sabato 28 maggio 2011

Certe volte, ad un incrocio.

           
            Sono passato davanti ad un semaforo con la mia auto durante un giorno qualsiasi, uno di questi giorni appena trascorsi, che sembrano spesso identici l’uno a quell’altro, ricordo soltanto che non pioveva, anzi, forse c’era addirittura un pallido sole, magari era addirittura una giornata chiara, di quelle che ti fanno sentire a tuo agio, in pace con tutto. Procedevo lentamente, ricordo che non avevo alcuna premura, mi guardavo attorno, come a cercare di riconoscere le strade che percorrevo, i quartieri che stavo attraversando, nella ricerca distratta di chissà mai che cosa. Sopra un marciapiede mi rammento che c’erano delle persone, un gruppo intero, probabilmente, tutte ferme nell’attesa di attraversare la via piuttosto transitata, e così ho intravisto, mescolato agli altri, un uomo come tanti se ne vedono, forse addirittura uno qualsiasi, ed ho immaginato, non so neanche perché, fosse mio padre.
            Giacca grigia leggermente sformata, camicia chiara, forse bianca, nient’altro mi è riuscito di vedere di lui in quel breve attimo in cui sono riuscito appena ad occhieggiare la sua faccia, la sua espressione seria, i lineamenti stanchi, di chi probabilmente ha già compiuto un percorso che nel tempo poco per volta gli ha ristretto qualsiasi possibilità di futuro, lasciandogli niente di differente alla sua vita di anziano, attaccata solo alle abitudini. Il suo viso, a ben guardare, mostrava quasi spavento, forse un assoluto bisogno di rassicurazione, come di un uomo che cerca disperatamente suo figlio in un luogo qualsiasi, per la necessità di sentirsi sorretto, non più da solo in mezzo ad estranei.
            Era proprio solo, probabilmente, ma forse sono stato soltanto io a immaginarmelo così: un uomo anziano che gira insieme a tutti gli altri dentro ad un quartiere, che cerca forse di capire come si stia evolvendo la realtà, cos’è che sta velocemente cambiando, senza quasi che riesca davvero a rendersene conto. Ho pensato a quell’uomo come ad un’anima in pena, un padre che ha smarrito i propri figli, probabilmente, o forse li ha soltanto lasciati andare, via a cercarsi autonomamente un proprio percorso, senza ostacolare niente della loro curiosità, anzi aiutandoli in questo, anche se qualche volta con la morte nel cuore.
            Ho provato a parlargli mentalmente, mentre continuavo a  guidare la mia auto, ho provato a chiedergli da che cosa adesso fosse incuriosito, cosa potessi mai fare io per lui, per rendergli un po’ di serenità smarrita, per togliere per un attimo dalla sua faccia quelle rughe di tristezza che parevano indelebili, profonde; ma lui non ha risposto, non mi ha neanche guardato, non per indifferenza, soltanto per una lontananza che a me non arrivava in quel momento, o che mi pareva assolutamente superabile, come un piccolo stupido ostacolo tra tanti che affrontiamo ogni momento.
            Con la vettura sono arrivato alla prima rotatoria, ho compiuto un giro completo attorno ad una aiuola cittadina molto ben tenuta, e sono tornato indietro, fino al semaforo dove mio padre doveva essere ancora, in attesa di qualcosa, mentre cercava di attraversare la strada come gli altri, come tutti, sicuro di vederlo, di potermi fermare forse, parlargli davvero, forse abbracciarlo, dirgli quello che ho sempre pensato, che ho spesso avuto voglia di spiegare a lui, senza mai riuscire a farlo, ma non c’era più, era ormai sparito, risucchiato dalla vita dei semafori, delle strade, dei passaggi pedonali. Così ho proseguito a guidare la mia auto, senza pensare alcunché, forse perché non potevo proprio far altro.


            Bruno Magnolfi   

martedì 24 maggio 2011

Da questo momento esatto in poi.

            
            Sei tu che stai sbagliando, aveva detto lei con un lieve ironico sorriso sulla bocca, riponendo contemporaneamente sopra al vassoio i bicchieri in cui loro due avevano sorseggiato quasi in silenzio e con molta calma un meraviglioso aperitivo costituito da succo d’arancia, vino bianco ed una leggera spolverata di cannella. Ogni volta che si parla di qualcosa che ti interessa tendi a rimanere regolarmente sulle tue posizioni, e diventa talmente difficile smontare quelle tue convinzioni che viene voglia di evitarle, di lasciare che i tuoi costrutti da egocentrico proseguano il loro destino, anche se non si intravede neppure una logica che li sorregga.
            Lui aveva fatto una smorfia guardando a terra come preso dalla riflessione che quelle parole probabilmente gli imponevano, forse avrebbe addirittura avuto voglia di un ulteriore sorso di quell’aperitivo servito proprio alla temperatura giusta, ma non disse niente, limitandosi a registrare dentro di sé che il suo bicchiere era ormai vuoto. Non gli pareva il caso di replicare a quelle parole, non ne avrebbe neppure intravisto il senso, preferiva ignorarle, come sempre, così si limitò a cambiare argomento, giusto per dire in modo molto garbato: ceniamo in giardino, questa sera? La serata sembra  perfetta, e poi non soffia neanche un filo di quella brezza che generalmente riesce a innervosirti.
            Lei, in piedi, lo aveva osservato per un attimo, velocemente aveva portato via i bicchieri con il vassoio, poi era tornata, soffermandosi un momento, pensierosa. Si, aveva risposto; anche se rimane evidente il tuo errore, disse voltandosi verso la posizione in cui lui era rimasto: credi spesso che non possono riuscire ad esistere due opinioni differenti su un medesimo argomento, e questo è un tuo problema culturale, di impostazione esistenziale. Dici di no e conservi la tua posizione fino alla nausea, neppure rendendoti conto che in questo modo si va a porre spesso un contenzioso puramente tecnico.
            Lui aveva sorriso sollevandosi dalla sua poltrona, aveva velocemente intercettato le braccia abbandonate di lei e le aveva accarezzate, come a cercare un compromesso su tutta la questione. Poi le aveva sfiorato il viso con le labbra, ma la freddezza di lei lo aveva portato quasi subito a desistere da quei suoi vezzi. Dopo si era voltato verso il tavolo, si era acceso lentamente una sigaretta, infine aveva detto: forse hai ragione, intorno a tutte le cose a cui tengo non riesco ad avere un’opinione differente da quella che il tempo mi ha fatto maturare; sono convinto dei miei pensieri, perciò non vedo la possibilità di dover riflettere in un altro modo. Però ti ho ascoltato, ed ho capito che anche tu hai pensato molto in questi ultimi tempi al nostro futuro.
            Lei era tornata a sedersi senza averne voglia, aveva guardato nel folto degli alberi perimetrali che a quell’ora tendeva velocemente a scurire, come cercando qualcosa che non c’era, si era voltata verso di lui, lo aveva guardato per un attimo come prendendo tempo e alla fine aveva detto: deciderò io, allora, per tutti e due; tu non riesci ad avere chiaro a quale punto ormai ci siamo spinti; dobbiamo cambiare, velocemente, non si può più restare qui a guardare la nostra vita che scorre, senza fare niente.


            Bruno Magnolfi

venerdì 20 maggio 2011

In accordo con le decisioni già maturate.

            

            Si era appoggiato leggermente alla porta, Giuseppe, naturalmente cercando di non produrre alcun rumore, e soltanto per una specie di curiosità, ma senza neppure sapere con maggiore esattezza che cosa avrebbe voluto veramente capire restando là dietro. Si avvertivano dei rumori all’interno, si capiva che qualcuno parlava a voce non troppo alta, e quasi nient’altro, ma quel senso di immediatezza che si poteva immaginare restando al di fuori dell’uscio, era già sufficiente per tenere lui in quella posizione, immobile, inchiodato sopra la soglia. Giuseppe conosceva l’interno di quella stanza, ed osservando adesso a distanza ravvicinata la porta massiccia di legno ben chiusa, riusciva a raffigurarsene mentalmente anche il perimetro interno, ricostruendola quasi perfettamente, con i suoi mobili, le sedie, e tutto ciò che in quelle rare volte, quando era potuto entrare là dentro, aveva notato. Adesso tutto gli pareva caratterizzato da larghi spazi, una scrivania imponente e una grande finestra, luminosa, importante, che ricordava si aprisse sulla parete di destra.
            Si sarebbe deciso senz’altro qualcosa di sostanziale là in quell’ufficio, Giuseppe ne era più che sicuro, ma non c’era bisogno di grande fantasia per capire che le cose avevano ultimamente raggiunto un punto tale da non poter essere lasciate senza una direzione precisa di cambiamento. C’era da prendere delle decisioni concrete, questo era il punto, ed anche se in molti probabilmente non ne sarebbero rimasti contenti, una volta approntate le cose, non c’era proprio altro da fare, si doveva senz’altro procedere, lui ne era convinto: ogni cambiamento sarebbe dovuto seguire senza neppure indugiare ulteriormente, per lui adesso era la cosa migliore da fare, gli pareva addirittura che quella riunione che stava avvenendo dentro la stanza fosse stata rinviata anche di troppo.
            Giuseppe soprattutto si sentiva curioso, non gli interessava neanche risultare  più o meno favorito dai risultati che si sarebbe raggiunto dopo le disposizioni che avrebbero preso: si sentiva anzi sereno, avrebbe accettato qualsiasi decisione messa a punto dietro o davanti a quella scrivania, a patto naturalmente che nessuno avesse posto in discussione il suo ruolo. Del resto, grandi problemi non gli sembrava si ponessero, se non quello scarso scambio di informazioni che ultimamente c’era stato in quel loro ambiente, tra tutti i colleghi, quasi la ricerca per ognuno di tenersi sulle posizioni ormai maturate, come non si fosse favorito uno scambio aperto e fruttuoso, non si fosse messo in pratica nessun tentativo di far elaborare idee più avanzate, lasciando in pratica tutto quanto com’era, insomma, senza incoraggiare alcun cambiamento.
            In ogni caso, anche se ormai era del tempo che si bisbigliava di tutto quanto lungo quei corridoi, alla fine anche a Giuseppe, come anche ai suoi colleghi, non gli era parso che quegli argomenti fossero così importanti, così fondamentali, come all’improvviso sembrava, e tutti quanti insieme, come per una sorta di forma solidale, erano rimasti praticamente a guardare, in modo neutrale, a svolgere come sempre i loro ruoli e nient’altro. Lui invece, adesso, dietro alla porta, si sentiva improvvisamente, chissà perché, quasi un inetto, uno che non aveva compiuto completamente il proprio dovere: gli pareva addirittura che qualcuno, uscendo da quell’ufficio, si sarebbe potuto prendere il lusso di rimproverarlo, di farlo sentire privo di un vero attaccamento ai suoi compiti, cosa questa che lo avrebbe lasciato addirittura senza parole.
            Così rimaneva là dietro, Giuseppe, praticamente soltanto per la voglia di ascoltare in anticipo la parola fondamentale che gli avrebbe potuto render chiaro tutto il quadro della faccenda, ma per quanto continuasse a sforzarsi, non era ancora riuscito a comprendere niente. Poi qualcosa si mosse, si sentirono dei passi di qualcuno che dall’interno si stava avvicinando alla porta, si avvertiva una mano già sulla maniglia mentre premeva per riuscire ad aprirla, i cardini scricchiolarono mentre lasciavano girare sopra di sé il legno vecchio e pesante dell’uscio, qualcuno con espressione seriosa si era quasi affacciato sul corridoio, aveva visto probabilmente una persona che restava vicina, ma Giuseppe si era già scostato di un passo, inchinandosi a chiunque fosse stato là dentro: non ci fu alcun bisogno di dire qualcosa, lui era d’accordo, senza alcun dubbio.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 18 maggio 2011

La solitudine di tutti.

            
Normalmente mi limito a girare ogni sera lungo le due o tre stradine principali del mio paese, camminando lentamente ma con tenacia, un passo dietro l’altro sul lastricato vecchio e in alcuni punti anche malmesso, tra le salite e le discese che caratterizzano tutta la piccola zona storica. Nella piazzetta principale, proprio sotto al grande loggiato, si apre il luminoso Caffè Centrale, un grande bar pasticceria sempre affollato, specialmente a quell’ora, generalmente frequentato da clientela maschile, dai più in vista del luogo, che spesso si fanno servire agli eleganti tavolini all’esterno, e se ne rimangono lì a parlare, a guardarsi attorno e spesso a salutare qualcuno che passa nella piazza.
Io me ne tengo alla larga da quell’ambiente, mi sembra che la mia solitudine non debba essere confusa con altro, e le mie passeggiate siano semplicemente un momento di riflessione, tutt’al più un aggiornamento sugli altri che incontro a volte, quasi una carrellata dei gesti e degli sguardi che si possono notare in tante persone certe serate, anche se poi in definitiva sono sempre un po’ gli stessi. Cammino, arranco su queste vecchie pietre, e mi pare di non aver bisogno di nient’altro, niente comunque che assomigli a quella socialità affettata che si può notare e che rilevo nei pressi del Caffè Centrale.
Sono talmente convinto delle mie posizioni, nonostante tutti in paese mi conoscano perlomeno di vista, che questa sera, al contrario di come faccio sempre, ho indossato la mia giacca per la domenica, non saprei neppure dire il perché visto che è soltanto mercoledì, e in questo modo, ben sicuro di me e delle mie capacità, sono uscito da casa per andarmene diretto verso il loggiato, nella piazzetta principale. C’erano i soliti, naturalmente, qualcuno mi ha guardato, due o tre mi hanno rivolto un saluto piuttosto incoraggiante. Sono entrato dentro al Caffè Centrale, ho ordinato un aperitivo, poi sono andato a sedermi ad uno dei tavolini che rimangono all’esterno. Qualcuno mi ha detto qualcosa di spiritoso, io ho sorriso ma non ho risposto.
Poi si è avvicinata una mia vecchia conoscenza, mi ha fatto i complimenti per la giacca, mi ha salutato con calore, infine mi ha lasciato sorseggiare il mio aperitivo, lasciandomi da solo dopo avermi stretto la mano. Ecco, ciò di cui avevo sentito la necessità all’improvviso si è manifestato: mi sentivo bene in mezzo a questa gente, continuavo ad ascoltare tutti che parlavano tra loro, qualcuno che rideva, ma questo non aveva neppure troppa importanza; niente di ciò che sono sempre stato andava perso in quell’ambiente, pur in mezzo a loro, dentro a quel locale quasi fulcro di tutto il mio paese. Non è importante il mio starmene distaccato, camminare in solitudine e guardare gli altri di sottecchi: ciò che conta è che sono uno come tutti, e che non ho bisogno di sottolineare qualche differenza per sentirmi diverso o addirittura migliore. Tornerò qualche volta a sedermi al Caffè Centrale, ho pensato mentre me ne andavo: in fondo l’aperitivo non era affatto male, e anche la compagnia si è mostrata più cortese e piacevole di quanto avrei supposto.   


Bruno Magnolfi

lunedì 16 maggio 2011

Buio e basta.

            
            Avevo chiuso gli occhi; ciò nonostante numerose luci avevano continuato ad affollare il mio campo visivo, un sipario buio costellato da punti illuminanti tutti identici. Intorno a me sentivo gli alberi del viale che lasciavano le loro foglie muoversi sotto alla brezza leggera che spirava senza una precisa direzione, il traffico era scarso, un giorno come gli altri, provavo un’improvvisa voglia di chiuso, di solitudine, di intimità, una concessione non permissibile. Un senso di malato mi pareva avesse inondato tutta la mia persona: le mani lungo i fianchi mi sembravano odiosamente piene di sangue pesante e raddensato, le mie gambe continuavano a muoversi soltanto per una sorta di abitudine. La mia testa pulsava, senza neppure pensieri veri e propri, ma come in assenza di controllo, ruotando in mezzo a un niente assurdo, che avrei desiderato il più possibile evitare.
            Chiudere gli occhi ogni tanto era quasi un atteggiamento di autodifesa, non proprio un vero desiderio di non esserci, piuttosto un fare finta che quella parte di città storpiasse nella mia mente la sua natura, fino a risultare alla mia vista un posto differente da com’era, un altro luogo, anche se non meglio definito. Le luci fluttuavano nel buio del mio campo visivo, sotto alle mie palpebre abbassate, riuscivo ad osservarne la scia mentre si muovevano in maniera lenta, come animate da una vita propria, corpi luminosi che continuavano a irradiare la loro presenza da distanze inaccertabili.
            Muovevo i miei passi lungo il bordo di un qualcosa che assomigliava sempre più al filo di un rasoio, un punto di equilibrio assolutamente incerto e instabile: non mandavo avanti un piede con la coscienza di ciò che sarebbe potuto accadere al passo successivo. Tutto si completava nella manifestazione di una sola azione, non di due o cinque oppure cento: il futuro era soltanto quello possibile entro il raggio di un secondo, forse due, quasi esclusivamente in tempo reale, il presente stretto, il resto non era rivestito di importanza. Pensare, progettare, parole senza alcun significato, che lasciavano soltanto la coscienza dolorosa di un’incapacità macchinata ad arte, che era meglio seguire in modo esatto.
            Continuavo a chiudere gli occhi per qualche frazione di secondo, tutto mi pareva in qualche modo più accettabile così, ma non perdevo il senso della mia presenza sul viale: mi sentivo osservata in ogni momento, forse da dietro quelle braci di sigaretta così distanti da brillare giusto per un attimo, e poi sparire. Non c’era altro: il vuoto pneumatico dell’impossibilità di qualsiasi altra scelta era evidente, tanto valeva cercare di immaginare il buio in qualche modo, privo di quelle luci che continuavano ad affollare il mio bisogno di non essere.  


            Bruno Magnolfi

venerdì 13 maggio 2011

Ipotesi consuete.

            
            L’uomo si era affacciato alla finestra del suo appartamento, al secondo dei tre piani di un palazzo dalla facciata piuttosto anonima, senza particolari caratteristiche. La ragazza, che aveva probabilmente fatto suonare il campanello del suo piccolo appartamento, restando sopra al marciapiede, sembrava adesso attratta da qualcosa, forse soltanto dei rumori che provocavano dei bambini in un cortile proprio lì accanto, e quando infine aveva deciso di voltare lo sguardo verso le finestre in alto da dove l’uomo si era affacciato, si era subito come resa conto che probabilmente doveva avere sbagliato l’indirizzo.
            Aveva detto qualcosa, lei, dal basso, che il suo interlocutore non era riuscito neanche a comprendere, ma probabilmente era stato tale il modo, così cortese e sorridente, con il quale aveva in qualche maniera cercato di spiegarsi dalla strada, che quest’ultimo era rientrato, per andare con solerzia a premere l’interruttore tramite il quale si apriva il portone del palazzo. Il sole di quel tardo pomeriggio era piacevole, l’uomo si era sentito bene per quell’attimo in cui si era affacciato alla finestra della sua cucina, tanto da chiedersi perché non lo avesse fatto prima, non foss’altro che per starsene a guardare le persone che scorrevano lungo i marciapiedi, e a registrare quelle vetture, poche a dire la verità, che passavano ogni tanto in quella strada di quel quartiere fuori mano.
            La ragazza era entrata nel portone, lo aveva richiuso alle sue spalle, quindi aveva preso le scale con calma, e si era soffermata per un attimo sul pianerottolo del primo piano, l’uomo l’aveva ben vista mentre ne studiava la fisionomia e soprattutto il passo con cui stava salendo, quasi troppo lento ad essere sinceri, ed osservandone i capelli, l’abbigliamento, persino le scarpe. Infine lei aveva ripreso a salire quegli ultimi scalini, proprio nel momento in cui l’uomo aveva provato un moto come di fastidio per quella cosa che stava capitando e gli faceva senz’altro solo perdere del tempo. Lei, continuando la sua ascesa lungo quelle ultime due rampe, aveva proseguito ad osservare solo i gradini avanti a sé, e soltanto quando era giunta a pochi passi di distanza aveva sollevato lo sguardo verso di lui, che era rimasto immobile, quasi con curiosità ad attenderla.
            L’uomo aveva già scartato dentro di sé alcune possibilità: non poteva essere una venditrice di prodotti, quella ragazza, non aveva alcun bagaglio; non poteva neppure essere una sua lontana parente, non ne aveva lui di quell’età; neppure poteva darsi svolgesse lavoro come fattorino o come portatrice di messaggi, non c’era nel suo vestiario alcun riferimento ad un compito del genere; ed oltretutto nessuno di quel settore si sarebbe posto a salire le scale con quella lentezza. Così sembrava non esistesse proprio alcuna possibilità, se non qualcosa che sfuggiva alla normale comprensione. Forse, tornando alla prima impressione che lui con giudizio aveva avuto, era quasi sul punto di sentirsi ormai convinto che quella donna avesse, per sua disgrazia, sbagliato l’indirizzo, e forse stava già pensando di interromperle la fatica di salire quegli ultimi due o tre gradini, di avvertirla dell’errore, insomma, quando lei, guardandolo con un sorriso, quasi con semplicità, ebbe a dire soltanto: sono la nuova inquilina del terzo piano; mi scusi, ma non possiedo ancora la chiave del portone principale.


            Bruno Magnolfi  

mercoledì 11 maggio 2011

Succede, qualche volta.

            
            Forse non sarebbe stata quella la maniera giusta per risolvere i miei guai, pensavo mentre entravo dentro a quel piccolo ufficio postale del paese, proprio lungo la strada provinciale. Neppure mi affrettai, non ce n’erano motivi, attesi con pazienza, guardando certe carte, che tutti fossero usciti da quell’unico locale, quasi all’ora di chiusura, e che fosse rimasta soltanto quella figura d’uomo dietro al bancone, seduta al suo sportello, solerte nel timbrare qualche cosa. Lo guardavo mentre lui distrattamente mi chiedeva di cosa avessi mai bisogno, ma io ero vigile e osservavo già dietro di lui quel muro anonimo con appoggiati solo un armadio semplice insieme a uno scaffale, con la porta socchiusa sul fondo, proprio nel mezzo, alle sue spalle.
            Dissi buongiorno, solo per una sorta di abitudine, senza ironia, mentre già gli puntavo alla faccia il taglierino. Lui non disse niente, non si mosse, e questa momentanea assenza di ordinari sentimenti forse innervosì i miei gesti. Immaginai in un attimo la sua vita, il suo lavoro sicuro, il suo ruolo monotono e importante nel paese, e ne ebbi disgusto, non so perché, forse per quell’invidia che nasceva dal contrasto con la mia esistenza senza regole. Avevo proprio chiare le mie idee fino ad un momento prima, come tutto il proseguo della storia, ma ogni cosa adesso pareva così ordinaria che cercavo in qualche modo di far emergere un dettaglio. Non so neppure in fondo perché cercai qualcosa che rompesse quello stallo insopportabile che si era profilato, ma il mio gesto frettoloso solo per caso andò proprio a tagliargli la carne della faccia, senza che potessi fare molto per impedirne il compimento.
            Forse l’uomo urlò, non saprei dirlo, forse rimase incredulo e impaurito di quel sangue che in un attimo sporcava il suo consumato posto di lavoro. Mentalmente ricominciai daccapo quel percorso che mi aveva portato proprio fino lì, ed anche in una seconda ipotesi riflettevo che avrei desiderato far sparire l’uomo alla mia vista, come se non fosse mai esistito, via dalla mia strada. Eppure tutto era ormai iniziato, non potevo far niente per fermare il corso delle cose, così quando vidi la donna farsi sulla porta alle spalle di quel suo collega e giungere assordante il rumore di quella sirena, forse l’unica protezione contro la gente come me, non riuscii più neanche a pensare, e restai lì, pietrificato, solo a guardare quel luogo senza senso, e quell’uomo che in mezzo vi danzava, unico elemento mobile di tutto quanto il quadro.
            Parlai all’uomo allora, gli urlai che doveva darmi i soldi, e lui reggendosi la faccia aprì il cassetto e mi gettò sul banco tutto ciò che conteneva. Ebbi un moto d’odio per quella persona che rovesciava così il suo disinteresse per i miei problemi, la mia vita, il mio difficoltoso esistere, liquidandomi con qualche banconota, così pensai di infierire ancora su di lui, come contro la rappresentazione di ciò che mi lasciava estraneo al mondo, ma mi trattenni. Andava tutto storto, pensavo, pochi soldi, la sirena che richiamava l’attenzione di tutto quel paese e delle guardie: mi avrebbero acciuffato, ne ero già convinto. Pensai ad un gesto che riscattasse quei miei errori, che ne trovasse un senso, forse, ma non seppi pensarne neanche una traccia, così tornai ad uscire sulla strada provinciale, proprio da dove ero arrivato, svuotato ormai di qualsiasi desiderio.   
            Cercai di fuggire allora, com’era normale che facessi, il resto non voglio neppure ricordarlo.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 4 maggio 2011

Un motivo per guarire.

            
            Con lo sguardo basso, camminando con lentezza e scorrendo lungo gli interminabili corridoi dell’ospedale Policlinico, Lello, senza neppure avere in mente una meta precisa, lasciandosi sfiorare continuamente da parenti e amici che a quell’ora sono tutti in visita ai moltissimi ammalati che affollano i reparti, si sente confortato dall’idea che nessuno pare si preoccupi di lui. Si muove con circospezione, in ogni caso, soppesa ad ogni passo ogni dettaglio, evita di essere avvicinato da qualsiasi camice bianco che ogni tanto si trova ad incrociare, e se ne va avanti, senza neppure sapere verso dove, ma come muovendosi in una giungla infida, passando comunque in rassegna con attenzione i pericoli che incombono e le minacce che possono sussistere.
            Non entra nelle camere, non gli piace vedere gli ammalati dentro ai letti, pallidi, sofferenti, spesso senza alcuna forza, lui si limita a pensare che ci sono, sono là, sotto alle coperte, a volte stanno ad occhi chiusi, in tanti casi parlano con qualcuno, cercano di sentirsi come gli altri, come quelli che sono lì, vicino a loro, però in piena salute. Scende le scale di servizio, Lello, sale sopra l’ascensore assieme ad altra gente, va a sedersi dentro una saletta, come molti, ma soltanto per un attimo, poi riprende instancabile con il suo girovagare silenzioso.
            C’è una donna di cui si ricorda, Lello, e lui si sente consapevole che è il suo stesso viso quello che sta cercando adesso tra tutta quella gente, anche se forse non è neppure possibile che lei sia proprio lì, in quell’ospedale. Cecilia, ecco che ricorda anche il suo nome, una persona gentile, sorridente, che qualche tempo prima veniva a far visita a qualcuno che poi fu trasferito, un suo parente forse, e a volte lei lo incrociava, mentre Lello come al solito camminava lungo il corridoio, e gli chiedeva in certi casi qualcosa sulla sua salute, poi lo salutava in fretta, questo si, ma gli lasciava dentro alla memoria quel suo sguardo bello, comprensivo, che apparentemente durava solo un attimo, ma che per Lello proseguiva per dei giorni interi.
            Qualcuno inizia già ad andarsene, l’orario delle visite sta quasi per finire, Lello si volta velocemente, prende l’ascensore e torna al piano terra, passa davanti alla portineria dove lo salutano, sembra proprio che tutti lo conoscano là dentro, anche se lui non risponde quasi mai. Poi, tramite un altro vasto corridoio, esce da quella clinica per rientrare nel reparto dove qualcuno lo sta già aspettando: sono queste le regole, il medico è stato persino troppo chiaro, soltanto un’ora per andare a muoversi in mezzo alle persone, non di più, poi Lello, come tutti lo chiamano in quell’ambiente, deve rientrare alla sezione chiusa, quella destinata agli psichiatrici.
Non lo sa il dottore che lui cerca Cecilia; crede che vada a girare dentro all’ospedale senza neppure avere un motivo preciso. Non importa, il dottore svolge il suo lavoro, probabilmente di tutto il resto non gli interessa neanche molto. Un giorno, tra tutta quella gente, Lello incontrerà la sua Cecilia, ne è più che sicuro, e sarà allora che correrà dal medico, e gli dirà che c’è riuscito, che è successo proprio quello per cui lui da tanti anni stava cercando di guarire: non importa se Cecilia lo avrà riconosciuto in quella confusione, per Lello sarà sufficiente averla vista, almeno un’altra volta.


            Bruno Magnolfi  

domenica 1 maggio 2011

L'aria di un giorno qualsiasi.

            
            Il mio dito insiste lentamente lungo la riga sottile che si coglie al bordo del mio tavolo quadrato. La ragazza seduta vicino a me forse osserva i miei movimenti di nascosto, io proseguo nella carezza leggera dello spigolo, immerso nella sensazione granulosa della piega che forma questa tovaglietta. Nel bar non c’è quasi nessuno, e quelle poche persone sono distratte dalle chiacchiere che alcuni fanno a voce alta, di qua e di là dal bancone su cui due o tre insistono, quasi come alla ricerca del superamento di un’inutile barriera.
Proseguo con i miei percorsi, adesso la mia mano è arrivata ad accarezzare il vasetto di vetro bianco dove stanno appoggiati, immersi in poca acqua, i gambi di un mazzetto esile di fiorellini colorati. Il mio caffè ormai è freddo, ne sono ben cosciente, ma credo non abbia proprio alcuna reale importanza: la ragazza accanto a me sorride alla sua amica che forse le fa un cenno. Lo spigolo del tavolo di legno sembra scheggiato, lo sento sotto al pollice mentre cerco di pensare a quante altre volte mi sia accaduto di trascorrere un intero pomeriggio piovoso da solo in un locale che almeno assomigliasse a questo, e con onestà ritengo di non ricordarmene nessuna.
La ragazza parla di qualcuno che al momento non è lì, poi gira la testa, mi osserva per un attimo, forse per trovare qualche relazione tra le sue parole e il mio profilo. Con calma prendo un piccolo sorso di caffè, avrei voglia di alzarmi, ma non lo faccio, resto a respirare l’atmosfera ambigua e sospesa che circonda i quattro o cinque tavoli di questa luminosa saletta. Non succederà niente, penso tra me: anche questo giorno scorrerà come tutti gli altri; non vi troverò assolutamente niente da ricordare, e nonostante questo mi sembrerà, tra qualche tempo, un giorno unico, speciale, particolarissimo, forse soltanto per quell’assenza di qualsiasi cosa che a un certo punto si è come manifestata tutt’intorno a me.
Le ragazze poi si alzano da quel loro tavolo, pagano la consumazione al cameriere, si muovono con decisione per andarsene, io proseguo ad inseguire il bordo della tovaglietta come fosse rimasto l’unico elemento, e il più importante, di cui sia utile occuparsi. Infine una delle due ragazze, prima di uscire dalla porta a vetri del locale, si avvicina dondolando verso me, osserva qualcosa sul suo tavolo, si ferma appena, giusto a un passo, mi guarda dritto, allarga la sua buffa espressione in un sorriso che forse indica tutto, ma contemporaneamente anche niente, e dopo si volta, conservando la medesima espressione, e in questa maniera se ne va.
 Rimango qui, a questo mio tavolo, per ancora un po’ di tempo, e infine quando esco, allontanandomi quasi svogliatamente dalla sala, vorrei che una bomba, nel preciso momento in cui sono fuori dal locale, riuscisse ad esplodere di colpo, cancellando tutte quelle ambiguità rimaste in aria; ma una volta respirata l’aria aperta della strada mi vergogno di quel mio stupido pensiero, e la realtà improvvisamente mi pare estremamente più piacevole di come mi sarei aspettato.


Bruno Magnolfi