sabato 31 luglio 2010

La pace, in fronte a tutti.

            

            Avevo iniziato a parlare davanti all’assemblea dei soci desiderando spiegare, per quanto mi era possibile, i motivi per cui non avrei potuto presentarmi come candidato alle elezioni, adesso che il nostro vecchio presidente aveva rassegnato le proprie dimissioni per importanti ragioni di salute. Tutti mi avevano applaudito a lungo prima ancora che iniziassi il mio discorso, quasi che la mia elezione a presidente fosse data per scontata, ed io avevo immaginato di inanellare i miei argomenti provando a spiegare con quanto rincrescimento rinunciavo ad una carica di cui non mi sentivo all’altezza e che ritenevo adatta ad una persona più giovane di me, qualcuno che avesse l’entusiasmo necessario per portare avanti le battaglie e proseguire con tenacia i nostri scopi.
            Ma dopo le prime parole mi era accorto di aver perso completamente il filo del discorso, forse perché mi ero distratto, e che all’improvviso le parole, pur continuando ad uscire dalla mia bocca, pareva come non mi appartenessero, quasi che a parlare fosse un’altra persona al posto mio. Cercai di prendere tempo, bere un po’ d’acqua davanti alla platea attenta, ma la chiarezza nella mia mente non parve ritornare. Così cercai aiuto da argomenti consueti che poco avevano a che fare con il senso di ciò che avrei voluto dire, ingarbugliando del tutto le cose e finendo per non spiegare assolutamente niente delle mie ragioni.
            La segretaria dell’associazione allora, forse vedendomi in difficoltà, chiese gentilmente la parola per articolare nei miei confronti una domanda semplice ed essenziale, che riassumeva in modo chiaro ciò che l’assemblea si attendeva dal mio intervento, ma io, al contrario di rispondere e spiegare i motivi per cui non avrei potuto assumere la presidenza pensando addirittura di dimettermi da qualsiasi incarico e forse abbandonare l’associazione, dissi timidamente solo: “si…”, lasciando all’ambiguità più completa l’interpretazione di ogni cosa. L’applauso, partito spontaneo dopo una piccola perplessità, parve coprire qualsiasi altra ragione, cancellando ogni possibile recriminazione su quell’argomento.
            Fu allora che in silenzio mi sollevai dalla sedia di faccia alla platea, feci quattro o cinque passi malfermi per uscire da dietro al tavolo della direzione, e d’improvviso mi lasciai andare a terra, cadendo malamente sui gradini della pedana in mezzo ad una immediata confusione senza pari. Fui prontamente soccorso da tutti i vicini e subito assistito da un medico fortunatamente presente alla riunione, e persi i sensi ma solo per pochi attimi, per poi chiedere di mia moglie, dei miei figli, quasi fossi in fin di vita. Dopo poco arrivò anche un’ambulanza e fui trasferito in ospedale, ma non mi ripresi se non dopo qualche giorno, quando ai medici fu evidente che le mie capacità cerebrali erano ormai inevitabilmente compromesse. Tutti vennero a fare visita al mio letto d’ospedale, in molti mi strinsero la mano, qualcuno parve anche commosso, ma a nessuno venne più in mente di parlarmi della nostra associazione, lasciandomi di fatto finalmente in pace.
 
            Bruno Magnolfi

venerdì 30 luglio 2010

Conclusioni inaspettate. 2.

            

            Gentile Marco,
            scusami, ma non risponderò alle domande poste nella tua ultima lettera perché mi sono apparse del tutto ingiustificate. Ultimamente ho pensato molto alle nostre cose, e devo ringraziare questa distanza che per ragioni di lavoro si è introdotta tra noi due perché solo così sono riuscita ad avere la chiarezza necessaria a riflettere meglio sui nostri rapporti. Non credo che la nostra simpatia, che tu ti ostini a chiamare frettolosamente amore, abbia molte ragioni per andare ancora avanti. Non sono arrivata a delle conclusioni facili, come dici tu, semplicemente mi pare che i nostri modi di essere siano piuttosto distanti, e laddove io sento continuamente la necessità di sentirmi libera di mandare avanti la mia vita, tu cerchi al contrario di recintarla con supposizioni o dubbi che semplicemente, secondo me, non hanno proprio ragion d’essere. La mia condotta è sempre stata cristallina, ma non mi pare di essere nelle condizioni di dover spiegare a te cosa io faccia e come mi comporti. Mi sento una donna libera, soprattutto, e vorrei solo essere considerata, da te come da tutti, solamente così.
            Ernestina.


            Bruno Magnolfi

giovedì 29 luglio 2010

L'importanza di uscire da casa.

           

            Pensavo qualcosa, soltanto un momento fa. Poi nella stanza è entrata Elisabetta, ed è parso tutto fuggire attraverso la finestra. “Lamberto, vorrei che tu fossi più presente, certe volte; invece ti piazzi lì, da una parte, e non si riesce più a capire dove tu sia davvero con la testa…”. “Sono qui, non preoccuparti”, dico io, e intanto penso che dovrei trovare qualcosa di cui occuparmi quando sono a casa, almeno per farmi vedere più impegnato ed evitare queste domande uggiose di mia moglie.
            Chissà perché mi guarda ultimamente in quel suo modo strano, rifletto tra me, forse sospetta qualcosa, o magari pensa solo che abbia acquistato quella borsa che abbiamo visto nel negozio l’ultima volta che siamo usciti assieme. Poi dico: “Lamberto, ma non dovevi uscire?”, tanto per costringerlo a dire qualcosa, a scoprire almeno qualcuno dei suoi pensieri. “Si, è vero”, dice lui, “ma adesso non ne ho più voglia, però se ti manca qualcosa vado volentieri  ad acquistarlo…”.
            “Si”, dico io, “serve del pane per la cena; se arrivi fino al forno te ne sarei grata…”. E’ solo una scusa, evidentemente. Adesso mi è venuta una gran voglia di fare una telefonata a Piero, ho bisogno di sentirlo, anche solo per un attimo. Sento la necessità sempre più forte della sua comprensione, dei suoi modi gentili con cui riesce a calmarmi, a farmi sentire importante.
            “D’accordo”, le rispondo; prendo la giacca e raggiungo la porta del nostro appartamento; penso che una boccata d’aria in fondo non mi farà poi male, il clima in questa casa è sempre più pesante, dovrei pensare di più a svagarmi, qualche volta. Apro il portoncino, ma invece di uscire lo richiudo, ricordandomi che in tasca non ho soldi. Passa solo un minuto mentre cerco nell’ingresso il mio portamonete, e intanto sento Elisabetta che parla con qualcuno al telefono.
            “Certe volte non ce la faccio più…”, dico a Piero che ha subito sentito la mia voce preoccupata. “Non riesco a sopportare quel suo sguardo indagatore, come se godesse nel torturarmi solo con gli occhi. E poi non esce quasi mai, sembra che si piazzi in casa solo per carpire i miei segreti. Anche adesso, per telefonarti, ho dovuto inventarmi qualcosa giusto per farlo allontanare…”, dico con voce quasi implorante, per accertarmi che Piero mi voglia veramente bene e comprenda il mio disagio.
            Resto perplesso, ma solo per qualche secondo. Ecco che cos’era che non riuscivo del tutto a capire da un po’ di tempo a questa parte. Rimango in silenzio nell’ingresso e riesco a dare un volto alla persona che sta all’altro apparecchio: il suo collega di lavoro; adesso è chiaro, è fin troppo evidente. Trovo finalmente il portafoglio, apro senza far alcun rumore la porta del nostro appartamento e la richiudo appena uscito con la medesima cautela: tutto sopporterei, meno che Elisabetta mi facesse una delle sue scenate per aver ascoltato la sua telefonata; farò un giretto attorno all’isolato, penso con convinzione, in fondo è per questo che sto uscendo.

            Bruno Magnolfi

              

mercoledì 28 luglio 2010

La nostalgia del forestiero.

            

            Da quando, vent’anni prima, erano morti i suoi genitori a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, lui non era più tornato fin lì. In fondo la sua vita si era sviluppata tutta altrove, non c’era più alcun significato a rivedere il paese della sua infanzia. Eppure, come tutte le cose rimaste a sopire coperte da altri interessi, una voglia incomprensibile di rivedere la sua terra d’origine, adesso che aveva più tempo libero e la sua vita era quasi a posto, aveva iniziato lentamente a montargli da dentro, fino a spingerlo al suo paese. Il viaggio in macchina era lungo, specialmente se lo si sopportava da soli, e lui si era fermato parecchie volte, come a fare tante piccole tappe nel suo graduale avvicinarsi. Infine, quando aveva affrontato le ultime curve prima di vedere le case del paese dove era nato ormai sessant’anni prima, gli era presa la voglia di rallentare, quasi di fermarsi e tornarsene indietro, tanto la paura di vedere con i suoi occhi qualcosa che non gli sarebbe piaciuto trovare era forte.
            Per questo aveva accostato la macchina sul ciglio della strada, proprio vicino al cartello che indicava il centro abitato, e gli era quasi venuto da piangere, tanto i ricordi parevano adesso affollarsi nella sua mente. Poi si era spinto leggermente più avanti, aveva spento il motore parcheggiando la sua auto in maniera più stabile, e si era incamminato a piedi lungo la via principale, quasi deserta. Gli occhiali scuri che aveva indossato ed il tempo trascorso lo rendevano quasi del tutto irriconoscibile per i paesani che avrebbe potuto incontrare, ed i suoi modi, piuttosto che da passeggiata, erano adesso quelli di chi cerca frettolosamente qualcosa, o si aggira per le strade per qualche affare da portare a compimento, disinteressato degli abitanti.
            Era così arrivato fino alla piazza, e aveva già notato parecchie cose diverse, pur riconoscendo quasi tutto anche sotto alle recenti ristrutturazioni delle facciate. Aveva notato così il vecchio bar ormai rimesso a nuovo, e dietro al bancone, soffermandosi un momento all’ingresso, aveva visto una persona che non conosceva. Così era entrato dentro superando la sua ritrosia, e aveva ordinato un caffè al cameriere che non conosceva togliendosi finalmente gli occhiali e guardandosi attorno con una calma maggiore. Fu allora che era entrato dentro al locale Costantino, un suo vecchio compagno di scuola. Lui era rimasto in silenzio, l’altro lo aveva guardato a sua volta senza dir niente, ma si era avvicinato con una calma quasi innaturale, poi nella sua stessa maniera aveva appoggiato i gomiti sopra al bancone, e infine aveva detto soltanto: finalmente, sono vent’anni che aspetto il piacere di farmi pagare un caffè da qualcuno che non sia di questo paese…


            Bruno Magnolfi 

martedì 27 luglio 2010

Via dal tramonto.

            

            Il sole si spalmava sull’acqua a pennellate in una lunga striscia di mare color oro, verso ponente. L’umidità del maestrale aveva reso intorno le lingue di terra dei semplici profili grigi, senza prospettiva, e l’arenile appariva cosparso di innumerevoli orme, come fosse stato calpestato da folle sciamanti e inferocite. La maggior parte degli ombrelloni e delle sedie a sdraio erano già state chiuse, pronte a difendersi dalla brezza di terra, dalla salsedine e dall’umidità della notte. Nessun significato c’era nel rimanersene ancora lì, se non per contemplare quel lento evento della natura, il tramonto del Sole, come uno spettacolo risaputo e inevitabile, ma proprio per questo la piccola comitiva si era riunita seduta e composta vicino al bagnasciuga, nell’attesa che il disco fiammeggiante si tuffasse nell’acqua, pronta alla contemplazione dei colori dell’arancio, del rosa e del porpora con i quali tra poco si sarebbe agghindato quel cielo, come in un immenso fondale di una scena teatrale.
            E’ morta una donna, affogata nel mare qua vicino, aveva detto uno. Gli altri erano rimasti in silenzio; poi un altro, senza neppure alzare la testa, aveva aggiunto: non è vero, è solo rimasta stordita per giorni, poi ha ritrovato la coscienza e la memoria, ed è tornata indietro, verso il mondo dei vivi. Ci fu una pausa, come se anche il Sole nella sua lenta discesa si fosse fermato; infine Giulia, la donna di cui il gruppo degli amanti della Fine del Giorno aveva appena parlato, si sollevò dalla sabbia lì accanto come da un lungo e profondo sonno in cui fosse rimasta sprofondata per chissà quanto tempo, e in silenzio guardò attorno a sé ancora una volta quello scenario che pareva rammentarle tutti i pensieri che in quel giorno limpido le avevano attraversato la mente, e infine andò via, senza voltarsi.

            Bruno Magnolfi


lunedì 26 luglio 2010

Una mosca come tutte.

            

            Le parole si dimostrano del tutto inadeguate nel descrivere lo stato d’animo di Laura nel momento in cui le viene data dimostrazione che ciò che lei ha sospettato da molto tempo, anche se in maniera leggera e senza troppa convinzione, è del tutto vero. Improvvisamente niente di ciò che la circonda le pare adeguato alla sua esistenza, il mondo le sembra un covo di tiranneggiatori e lestofanti in grado di raggirare ad ogni passo i semplici e gli illusi. Non cerca neppure di giustificare se stessa pensando che in fondo lo aveva sempre sospettato e che lei, che non si reputa una sciocca, avesse già da tempo messo in conto che le cose potessero mostrarsi anche così. Niente di tutto questo: la sorpresa di Laura è totale, il senso di delusione che prova formidabile. Eppure fino a poco tempo prima lei stava bene, si sentiva contenta della sua condotta di vita, i suoi problemi le erano dati solo da sciocchezze marginali.
Si vedeva spesso con le amiche, salutava sempre le persone del vicinato quando le incontrava lungo le scale della palazzina dove è sito il suo piccolo appartamento oppure lungo il tratto di strada che deve percorrere fino alla fermata dell’autobus: tutto le pareva girasse per il verso giusto, lei sorrideva sempre a tutti e si fermava volentieri a chiacchierare con chiunque. Adesso tutto questo le pare come annullato, la sua voglia di stare con gli altri venuta meno, il suo bisogno di sentirsi semplice e sociale con tutti azzerata.
Laura è stata educata dando sempre importanza a ciò che le viene riferito, ha spesso creduto che chiunque avesse da dire qualcosa coltivasse una ragione importante per dirla, qualcosa di superiore all’interesse personale o al tornaconto spicciolo. Le pare quasi impossibile che esistano ancora al giorno d’oggi persone grette e meschine che riescono a porre al di sopra di ogni altro valore l’egoismo e il dispregio della socialità e della giustizia. Laura sa che deve superare questa batosta, costruire dentro di sé gli anticorpi per ritrovarsi in seguito più preparata anche a cose di quel genere, eppure sa che da adesso niente forse sarà più il medesimo, e che il suo bisogno di credere negli altri sarà d’ora in avanti per sempre compromesso: dovrà imparare, essere una come tutti gli altri, pronta a difendersi anche da chi le vuole male, soprattutto per non sentirsi una mosca bianca pur mescolata insieme a tutte quelle nere.


Bruno Magnolfi

domenica 25 luglio 2010

La lampada per romanzi gialli.

           

            Lo scrittore di gialli lavorava da mesi su un progetto che continuava però a reputare ancora troppo confuso e poco consistente, come se non riuscisse a definire con chiarezza le vicende che fin dagli inizi aveva immaginato. Continuava però a fare delle descrizioni molto articolate della realtà circostante i personaggi della sua storia, quasi che la sua sensibilità si elevasse al di sopra di quella dei suoi lettori, entrando spesso in dei particolari talmente sottili e ricercati che lui stesso certe volte non capiva dove riuscisse a trovarli. Spesso aveva pensato che il suo modo di scrivere fosse superiore alla tipologia di libri che si era ritrovato a pubblicare, però era ben conscio che non sarebbe mai riuscito a guadagnare qualcosa con la sua produzione se non con quella collana di romanzi gialli. Era un compromesso che aveva dovuto accettare, il mercato in fondo contava più di ogni altra cosa.
            Sua moglie dall’altra stanza  lo aveva chiamato con la sua voce acuta e cantilenante, ma lui non aveva risposto, attendeva sempre qualcosa di maggiormente importante per interrompere i suoi pensieri e il suo lavoro. Poi decise che doveva far svagare la mente, così si alzò con fatica dallo scrittoio e raggiunse la moglie, ma soltanto per dirle: lo sai che non mi va di essere disturbato quando cerco di scrivere. Lo so, rispose lei, con una leggera porzione di ironia nella voce forse neppure voluta, però è tutta la mattina che te ne stai chiuso dentro la stanza, avrai pur bisogno di svagarti un pochino. A lui venne in mente che il suo personaggio avrebbe potuto con naturalezza strangolare la moglie, anche per futili motivi, probabilmente sui suoi lettori ciò avrebbe avuto una presa sicura.
            Poi lui disse: nel pomeriggio quasi sicuramente dovrò uscire, se ti va puoi venire con me. Certo, rispose la donna, dobbiamo anche passare a ritirare la lampada, quella a cui tu tieni tanto, te ne sei forse dimenticato? Hai ragione, rispose lui un po’ perplesso, me lo ero proprio scordato, ma questo rinnova il piacere di avere di nuovo e finalmente quell’oggetto con me. Era una vecchia e preziosa lampada in ottone da tavolo ereditata dai nonni, quella che aveva portato a riparare, un oggetto che lo scrittore di gialli sosteneva funzionasse da fonte d’ispirazione solo stando accesa sul suo piano dello scrittoio. Riaverla riparata e funzionante dopo mesi, da quando era caduta rompendosi, per lui era una bellissima notizia.
            Forse era proprio quello che mancava alla sua nuova storia che stava scrivendo, per poter essere convincente davvero, così si sentì senz’altro contento di quella notizia. Poi rimase per un attimo come soprappensiero, tornò senza dir niente nella sua stanza e si sedette di nuovo al piano dello scrittoio. Immaginò di avere già la sua lampada sopra al tavolo, quella bella lampada dei nonni, e solo questo pensiero parve dargli una spinta. Scrisse velocemente: - Non esisteva un vero motivo per uccidere la moglie, forse la noia, o i piccoli fastidi giornalieri apparentemente poco importanti, la mancanza di un oggetto caro, ad esempio, come un ingrediente della vita  per cui è possibile alle volte perdere il senno, diventare intolleranti verso ogni cosa, forse anche alla vita stessa. -
            Poi si sentì bene, come se tutto il resto del suo libro in divenire potesse girare attorno a quella semplice frase. Chiuse il quaderno e ripose tutti i suoi fogli come fosse arrivato a qualcosa di concluso; infine rimase lì, vuoto, senza riuscire più a fare niente.
           

            Bruno Magnolfi

sabato 24 luglio 2010

L'inevitabilità del caso.



Dobbiamo dare un’immagine di fermezza, disse il capo dell’organizzazione. Perciò dobbiamo andare in fondo a qualsiasi provocazione in cui sia implicato il nostro nome. Nessuno aveva qualcosa da dire, quelle parole erano sacrosante, scolpite nella materia dura, incancellabili. Non saranno delle sciocchezze a farci regredire o cambiare punto di vista, continuò; va studiata l’opportuna contromossa che dimostri invariabilmente di quale pasta siamo fatti. D’accordo, disse uno dell’organizzazione, però è proprio questo il difficile: decidere quale comportamento tenere, cosa fare concretamente, ecco. No, non è tanto difficile, lo interruppe un altro; è sufficiente dare un’occhiata alle abitudini, ai comportamenti, ai modi con i quali differenziarsi, mostrarsi differenti, ed il resto viene da sé. Bravo, disse il capo dell’organizzazione, per prima cosa va studiato questo aspetto, siamo d’accordo.
La villetta isolata nella campagna appariva circondata da alberature frondose, il vasto giardino era disseminato di uomini di scorta con sguardi vigili, e le auto erano state messe al riparo dietro fitte siepi. L’ora del tramonto aveva cosparso di rosa le basse colline vicine, e il cielo aveva assunto meravigliose sfumature di colori.
Dobbiamo dare una lezione a qualcuno, aveva detto il capo dell’organizzazione dopo una lunga pausa riflessiva; niente di cruento, basterà mostrare che non abbiamo problemi a tirar fuori la testa e far vedere che siamo pronti a tenere il passo. Te ne occuperai tu, proseguì indicando uno di quelli che seguiva con maggiore attenzione le sue parole. Però deve riuscire un buon lavoro, niente violenza, niente giornalisti ficcanaso, niente forze dell’ordine. Ti lascio carta bianca, però se sbagli ci rimetterai la tua parte nell’organizzazione. Va bene, disse quello, sono pronto.
Fuori, nel giardino, un certo nervosismo intanto aveva preso i guardaspalle e il servizio d’ordine dell’organizzazione. Qualcuno aveva sentito dei rumori, ad altri era parso che ci fossero stati dei movimenti tra gli alberi più distanti. Il capo del’organizzazione fu subito avvertito, salutò tutti con un gesto, e senza dire altro raggiunse la sua auto; gli altri attendevano ognuno il proprio turno per andare via, come già erano d’accordo.
Le guardie del corpo avevano estratte le loro automatiche, tanto per sentirsi più tranquilli, ma tutti quanti ambivano il momento in cui sarebbero stati lontano da lì. La prima auto uscì sollevando un po’ di polvere, poi volse su un lato prendendo il viottolo che portava fino ala strada provinciale. Diversi tra i rimasti ne osservavano la traiettoria oltre le siepi, mentre velocemente continuava ad allontanarsi, alcuni calcolavano il momento in cui sarebbe potuta partire anche la seconda macchina.
Fu allora  che la deflagrazione non lasciò alcun dubbio. L’auto con sopra il capo dell’organizzazione parve disintegrarsi  in una fiammata spaventosa, tutti rimasero basiti in silenzio almeno per un attimo, sembrò che tutto fosse irrimediabilmente perduto: ma a qualcuno venne subito spontaneo di pensare a chi poteva essere il successore maggiormente accreditato, e a qualcun altro venne forse anche l’idea di approfittare del momento inevitabile di sbandamento che sarebbe sopraggiunto. Uno tra tutti forse aveva già calcolato ogni pensiero degli altri: nessuna sorpresa, certe cose erano del tutto inevitabili.   


Bruno Magnolfi

venerdì 23 luglio 2010

La realtà fuori da qui.

            

            Solo, tra queste stanze che conosco a menadito, mi intrattengo con i pensieri di sempre mentre cerco di trovare una forma diversa alle mie giornate. Viene una donna ogni giorno per un paio d’ore, mi porta qualcosa per pranzo, si occupa della mia casa. Il resto del tempo per me è composto da luci basse, silenzio, piccoli spostamenti dentro l’appartamento. Una volta alla settimana viene un’assistente del servizio sanitario, generalmente il giovedì, certe volte arrivano in due, si piazzano seduti, mi guardano, riempiono i loro questionari, fanno delle domande ripetendo spesso anche le medesime.
            L’altro giorno, mentre ero andato a prendere qualcosa in un’altra stanza, ho sentito che dicevano tra loro che non era più il caso di tenermi da solo, e secondo uno dei due era opportuno chiudermi dentro una clinica, anche se l’altro sembrava più cauto. Così ho deciso immediatamente di fuggire. Il mio problema è che da anni non esco di casa, probabilmente da quando è morta la mamma: quella volta mi chiusi nel più profondo silenzio, e per mesi non detti retta a nessuno. In seguito riuscirono a farmi riprendere a parlare e a mangiare, ma poi non ho più voluto abbandonare le stanze del mio appartamento.
            Solo pensare alle strade, alla città, a tutta le persone che camminano come tante formiche lungo quei marciapiedi, mi prende un tremore profondo, una repulsione che non so controllare. Sento il mio corpo muoversi goffamente, percepisco il mio essere inadatto alle cose degli altri. La mia testa non riesce a pensare la fretta, prendere decisioni, avere iniziative. Eppure adesso sa cosa deve affrontare. Voglio andar via, anche se non so dove, perché così resto prigioniero della mia inadeguatezza, restando qui lascio che altri decidano tutto per me, della mia vita, delle mie giornate composte esclusivamente di pensieri e ricordi.
            L’ultimo questionario degli assistenti era diverso, trattava anche di cose intime, mi ha messo fortemente a disagio e così ho rifiutato di collaborare. Allora mi hanno osservato, fermi seduti davanti a me come stavano; hanno parlato tra loro sottovoce senza farmi capire, sono tornati a guardarmi tante e tante altre volte. Hanno scritto qualcosa sopra quei loro fogli, d’altronde come hanno fatto ogni volta, poi hanno alzato gli occhi e hanno ripreso di nuovo ad osservarmi. Voglio fuggire da queste persone, pensavo, devo proprio decidermi a farlo.
            Ho atteso che la donna che si occupa della mia casa avesse finito con le sue attività, ho risposto al saluto quando si è messa il soprabito per andarsene via, ho lasciato che chiudesse la porta del mio appartamento alle sue spalle. Per un attimo ho immaginato di essere lei. Poi ho preso l’impermeabile dentro l’armadio, l’ho indossato e ben chiuso con tutti i bottoni, infine ho aperto la porta, ho lasciato un saluto alla mamma e sono uscito. Era pomeriggio, mi sono subito reso conto di questo, e per le scale non ho incontrato nessuno, quindi ho preso a camminare lungo la strada. 
            Ho vagato a caso senza badare a niente, se non al mio camminare e basta, ma poi alla fine mi sono sentito stanco e vuoto di tutto. Non so dove mi trovassi, ma quando ho visto una persona in uniforme ho detto a voce alta il mio nome e con un certo tremore ho chiesto se poteva aiutarmi. Non posso decidere da solo, ho pensato. Devo parlarne con la mamma, ho detto alle persone che avevo intorno, forse devo portarla assieme a me quando faccio le passeggiate. Perché senza di lei non ho mai fatto niente, non posso certo iniziare in questo momento.


            Bruno Magnolfi

giovedì 22 luglio 2010

Il mondo di frutta da cogliere.

            

            L’aria fresca dell’alba di un nuovo giorno si fa strada nei polmoni tra i residui del fumo stagnante delle ultime sigarette della sera precedente. L’angoscia pare attenuata, analogamente il bisogno di nuovi progetti si fa spazio dentro la mente. Al terzo binario della stazione ferroviaria il treno è annunciato in ritardo, ma solo di pochi minuti.
Il signor Siniscalchi è pronto, attende con ansia il convoglio con tutto il suo carico umano con cui è pronto a mescolarsi. In fondo per molti è poco importante la destinazione, la cosa fondamentale è partire, fingere di lasciare alle spalle tutto ciò che ormai è desueto, risaputo, quell’ingombrante bagaglio di vita già stata, già elaborata e posta nell’archivio di una memoria sempre più futile e annoiata. Cosa c’è di più bello di un presente bruciante, l’immediatezza del mondo che ti viene incontro con il suo carico stupefacente di novità?, pensa il signor Siniscalchi. Cosa importa aver infranto le regole, carpito qualcosa di altri, aver sbeffeggiato con indifferenza quanto era a disposizione di tutti? Non sono riflessioni che adesso abbiano senso compiuto.
Nella sua valigetta c’è il bagaglio più prezioso di qualsiasi altra cosa, l’ingrediente segreto per qualunque ricetta si voglia approntare da ora al futuro: valuta pregiata, la migliore, il toccasana per qualsiasi malattia dell’esistenza. Sul marciapiede davanti ai binari le persone si sfiorano, parlano tra loro di orari, di appuntamenti, di sciocchezze ordinarie che il signor Siniscalchi sta per lasciarsi definitivamente alle spalle. I suoi pensieri di adesso sono dominati soltanto dagli ultimi preziosi dettagli: il treno fino a Parigi, il biglietto aereo da lì già prenotato sotto falso nome, il suo passaporto contraffatto da esperti professionisti. In un pugno di minuti per lui la definizione di tutto il futuro.
Cosa importa essere stato tanti anni fa un brillante universitario del corso di laurea in Legge, aver iniziato una carriera invidiabile, aver saltato velocemente tanti passaggi per la maggior parte dei suoi colleghi assolutamente insormontabili? Ciò che ha importanza è essere arrivato fin lì, non aver mai chiuso del tutto le porte che potevano essere utili, aver sempre fatto lavorare la mente a proprio vantaggio, perché è questo ciò che conta di più: sfruttare al meglio possibile qualsiasi occasione costruita o eventuale. La gente non ha testa, crede in tutto quello che viene raccontato, è giusto che paghi rispetto a chi emerge, chi riesce ad elevarsi al di sopra di lei.
Il treno arriva decelerando rapidamente, si ferma, gli sportelli si aprono, qualcuno scende, gli altri si accalcano per salire, il signor Siniscalchi si mette in coda conservando la calma, ma proprio nell’attimo in cui mette un piede sopra al gradino, qualcuno gli afferra le braccia, due uomini che lui non conosce ai suoi fianchi lo trattengono sul marciapiede. Non sarò io a raggiungere il mio paradiso, pensa il signor Siniscalchi: però qualcuno lo farà, è sicuro, qualcuno lo ha già fatto, perché questo è un mondo di frutta pronta solo per essere colta.


Bruno Magnolfi

mercoledì 21 luglio 2010

Miseria delle persone.

            

            Sto fermo, seduto a pensare. Ricordo distintamente quando, circa due anni fa, ho iniziato a sperimentare come si possa procedere nella concentrazione mentale su un elemento che per qualche motivo interessa la nostra persona. Si vuole profondamente qualcosa, si percorre con il proprio pensiero la porzione di tempo in cui si desidera debba capitare qualcosa di semplice, e alla fine ecco che l’evento si avvera. Si guarda un oggetto di piccolo peso, lo si ritaglia con gli occhi dal luogo dove esso si trova, ed ecco che quello lentamente si sposta, magari anche soltanto di poco, ma l’oggetto dimostra di cedere passivamente ad una volontà superiore.
            Mi muovo tra le stanze del mio appartamento, poi esco di casa, giro per strada incrociando altre persone, percorro i marciapiedi guardando vetrine di negozi fitte di oggetti. Ho un potere incalcolabile su tutto, lo sento dentro di me, mi fa sentire a mio agio e mi concede uno sguardo disincantato, ma non mi interessa mostrarlo, farmi additare dagli altri come una persona speciale. Guardo gli oggetti che fanno bella mostra di sé dentro ai negozi illuminati e pieni di gente che acquista, che pone domande ai commessi, si sente potente, quasi superiore, dalla parte di coloro che a un certo punto aprono quei bei portafogli e pagano i conti, comprano, come se questo fosse il gesto fondamentale tra tutti.
            Lascio correre, non mi sento nelle condizioni di cercare supremazia su di loro, mi è sufficiente sapere che posso interrompere in qualsiasi momento quei finti sorrisi, quei gesti rituali, quei loro comportamenti da maledetti borghesi, e questo mi basta. Sorrido dentro di me, recupero un passo distinto e controllato lungo le strade, continuo a camminare immerso dentro ai pensieri, conscio di me stesso, di ogni mia piccola, nascosta, capacità.
            Rilevo quanto il mondo stia ancora dietro a piccoli comportamenti del tutto insignificanti, ed ho un moto di dispiacere nel rendermi conto di questo. Ma in fondo, rifletto, cosa mai posso fare, se non registrare il senso disperato che permane dentro ad ogni persona? A volte credo che ciascuno di loro, di tutta la gente, sappia in cuor suo cosa sarebbe in grado di fare se solo aprisse la mente, invece di perdersi dietro a monotoni gesti e a comportamenti usuali. Lo penso, pur sapendo di perdere solo del tempo con loro. Perché poi, in fondo, a che serve pensare una cosa del genere, mi chiedo: le persone sono solo persone, non si può pretendere molto.


            Bruno Magnolfi

martedì 20 luglio 2010

Quasi sufficiente un'immagine.

            

            La fotografia appariva sfocata, ingiallita, con delle tonalità di grigio ormai false, senza spessore. Però averla ritrovata tra le cose dimenticate di un cassetto di fondo dopo tutti quegli anni, era quasi un miracolo, un riesumare un passato che si stentava a credere vero. A quell’epoca lei era giovane, carina, sorridente, ed era rimasta così, nella fantasia di Alberto, come se il tempo e la vita non avessero su di lei avuto il potere di cambiarne neppure un dettaglio. Lui di tutta la fato riusciva a vedere solo quella dolce espressione, e non provava neppure a pensare a come potesse trovarla cambiata all’appuntamento che si erano dati dopo tutto quel tempo.
            Caro Alberto, le aveva scritto in quel breve biglietto, forse non ti ricorderai neppure di me, di quella ragazza magra, biondina, forse un po’ ombrosa. A me invece il tuo ricordo ha fatto compagnia tante volte durante questi anni, tanto che non ho mai parlato di te con nessuno per paura che quel pensiero così intimo potesse venire turbato. Aver cambiato città è stato un bene per me, non avrei mai sopportato di incontrarti per strada come due persone qualsiasi. Adesso alcune cose sono cambiate, ed io sono tornata. Mi piacerebbe vederti, parlare con te, anche solo per poco. Per favore, rispondimi con un semplice biglietto come quello che leggi. Seguiva l’indirizzo e la firma.
            Ad Alberto qualche perplessità era velocemente passata dentro la testa, ma la voglia di rivedere quella ragazza era enorme, improvvisa, dirompente, tale da superare qualsiasi altra cosa. Tornava a rileggere le poche parole e poi subito ad osservare quella fotografia in bianco e nero, e si sentiva quasi felice, come se l’entusiasmo che quegli oggetti riuscivano a scaturire al suo interno, potesse annullare qualsiasi divario possibile.
            Le aveva scritto di getto quel biglietto di risposta che lei aveva richiesto, ed era stato breve, asciutto, conciso, cercando in poche parole di spiegare il piacere che provava anche lui nel desiderio di incontrarla. Lo aveva spedito subito, quasi di fretta, senza pensare a nient’altro, ma adesso si sentiva inadatto ad incontrarla davvero. Provava l’umana paura di deluderla, di non riuscire a dire le cose più giuste, di mostrarsi solo nostalgico e un po’ sdolcinato, senza riuscire a mettere a frutto un momento importante per la loro vita matura.
            Allora pensò a lungo su cosa fare, come comportarsi, in quale modo vestirsi perfino, e niente nella mente di Alberto parve adatto a quell’incontro fissato. Si sentì piccolo, stupido, incapace di stare all’altezza di una cosa del genere, e l’appuntamento era fissato proprio per quella serata. Girò dentro casa, si fece una doccia, cercò di calmarsi e di volgere la mente verso altre cose; poi tornò a riguardare quell’unica fotografia che aveva di lei, e si sentì bene ad osservarla di nuovo. Si sedette con gli occhi ancora sopra l’immagine e decise di rimanersene lì, seduto sulla sua poltrona, ad osservare per tutta la sera quella dolce fotografia. Perché in fondo, Alberto, non aveva davvero bisogno di altro.

            Bruno Magnolfi

            

lunedì 19 luglio 2010

Conclusioni inaspettate.

            

            Cara Ernestina,
ti scrivo questa lettera solo per implorarti di non credere alle facili conclusioni che forse per incomprensione ti è stato possibile trarre dai miei comportamenti di questi ultimi tempi. Non si tratta affatto di una mia mancanza di stima e di affetto verso di te, al contrario: il cercare continuo delle soluzioni migliorative per noi due e per la nostra situazione, mi ha portato in certi casi ad oppormi con fermezza ai normali sviluppi che poteva prendere la nostra relazione. Ma non per disamore, tutt’altro. So che in certi casi per colpa mia è venuta meno la chiarezza, ma se si considera l’entusiasmo dal quale spesso ci siamo lasciati trascinare, puoi ben capire che un punto maggiore di logica e di spirito riflessivo, pur facilmente mal interpretabile, era doveroso ricercarlo. La mia colpa in questo è stata il non tentare tempestivamente di spiegarti, di renderti maggiormente partecipe di alcune mie congetture, ma da qui ad immaginarti un comportamento subdolo e incoerente, il salto sembra veramente un po’ eccessivo.
            Non trovo niente in me di cambiato, quello che pensavo fino a poco tempo fa lo penso ancora oggi, e vorrei rassicurarti sui miei progetti per noi due che sono rimasti esattamente i medesimi di sempre. Certo, questa distanza non aiuta, e oltretutto instillare il dubbio dentro le nostre menti ancor prima di ogni altra cosa, porta facilmente ad immaginare cose del tutto differenti dalla più schietta verità. Però se tu vorrai insistere con questo atteggiamento di puntuale opposizione ad ogni mia proposta, mi vedrò costretto, pur avanzando tutte le riprove che potrò, a prendere conclusioni differenti a quelle che fino a pochissimo tempo fa non avrei neppure immaginato. In questa durezza che dimostri nei miei confronti intravedo una persona che non immaginavo, sicuramente mal disposta a comprendere e a sospendere, almeno per un attimo, i facili ed erronei giudizi a cui è possibile giungere. Confido comunque nella tua bontà e pazienza affinché tu possa rispondermi tempestivamente a questa mia e, come spero, farmi avere notizie positive.
Tuo Marco.


            Bruno Magnolfi 

domenica 18 luglio 2010

Proiettato tra i grandi.

            

            Il vecchio osservava dalla finestra i modi di fare e i giochi del bambino nel piccolo giardino dietro casa, cercando di proiettare quei gesti e quelle espressioni che in qualche modo riusciva a misurare di lui, come elementi costitutivi del suo futuro, quasi potesse stabilire da quelle poche cose quale sarebbe stata la sua vita o il tipo di persona una volta adulta. Il bambino non era poi così piccolo: gli piaceva giocare da solo, inventare delle cose che aveva visto fare da suo padre prima che andasse ad abitare in un’altra città, o in televisione, e per il resto con la sua fantasia riusciva a sopperire a qualsiasi elemento non avesse sottomano o non fosse strettamente necessario.
Sapeva bene che suo nonno dalla finestra lo osservava, e forse era proprio questo il gioco maggiormente divertente: riuscire a portarlo fuori strada, lasciargli immaginare di sé aspetti che era pronto continuamente a contraddire. Certe volte parlava a voce alta, con dei gridi di guerra di soldati fantasiosi, o immaginando un pubblico entusiasta che seguisse le sue evoluzioni mentre camminava sui muretti intorno alle aiuole, come a sentirsi un coraggioso equilibrista con i piedi sopra un cavo teso in alto.
            A volte il nonno scuoteva la testa, impossibile per lui comprendere cosa passasse nella mente del bambino, ma si sentiva attratto da quei modi, da quella fantasia, da quel riuscire per ore ed ore da solo ad evitare di annoiarsi. Qualche volta lo chiamava: Federico, diceva, vieni con me al negozio degli alimentari? E Federico andava, lasciandosi tenere la mano dal nonno come in un’immagine perfetta, generosa di sorrisi e saluti lungo la strada da parte di tutti coloro che li conoscevano.
            Poi una volta, mentre stavano andando verso qualcuno dei soliti itinerari, il nonno gli chiese se avesse mai pensato cosa volesse essere da grande, di che cosa occuparsi, cosa fare. Federico pensò a lungo la risposta, forse sentendosi impreparato ad una domanda di quel genere. Infine: vorrei andar via, disse come a se stesso, raggiungere dei posti dove nessuno mi conosce, e fare qualcosa in modo da essere apprezzato da tutti. Il nonno rimase impassibile, cercando di soppesare le parole, poi disse: qualsiasi cosa tu voglia, se ci credi veramente, riuscirai senz’altro a metterla in pratica; sarai una brava persona, ne sono sicuro. Federico strinse più forte la mano del nonno, poi lo guardò con serietà senza dire niente, ma quella solidarietà lo fece sentire grande, forse per la prima volta.


            Bruno Magnolfi        

sabato 17 luglio 2010

Consapevolezza di sé.

           

            Solo, giravo tra la gente e le strade senza riconoscere alcun luogo. Camminavo, e in mezzo alle persone che continuavano a sfiorarmi, cercavo di trovare un’espressione familiare, un viso riconoscibile, un gesto nel quale immedesimarmi, ma tutto mi era estraneo. Infine quella realtà incontrata durante il mio viaggio tramontava inesorabilmente lasciando tutto insoluto, ed io maturavo la coscienza della mia solitudine, come se quello fosse stato il mio destino, niente da cui avrei mai potuto distaccarmi.


            Bruno Magnolfi

venerdì 16 luglio 2010

Incontro fortuito con un amico vero.

            

            Eri là, in mezzo alla via, con uno sguardo quasi assente, dei modi svogliati, di chi non è proprio contento di sé, delle proprie cose. Nel salutarti mettevo io per tutt’e due la contentezza e la meraviglia del nostro incontro, tu guardavi attorno qualcosa, come a cercare una via di fuga, la necessità quasi di cancellare quei sentimenti di amicizia che ti rivendicavo.   
            Non è tutto come si immagina, dicevi, il tempo assorbe spesso delle cose che poi non si rigenerano, e si rimane poi privi di voglie, di entusiasmo, come vuoti. Ti giustificavi senza che io ti avessi chiesto niente. Poi parlavi di te, del tuo lavoro, come se la vita fosse quello, come se non esistesse qualcosa di maggiormente importante, di superiore. Riempivi quell’enorme vuoto di anni con una manciata di parole, un sorriso amaro a mezza bocca, un’occhiata veloce in fondo alla strada, a scrutare qualcosa che potesse portarti ancora via, nella tua fuga perenne anche da te stesso.
            Sei rimasto il solito, dicevo tanto per dire, con il bisogno fortissimo dentro di scoprire che era vero, che era così, laddove niente di te era davvero simile a ciò che ricordavo. Perché mai i ricordi e la nostalgia delle persone migliorano certe volte dentro alle nostre povere teste che continuano ad elaborare tutta questa serie di frammenti, di scorci, di espressioni, di cose fatte e cose immaginate, in un confuso materiale che non rammenta più quale sia la verità? Che assurda parola, pensavo guardandoti, questa verità.
            Rimanevo in silenzio, non avevo parole né sguardi adatti a colmare quel vuoto che adesso prendeva anche me, come se nulla ormai avesse più senso, come se proprio l’indifferenza dovesse per forza trionfare. Dicevo ancora qualcosa ormai svogliatamente, ma non aveva alcun significato il mio cercare di salvarti per archiviare quella fotografia in bianco e nero che conservavo di te da qualche parte, unico reperto della nostra amicizia di non so più quanti anni fa. C’era del falso in quell’immagine, tanto valeva strapparla, gettarla via con coraggio, e dimostrare superiorità agli stupidi sentimentalismi.
            Poi tu dicevi: devo andare; io annuivo rassegnato, ma tu voltavi ancora la testa verso di me, forse ricordando qualcosa. Io pensavo al nostro ordinario dimostrarsi recalcitranti ogni mattina, per il lavarsi gli occhi da tutti quei sogni che si erano posati là sopra nella notte, e ti guardavo come imbambolato di sonno, di immagini distorte, ancora in una strenua attesa. C’era qualcosa, dicevi, che avevo da spiegarti, qualcosa dei nostri anni di ragazzi; ma adesso, dopo tutto questo tempo, me la sono scordata, mi dispiace. Fa niente, dicevo io, in fondo siamo solo persone: smemorati, superficiali, pieni di tanti altri difetti che non riesco neppure ad elencare, con tanti atteggiamenti stupidi, da rivedere, spesso contraddittori e anche poco credibili; ma forse, alla fin fine, siamo rimasti soltanto dei ragazzi, quasi degli sciocchi, degli emeriti egoisti che non riescono neppure a ricordarsi di essere stati tra loro degli amici veri.
           

            Bruno Magnolfi

giovedì 15 luglio 2010

Una sigaretta spenta per terra.

           

            Mauro aveva atteso il momento secondo lui maggiormente opportuno per affrontare anche con se stesso quell’argomento. Erano mesi che non passava dalla strada dove abitava Annalaura, anche se le aveva telefonato quasi ogni sera, certe volte lasciando che lei riattaccasse la cornetta, ma solo per dei modi che qualche volta hanno le donne di fronte a certe domande. Non aveva avuto importanza tutto questo, adesso non rimanevano dubbi, il momento per riassumere ogni cosa, per spiegarsi in maniera completa, era arrivato, lui sapeva di essere pronto.
            Se ci pensava, gli sembrava ancora impossibile che lei, di sua iniziativa, lo avesse lasciato: erano sicuramente stati i parenti a convincerla, su questo anzi non aveva alcun dubbio, lui conosceva bene Annalaura, non avrebbe mai fatto una cosa del genere, e adesso sicuramente aspettava solo l’occasione migliore per dare una pedata a tutti coloro che le stavano attorno, e ricongiungersi con il suo vero amore, lui, l’unica persona che l’amava davvero.
            Restava un dubbio nella sua mente, una semplice sottile perplessità: qualcuno poteva averla convinta a mettersi con un altro, per aiutarla a dimenticarsi di lui forse, e se questo elemento si fosse rivelato fondato, la vita per Mauro non avrebbe più avuto alcun senso, per questo si era portato dentro una tasca la sua vecchia pistola, perché il momento finale era giunto, in qualsiasi caso si fossero poste le cose.
             Quella di andare da lei era una cosa che aveva pensato già mille volte, riuscendo sempre a trattenersi; immaginava la scena con innumerevoli varianti, ognuna che portava comunque a un identico risultato, quello di cui tutti dovevano convincersi, cioè che loro due erano fatti l’uno per l’altra. Se non era più andato a gironzolare intorno al palazzo dove si trovava l’appartamento di Annalaura, era solo per una questione di semplice paura, nient’altro: se l’avesse sorpresa in compagnia di qualcuno, lui non avrebbe mai sopportato una cosa del genere, non avrebbe risposto di sé.
            Infine era arrivato lì, quasi senza pensare a dove realmente stava andando, aveva parcheggiato la macchina, era sceso, si era fermato davanti al portone. Aveva osservato a lungo la fila dei campanelli, come cercando qualche elemento segreto, poi aveva volto lo sguardo su in alto, verso quelle finestre, e lentamente, ma quasi tremando, si era acceso una delle sue sigarette. Era rimasto sospeso, come in attesa, la sua pistola pronta dentro la tasca. Lei stava tornando a casa dopo il lavoro, era arrivata fino a quel marciapiede, lo aveva visto, aveva pensato in un primo tempo di fuggire, ma poi si era fatta forza e lo aveva affrontato.  
            Ciao Annalaura, aveva detto lui abbassando gli occhi; e proprio in quel momento dal lato opposto era arrivata un’altra persona, un uomo, e lei aveva detto con semplicità: questo è il mio fidanzato. Mauro si era sentito gelare, aveva cercato di sorridere, forse di avere un’espressione qualsiasi, ma aveva solo voglia di piangere e di correre via. Infine la sua pistola dentro alla tasca lo aveva fatto ritornare presente. Annalaura parlava ancora, giusto per chiedere solamente: avevi bisogno di qualcosa, Mauro?, e lui aveva risposto di no, che gli era soltanto venuta la voglia di rivederla, anche solo per poco. Poi l’aria si era fatta ancora più pesante, sembrava non ci fosse più ossigeno da respirare, lei dopo una pausa aveva detto semplicemente: ciao Mauro, non ci tornare più da queste parti, e lui capì che doveva obbedire, perché sapeva che Annalaura lo diceva per lui, per il suo bene, perché ancora era lui la persona della sua vita. Si girò, Mauro, per tornare verso la macchina, per andarsene via, così spense a terra la sua sigaretta e sentì un’altra volta la sua pistola in fondo alla tasca. Che stupido, pensò, ho dimenticato persino di mettere dentro i proiettili.


            Bruno Magnolfi

martedì 13 luglio 2010

La strada nel cinema.

           

            Un ragazzo e una ragazza ridono attraversando la strada e parlando tra loro. Si finge di non vederli lì attorno a quell’incrocio di città, perché la gioventù a volte fa rabbia, quella spensieratezza è insensata, quella leggerezza su tutto, fuori dal tempo.
Diverse automobili sono ferme al semaforo, ogni autista osserva con la cosa dell’occhio i suoi simili allineati in attesa, il piede sopra al pedale, il motore pronto a scattare. Una vecchia sul marciapiede cammina lentamente e guarda per terra, non si interessa quasi di niente di quello che vede, resta solo preoccupata di sé, di quei suoi ultimi anni.
Il ragazzo e la ragazza si abbracciano, ridono forte, si fermano quasi sopra al passaggio pedonale, davanti alle macchine, in mezzo alla strada. Gli autisti adesso li osservano, sono tutti nervosi: dà fastidio che quei due si comportino in quel modo scorretto, se potessero vorrebbero gettarli per terra e passare sopra di loro con le ruote gommate.
Anche gli alberi polverosi del viale hanno rami immobili con le radici affondate sotto l’asfalto, tutto sembra funzione del rombare di meccanismi e lamiere, l’organizzazione della città vive di quello. Le case di quel quartiere tra loro appaiono simili, le persone si rifugiano dentro e chiudono fuori dalla porta tutto il resto.
Il ragazzo e la ragazza adesso si baciano, il semaforo assurdamente è ancora rosso, e loro esasperano ogni pensiero di chi deve vederli. Un uomo di fretta attraversa la strada quasi nel medesimo punto, rallenta, osserva perplesso, forse vorrebbe sorridere, ma è in ritardo, non può permettersi di perdere tempo.
Il ragazzo e la ragazza si spostano fino al bordo della strada, giusto nel momento in cui il semaforo dà il via libera alle auto, tutto circola, scorre, funziona. Poi c’è una pausa prevista nelle riprese cinematografiche, passa gente coi cartelloni pubblicitari, i professionisti scambiano grandi pareri artistici sul proprio lavoro. Ma i due ragazzi proseguono a baciarsi, indifferenti ai cambi di scena: forse meriterebbero una lezione, appaiono davvero fuori dal mondo. 


Bruno Magnolfi

lunedì 12 luglio 2010

Viaggio di un giorno ordinario.

           

            Certe volte, quando stiamo lontano da casa e dalle nostre piccole sicurezze, può nascere dentro di noi una nostalgia per qualcosa che neppure sappiamo, una necessità inappagata di essere differenti, incarnati in altre persone, modellati in altre fattezze e modi di essere. Cerchiamo noi stessi in chi ci sta attorno, conservando della nostra iniziale personalità solo una sfumatura, nient’altro.
            Si cammina, si osserva le cose, tutto è oltremodo effimero, fugace, passeggero. Si incontra qualcuno, si chiede sorridendo una strada, un posto che pare emerga improvviso da una memoria improbabile, che stiamo inventando al momento, ma in cui riconosciamo una parte importante, qualcosa che è stato, come il fantasma di un corpo che si è mosso realmente su quei marciapiedi.
            Raggiungiamo un numero civico, un edificio apparentemente qualsiasi, ma che emerge dalle nebbie di una memoria che non abbiamo, ma che ugualmente ci guida. C’è un piccolo negozio, proprio lì, in quel posto dove ci aspettavamo di trovarlo, con la vetrina incorniciata di smalto verde bottiglia. Potrebbe essere un rigattiere, per quanto ne possiamo sapere, invece vende generi alimentari, ed entriamo, senza sapere che cosa ci serve, o se vogliamo acquistare qualcosa.
            Ci sono alcuni clienti, gente che abita in quel quartiere, chiedono le cose in una lingua a noi quasi sconosciuta, ma comprendiamo che cercano di allungare i discorsi, di essere spiritosi e gentili, di parlare del tempo, di coinvolgere gli altri nelle loro chiacchiere da intrattenimento. Sta a noi, infine, e indichiamo del pane, un salume, del formaggio piazzato nella vetrina sotto al bancone, e si sorride, si, certo, anche noi vorremmo parlare del tempo e di tutte le altre cose che sono ordinarie per tutti quei clienti. Ci osservano, gli altri rimangono lì e ascoltano il nostro disagio, guardano i gesti che si compie con le mani che disegnano in aria; ci guardano, e sanno qualcosa che noi non sappiamo, ma che urge, è impellente, così uno di loro ci aiuta, dice qualcosa interpretando il nostro pensiero, e noi capiamo immediatamente che era proprio quello che avevamo voglia di dire.
            “Si, si, va bene, è proprio quello che pensavo…”, diceva lui sfoderando il suo corpo in quell’entusiasmo crescente. “E’ tutto esattamente come ogni volta l’avevo immaginato: i sorrisi, le parole, le intuizioni di questa giornata qualsiasi con il cuore di un giorno speciale. Sono qui, con voi, mescolato in questo mondo fatto di niente, che ci riserva delle sorprese qualche volta, e ci spiega la nostra sensibilità quale sia, dove sta il semplice essere uomini e donne…”.
            Poi usciamo, la prospettiva si piega, l’immagine si inclina fondendo in un altro disegno, una fotografia differente, ma ciò che rimane è dentro di noi, e in nessun altro.


            Bruno Magnolfi

domenica 11 luglio 2010

Una risata per precedenza.

            

            I due discutevano animatamente all’interno di un gruppo di salette di attesa, nella stanza adiacente a dove Giorgio si era seduto. Pur non volendo lui si trovava costretto, nell’aspettativa di essere chiamato per effettuare una banale visita medica, ad ascoltare le parole che arrivavano con sufficiente chiarezza fino alle sue orecchie, e siccome non aveva niente di meglio da fare, si era quasi incuriosito dei discorsi che a poca distanza venivano scambiati.
Si trattava di una discussione originata da un problema di priorità sulle visite che doveva effettuare lo specialista delle dermatiti, al momento impegnato con una paziente nella sala medica in fondo al breve corridoio. L’uno sosteneva di essere giunto precedentemente in ambulatorio, e quindi di aver diritto ad essere visitato prima dell’altro, l’altro di ricordare un orario fissato dal medico per il suo appuntamento che aveva precedenza sul primo.
La questione, retta sui termini del buon senso e della razionalità, aveva già trovato, in ambedue i soggetti, notevoli elementi di scambio dei differenti punti di vista, e approssimandosi il momento in cui uno dei due avrebbe dovuto essere introdotto all’interno della sala medica, la questione si faceva pregnante, tanto più che nessuno dei due si sentiva in alcun modo convinto a cedere il passo.
La questione per certi versi era annosa, e anche se tutto poteva essere risolto facilmente con un minimo di pazienza da parte di uno dei due, oppure lasciando alla infermiera il diritto di definire la priorità del caso, in realtà la mancanza di chiarezza era palese. Naturalmente per avere maggiori armi da spendere, ognuno dei due aveva già intavolato la questione sulla complessità della propria malattia, e di quanto fosse fondamentale avere al più presto possibile una diagnosi certa delle proprie condizioni di salute, ma si capiva velocemente quanto questo aspetto avesse un’importanza piuttosto relativa.
Al contrario aveva fatto una certa impressione l’affermazione del disagio di uno dei due nel caso avesse dovuto mancare al passaggio di un mezzo pubblico di una certa ora per tornarsene a casa, in virtù di una situazione familiare che, sosteneva, senza di lui restava assolutamente precaria. L’altro aveva sostenuto di trovarsi più banalmente all’interno del suo orario lavorativo, e se per caso fosse stato scoperta la sua assenza, le conseguenze avrebbero potuto essere anche gravi per lui.
Giorgio pareva divertirsi ad ascoltare i discorsi animati dei due, e tutto dava l’impressione di una vicenda ordinaria, praticamente quotidiana, se non fosse stato che a un tratto, proprio quando la discussione si era fatta animata, la porta del medico si era socchiusa, l’infermiera aveva ascoltato le ultime parole scambiate quasi con foga dai due contendenti, e così aveva deciso di dare la precedenza proprio a lui, a Giorgio, nell’attesa che gli altri due comprendessero il loro torto. Lui si era fatto avanti con titubanza, aveva osservato i due che erano rimasti ormai senza parole, poi era entrato con un piede nella stanza del medico, e aveva lasciato alle spalle la sua risata sonora, di un tipo che nessuno dei due avrebbe potuto dimenticare facilmente.    


            Bruno Magnolfi

sabato 10 luglio 2010

Solitudine maledetta.

            

            Sono stanca di tutto, diceva la donna anziana ad una vicina di casa mentre stendeva i panni ad asciugare al sole sullo spiazzo condominiale. Non mi interessa quasi più di niente, me ne rendo conto, ma non so che cosa fare per cambiare le cose. Le mie giornate sono regolate dai compiti di sempre a cui mi sento sottomessa, quello che ho fatto sempre per tutta la mia vita, qualsiasi cosa differente che si presenti come una variazione a questa monotonia mi sembra come un nemico della mia esistenza. Resto in casa quasi tutto il giorno, mi preoccupo di spolverare i mobili, di spazzare i pavimenti, di cucinare qualcosa da mangiare, ma niente mi procura neppure una soddisfazione minima. La sera mi siedo davanti alla televisione, cerco di seguire ciò che viene detto, le notizie e le riflessioni sul mondo e sulla vita, ma io mi sento sempre più distante da tutte quelle cose, come si fosse interposto tra me e la realtà un sipario inestinguibile, che non mi lascia scelte, e mi concede soltanto di proseguire nelle mie giornate, di essere solo quella che sono, indifferentemente.
            Ne ho parlato con qualcuno, in parrocchia, all’assistente sociale del quartiere, ai miei nipoti anche se non vengono quasi più a farmi una visita, ma mi sono resa conto che i miei problemi sono di tutti, perché a tutti sta calando l’entusiasmo per la vita, non c’è più gusto a tirare avanti così, in qualche modo, senza pensare che ci può essere un elemento nuovo, magari all’improvviso, che ci dia un impulso a rinnovarci.  Mi sento di morire un po’ per volta, forse proprio mentre cerco solo di accondiscendere a quelli che reputo i miei semplici doveri, ma questo non mi fa paura, anzi, mi sembra quasi una liberazione da tutte queste piccole terribili cose da cui mi sento circondata.
            Mi dispiace parlarne proprio a lei, così, mentre stendiamo i panni; lei che magari per chissà quanti anni mi ha visto sempre come una donnetta tra le tante che vivono in questo quartiere semplice, però forse, proprio perché non ci conosciamo affatto, se non per l’immagine che ci siamo costruite l’una dell’altra, vivendo vicine, però distanti, forse qualcosa che ci accomuna c’è, e la comprensione alla fine può nascere proprio da questo, da una solidarietà tra persone che soffrono di un medesimo problema. Io non le chiedo niente, se non che mi dia un cenno, un semplice gesto di comprensione di quello che le ho detto, perché forse anche solo una cosa così semplice so che può essermi d’aiuto.
Ma in fondo neanche questo importa: già solo il fatto che lei sia stata qui ad ascoltarmi per me è importante, anche se non posso guardarla negli occhi, e solo seguire la sua ombra che si flette sopra queste lenzuola stese al sole, mi creda, per me è già sufficiente. E poi, se anche scoprirò, magari proprio andando via da qui, che quell’ombra che mi figuravo una persona che era lei, sarà stata, chissà, quell’albero laggiù con le sue grandi fronde al vento così piene di foglie, andrà bene lo stesso, era parlare che mi interessava, niente di più.

            Bruno Magnolfi

             

venerdì 9 luglio 2010

Per la fine della stagione estiva.

            

            Sandra lavorava in quel locale come cameriera da poche settimane. Era una degli stagionali, il suo contratto era di quattro mesi, copriva giusto il periodo estivo, e il resto dell’anno niente, che tanto da quel paesino di mare c’era poco da aspettarsi. Nelle ultime due settimane la Pensione Orchidea si era riempita di villeggianti, e tra le colazioni, i pranzi e le cene da servire, non c’era quasi il tempo neppure di respirare. Tutti dicevano di tenere duro, che sarebbe trascorso in fretta anche quel mese, e lei cercava di mettere l’impegno massimo in quello che faceva. Qualche giorno avanti uno dei camerieri esperti, Nicola, uno che lavorava in quell’albergo per quasi tutto l’anno, le aveva sorriso guardandola con intensità, come a mostrare simpatia per lei o chissà cos’altro. Sandra era arrossita e aveva abbassato subito gli occhi, però le era piaciuto quello sprazzo di intimità, così adesso cercava di fare ancora meglio il suo lavoro, per mettersi in luce, per fare buona figura, soprattutto con Nicola.
            Poi però c’era stata la vicenda di una donna che non veniva più trovata, e più d’uno aveva iniziato a sostenere che era affogata in mare, e non sarebbe più stato rinvenuto neppure il corpo, fino a quando, al contrario delle dicerie, quella donna rispuntò fuori viva e vegeta, dopo solo un paio di giorni, come per magia, e tutto si risolse. Però Nicola aveva mostrato in quei due giorni un’agitazione incredibile, come se la sua sensibilità per quella cliente lo avesse sottoposto a una fortissima tensione. Sandra, che aveva preso a scambiare qualche parola con tutti i camerieri tra una portata e l’altra nella sala del ristorante, e soprattutto con Nicola, era rimasta colpita per quella sua assenza completa di attenzione anche per lei, e per quel nervosismo di cui pareva preda, tanto da sembrarle una persona addirittura diversa da quella che aveva conosciuto fino a quel momento.
            In più, quando era arrivato alla Pensione Orchidea il marito della scomparsa, Sandra si era accorta che aveva parlato a lungo con Nicola, come se lui avesse notizie che tutti gli altri non avevano. Certo, non erano affari suoi, ma qualcosa che a Sandra non piaceva, pareva si stesse verificando proprio sotto ai suoi occhi. Lei continuava il suo lavoro come sempre, ma ora più che mai stava attenta a tutto quello che accadeva intorno a quello strano cameriere. Forse lui a un certo punto si era anche reso conto che stava rovinando tutto con Sandra, ed una volta riapparsa l’affogata e sparito di scena quel marito, Nicola l’avvicinò, approfittando di un momento in cui erano soli.
“Ti chiedo scusa, se i miei comportamenti ti sono parsi strani”, disse, senza che Sandra avesse chiesto nulla; “Però ci sono delle volte in questo mestiere che ci si trova a contatto con persone di cui non si sa nulla, e magari ci paiono proprio come tutti gli altri. Poi accade qualcosa, anche non di grande rilevanza, e si scopre cose che un attimo prima sembravano impossibili. Forse ti sembrerò superficiale, ma quest’ultima vicenda mi ha convinto di quanto tutto sia legato da un semplice filo di lana, e di quanto sia importante, al contrario delle facili furbizie, fare le cose in piena luce”. Poi si volse solo per un attimo, come per concentrare le sue speranze in poche parole, in un dettaglio, e quando tornò a guardare Sandra: “Mi piaci”, le disse, “te ne sarai accorta, ma non voglio forzarti; osservami ancora, fatti un’idea più precisa di me, di come sono fatto, oltre questi giorni assurdi, e se vorrai dirmi qualcosa prima che finisca il tuo contratto di lavoro, io ti aspetterò…”.


Bruno Magnolfi     

giovedì 8 luglio 2010

La ferita nella terra.

          

            L’operaio si era guardato attorno già diverse volte avanti di spostarsi per far passare l’autocarro che doveva scaricare la grossa pala meccanica. La polvere gialla nell’aria brillava come oro e tutto il grande spiazzo, oggetto degli scavi, era picchettato da ogni parte con nastri bianchi e rossi, come un’assurda pista pedonale o di go-kart. Era buffo immaginare delle nuove costruzioni in posti del genere, pensava l’operaio. Campi incolti, luoghi dove non c’era nulla, che diventavano in un anno di lavoro un gruppo di case con il giardino, i parcheggi davanti e la strada asfaltata fino alla provinciale. C’erano movimenti politici alle spalle, lo sapevano tutti. Speculazioni edilizie che non potevano fare a meno degli appoggi dei sindaci, degli assessori e di chissà chi altri. Ma a lui non importava, quello era soltanto il suo lavoro.   
            I giorni addietro aveva aiutato il geometra e il progettista piazzando a terra quei punti fermi, con le quote e tutto il resto; erano rimasti in silenzio quasi tutto il tempo, lui aveva obbedito agli ordini senza battere ciglio mentre loro guardavano dentro agli strumenti; non aveva chiesto niente, non si era preoccupato di nulla, anche se non sapeva fino in fondo cosa significavano quei segni e quelle distanze. Poi, quando era rimasto solo, aveva immaginato dei bambini, tra due tre anni, che sicuramente avrebbero giocato tra loro in quello stesso posto dove adesso non c’era ancora niente. Pensava ai lavori finiti, ai piccoli prati, i cespugli fioriti, agli steccati delle recinzioni, e gli parve tutto innaturale.
            L’autocarro aveva finito la manovra, la pala meccanica era stata messa giù, il lavoro di movimentazione della terra poteva avere inizio. Lui sarebbe rimasto tutto il tempo ad assistere al lavoro della pala, come se avesse compreso perfettamente cosa doveva essere fatto; il geometra, dentro alla baracca di cantiere, gli aveva lasciato anche il progetto degli scavi, perché doveva andare via, a seguire altri lavori chissà dove. Aveva detto di si quando gli era stato chiesto se avesse capito tutto, ma in fondo la terra era solamente terra, aveva pensato, le cose si sarebbero sistemate. E poi l’escavatorista era uno pratico, sapeva il fatto suo, non ci sarebbero stati problemi. Il caldo e il forte ronzare del motore creavano una monotonia disarmante, l’operaio si sentiva inebetito, come se non avesse neppure qualcosa da pensare. Desiderò di avere qualcuno accanto con cui fare quattro chiacchiere, ma si rendeva conto che sarebbe stato impossibile con tutto quel rumore.
            Osservava ogni tanto la fila di alberi alla fine di quel vasto campo incolto, e si accorse poco per volta che era bellissimo quel posto, forse più di quello che aveva pensato inizialmente. La pala meccanica andava avanti inesorabilmente a muovere la terra, a deturpare quella natura, e l’operaio provava una nausea, un desiderio assurdo che tutto si fermasse, che si lasciassero le cose come stavano. Vedeva quel grosso braccio protendersi a raschiare quel materiale argilloso, compattato da secoli, e provava una vertigine.
Fu in quel momento che iniziò ad osservare un picchetto di ferro che aveva piantato lui stesso dentro al terreno: gli andò vicino fissandolo come un oggetto impuro dentro a un luogo sacro, e alla fine vi si lasciò andare sopra, senza neppure pensare a cosa realmente stava facendo. La ferita al braccio apparve subito notevole, l’escavatorista lo vide e fermò la macchina lasciando che il silenzio riprendesse il suo potere. Corsero anche i ferraioli che più lontano stavano già preparando le gabbie per le fondazioni, e tutto parve normale, c’era solo un ferito in un cantiere, come spesso succedeva. L’operaio si era girato sulla schiena per lasciarsi mettere una fasciatura di fortuna, e annusava l’aria per afferrare a fondo quel silenzio di campagna; poi si accomodò sopra al furgone senza dire niente, un incidente dicevano gli altri, ma a lui veniva quasi da sorridere, forse era da perdenti il suo sentire, ma si sentiva orgoglioso di aver mostrato almeno a se stesso il proprio disappunto. 


            Bruno Magnolfi

mercoledì 7 luglio 2010

La ricerca di un motivo per piangere.

           

L’automobile correva lungo l’autostrada. La donna aveva appena detto come a se stessa, ma con modo sgarbato, che quel viaggio le pareva ogni volta più lungo. L’uomo alla guida aveva fatto soltanto una smorfia col viso, senza aprire la bocca. Poi, dopo una pausa lunga più di un chilometro, aveva parlato, pur senza entusiasmo: “Ci possiamo fermare, giusto per muovere un poco le gambe…”. “Va bene”, aveva risposto lei, “Ho proprio bisogno di un buon caffè”.
La giornata era tiepida, riscaldata da un pallido sole che si muoveva con lentezza tra strisce sottili di nuvole. Il paesaggio era piatto, campagna a perdita d’occhio e nient’altro di rilevante. L’automobile parve respirare con il motore che scendeva di giri mentre accostavano al parcheggio dell’area di servizio; la donna prese la borsetta dal sedile posteriore e scese per prima, movendo le gambe inguainate dentro alle calze con sincronia quasi perfetta.
Al bar non c’era nessuno, solo un signore vestito con sufficiente eleganza ed una faccia apparentemente pronta al sorriso. La donna si sedette ad uno dei tavolini, accavallò immediatamente le gambe con gesto studiato e lasciò che il signore ben vestito, in piedi al bancone, le desse un’occhiata.
Persisteva una musichetta di fondo dentro al locale, quasi un ronzio di voci e chitarre, il barista dette l’impulso alla macchina per i caffè e poco dopo li servì all’uomo, rimasto in piedi ad aspettare. Lui prese le tazze e le portò fino al tavolino, sedendosi a sua volta di fianco alla donna.
“Che posto insignificante”, disse lei sollevando il caffè come fosse la sua medicina. L’uomo guardò il signore ben vestito che a sua volta si era messo ad osservare qualcosa fuori dai vetri; infine replicò: “Non ci vedo niente di strano, un posto qualsiasi, ecco tutto…”.
L’aria là dentro era ferma, un senso di uguale e ripetitivo pareva sottolineare l’appartenenza del luogo a tutta l’autostrada, all’asfalto identico, al viaggiare noioso, un mondo frutto di uno stupido motore a quattro tempi, e nient’altro. Intanto il signore ben vestito aveva fatto due o tre passi svogliatamente dentro al locale, poi aveva preso una sedia, con calma, ed era andato a sistemarsi al tavolino della donna e dell’uomo, con modi di fare del tutto naturali.
“Ho una pistola nella tasca dove sta la mia mano, aprite i portafogli senza farvi notare e datemi tutti i contanti che avete”. L’uomo abbassò il suo caffè con la sorpresa dipinta sul viso, la donna finse un comportamento seccato, il barista continuava a sistemare tazzine e bicchieri dietro al suo banco.
Tutto si svolse in fretta e senza incidenti, il signore ben vestito si alzò e raggiunse la porta dopo aver intimato ai due di rimanere seduti per almeno dieci minuti. Quando infine si alzarono la donna dentro alla borsa trovò qualche spicciolo per pagare i caffè, e uscirono storditi giusto per salire sulla loro automobile, senza affrettarsi, in perfetto silenzio. Quando lasciarono il parcheggio dell’area di servizio la donna fece un singhiozzo di pianto, ma l’uomo non seppe neppure spiegarsi il perché.

Bruno Magnolfi


martedì 6 luglio 2010

Lungo un qualsiasi marciapiede.

           

            L’uomo, da solo, scruta il piccolo tavolo tondo e la sedia dove intende mettersi comodo. La sua giornata è già colma di indecisioni, sente che il tempo scivola inevitabilmente e lui non riesce a dare un indirizzo alle cose. Ha guardato le sue scarpe camminare, ha sentito la sua voce riferirsi a qualcuno, ma questo non ha significato alcunché. Forse neppure gli interessa dare un senso preciso al suo giorno, forse la sua ricerca di faccende di cui occuparsi è solo l’ennesimo tentativo per scoprire qualcosa di se stesso. Infine si siede, ma dopo un primo momento reputa inutile e quasi dannoso quel gesto.  Il locale gli piace, c’è calma, ogni cosa sembra stare ben posizionata al suo posto, e fuori dalla vetrata la strada al contrario continua ad essere l’anarchica mescolanza di tutto.
            Si avvicina con metodo un cameriere, chiede gentilmente cosa desidera, l’uomo dice, senza guardarlo, il piatto del giorno e un quarto di vino. Non ha fame, è evidente, ma l’abitudine a sedersi ad un tavolo e di mangiare a quell’ora che spacca la monotonia della giornata è così forte che non si sente in grado di fare resistenza. Ha un piccolo notes dentro alla tasca, lo estrae, rilegge gli appunti delle cose che avrebbe voluto fare quella mattina, si rende conto che non ne ha compiuta nessuna.
            Niente di nuovo, è normale perdersi in mille altre cose che per via gli vengono a mente, anzi, forse il suo incaponirsi ad annotare le cose da fare, ha proprio il senso della smentita, del disattendere scientifico di ogni proposito. Che cosa può essere mai una giornata qualsiasi, trascorsa da solo girando per strada con mille pensieri e altrettante divagazioni, se non lo scegliere a braccio in ogni momento le cose da fare, decidere volta per volta dove andare, dove fermarsi, in che cosa occupare un po’ di quel tempo?
            Nel bar-ristorante c’è poca gente, ognuno di loro nuota all’interno della propria indifferenza per tutto, il cameriere si affretta a servire le ordinazioni per restarsene poi immobile in qualche angolo fuori dalla vista. In fondo alla sala c’è un uomo, da solo, potrebbe essere lui. Ha finito già di mangiare, così legge il giornale, aspetta, lascia trascorrere il tempo. Non c’è niente che assomigli ai suoi gesti, ai suoi modi di fare, eppure qualcosa li unisce. Infine si alza, saluta con un gesto il cameriere, passa vicino al suo tavolo tondo ed esce, senza alcuna incertezza. 
            L’uomo vorrebbe alzarsi a sua volta, raggiungerlo, chiedergli di spiegargli dove stia il suo errore, perché continua a sentire dentro di sé l’angoscia di aver solo perso del tempo, di non essere riuscito neanche stavolta ad essere utile, di non aver messo a frutto di nuovo quel tempo che continua a scorrere e a finire nel niente. Poi osserva quel suo simile mentre scorre lungo la strada, oltre la vetrata, dove il marciapiede è ingombro di gente: niente ha senso, riflette; va accettato così tutto quanto, sollevare la testa dai propri pensieri e camminare verso qualcosa, lungo un qualsiasi marciapiede.


            Bruno Magnolfi

lunedì 5 luglio 2010

Soltanto così.

          

            La sua mano sorreggeva il bicchiere con l’acqua, l’altro braccio era disteso, a riposo sul fianco. La pastiglia era andata giù con facilità lungo la trachea, tra pochi minuti sarebbe iniziato il suo effetto. Le dita attorno al bicchiere continuavano a stringere il vetro più del dovuto, forse per via dell’agitazione di cui lui era rimato preda fino ad allora, così pensò che avrebbe dovuto rilassare i suoi muscoli, sciogliere quell’ultimo barbaglio di tensione, ma in quell’attimo il calice gli cadde di mano andando in frantumi sopra le piastrelle del pavimento.
Succedeva sempre così per tutti i dettagli legati alla sua esistenza, rifletté: cose a cui dava troppa importanza, altre che continuava a ignorare; ogni elemento appariva sempre squilibrato tra i suoi interessi, spesso cercava dentro di sé il giusto valore da dare alle cose, senza assolutamente riuscirci. Rilassò anche l’altro braccio lasciandolo disteso lungo il fianco, poi fece due o tre passi fino a raggiungere il tavolo.
Si sentiva come paralizzato, improvvisamente i suoi occhi osservavano gli oggetti usuali senza riuscire a metterli a fuoco, e si perdevano in quelle inezie diventate improvvisamente fondamentali. Avrebbe dovuto cambiare completamente  il suo modo di essere, di comportarsi, di pensare, ad iniziare da oggi, da subito, anche se non riusciva a capire da quale punto rifarsi. La pastiglia stava  togliendo poco alla volta il dolore dalla sua testa, lasciandogli uno strano senso di vuoto, come se si allargasse per lui la possibilità di occuparsi di molte altre cose.
Si sentì stanco, e andò a sedersi  su una poltroncina nell’angolo, poi si accorse di aver lasciato i vetri del bicchiere sparsi per terra, e gli parve una fatica terribile provare a rimuoverli.
Qualcuno suonò alla sua porta, e d’improvviso gli giunse insieme a quel suono sgradevole l’impressione che la giornata avesse ripreso il suo corso, come sempre, togliendogli l’aspetto meditativo che fino ad un attimo prima gli era parso oltremodo necessario. Decise di non muoversi, e chiunque fosse stato a suonare il suo campanello non replicò. Infine decise di sollevarsi, ma solo per raggiungere la finestra, poi scostò leggermente la tendina, e guardò fuori, lungo la strada, fino ad accorgersi che non c’era niente che lo interessasse davvero di quel mondo esterno.


Bruno Magnolfi

domenica 4 luglio 2010

Qualcosa per cui vivere.

            

Spesso capita che il mio collega di lavoro venga da me durante l’orario di turno della nostra fabbrica, e mi dica: Luigi, oggi non è proprio la giornata giusta per star qui a far gli operai ed annoiarci con queste stupidaggini ripetitive. Dice così per ridere, ma poi, durante la pausa per il pranzo, quando siamo seduti nella sala mensa con il nostro vassoio, lui guarda il sole e il cielo fuori dalle finestre, e sembra che sia assente, che non stia davvero insieme a noi.
Certe volte fa discorsi strani, il mio collega, dice che non siamo nati per star dentro a una fabbrica tutto il santo giorno ad assemblare pezzi di una macchina che non sappiamo bene neppure a cosa serva. Io gli ripeto che così dicendo non saremo mai soddisfatti di noi, del nostro lavoro, della nostra vita, e che se ci è toccato in sorte di far questo, bisogna in qualche modo adattarci e non pensare più a certi discorsi. Ma lui ci riflette un po’, guarda nel niente, poi dice, Luigi, dobbiamo andarcene da qui, guarda qua come siamo ridotti, tra un po’ non avremo più neppure i sogni, guarderemo la televisione come fanno già molti altri, e vedremo là dentro lo schermo la gente che sta bene e si diverte tutto il giorno, e ci sembrerà solo immedesimandoci in quelle persone di poter scambiare il nostro ruolo con il loro, e di riuscire a star bene e divertirci tutto il giorno anche noi; ma non è così, io e te lo sappiamo, è solo un digestivo per ingollare in silenzio la nostra vita stupida. Io lo lascio dire, quello è il suo modo di riflettere le cose, non mi preoccupo più di tanto: gli sorrido, cerco di seguire i suoi ragionamenti, poi mi fermo.
            La settimana scorsa invece vado in fabbrica, inizio il turno e lui non c’è. Chiedo a qualcuno degli altri operai se hanno visto il mio collega, ma nessuno l’ha incontrato. Passa con un po’ di tensione tutta la mattina, poi all’ora di pausa gli telefono: l’apparecchio suona a vuoto, nessuno mi risponde. Quando esco dal turno timbro il cartellino e vado direttamente a casa sua, passo a vedere cosa sia successo, ma trovo solo un biglietto sulla porta del suo appartamento deserto al terzo piano. C’è scritto “per Luigi”, così lo stacco e lo apro. Dice di andare al “solito posto”, e lì mi darà delle istruzioni per spiegarmi meglio. Ci penso, tengo in mano il foglio, vado a casa mia. Tutta la notte rifletto su quale sarà quel “solito posto”, poi mi viene a mente il tavolo d’angolo del bar fuori dalla fabbrica, dove certe volte stiamo lì a bere una birra e a sognare di trovarci da tutt’altra parte.
Il giorno dopo sono lì, mi siedo al tavolo, mi guardo attorno, non c’è niente. Poi passo la mano sotto al piano di legno di quel tavolo e sento che c’è un altro foglio incastrato dentro a una fessura. Lo prendo, lo apro, lo leggo, è un messaggio lungo. Dice: “Luigi, ho sistemato tutto, ti aspetto per partire insieme, devi prendere il treno delle cinque, scendere alla stazione di cui ti avevo parlato qualche volta, sarò lì ad aspettarti, vieni da solo”. Non ci vado al lavoro il giorno dopo, avverto la segretaria e poi cerco di pensare cosa fare. Alla fine metto il cappello e gli occhiali scuri, prendo il treno delle quattro e scendo alla stazione che conosco, quella di cui mi ha parlato il mio collega, ci vuole poco ad arrivare, mi metto dietro a una colonna e aspetto. Dopo mezz’ora lo vedo, è lì che si aggira lungo il binario, come se niente fosse, e io mi nascondo anche di più. Lo guardo, resto dove sono, vedo che sta bene, che non ha bisogno di me per i suoi progetti. Aspetto, aspetto a lungo che vada via, infine rimango solo, poi prendo il treno che mi porta indietro e torno a casa.
“Ciao collega”, gli dico dentro la mia lettera immaginaria, “Scusa se non vengo con te; ti sarei solo d’intralcio, però ti porto nel mio cuore, so che per te ci sarà da qualche parte una vita diversa, non so neppure immaginare quale, ma ti auguro che sia assolutamente la migliore che desideri, la meriti, ci hai sempre creduto, te la sei guadagnata, senz’altro più di me…”.   


Bruno Magnolfi