vorremmo che fosse; e solo comprendere quei movimenti appena percettibili ci rende chiaro il quadro d’insieme, che è statico, e incredibilmente non cambia, resta inamovibile e fermo, nonostante tutto il nostro immaginarsi sensibili, e non fa alcuna differenza il fatto che resti vigile in noi la incommensurabile capacità di vedere qualcosa anche là dove ristagna soltanto il vuoto e il silenzio. 


Bruno Magnolfi

sabato 5 giugno 2010

Il destino di tanti discorsi.

            

            Pierre, la prima volta che lo fece, si era deciso a parlare a voce alta davanti ad alcune persone solo perché aveva capito che tutti i presenti si stavano formando un’idea diversa dalla realtà. C’erano già stati dei casi in passato in cui lui aveva sentito forte la necessità di spiegare il proprio pensiero, con quella sua bella voce dal timbro basso, e di chiarire con calma quello che sentiva dentro di sè, ma si era ogni volta trattenuto, forse soltanto per una sorta di inconfessata timidezza.
In quell’ occasione invece qualsiasi indugio gli era parso superfluo rispetto alla voglia di dire, e così aveva cercato di spiegare che si doveva stare attenti, che era persino troppo facile cadere nel trabocchetto delle cose facili e superficiali, che bisognava pensare e indagare il più possibile entro se stessi, e comprendere bene quali erano gli elementi importanti di cui tenere più conto, perché sarebbe stato solo con quelli che ognuno avrebbe potuto imparare ad aprire la mente. Non aveva parlato di sé, anzi, se ne era ben guardato dal cadere in una facile retorica, e soprattutto aveva accuratamente evitato il metodo di fornirsi come esempio per gli altri.
Tutti erano rimasti in silenzio, lo avevano a lungo osservato, avevano ascoltato quelle sue frasi, e alla fine erano parsi apprezzare tutto ciò che Pierre aveva detto, mostrando interesse. Così a lui era sembrato importante, addirittura necessario, recarsi spesso in quella piazzetta cittadina, vicino al mercato all’aperto, salire sopra ai primi gradini del monumento alla Patria, e parlare a tutti coloro che si trovavano lì, come se le sue parole portassero luce in un angolo buio. Non c’era niente di male se qualcuno se ne andava, se altri non erano d’accordo, se qualche persona si allontanava di un passo per continuare a parlare con la persona che aveva davanti: Pierre avrebbe spiegato il proprio pensiero anche se non ci fosse stato nessuno, la sua necessità di dire le cose era forte, quasi indifferente rispetto a quanti e a chi lo ascoltava.
E i suoi argomenti erano sempre i medesimi: la difficoltà della vita, la profondità dello spirito umano, la necessità di abbandonare qualsiasi facile logica, perché questa sarebbe stata per i più deleteria. Alcuni avevano iniziato ad attenderlo, al mezzogiorno di qualche mattina, perché avevano imparato che era quello l’orario di Pierre, e così, un po’ per divertirsi e un po’ per pura curiosità, in poco tempo ad ascoltare quei suoi discorsi si era formato già un certo seguito.
Fu una mattina come tutte le altre, alla medesima ora, dopo che Pierre aveva iniziato a parlare nella sua solita maniera, quando tutti si erano già voltati verso di lui per ascoltarlo, che qualcuno, nascosto in mezzo alla folla, lo colpì mortalmente con un colpo di pistola, dileguandosi in pochi minuti. Pierre esalò in pochi istanti il suo ultimo respiro, proprio su quei gradini del monumento alla Patria, e nessuno seppe capire se le cose che aveva detto fino ad allora erano state talmente importanti da giustificare un atto del genere, oppure se la vita di tutti era solo destino, ed il suo semplicemente si era compiuto quel giorno.


            Bruno Magnolfi

venerdì 4 giugno 2010

Il tempo e il geranio.

            

            Sto qui, ad osservare le foglie di uno stupido geranio affogato nella terra di in un vaso, sul davanzale della finestra di fronte alla mia. Lo osservo, e vedo che le foglie iniziano lentamente a impallidire e ad ingiallire giorno dopo giorno, nel sole di questo periodo quasi estivo. Nessuno in quell’appartamento di cui vedo solo quella finestra si ricorda di annaffiarne la terra, e quella pianta continua a rinsecchire nel sole. Io non ci bado, sto qui, osservo ogni giorno le foglie che ingialliscono e seccano, poco per volta, e forse sono contento.
L’agonia del geranio mi pare un ottima e lenta vicenda da seguire e scoprire con calma, gustandone volta per volta tutti gli aspetti. Poi un giorno piove e si bagna anche la pianta e la terra in quel vaso. Il geranio si riprende, tira su le sue foglie che si fanno più scure, si schiude anche un fiore che sembra mi guardi come per lanciarmi una sfida. Non mi piace quanto è accaduto, mi pareva inarrestabile quel lento declino, ma io ho tempo, so che tornerà il sole a picchiare forte sul davanzale e a bruciare le foglie di quella stupida pianta. Resto al mio posto, indifferente, osservo il geranio e so che prima o poi seccherà.


            Bruno Magnolfi

giovedì 3 giugno 2010

Un brindisi doveroso.

            

            Non lo so, diceva spesso il siciliano, ci devo pensare. Poi si metteva lì e tutto quello che gli era stato chiesto cercava sempre di farlo. Era piccolo di statura, ma soprattutto era magro, talmente secco che alla sua cintura dei pantaloni doveva sempre fare qualche buco nuovo perché quelli del fabbricante non erano mai sufficienti. L’altro, il suo collega, era invece più grosso e più alto, tanto che quando si trovava insieme col siciliano sembrava quasi un gigante, anche se alla fine la sua statura era appena superiore al normale.
Lavoravano insieme, montavano gli impianti elettrici per una piccola impresa edile, ma soprattutto erano amici, in genere parlavano poco con tutti, ma tra loro si trovavano quasi sempre d’accordo, soprattutto quando c’era da discutere qualcosa col loro geometra, un ragazzone giovane dai modi impacciati; era in quei momenti soprattutto che si sentivano forti, pronti a difendere il proprio operato e il loro lavoro.
Il collega del siciliano quel giorno però aveva detto senza mezze parole che non era contento di salire fino lassù per quell’allacciamento di cavi su quel cestello meccanico, gli faceva paura l’altezza, secondo lui si poteva cercare una soluzione diversa. Nessuno tra gli operai del cantiere si era intromesso in quelle scelte, ognuno badava alle sue cose e a conservare la paga. Il geometra era parso nervoso, non voleva spendere soldi per un ponteggio, aveva deciso che si poteva fare così ed era convinto che in qualche maniera avrebbero fatto come lui aveva detto. Poi il siciliano, dopo averci a lungo pensato mentre continuava a fare il proprio lavoro, quasi senza preoccuparsi di niente e nessuno, aveva detto a voce bassa che andava bene, sarebbe salito lui a sistemare quei cavi.
Fu fatto arrivare il cestello, si mise la persona più pratica a terra per manovrarlo, e al momento di salire all’interno il collega del siciliano disse che sarebbe salito anche lui, a dare una mano. Si trattava di estendere al massimo il braccio meccanico, con tutta la calma e la prudenza possibili naturalmente, e tramite operazioni speciali riuscire a raggiungere quel punto difficile, vicino all’alta tensione, dove allacciare quei cavi. Tutto il cantiere si era fermato, gli operai si erano scelti un punto favorevole di osservazione, nessuno parlava tanto pareva rischioso quello che stava accadendo. Le cose andavano avanti per un tempo maggiore di quello che era stato previsto, il cestello oscillava nel sole, proprio accanto a quei cavi neri dell’alta tensione, tutto si svolgeva in un modo che metteva paura.
Infine il siciliano fece un semplice gesto: tutto era a posto, il braccio meccanico venne recuperato e i due elettricisti tornarono con i piedi per terra. Il geometra andò subito da loro per congratularsi, ma cercando di fare lo spiritoso disse in modo sgarbato che non ci sarebbe stato bisogno di fare tanto i difficili per un lavoretto da niente. Il siciliano lo guardò solo per un attimo in mezzo agli altri operai, gli andò appena più vicino come per dire qualcosa, e con un modo che può solo avere un padre che cerca di dare una lezione a suo figlio, nonostante la sua statura inferiore, gli assestò uno schiaffo formidabile sopra la faccia. Gli operai applaudirono, il suo collega lo abbracciò mostrando che lo avrebbe sempre difeso se ce ne fosse stato bisogno, e spontaneamente tutti smisero di lavorare per andarsene in un bar poco lontano a bere alla salute di tutti i cantieri, congratulandosi con lui e facendo mettere in conto quella bevuta al loro geometra.


            Bruno Magnolfi