mercoledì 31 ottobre 2012

Navigazione serena.


            

            In questo reparto adesso c’è silenzio. Non è tardi, ma hanno già smorzato le luci, e si riesce soltanto ad avvertire ogni tanto qualche lontano colpo di tosse, ed un ronzio sottile, proveniente chissà da dove. Mi rivolto nelle lenzuola bianche del mio letto, cerco soltanto una posizione comoda e rannicchiata, immaginando questo alto edificio, visto da fuori le vetrate, come una grande nave che manovra lentamente, dentro alla notte insidiosa della città, in mezzo ai problemi e alle preoccupazioni di sempre, che tengono sicuramente svegli molti dei suoi abitanti.
            Scorre il fiume, laggiù, da qualche parte, con la sua costante portata d’acqua, proprio come questa flebo accanto a me, che prosegue a stillare una goccia dopo l’altra, lentamente. Se penso al giorno che deve ancora sorgere, mi sembra così lontano da riuscire a definirlo già un punto d’arrivo, quasi un traguardo, non perché le mie condizioni siano così compromesse da farmelo pensare, quanto perché tutto stasera pare scivolare in un tempo surreale e rallentato, quasi immobile.
            Cerco di pensare qualche cosa che mi porti lontano da questo luogo, ma riesco solo a immaginarmi le molte espressioni di tutta questa gente che viene custodita qui, insieme a me, proprio dentro questo edificio tecnico, che si muove quasi impercettibilmente insieme a tutto l’enorme palazzo di vetro e di cemento che costituisce la nostra provvisoria residenza. Tutti qui avrebbero probabilmente bisogno di sentirsi fuori dagli schemi, capaci di qualcosa che non osano neppure sognare, ma magari sono solo io che mi sbaglio: forse quegli stessi intorno a me stanno pensando la medesima cosa di cui anche io provo una voglia irresistibile.
            Insieme probabilmente potremo girare per tutta la città, poi magari fare rotta persino verso il quartiere dove abito, quel groviglio di strade che frequento da così tanti anni da riconoscerne ogni angolo persino ad occhi chiusi. Probabilmente sono soltanto troppo ottimista, ma potremo magari transitare proprio lungo la via dove sta il mio condominio, con il piccolo appartamento al terzo piano dove sono racchiuse praticamente tutte le mie cose. Ci penso meglio, con maggiore pacatezza, e ad un tratto mi sembra che quello che ho riflettuto appena adesso non sia del tutto vero: sono qui le mie cose, penso, insieme a me; non ho bisogno di nient’altro che di quello che ho qui, in mezzo a queste semplici lenzuola.
            Forse sarebbe addirittura possibile, se rimango sveglio e attento in questa notte così particolare, affacciarmi a questa larga finestra nel momento giusto, salutare con la mano i miei vicini di casa, tutte le persone che mi conoscono e che forse si sono accalcate sopra al marciapiede per assistere a questo evento così particolare. Il transatlantico su cui stiamo viaggiando potrebbe addirittura lasciarmi sbirciare molti dei luoghi a cui sono legato: il giardinetto dove spesso mi reco, il negozio dove vado per gli acquisti, l’albero sulla cui corteccia tanti anni fa incisi con leggerezza il nome di lei. Se faccio attenzione, potrei addirittura vederli passare proprio qui davanti, non come una visione nostalgica, o peggio per provocare in me quella commozione che sicuramente potrebbero scatenare, ma soltanto per una sorta di omaggio a ciò che conosco e che fa parte di me, quasi un elenco delle cose a cui tengo, niente di particolarmente diverso.
            Poi potremmo partire, allontanarci davvero da tutto questo, viaggiare durante ore buie ed inutili per andare ad avvicinarci poco per volta a mete sconosciute, a luoghi mai visti, pur rimanendo immersi in questo silenzio crepuscolare dei corridoi così terribilmente asettici. La nave procede, i motori girano al minimo, e noi tutti insieme solchiamo le acque più inesplorate, immersi quasi in un dormiveglia febbricitante che ci farà sentire sicuramente diversi al ritorno, quasi delle altre persone nei primi momenti, fino a quando però dovremo accorgerci per forza che siamo soltanto rimasti per tutta la notte in un qualsiasi letto di ospedale.

            Bruno Magnolfi         

lunedì 29 ottobre 2012

Pomeriggio ordinario.


            

            Eleonora lo osserva con un leggero sorriso; lui adesso è tranquillo, e lei si sente come rassicurata dall’umore nuovo che come sempre si è manifestato in lui dopo una pillola calmante ed il tè bevuto caldo e a piccoli sorsi. In fondo, secondo il suo parere, sta tutto lì il segreto per riuscire a tirare ancora avanti in qualche maniera, pensa con rassegnazione mentre gli sistema un cuscino sotto la testa. E’ testardo, lo sa, ed è del tutto inutile cercare di fargli comprendere delle motivazioni diverse da quelle che si è già formato nella sua mente.
            Lui sa di avere la possibilità di farsi scusare per aver alzato un po’ troppo la voce durante il loro pranzo, anche se è ancora convinto di avere avuto ogni ragione per comportarsi in quel modo. Adesso si assopirà per un’oretta sopra al divano, come sempre succede nei giorni in cui non ha da lavorare, poi le dirà con una certa dolcezza che si sente già meglio, e così probabilmente potrà chiederle di fare assieme, per esempio, una tranquilla passeggiata, a conclusione di quel pomeriggio. In fondo lei è la persona più comprensiva che lui conosca, pensa ancora con gli occhi già chiusi: saprà sicuramente scusarlo per essersi comportato in quella solita odiosa maniera.
            Eleonora in giorni del genere si accontenta di starsene di là in solitudine, se lui si assopisce, a pensare alle proprie cose e ad occuparsi di qualche piccola faccenda domestica. A lei piace rimanere da sola, e certe volte le pare quasi impossibile riuscire ad avere ancora una relazione vera con lui, se non fosse che giorni come questo lei li lascia sempre scorrere senza opporre alcuna resistenza, e quando invece lui, come capita spesso anche per molti giorni di seguito, si assenta per il suo lavoro, ecco che per Eleonora quelle lunghe pause diventano semplicemente la maniera più adatta a rigenerarsi.
            Lui prende fuoco su argomenti qualche volta anche stupidi, probabilmente per una sciocca gelosia repressa che coltiva da sempre, e allora Eleonora lo lascia dire tutto ciò che gli va, e lui si sfoga, senza quasi badare a ciò che riesce a tirare fuori dalla sua bocca: si intuisce come certe volte stia solo cercando la maniera per dirle anche altre cose che cova dentro di sé, cose più intime e ben più profonde, ma lei si limita ad ascoltarlo senza ribattere niente, lasciandolo in poco tempo quasi senza ulteriori argomenti. Certe volte lei pensa addirittura che lui abbia ragione su molte cose che dice, ma crede non avrebbe alcun senso manifestargli apprezzamento su cose del genere, così si trincera in un atteggiamento neutrale, frenandosi fino solo ad ascoltarlo, e basta.
            Eleonora qualche volta avrebbe anche voglia di parlare di loro due con qualcuno, spiegare la situazione che si è generata, ma normalmente si limita sempre a dire a tutte le persone che frequenta le cose più evidenti e scontate, e che tutto va bene, ogni cosa è sotto controllo, che tra di loro non ci sono mai problemi di nessun genere. Non sa per quale motivo si comporti così, ma sente di dover difendere qualcosa di importante in questa maniera, di proteggere un equilibrio raggiunto poco per volta, ed il resto di tutto quanto le pare soltanto formato da elementi di ben poco conto.
            Lui pensa che non potrebbe mai fare a meno della sua Eleonora, ma non le sa dire quanto lei sia importante per lui: certe volte alza la voce soltanto per amore, per dimostrarle che dietro a quelle sciocchezze per cui spesso si agita c’è soltanto tutta la sua voglia di stare con lei, anche nei giorni in cui, causa il lavoro, non gli è possibile, e di spiegarle però quanto lui si senta innamorato di lei. Poi apre gli occhi, sente la presenza di lei, si solleva da quel divano, la raggiunge di là: lei gli sorride, e lui pensa per un attimo di essere l’uomo più felice del mondo, così Eleonora si volta per preparargli un caffè e camuffare un’espressione di amarezza che non può proprio fargli vedere. E che lui probabilmente non s’immaginerà mai.

            Bruno Magnolfi

giovedì 25 ottobre 2012

Il mio manichino (ritratto n. 11).


            
            Cammino per strada, nella tarda serata. Ad un tratto vedo un uomo fermo a pochi metri da me. Mi osserva come stesse in attesa, quasi pronto a scattare. Non posso lasciargli credere che ho paura di lui, però siamo soli lungo quel tratto di strada, ed i lampioni illuminano a malapena la scena. Penso come sempre che non ho niente da perdere, ma non è facile procedere come se tutto fosse normale, come se il naturale andamento delle cose non prevedesse un inciampo di fronte a sé.
            Mi fermo, accendo una sigaretta e prendo tempo. Nell’atto di frugarmi dentro alla tasca, avverto qualcosa che non avevo considerato: un piccolo temperino che porto sempre con me. Vado avanti, ma torno a fermarmi di nuovo. Mi volto all’indietro, non c’è nessuno; potrei tornare verso casa, penso, oppure attraversare la strada, andarmene per i fatti miei. Sento sotto la giacca la tensione che sale, non so se ho paura, forse vorrei soltanto aver già affrontato quell’uomo ed essermi tolto quel peso.
            Dico qualcosa tra me, due o tre parole senza alcun significato, poi lascio nell’aria un silenzio di due o tre secondi, e infine mi lascio andare in una sonora risata. Intanto con la mano dentro la tasca apro il mio temperino: mi sento pronto, posso ancora ridere, penso, non ho paura di nulla. Mi fermo, osservo le dita che sostengono la mia sigaretta, poi aspiro una profonda boccata di fumo. Mi viene da tossire, ma resisto. Faccio ancora un passo in avanti, scruto qualcosa oltre la figura maschile di fronte a me, ma è soltanto uno scuro cespuglio che sembra assorbire luce e rumore.
            Penso che tutto abbia uno scopo; rifletto che ci saranno altre serate simili a questa, potrò ancora camminare lungo la strada, non c’è niente di male nel farsi una passeggiata. Cerco di oggettivare la situazione, e tutto mi appare ridicolo, come se quanto sta per succedere fosse al di sopra di me, oltre questa pochezza di cose da mandare avanti ogni giorno. Ho ancora voglia di ridere, ma mi trattengo. Mi avvicino ancora di poco, l’aria sembra più densa, così immagino che gli eventi ormai siano al culmine del loro verificarsi.
            Torno a fermarmi, mi volto, sento di avere paura. Chi mi attende nasconde qualcosa, qualcosa di me, ha già dentro le mani un elemento che forse mi appartiene, anche se non so cosa sia. Devo fuggire, penso, allontanarmi in fretta da tutto, ritrovare ciò che ero prima di questo momento, azzerare tutte le cose, convincermi che nulla è mai accaduto. Mi cade la sigaretta sul marciapiede, mi fermo di nuovo, ho l’affanno. L’oscura figura che staglia il suo profilo nel buio è immobile, non tradisce alcun sentimento.
            Scappare, penso, non posso far altro, anche se è tardi, il mio temperino è inservibile, la mia razionalità forse non aiuta nessuno, tantomeno il mio corpo che avanza come un automa. Mi fermo a tre o quattro metri, apro la bocca per una risata nervosa, guardo quell’uomo e mi lascio guardare, ormai non c’è più niente da poter portare al sicuro, tutto è di fronte allo specchio, tutto è coinvolto in una mimica sospesa nel tempo. Osservo meglio la faccia dell’uomo: è un manichino di polistirolo sul suo piedistallo, abbandonato lì forse solo per fare uno scherzo.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 24 ottobre 2012

Giganti nell'ombra.


            
            Resto immobile in preda alla paura. Non so neppure cosa sia che continua a terrorizzarmi, forse soltanto l’incapacità a comprendere: immaginarmi le forme che si profilano nel buio, l’impossibilità a raccogliere persino le più minute informazioni su ciò che potrà avvenire nei prossimi momenti.
            E’ come se la realtà si piegasse ad una logica senza significato, oppure come se io fossi del tutto inadatto a comprenderla. Fingo di prendere la giacca per uscire, ma so che resterò dentro al mio appartamento, ne ho piena coscienza, anche se l’incertezza mi prende, mi lascia continuamente sull’orlo delle decisioni, sempre in bilico tra il presente e ciò che potrà essere tra poco.
            Mi siedo, muovo la seggiola per sentirne il rumore sopra al pavimento, per tentare un’azione che produca una scia positiva, ma riesco soltanto a provare un brivido ulteriore dato dall’inutilità evidente di qualsiasi gesto io possa compiere.
            Gli uomini della città mi appaiono giganti, capaci di decisioni perfette, prese senza indugi e con lucidità durante la loro splendida giornata.

            Bruno Magnolfi

martedì 23 ottobre 2012

Dialogo n.6. Conoscenza superficiale.


           

            Il mondo, fuori dal finestrino del vagone ferroviario di seconda classe, appare a quell’ora quasi sempre il medesimo, con quel paesaggio monotono che scorre là fuori, composto dallo stesso susseguirsi di campi coltivati, di case e di qualche boschetto, ai piedi di alcune colline basse. La signorina Ester, anche quel giorno, seduta come sempre accanto al vetro, prosegue nella lettura svogliata di qualche riga di un libro che porta sempre con sé, attività a cui in genere si dedica per tutto il viaggio, come se per lei non ci fosse nient’altro di meglio da fare per riempire quel tempo noioso. Poi però, quel giorno qualsiasi, richiude il suo piccolo volume, ed osserva qualcosa correre via in un punto non precisato, fuori dal finestrino ben chiuso.
            Lei, quando è possibile, si siede sempre in uno scompartimento vuoto di gente, in modo da fare quel breve quotidiano viaggio da sola, senza nessuno con cui dover scambiare qualche parola forzata, perché gli argomenti sono sempre i medesimi, il tempo, il paesaggio, il rispetto degli orari da parte del treno, e lei dopo tutti quegli anni trascorsi come uno dei tanti pendolari, è ormai stufa di quel tipo di conversazione.
            Il ragazzo che si è seduto di fronte a lei, però, le ha sorriso semplicemente, senza dire alcuna parola; ha sistemato il suo voluminoso zainetto sopra al sedile, ha come riflettuto qualcosa, immerso per un attimo nei suoi pensieri, poi si è preoccupato soltanto di alcuni fogli che ha tirato fuori da una cartella. Ed infine ha segnato qualcosa con una matita sulle sue carte, come fosse un appunto a margine di tante altre cose, forse di altri appunti, di altre riflessioni ulteriori.
            Poi, dopo un attimo in cui casualmente si sono guardati, lui ha chiesto con una certa dolcezza, rivolgendosi alla signorina Ester, se lei fosse sposata, ma lo ha fatto in un modo tale che la signorina Ester non si è sentita di rispondergli, usando un modo secco come forse meritava una domanda del genere, che quelli non erano fatti che lo riguardassero. Così lo ha osservato, e si è limitata a sorridergli, come colta da una sorpresa qualsiasi, forse poco importante, per poi subito dire, ma abbassando la testa, quasi con una certa vergogna: no, non lo sono. Naturalmente ha subito aggiunto: perché me lo chiede?; ma il ragazzo ha fatto un piccolo gesto con una mano, ed ha lasciato cadere quella domanda, come fosse poco influente in ciò che aveva dentro la testa, anche se dopo un attimo è tornato a guardarla, come volesse chiederle ancora qualcosa.
            Mi piacerebbe sapere tutto di lei, ha detto come parlasse a se stesso; ma soltanto perché sono curioso, mi piacciono le persone, mi sembra sempre che ogni espressione di una faccia, o di un modo di dire, nasconda tutto un mondo particolare, ricco di elementi importanti, da cui è doveroso imparare tutto ciò che è possibile. E’ quel mondo che a me piace oltremodo, da cui sono attratto, fino a spingermi certe volte a fare domande a sproposito, verso persone che non ho neppure mai visto prima, proprio come adesso. Mi scusi, perciò.
            La signorina Ester lo ha guardato con divertita attenzione, ci ha pensato su un attimo: tra loro due ci saranno vent’anni di differenza, ne è consapevole, e così alla fine si è sentita di dirgli: allora mi chieda tutto quello che desidera sapere, non ci sarà mai un’occasione migliore di questa. Probabilmente non ci vedremo mai più, e lei non può proprio lasciarsi sfuggire questa ghiotta opportunità, un momento in cui una persona ordinaria come mi sento io in questo momento, prova la voglia impellente di rivelare tutto di sé, qualsiasi cosa che ad un qualsiasi estraneo possa minimamente incuriosire. Avanti, conclude, che cosa vuole sapere?, da dove vuol cominciare?
            Il ragazzo appare spiazzato, non si aspettava quella reazione, così balbetta qualcosa, poi infine chiede soltanto se lei prende spesso quel treno. La signorina Ester sorride, poi inizia a ridere sempre più forte, e alla fine gli dice: quello che lei vorrebbe sapere davvero non è cosa che si può chiedere; si può soltanto dedurre, immaginare, farne delle supposizioni, tutto ciò soltanto sulla base di alcuni sciocchi elementi che possiamo notare o scambiarci inconsapevolmente. E’ su quello che lei deve far forza, è questa la sua vera materia, questo ciò da cui deve sentirsi interessato davvero, perché sarà soltanto in questa maniera che la sua curiosità riuscirà davvero ad appagarsi.

            Bruno Magnolfi

domenica 21 ottobre 2012

Percorsi da evitare.


          

            Da casa mia a quella della Letizia, la mia compagna di banco e amica di sempre, non ci vogliono più di due o tre minuti camminando con un’andatura normale. La mamma mi dice sempre di tirare diritto e di non attraversare la strada per nessuna ragione quando vado da lei, ed io, che sono sempre stata obbediente, faccio esattamente così, limitandomi a percorrere il marciapiede e a voltare al primo angolo a destra e poi ancora a destra all’incrocio con la prima via che si trova, senza badare a nient’altro.
            Però, lungo quella pavimentazione che costeggia la strada, sto sempre ben attenta a non mettere mai le suole delle scarpe sulle connessioni tra una pietra e quell’altra, e naturalmente cerco di non sfiorare nemmeno, per nessuna ragione, i cordoli del marciapiede. Poi ho messo a punto anche altri comportamenti, come quello di mettere avanti il piede sinistro più volte del destro, operando ogni tanto un saltello che riesce a farmi recuperare qualche passaggio. E naturalmente non evito neanche di contare i passi totali che servono per arrivare fino alla casa di Letizia, ed il fatto curioso è che ne impiego sempre qualcuno di meno di quando ritorno indietro, come se in questo caso la mia falcata fosse più corta.
            Mi piace andare dalla mia amica, anche se quando sono da lei mi stufo in fretta dei suoi soliti argomenti, del suo guardare costantemente la televisione, del suo non parlar d’altro che dei capelli e dei suoi vestiti, di come si presenterà a scuola il giorno seguente, e dei personaggi che vede durante gli sceneggiati: la lascio dire, a me non interessa un bel niente di quegli argomenti, però so che ho davanti quattrocentotrentasei passi prima di giungere alla mia casa, e che quando sarò lungo quel breve tratto dove alcune pietre sono rossastre, dovrò saltellare su un piede per evitare di calpestarle. Certe volte, quando ritorno, giro esternamente, con grande attenzione, intorno ai pali che sostengono i lampioni stradali, ma a dire la verità questo comportamento lo tengo soltanto in certe occasioni.
            Ho provato a fare un disegno del mio percorso: poi mi sono cimentata nel descrivere tutti i particolari che adotto, dando a ciascuno un semplice numero di riferimento. Infine ho introdotto in tutto questo delle varianti che sono applicabili in funzione del giorno della settimana e dell’ora in cui esco da casa. Ne è venuto fuori un guazzabuglio di fatti e di dati che in seguito ho cercato di semplificare, dando a tutto quanto dei riferimenti che fossero maggiormente evidenti, come ad esempio un colore per ogni funzione. Alla fine ho cominciato anche ad inserire delle varianti a seconda del tipo di saluto che fa la mia mamma quando esco da casa, e di quello della Letizia quando arrivo da lei.
            Sopra un quaderno ho iniziato ad elencare ogni dato che riesco a dedurre dal mio comportamento durante quel solito tratto di strada, e alla fine ho deciso di descrivere con poche parole ogni emozione che riesco a provare a seconda delle varianti che riescono a manifestarsi mentre cammino. Mia mamma ieri ha trovato il quaderno, lo ha sfogliato, e infine lo ha portato a far vedere alla mia insegnante di matematica. Ne devono aver parlato piuttosto a lungo, anche col direttore secondo me, e alla fine mi hanno chiamato per dirmi senza mezzi termini che devo smetterla di andare a piedi a casa di Letizia, perché questo non è senz’altro qualcosa che faccia bene alla mia crescita. Naturalmente ho risposto subito che per me andava benissimo.

            Bruno Magnolfi

giovedì 18 ottobre 2012

Quasi un pensiero completo (ritratto n. 10).


          

            Cesarino tirava tardi, come sempre faceva quando passava da lì, appoggiato al bancone del bar con l’immancabile sigaretta, mentre mio padre proseguiva ad ascoltare divertito i suoi ragionamenti leggermente strampalati, e soprattutto a sistemare tazzine e bicchieri, preparando tutto quanto sarebbe servito per la nuova giornata di lavoro, la serranda del locale mezza abbassata, le sedie sui tavoli, quasi a chiarire a chiunque fosse passato da lì che il bar era chiuso, e che era permesso soltanto a qualche vecchio cliente di entrare ed acquistare un pacchetto di sigarette, o al massimo farsi una bevuta veloce.
            Io a quell’ora in genere tiravo lo straccio sul pavimento, nonostante la mia giovane età, e d’altronde non avevo avuto alcuna voglia di continuare a studiare; ma in ogni caso, quando si fermava con noi, lo guardavo sempre con grande curiosità, quell’ultimo cliente del giorno, anche soltanto con la coda dell’occhio, perché mi pareva il più stravagante di tutti, un uomo che si vedeva solo ogni tanto da queste parti, e che sembrava avesse la necessità, almeno in quelle serate, di trovare qualcuno che stesse ad ascoltare le cose che aveva da dire, storie balzane generalmente, durante le quali non entrava mai troppo dentro ai dettagli, lasciando i discorsi un po’ in aria, quasi per il gusto di tenere tutto in sospeso, o solo parzialmente spiegato.
            In genere Cesarino parlava di sé, di ciò che faceva o di quel che pensava degli altri, persone che sembrava conoscere soltanto lui; ma a volte, parlando di qualcuno, pareva quasi cercasse di darci una descrizione di sé, girando con le parole attorno ad un personaggio sfuggente, ma che in fondo neppure gli assomigliava, quasi che il suo tentativo fosse quello di far coincidere la sua persona con un’idea di se stesso appena abbozzata, che in qualche modo sembrava girargli in modo ossessivo dentro la testa. Anche seguendo con attenzione ciò che aveva da dire, era inutile perfino proporgli delle domande: normalmente neppure rispondeva; si limitava a storpiare la bocca in un mezzo sorriso, fare una pausa per bere un piccolissimo sorso dall’immancabile bicchierino del suo brandy preferito, che in genere riusciva a farsi bastare per tutta un’intera serata, e poi riprendeva a parlare esattamente da dove si era interrotto, come se niente potesse distogliere il suo tentativo di spiegare ciò che davvero aveva dentro la mente.
            Mi piaceva quel suo modo di fare: mi pareva quello di una persona rimasta come in sospeso tra una solitudine estremamente opprimente, seppure tollerata in qualche maniera, ed una socialità conflittuale con la quale tentava di contrastare la sua natura da animale notturno, a suo agio soltanto quando le persone in circolazione diventavano poche. Adesso non riesco a ricordare neppure come fosse il suo modo di vestire, tanto quel dato appariva poco influente nella sua personalità. Ciò che subito ricordavi di lui era la faccia: l’espressione di chi cerca di ridere non riuscendoci mai, di chi parla non prendendosi neppure una volta sul serio, di chi sa che la serata è finita, ma non riesce a convincersene ancora, e pur di rinviare questa consapevolezza è pronto ad affrontare l’umido delle strade di notte, e l’odore di disinfettante nei locali in chiusura.
            L’ultima volta che lo vidi, Cesarino, come lo chiamavano tutti anche se forse non era neppure questo il suo vero nome, mi guardò fisso, cercando come di comprendere cosa stessi pensando. Poi mi indicò qualcosa per terra mentre stavo spazzando il pavimento del bar, forse una cicca, o un pezzetto di carta, non so. E’ importante far le cose per bene, mi disse. Ti sentirai sempre una persona migliore, subito dopo. Poi uscì dal locale.

            Bruno Magnolfi

lunedì 15 ottobre 2012

(Profilo n. 22). Qualcosa di superfluo.


            
            Per lungo tempo quel braccio aveva proseguito col fargli male: un dolore sottile, costante, sopportabile, ma sempre presente. Poi aveva smesso, all’improvviso, ma lui sapeva, per qualche motivo inspiegabile, che era soltanto una tregua momentanea, e che tutto sarebbe ripreso, esattamente come durante il periodo precedente. Il medico gli aveva detto che era tutto sotto controllo, dopo pochi giorni avrebbe potuto aver chiari e completi i risultati delle sue analisi, e quando lui aveva chiesto quando sarebbe terminata del tutto quella specie di tortura, in considerazione anche della debole terapia a cui si era sottoposto, il dottore aveva risposto sorridendo: nella vita ci vuole sempre una certa dose di buona pazienza.
            Così, in quel preciso momento, lui aveva deciso sia di non tornare mai più a farsi visitare dal medico, che di interrompere tutte le cure che quello gli aveva prescritto: ormai gli pareva una cosa assolutamente inutile, e visto che avrebbe dovuto contare, come diceva peraltro il dottore, soltanto su se stesso e sulla sua tolleranza, sarebbe stato del tutto superfluo cercare l’appoggio e il sostegno di altri. Osservò a lungo il suo braccio, cercò in quei pochi giorni di tenerlo a riposo, e di affidarlo ad una fascia appesa al suo collo, solo massaggiandolo ogni sera delicatamente con l’altra mano.
            Il ritorno improvviso del dolore, però, avvenne durante la notte, come uno scoppio improvviso, quasi come se qualcuno, con una calma da sadico, si fosse predisposto a tagliargli le ossa del braccio all’altezza del gomito, usando peraltro una sega poco affilata. Prese un semplice antidolorifico, poi un altro, e alla fine il dolore si acquietò parzialmente, tornando ad essere, più o meno, quel male sottile e costante che andava avanti imperterrito da quasi due mesi.
            Lui cercò di manifestare, sia nei propri confronti, che rispetto alla vita ordinaria, un’indifferenza ostinata e continua nei confronti di quel dolore. Tanto da convincersi, con uno sforzo neppure troppo intenso, che quel braccio non gli stava procurando più alcuna noia, e che probabilmente non lo avrebbe infastidito neppure in futuro. Lasciava la mano riposta dentro la tasca, come avesse un arto di legno, incapace persino di muoversi, e si recava nei luoghi osteggiando una grande naturalezza, parlando con le persone come sempre aveva fatto, ed evitando in assoluto di usare quel braccio, comportandosi cioè in modo da eludere qualsiasi spiegazione sui suoi modi di fare e sui motivi che aveva per agire così.
            Provava continuamente quella leggera fitta nel braccio che sembrava non volerlo mai abbandonare, ma lui si stava così bene abituando a quei modi di fare, che alla fine non ci faceva più neppure un gran caso. Infine arrivarono i risultati delle analisi che gli aveva fatto fare il suo medico: questi gli telefonò con urgenza, e la sera stessa lo fece ricoverare dentro una clinica dove quell’arto venne immediatamente amputato.
            Non fu un grande trauma: lui in qualche modo si era forse già abituato all’idea, ed in fondo aveva ben fatto una certa pratica di comportamento. Così, dopo pochi giorni di degenza, tornato a casa, tutto gli parve riprendere un andamento che già conosceva. C’era soltanto una differenza, della quale assolutamente sentiva adesso tutta l’enorme importanza: non provava più alcun dolore, era libero da quel male sottile, e questo adesso non era certo un elemento di cui non tener conto.

            Bruno Magnolfi



domenica 14 ottobre 2012

Andarsene via (ritratto n. 9).



C’è una siepe piuttosto fitta che corre a fianco del muro di cinta, e sopra al muro di cinta c’è una ringhiera di ferro piuttosto alta, e sulla cima le punte. Percorro mentalmente il giardino senza farmi vedere, devo avere anche un po’ di fortuna, scegliere il momento più adatto e sperare che nessuno volti lo sguardo dalla mia parte. In un punto dove le piante sono più rade riesco sicuramente ad oltrepassare la siepe, poi piazzo un piede sopra al muretto, mi tiro su con le mani, sulla ringhiera, infilo un piede in mezzo alle punte, scavalco alla meglio il recinto facendo attenzione a non imbrogliare i vestiti, e mi lascio andare di là, nel mondo libero.
C’è un viale che costeggia la parte sul retro di questo edificio, non so per dove porti, non lo ricordo, i miei pensieri spesso sono confusi, però con un certo impegno potrei percorrerlo tutto di corsa, o almeno con il mio passo svelto, e ritrovarmi da qualche parte, che so, ad un incrocio, o su una piazza magari, in un luogo qualsiasi dove qualcuno possa darmi una mano.
Ci penso ogni giorno a questo progetto, certe volte anche a lungo, fino a trovare soluzioni perfette che purtroppo dimentico in fretta, ma dopo tutto questo tempo che ho dedicato alla mia idea, so per certo che quando deciderò finalmente di metterla in atto, niente potrà andare storto. Questa casa non permette un’altra via per uscire, il cancello principale si chiude con un automatismo la cui chiave è custodita dai miei parenti, e tutto il giardino è interamente chiuso con la recinzione. Non sopporto nessuno della gente che abita in questa casa, compresa la servitù: tutti loro dicono che non potrei stare meglio che qui, ma io non ci credo: è la libertà che mi manca, la possibilità di fare quello che voglio.
Avevo pensato di calarmi da un albero, pochi giorni più addietro, ma è troppo difficile, e poi avrei bisogno di una corda ben lunga, saper fare i nodi, e dovrei avere una forza nelle mie mani che invece non ho. Sono sicuro che qui mi avvelenano, giorno per giorno; mettono qualcosa nel cibo: calmanti, sonniferi, medicinali di qualsiasi genere, composti chimici che riescono a tenermi pacato, tranquillo, quasi privo di qualsiasi volontà. Per questo mangio pochissimo, per evitare i loro veleni. Mi alzo da tavola, vado nel bagno e sputo i pochi bocconi che ho messo in bocca. Ma devo stare attento, loro mi tengono sotto controllo, sono convinto che potrebbero giungere al punto di farmi qualche iniezione per farmi dormire, evitando così di preoccuparsi ulteriormente di me.
Io giro per casa e in giardino per tutto il giorno, cerco sempre una soluzione migliore per aggiornare il mio piano; fingo di leggere qualcosa, o di preoccuparmi di qualche pianta che mette le foglie oppure fa i fiori. Ma non è questo che mi interessa. Ho bisogno di andarmene, respirare un’aria diversa, vedere cosa c’è in fondo al viale, parlare con qualcuno che possa aiutarmi, comprendere la mia situazione, portarmi con sé in un luogo migliore di questo. Perché ce ne sono moltissimi di posti migliori di questo, ne sono convinto, e devo andare a vederli, scoprirli, meravigliarmi di come son fatti, perché questa è la vita, nient’altro.

Bruno Magnolfi

venerdì 12 ottobre 2012

Dialogo n. 5. Punti di vista.


            E’ già in ritardo, dico con convinzione alla signora accanto a me mentre ambedue continuiamo a stazionare sulla panchina presso la fermata del bus cittadino. Lei annuisce, io osservo la strada nell’attesa di veder arrivare quel mezzo pubblico. Sto fermo, impassibile: devo restare in silenzio, mi dico, non posso sempre lasciarmi sfuggire i pensieri con chiunque sia nelle mie vicinanze. La signora, subito dopo, dice come tra sé che lei non ha fretta, e che la giornata peraltro le sembra deliziosa, degna di essere goduta all’aria aperta. Spende un’occhiata verso di me, presumibilmente per vedere come reagisco: io avrei molte cose da dire a riguardo, ma resto in silenzio, mi costringo a non formulare nessuna parola, zitto, quasi senza pensare.
            Il bus non arriva, mi spazientisco, non ho alcuna fretta particolare, ma attendere mi pare un’attività tra le più odiose possibili, anche se cerco di resistere, e così continuo a rimanere immobile, nascondendo in quel modo il mio vero stato d’animo. Però non si può ridurre tutto ai propri gusti e comportamenti, dico alla signora, lasciandole intendere che il ritardo del bus è un fatto oggettivo, oltre la bella giornata e la voglia di starsene su quella panchina. Passa un attimo di silenzio completo, in cui mi pento profondamente di avere di nuovo parlato. Poi la signora insiste: si possono prendere in molte maniere, le piccole avversità di ogni giorno.
            Guardo il mio orologio da polso, mi muovo, sbuffo, ormai sono in aperta conflittualità con la signora, che sicuramente mi giudica un impaziente, una persona che non sa dominare gli istinti. Ho un appuntamento, le dico; ogni minuto perso per me risulta importante. Questo non cambierà assolutamente le cose, fa lei. Certo, fo io, ma almeno potrò lamentarmi di qualcosa che non funziona in questa città. Mi rendo conto improvvisamente che le ultime parole le ho pronunciate con voce leggermente alterata, appena più del necessario, così adesso mi sento dispiaciuto di aver mostrato il peggio di me a quella signora.
            Mi muovo ancora con nervosismo, vorrei tanto che giungesse qualcuno ad attendere il bus insieme a noi, ma anche questo è un elemento da cui proprio non sono confortato. Con le belle giornate, si va a passeggiare ai giardini, dico con calma, così si dimentica il passare del tempo ed il resto. Lei non ribatte, gioca sul silenzio perfetto, sulla sua indubbia capacità di sopportare ogni cosa, perfino la mia presenza. Va bene, dico alla fine, lei ha ragione, fa male addirittura all’organismo prendersela troppo per cose del genere. Però vorrà ammettere che tutto questo ritardo non è assolutamente ammissibile?
            La signora resta in silenzio; io vorrei scomparire di colpo dal tratto di strada, anzi, penso per un attimo che addirittura potrei avviarmi a piedi nella direzione verso cui devo andare, ma subito rinuncio, sarebbe un darsi dello stupido e basta. La signora neppure mi guarda, finge che io non ci sia, che non abbia detto un bel niente. Mi sento sull’orlo dell’odio verso questa persona, vorrei strangolarla, stringerle la gola fino al punto di farle confessare che è una vera inciviltà un ritardo del genere. Poi arriva il bus, esprimo espressioni vistose di apprezzamento, mi alzo e mi preparo a salire ancora prima che il mezzo sia giunto alla fermata, scalpito quasi per evitare di far perdere tempo all’autista. Poi salgo, timbro il biglietto, mi siedo, e immediatamente mi accorgo che la signora di prima non si è neppure spostata dalla fermata. Il mezzo riparte: mi sento assolutamente confuso, e la mia giornata ormai appare irrevocabilmente già compromessa.
            Bruno Magnolfi 

giovedì 11 ottobre 2012

Dialogo n. 4. Corrispondenze.


            

            Dimmi la verità, fa lei. Lui sfoglia un quotidiano: non avrebbe alcun senso, dice; quello che hai già deciso frettolosamente di pensare del mio comportamento non cambierebbe comunque di una virgola, risponde l’uomo senza guardarla. Lei esce dalla stanza: pensa che probabilmente potrebbe perfino piangere, tanto si sente umiliata, anche se non sa bene neanche da che cosa; però non vuole in nessun modo farsi vedere così debole, perciò si chiude in bagno, anche se per pochi momenti, mentre l’uomo appoggia il giornale e accende la televisione.
            Poi la donna torna nella stanza: tanto ho capito perfettamente, fa lei; non ha neppure importanza che ne parliamo ancora. Una luce di tramonto entra obliquamente dalle finestre; aggiornamenti dell’ultima ora, sia di cronaca che di politica nazionale, rimbalzano dal televisore col volume al minimo. Sono convinta che soltanto tra pochi giorni vedremo tutto questo in un modo completamente differente, fa lei. Non c’è quasi più niente da dirsi, pensa lui; ormai siamo giunti alla farsa: dire le cose maggiormente evidenti per coprire le verità più nascoste e antipatiche. Lei si muove, gira alcuni canali della televisione: nell’ultimo che appare qualcuno sta cantando con apparente trasporto dentro ad un microfono che tiene in mano con sapienza: un pubblico finto sorride, pronto ad applaudire al termine sfumato di una famosa canzone.
            Lei lascia sul tavolo il telecomando, si accende una sigaretta, osserva qualcosa di sfuggita sul display del suo cellulare. Vorrei soltanto sapere cosa ti ho fatto di male, fa lei senza spostare lo sguardo. Lui si alza, prende con la mano il telecomando, sceglie un canale dove casualmente stanno passando la pubblicità di un’auto elegante. Sei tu che hai messo in piedi tutta questa storia dell’incomprensione, dice; per me sta tutto a posto, o almeno, abbastanza.
            Lei osserva la pubblicità, appoggia il suo telefono sul tavolo, si mette comoda sopra il divano, aspira una boccata di fumo. Allora cosa decidiamo di fare questo fine settimana, fa, con voce monotona e decisa, come chi ritiene già di conoscere perfettamente la risposta. Lui gira ancora canale, ed un capo di stato sembra stia presenziando un drappello di soldati in alta uniforme, mentre giungono le note più stridule di un inno sconosciuto.
            Ho voglia di filare via da qui, fa lui; si potrebbe fare una corsa fino al mare, cosa ne dici? Lei non risponde, forse avrebbe soltanto voglia di girare quel canale, trovare una sintonia che le interessi, ma a quell’ora sembra che i programmi siano tutti uguali, monotoni, risaputi, quasi le stesse cose di sempre. Fuori dalla finestra qualcuno lungo la strada urla un nome a squarciagola: lei ride, in fondo senza neppure averne motivo. Si, fa alla fine, portami al mare; dimentichiamoci di tutto, mettiamo a punto un nuovo equilibrio…
            Lui torna a premere i pulsanti del telecomando, e appaiono le immagini di un vecchio film, una pellicola addirittura in bianco e nero. Lui preme power e il monitor si spegne. Quello che mi dispiace di più, fa lei premendo la sua sigaretta nel posacenere di vetro, è che alla fine sappiamo bene come ritrovarci, eppure dobbiamo continuamente compiere dei giri assurdi per arrivare fino a quel punto. Lui annuisce, cerca dentro la sua mente un luogo di mare che meriti la loro piccola gita, ma non gli viene a mente nulla. Potremmo anche rimanere qui, dice senza crederci; girare in ciabatte per casa tutto il giorno, parlare di noi, leggere qualche libro, scoprire quanto sia rilassante non far niente, evitare di preoccuparsi di qualsiasi cosa. Va bene, fa lei: tanto riesci sempre a convincermi di tutto quello che ti gira per la testa.

            Bruno Magnolfi

            

martedì 9 ottobre 2012

Un successo.


            

            Il ragazzo dice qualcosa al microfono, nel silenzio che improvvisamente si è creato dentro la sala, con le luci abbassate e quell’unico faretto che lo inonda di chiarore, proprio lui, timido e schivo come è sempre stato. Cerca qualche parola giusta da dire, dopo il saluto a quel pubblico, ma non si è preparato niente, ha pensato che gli sarebbe venuto a mente qualcosa da buttare lì, come fosse la cosa più normale di tutte stare sopra quel palco, quasi cercando di far forza su un’esperienza che invece non ha. Qualcuno applaude, svogliatamente, più per infondergli un po’ di coraggio che per altri motivi, e un tecnico gli porta la chitarra, come già concordato. Il ragazzo la imbraccia, suona un accordo quasi per rendersi conto che funziona davvero, e poi sembra si affidi proprio a quella per riuscire a procedere.
            Attacca la prima canzone, l’inizio è soltanto con la voce, poi, alla seconda strofa, le note del suo strumento arrivano dolci a coronare le sue parole. Il pubblico è attento, quella prima ballata parla di un amore disgraziato, senza futuro, e le parole paiono perfino storpiate nel dolore del personaggio che il ragazzo cerca di essere. Arriva la fine della canzone e gli applausi; lui prende coraggio, dice che ha iniziato a cantare per caso, senza voler davvero comporre canzoni. Ma i suoi amici lo hanno incoraggiato, spiega, gli hanno detto che lui era adatto, doveva scrivere storie, musicarle, cantarle nelle serate un po’ malinconiche, quando si ha voglia di ascoltare cose del genere, e lui lo ha fatto, esattamente come gli hanno detto, fino a rendersi conto che era davvero quella la strada, quella che lui desiderava percorrere.
            Il ragazzo sa che è esattamente così che ha iniziato, e che quella è la prima volta che canta per un pubblico così vasto; però dice tutto questo come se fossero storie inventate, per crearsi attorno un personaggio, per giocare al modesto, a quello che è arrivato su quel palco solamente per una combinazione di cose. Certo, come d’accordo con gli organizzatori di quella serata, farà soltanto tre pezzi, poi lascerà il palco ad altri, però è la sua grande occasione, il momento per rendersi conto se ha davvero la stoffa per fare cose del genere, oppure se quella è stata soltanto una parentesi nella sua vita. Guarda la gente, vorrebbe ancora parlare, spiegarsi con loro, forse prendere tempo: ha catturato l’attenzione di cui aveva bisogno, lui sa che c’è sempre un momento magico sul palco in cui si possono avere tutti nel pugno, come gli aveva detto qualcuno che conosce bene queste cose, però lui adesso non sa cosa fare: riflette, prende tempo, dice ancora qualcosa, poi pensa che è solo il momento per iniziare la seconda canzone.
            Ma un attimo prima gli viene voglia di spiegarne la storia, di dire due parole sull’argomento che tratta quel testo: rallenta le frasi mentre espone i pensieri, sussurra appena le cose che dice, la gente fa ancora più silenzio; eccolo il suo momento: adesso lo sente, vibrante, palpabile, è proprio così. Pianta l’accordo iniziale sulla sua chitarra ed inizia a cantare: è forte, dicono in molti, tutti lo ascoltano, altri spiegano tra loro che questo è uno che farà della strada. Lui va ancora avanti con la seconda canzone, poi la conclude in uno scroscio di applausi, sorride, ringrazia e infine esce dal palco, dimenticandosi perfino del terzo pezzo.
Gli organizzatori dietro le quinte gli urlano di tornare là sopra, ma lui ormai è fuori, non vuole rientrare, non otterrà mai più di così, pensa, ma la gente continua a battere le mani e a chiamarlo, vogliono ancora sentire la sua voce, un’altra canzone, ancora, dicono forte: dopo un po’ lui torna con la sua chitarra e sente che potrebbe fare qualsiasi cosa sopra quel palco: sono tutti per lui; e allora inizia con la terza canzone, ed è quasi un trionfo.

            Bruno Magnolfi

            

domenica 7 ottobre 2012

Senza patria (ripresa cinematografica n. 19).


            

            Per più giorni ci eravamo trascinati verso la frontiera; senza neppure sapere con precisione quanto davvero fosse lontana, e che cosa avremmo trovato quando fossimo arrivati in quelle circostanze. Infine, in uno spiazzo costituito soltanto di polvere e da cinquanta tende di colore bianco, accanto ad uno sparuto villaggio senza nome, avevamo scoperto quel piccolo campo di profughi, dove alcune persone ci erano venute incontro per raccontarci di essere arrivate in quel luogo ormai da molto tempo, e di non essere riuscite più ad andarsene via, restando nell’attesa che qualcuno decidesse in qualche maniera della sorte di ognuno di loro.
            A noi, appena arrivati, era parso incredibile continuare come loro a vivere a lungo così, e quindi avevamo deciso di prendere le informazioni necessarie, e andarsene via il prima possibile. Le Organizzazioni non Governative presenti ci davano messaggi rassicuranti, ma dentro a quel campo circolava un malumore generalizzato che sfociava facilmente nella rassegnazione. Un uomo si prodigava quasi ogni giorno a raccogliere informazioni e a parlare per tutti con voce alta e squillante. Argomentava di politica, di strategie internazionali di alcuni governi, di condizioni storiche di qualche gruppo etnico o di qualche altra realtà, ma dopo due o tre volte che lo avevamo sentito parlare eravamo già pronti a disinteressarci di lui e dei suoi ragionamenti.
            Mi avevano assegnato una branda sporca, ed io mi ero rannicchiato là sopra senza neppure cercare soluzioni diverse. Mi rendevo conto che era difficile andarsene via da quel luogo, lasciare la sicurezza di un pasto caldo e di un letto dove dormire, ma tutti là dentro sentivamo di diventare ogni giorno più flaccidi, anche senza volerlo, privi quasi di qualsiasi volontà, tanto che ci chiedevamo cosa ci fosse nel tè e nelle tisane che distribuivano nel campo in ogni ora del giorno, rassegnati al destino di profughi che non hanno più niente, neppure una personalità, e che stazionano probabilmente per anni in luoghi come quello, nell’attesa che qualcosa o qualcuno decida per tutti.
            Pensavamo alla guerriglia, ai rastrellamenti, ai cecchini appostati, alla recrudescenza di quei momenti appena lasciati alle spalle, e quel campo in qualche maniera ci pareva il paradiso, e tutti noi, come tanti pesci destinati a nuotare in quel mare a volte incomprensibile, là dentro ci sentivamo comunque al sicuro, sia pure in un luogo dove l’unica possibile libertà era quella di sentire la fame, la sete, il sonno, e tutti gli altri aspetti di una vita vegetale, senza alcun altro significato.
            Avevo scoperto tanti piccoli sassi colorati, nei paraggi del campo; tutti tra le sfumature delicate del giallo e del rosso, e li avevo raccolti e sistemati in fila sopra la polvere, proprio accanto a quella mia branda. Mi pareva un segno di distinzione, una maniera per dichiarare agli altri che c’ero, ero lì con tutti i miei pensieri, e non per mia scelta, ma soltanto costretto da qualcosa che, sia io che gli altri come me, non riuscivamo neppure del tutto a comprendere. Qualcuno, poco dopo, mi aveva chiesto, con voce bassa, cosa mai significassero quelle piccole pietre: ma parevano domande giusto per parlare di qualche argomento, scambiare qualche idea, trovare qualcosa da dirsi che non fossero le solite cose.
            Poi, un militante dell’Organizzazione Non Governativa li aveva tolti, approfittando di un momento in cui ero in giro, o a mangiare alla mensa; però mi aveva aspettato, mi aveva stretto la mano e spiegato che non era possibile personalizzare le postazioni: c’erano delle regole, e tutti noi eravamo tenuti a rispettarle. D’accordo, avevo detto, così avevo disperso quei piccoli sassi che mi aveva riconsegnato, guardando qualcosa sull’orizzonte tra il cielo e un punto lontano, mentre lanciavo le pietre, al bordo del campo: dovevo andarmene, questo era il punto, non esisteva nessun’altra possibilità, anche se tutto sembrava chiamarmi, insieme agli altri, ad affrontare una lotta per sua natura perdente. Forse per molti quella realtà appariva persino incomprensibile, pensavo tra me, e io stesso ancora non riuscivo a considerare quale fosse la mia vera strada, eppure sentivo nella mia coscienza che avrei abbracciato un’idea, prima o dopo, qualcosa che mi avrebbe dato il sostegno di cui avevo bisogno: lo avrei fatto senz’altro, ne ero ormai più che sicuro.

            Bruno Magnolfi
            

giovedì 4 ottobre 2012

Troppo sola (ripresa cinematografica n. 18).


           
            Vago per strada, con un passo non troppo lento che attirerebbe gli sguardi dei maschi; però con noncuranza mi guardo attorno, e a chi mi cede la precedenza su questi marciapiedi, ingombri di gente, sorrido: in fondo non mi costa un bel niente, e forse per un attimo rendo felice qualcuno, penso. Avrei forse bisogno di compagnia, di qualche persona che ascoltasse la storia dei miei problemi, ma probabilmente è inutile persino che io ci pensi, non esiste neppure un individuo così, con una tale voglia di stare a sentire e comprendere i crucci degli altri.
            Entro dentro ad una pasticceria e mi siedo ad un piccolo tavolino tondo, giusto per prendermi un caffè ed una fetta di torta. Devo premiarmi, penso, anche se non so di preciso per cosa, però devo cercare di tenere in alto il morale, pensare tutto in maniera positiva, essere ottimista, insomma, nonostante le cose vadano poi come vogliono.
            Un uomo mi avvicina, mi fa dei complimenti senza che io cambi la mia espressione composta quasi del tutto da indifferenza. Lui si volta, si fa servire un caffè stando in piedi al bancone, lo sorseggia sorridendo, poi torna a voltarsi verso di me. Il tempo si dilata, che cosa mai vorrà da me questa persona, penso, possibile che non debba esistere nella fantasia degli uomini una donna con la voglia di stare da sola? Lui esce, e dopo poco anche io. Mi aspetta sul marciapiede, dice subito che gli dispiace importunarmi, però sembra che io abbia qualcosa di talmente interessante nei miei modi, che non gli riesce assolutamente di fare a meno di parlare con me.
            Taglio corto: ho da fare, spiego, non posso trascorre la giornata a farmi corteggiare dal primo che passa, dico. L’uomo allora mi lascia andare, ed io vado ad infilarmi nella confusione delle tante persone che si muovono lungo queste strade, anche se mi rimane l’impressione che lui mi stia seguendo a distanza. Mi volto, in più occasioni, in prossimità di qualche passaggio pedonale, ma lui non c’è, ed io mi sento delusa. Potrei tornare indietro, penso, tornare a cercarlo fingendo di aver dimenticato qualcosa lungo la strada. Ma in fondo non ha alcuna importanza, forse ho un trucco sopra la faccia un po’ troppo vistoso per poter sperare di evitare gli sguardi di molte persone. Ma in fondo a me non interessa neppure questo punto di vista, mi basta sentirmi a mio agio, dare importanza soltanto a ciò che mi piace, sorridere, se mi va, limitatamente a chi risulta simpatico.
            Non volendo percorro un ampio giro confrontando tra loro qualche vetrina e fermandomi giusto per cercare qualcosa nella mia borsetta, e non so neanche come, scopro ad un tratto di essere ritornata proprio nei pressi della pasticceria. Mi accosto con curiosità e vedo che l’uomo di prima è ancora lì, proprio davanti. Lui mi osserva, neppure si muove, infine chiede soltanto se mi va di prendere un aperitivo con lui.
            Accetto, ci sistemiamo seduti, lui mi guarda negli occhi e mi accarezza con dolcezza una mano. Gli spiego che mi sento sempre un po’ triste in giornate così, non perché la solitudine mi spaventi, quanto perché tutti mi appaiono distanti, come se avessero compreso qualcosa che a me continua a sfuggire. Lui accenna di si con testa: forse è vero, dice soltanto; nient’altro.

            Bruno Magnolfi

martedì 2 ottobre 2012

Tutto superfluo (ripresa cinematografica n 17).


            
            Il chiarore del giorno sbianca poco a poco l’interno di questa mia stanza. Non trovo un motivo valido per starmene ancora qui ad osservare degli inutili dettagli fuori da questa finestra, ma spingermi fuori, per strada, senza neppure uno scopo preciso, in questa giornata qualsiasi, imbevuta di normalità, mi parrebbe come sentirmi ancora più inutile, privo di qualsiasi prospettiva.
            Vorrei avere uno scatto di nervi, costringermi ad urlare una rabbia repressa che coltivo da sempre, ma la mia razionalità mi lascia facilmente desistere da qualsiasi stranezza. Nel silenzio dell’alba si sente qualche veicolo percorrere la strada quasi deserta, ed io vorrei tanto riuscire ad immedesimarmi in una persona qualunque, un uomo di polso, magari, con uno scopo preciso, un orario definito da rispettare.
            Forse la cosa migliore sarà quella di attendere l’arrivo di Lucia, la nostra domestica, penso; tra poco sarà qui e inizierà col sistemare le camere, poi giungerà fino a questo studio, mi saluterà con il suo buongiorno così musicale, poi vorrà chiedermi sicuramente qualcosa, tipo: come va? E’ questa la sua solita domanda, ma io non riesco mai a prepararmi una risposta esauriente, così il più delle volte mi limito vagamente a mugugnare, a sorridere, ad alzare le spalle, come fingendo di allontanare quella tristezza che porto da sempre con me.
            Con calma uscirò da questo rifugio, giusto per lasciare lavorare Lucia in santa pace, e lei dirà come sempre: può anche restare, se vuole. Ma io andrò ugualmente a sedermi sul solito divanetto del corridoio, aprendo il mio libro di lettura e scorrendo lentamente qualche parola. Che cosa mi importa di tutto, penserò sottovoce. Vorrei soltanto riuscire, come facevo una volta, a sognare scorrendo le frasi di un romanzo avvincente, ma adesso tutto gioca a farmi rendere conto che non è più possibile.
            Infine, già lo so, mi sentirò ancora attratto da quella finestra che troneggia al fondo del corridoio: la raggiungerò, indifferente ad ogni proposito, l’aprirò come per lasciare prendere aria al mio spirito, e saluterò con la voce e muovendo una mano la prima persona che riuscirò a scorgere. E’ quello pazzo, dirà qualcuno senza farsi sentire; con tutti i soldi che ha non riesce neppure a mandare avanti una vita normale. Allora chiamerò Lucia a viva voce, mi lascerò servire da lei la colazione, le chiederò, lasciandomi sentire da tutti, se le va di fare due passi con me nel pomeriggio, e riderò forte per mostrare quanto sia allegra questa mia vita, questo decidere continuo cosa fare, dove stare, chi avere accanto.
            Mi sistemerò appoggiato al davanzale, invece, e lascerò che ognuna delle persone che circolano per questa strada esterni la propria opinione su quello che vedono o che credono di vedere. Forse, come se niente mi giungesse dei propositi della gente che passa da questa via, sorriderò perfino a quei pensieri che nelle menti di quelle persone si formano alla mia vista, lasciando immaginare comunque una distanza incolmabile tra me e tutti gli altri.

            Bruno Magnolfi    

lunedì 1 ottobre 2012

Dialogo n. 3. La ricerca di una buona ragione.


           

            Oggi non ho voglia di niente, dico a me stesso mentre mi trattengo sulla soglia dell’ingresso di questo Circolino dove ogni pomeriggio degli ultimi anni sono venuto a giocare alle carte con tanti altri pensionati come me; tutta gente, quella che si ritrova qua dentro, che non sa proprio come passare il tempo, se non sfidandosi perennemente a briscola e a tresette. Non voglio pensare che in me si sia rotto qualcosa di questo stupido incantesimo che mi costringe ogni giorno ad arrivare fin qui, domani magari tutto riprenderà il suo andamento normale, ma intanto oggi resto fermo davanti alla porta di questo locale, solo per rendermi conto che improvvisamente non ho voglia neppure di entrare, ed anzi continuo a pensare di andarmene, togliermi da qui prima che qualcuno degli altri mi chiami, mi chieda cosa mai stia facendo, o altre cose del genere. Sto pensando ad una diversa destinazione, tutto qua, anche se per adesso non ne trovo nessuna, e mi sembra anche di non avere alcun posto dove trascorrere il resto del pomeriggio, niente di niente dove possa sentirmi una persona migliore, piuttosto di apparire uno che riesce soltanto a passare qualche ora dentro a un qualsiasi Circolo delle carte.
            Alla fine muovo qualche passo allontanandomi da lì, ma mi limito a camminare lungo le strade di questo quartiere, guardandomi attorno e riflettendo con piacere su questo tempo libero rubato al gioco di carte: mi pare di stare bene, perfettamente, come forse non mi sentivo da tanto. Non mi sento così anziano da non essere capace di scegliere altro da fare, però fino ad oggi non ci avevo mai ragionato su questo argomento, perché è difficile togliersi di dosso certe abitudini, qualche volta sembra proprio che quasi non esistano nient’altro che quelle, come se solo riconoscendosi in certe pratiche si potesse sentirsi persona, come dentro ad un’uniforme, che ti fa sembrare appartenente ad un gruppo, ad una collettività definita.
            Osservo la gente che gira per questi marciapiedi, e immagino i loro problemi, le loro destinazioni, penso che magari qualcuno di loro è semplicemente alla ricerca di qualcosa da fare, proprio come sto facendo anche io. Infine mi siedo su una panchina della fermata del bus, accanto a me c’è una signora, dico buonasera, tanto per attaccare, lei mi risponde ma con una certa distanza. Vorrei soltanto imparare ad essere cortese, dico alla signora facendole un sorriso; non sono molto pratico di buone maniere, proseguo, ma credo che questo potrebbe essere il modo migliore per farmi diventare un buon cittadino. Salutarsi, essere cortesi, scambiare delle opinioni sulle piccole cose di ogni giorno, dico ancora, e poi magari riconoscersi in un modo di fare o di essere, e trovare delle affinità, qualcosa che non ci lasci così distanti come potrebbe sembrare.
            La signora mi guarda, dice soltanto che parlo bene esponendo queste mie idee, ma la realtà ci ha fatto diventare tutti un po’ ostili, chiusi ognuno nella propria corazza, e la diffidenza che continuamente mostriamo è solo un prodotto del mondo contemporaneo. Non era quello che volevo sentirmi dire, penso, in ogni caso il punto di vista della signora è giustificato. Arriva il bus e lei sale, non prima di avermi lanciato un debole saluto. Mi guardo attorno, poi mi alzo da questa panchina: non so proprio cosa vorrei, non riesco a comprenderla questa strana giornata, eppure so che da qualche parte deve portarmi. Riprendo a camminare, ma mi sento un po’ solo, adesso che la signora mi ha fatto presente quanto ognuno vada avanti soltanto per se stesso, standosene staccato dagli altri. Forse è così, penso, però non avrei mai condiviso con qualcuno una cosa del genere se fossi rimasto al Circolino a giocare alle carte. Mi piace questa realtà che non conosco, su cui non ho mai riflettuto: in fondo forse è soltanto questa la buona ragione che andavo cercando.

            Bruno Magnolfi