giovedì 10 settembre 2009

Viaggio al contrario.

            

            Era salita sul treno e si era seduta. Subito dopo dagli altoparlanti avevano detto che la partenza era rimandata di venti minuti, soltanto per certi motivi tecnici. Poco male, lei non aveva certo fretta. Guardava dal suo finestrino le persone che continuavano ad andare da una parte a quell’altra della stazione, e li osservava tutti, come aspettandosi che qualcuno o qualcosa arrivasse e le intimasse di scendere. Non sapeva neanche bene cosa avrebbe trovato lì dove andava. La lettera, quella mezza pagina non chiara, diceva che aveva bisogno di parlare con lei, poco di più, senza spiegare i motivi, ma quella frase le era rimbalzata per giorni dentro la testa. Era tantissimo tempo che non vedeva suo padre, l’ultima volta era stata dopo il divorzio drammatico dalla sua mamma, trascinato per anni nei tribunali e finito come doveva finire, definendo quelle due persone ormai degli estranei e dividendo i beni materiali a metà o pressappoco. Però c’era lei, maggiorenne da almeno dieci anni, che comunque era sempre stata assieme alla mamma, ed adesso era una donna, ma non aveva mai sentito dentro di sé dei veri e propri sentimenti di figlia nei confronti di quel papà sempre altrove, fin da quando era piccola. Ma non voleva adesso mostrarsi una debole, lei si sentiva sicura di sé, poteva affrontarlo, parlare con lui, ascoltare senza battere ciglia tutto quello che aveva da dirle. Non ci voleva molto, un’ora di treno, poco più, ma proiettandosi oltre quell’ora non le riusciva di mettere a fuoco che cosa avrebbe detto quell’uomo. Sarebbe stato gentile, forse si, l’avrebbe portata dentro a un caffè, le avrebbe offerto qualcosa da bere, poi avrebbe parlato di mamma, degli sbagli che aveva fatto con lei, di non essersi mai soffermato a pensare, della sua vita poco ordinata, forse nevrotica, e di sfuggita si sarebbe scusato, di non esserci stato, di avere mancato tanti dei suoi doveri di padre. Ma cosa ci poteva essere di nuovo per averle chiesto di andare da lui, questo non riusciva a immaginarlo per niente. Dal finestrino del suo treno fermo, continuando a pensare, adesso vedeva soltanto delle macchie di colore senza una logica, come un quadro astratto in continuo movimento, composto da tutti quegli oggetti e quelle persone che componevano una qualsiasi stazione ferroviaria. Forse c’era qualcosa che non sapeva, che sua mamma non le aveva mai detto; oppure era suo padre che sentendosi vecchio avrebbe inventato qualcosa per attrarre sua figlia verso di sé, per ritrovare qualcosa di un rapporto che non c’era mai stato? Tutte le possibilità erano aperte, ma più continuava a rifletterci, più perdeva quella caparbietà con cui aveva pensato all’inizio: “voglio andare da lui, sentire che cosa ha da dirmi”. In fondo la sua vita aveva già trovato un buon equilibrio, non c’era bisogno adesso di stravolgere troppo le cose con racconti di chissà quali faccende, o storie che magari avrebbero lasciato degli strascichi tra i suoi pensieri, dubbi mal digeribili e interrogativi inquietanti per ciò che avrebbe ascoltato. Agli altoparlanti dissero all’improvviso che i motivi tecnici erano risolti e il suo treno era in partenza, ma lei sentì un brivido, come se il tempo fosse passato troppo di fretta, e non avesse ancora deciso. Salirono delle persone che erano rimaste sul marciapiede a fumare, poi si sentì qualche sportello che si richiudeva. Di scatto lei si alzò dal suo posto e raggiunse di corsa l’uscita, scese dal treno nel momento esatto in cui si le ruote si mossero, e una volta raggiunto il marciapiede della stazione capì che in quel modo stava facendo pagare qualcosa a suo padre di cui forse stavolta non aveva neanche colpa. Però si sentiva bene comportandosi in quella maniera, come se qualcosa dentro di sé le dicesse che quella era la cosa più giusta: guardò il treno che si allontanava e non ebbe rimpianti, poi pensò solo che se davvero suo padre aveva bisogno di parlare con lei, non ci sarebbero stati altri problemi in futuro, ma era lui che avrebbe dovuto andare da lei, non il contrario.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 9 settembre 2009

Due piani più in alto.

            

            L’uomo e la donna avevano fatto all’amore, poi erano rimasti sdraiati sul letto in silenzio, a godersi la luce del pomeriggio autunnale che penetrava di taglio dai vetri delle finestre. “Da un po’ di tempo provo un senso di colpa che prima non avevo nei confronti di Arturo. Non so, non è come una pena, piuttosto mi sento quasi invidiosa della sua serenità, certe volte vorrei dirgli tutto solo per vedere quale reazione potrebbe avere…”, disse la donna.
L’uomo si girò sopra un fianco, si accese con lentezza una delle sue sigarette, poi disse: “Prendiamoci un po’ di respiro: non salire da me ogni volta che ti è possibile. Forse ci stiamo vedendo un po’ troppo spesso…”.  Rimasero in silenzio per circa un minuto, poi si sentirono degli schiamazzi provenienti dalla piazza sotto alle finestre di casa.
“Ti ricordi quando ci incontravamo lungo le scale, ed io, formalissima, ti dicevo soltanto: “buonasera”, mentre continuavo a guardare per terra?”. “Certo”, disse lui, “erano i primi tempi che ero venuto ad abitare in questa mansarda, poco più di tre anni fa, e a volte mi chiedevo che gente abitasse in tutto il palazzo, silenziosi, bravi, pieni di assoluto rispetto; mi trovavo quasi a disagio, io che a volte lavoro ai miei quadri di notte facendo rumore, e poi sono assolutamente disordinato, conduco una vita piena di sregolatezze, ho i capelli spesso in disordine, e sopra le mani mi rimangono sempre i colori che adopro”. “Però ti piacque quando ti chiesi se potevo venire a vedere i dipinti!”. “Certo. Vedi, fare le mostre in galleria è una cosa diversa, la gente che viene a guardare i tuoi quadri sa già cosa cerca. Tu invece eri fuori dal coro, e poi ti avevo osservata, avevi i capelli raccolti in una maniera curiosa, un’espressione piena di tanta attenzione, insomma, eri decisamente la donna più interessante che avessi mai visto”. “Lo eri anche tu, interessante, come lo sei anche adesso…”, disse la donna.
Poi rimasero nuovamente in silenzio, la piazza rimandava lì in alto diversi rumori confusi, nella stanza persisteva un certo disordine, e la luce dalle finestre lasciava lentamente il calore che aveva avuto fino a pochi minuti più indietro, per assumere tonalità meno decise, più indefinite. L’uomo sembrò interessarsi a qualcosa in un angolo illuminato dalla luce diretta del sole, poi disse: “Senti, vorrei che smettessimo di vederci del tutto, avanti che il nostro vederci diventasse solo una normale abitudine…”. Lei restò immobile nella sua posizione, forse per qualche minuto, poi disse: “Certo; hai capito benissimo cosa intendevo. Mi sento stretta dentro a una morsa. Vorrei salire i due piani di scale e venire da te ogni volta che posso, ma quei gradini mi stanno pesando sempre di più. Sto bene qui, assieme a te, ma quel senso di peccaminoso e intrigante che c’era agli inizi si è perso, adesso rimane solo quel comportarsi con attenzione, in modo che i vicini non si rendano conto di noi…”. “E poi c’è tuo marito…”, disse lui. “Si, è vero, stiamo assieme da così tanti anni che certe volte mi pare impossibile che lui non legga la verità dentro di me…”. Poi lui si sedette sul letto e spense nel posacenere la sua sigaretta finita, infilò le pantofole e andò nella stanza vicina a riguardare un disegno che aveva fatto al mattino. Lei si vestì, rimise le scarpe, poi lo raggiunse. “Ciao”, gli disse con voce soffusa, toccandogli leggermente le spalle, “ma forse dovrei solo dirti: buonasera…”. 


            Bruno Magnolfi

martedì 8 settembre 2009

Il tempo sospeso.

           

            L’incendio era stato appiccato nel terreno più in basso, pressappoco nella piccola radura dove si trovava il suo orto, ma divorando cespugli e sterpaglie e spinto dal vento, si era velocemente avvicinato alla casa del vecchio Giovanni, aveva incenerito una decina di alberi sul ciglio della strada sterrata che immetteva al cortile, e poi si era estinto quasi da sé, forse aiutato dalla poca acqua rovesciata col secchio sui margini delle fiamme più forti. Gli animali erano come impazziti, assediati dal fumo e dal grande calore, e la fuliggine nera si era depositata un po’ dappertutto. Precedentemente c’erano stati dei giorni in cui il vecchio Giovanni si era sentito sfinito dei soprusi di cui era vittima da tantissimo tempo, ma fino a due anni prima era ancora in vita sua moglie, e lui aveva sempre superato le cose dando loro poca importanza. Ogni dispetto era sempre avvenuto a distanza di tempo, di mesi, qualche volta anche di un anno, ma ogni volta si poteva stare sicuri che si sarebbe verificato qualcosa di nuovo. Fino a quel giorno erano sempre state cose da poco, qualche palo della recinzione divelto, una gallina sgozzata, il suo orto in parte sciupato, e quasi come un tormento ineliminabile, chiunque di divertiva a giocare quegli scherzi di pessimo gusto, tornava per farne di nuovi. Ma adesso era diverso. Il fuoco poteva benissimo aver divorato la casa con dentro il vecchio Giovanni, se si era arrestato era quasi un miracolo, lui adesso non poteva restare indifferente ancora una volta. Si era chiuso in casa e aveva pensato. Poi aveva preso la sua bicicletta e aveva fatto il giro di tutti coloro che avevano la casa nelle sue vicinanze, senza scoprire un bel niente; infine si era spinto fino in paese, era entrato dentro alla stazione dei carabinieri e aveva denunciato tutto quanto era accaduto in quasi vent’anni. Quindi era tornato a casa sua, aveva caricato un fucile, e lo aveva sistemato nella posizione più comoda per essere velocemente imbracciato. Continuava a guardare dalla finestra, come aspettandosi di vedere qualcuno che venisse da lui a dirgli qualcosa, a dargli una spiegazione qualsiasi, ma non venne nessuno. Passarono due, forse tre mesi, e un giorno, lungo la strada sterrata, vide una donna lontana, ferma, che guardava la casa. Il vecchio Giovanni non si fece vedere, aspettò che la donna salisse sopra la sua bicicletta e si allontanasse per andarle subito dietro, anche lui in bicicletta. La raggiunse quando oramai erano prossimi al fiume, e i grandi alberi sopra la sponda lasciavano muovere tutte le foglie dal vento leggero che spirava a folate. “Ehi!”, disse il vecchio Giovanni alla donna, e quella fermandosi si era voltata verso di lui senza mostrare sorpresa. Non la conosceva, il vecchio Giovanni, però capiva da quella espressione che lei doveva sapere qualcosa. “Sto cercando qualcuno che sappia chi ha dato fuoco al mio orto e agli alberi davanti al cortile”, disse, senza aspettarsi una vera e propria risposta. La donna si tolse il fazzoletto che le teneva legati i capelli, lo osservò per un lungo momento, poi disse: “Sono Clara, tu neanche ti ricordi di me, ma io ho trascorso la vita a cercare di liberarmi del tuo ricordo. Avevamo vent’anni, forse di meno, e tu quella sera di giugno mi avevi come stregata, ed io sono rimasta fedele a quel giorno, come a un amore che si ha nella vita solo una volta. Dopo poco tu ti sposasti. Poi, tanti anni fa, ho conosciuto un uomo che non era di qui, gli ho raccontato la mia storia e lui si è mostrato colpito, triste per me. Non mi ha chiesto più niente, non l‘ho più neppure rivisto, ma sono sicura che sia stato lui a cercare di farti pagare qualcosa di cui tu in fondo non hai neanche colpa. Mi dispiace, non ti avrei mai cercato, ma so che quell’uomo può farti del male, ed io fino adesso non ho saputo fermarlo.” Il vecchio Giovanni era rimasto esterrefatto, era davvero Clara quella che gli stava parlando, gli pareva ora di riconoscere qualcosa nell’espressione del viso, nella sua voce, era passato non sapeva neanche lui quanto tempo. Non si erano più visti in tutti quegli anni, ma anche lui adesso, guardandola meglio, si ricordava di lei, era ancora bella, pur con cinquant’anni di più. “E’ quasi incredibile”, disse il vecchio Giovanni; “però bisogna fermare quell’uomo, prima che succeda qualcosa di brutto”. “Si”, disse Clara asciugandosi una lacrima come togliendosi una mosca noiosa dal viso, “proverò a scrivergli una lettera. Non ho più visto neanche lui, ma so la città dove abita, e da qualche parte ho il suo indirizzo”. “Vieni”, disse Giovanni, “andiamo a casa mia a scriverla adesso, quella lettera che hai in mente, dobbiamo impedirgli di mettersi ancora tra noi, a quell’uomo, e noi dobbiamo parlare di un sacco di cose, spiegarci tutto quello che non ci siamo mai detti fino ad ora, dobbiamo capire che cosa è successo di te e di me dopo quell’ultima volta: forse io sono vecchio, forse molte cose non le ho capite nella mia vita, forse ho fatto degli sbagli di cui devo pagare, ma ho ancora un cuore, forse  per me ancora c’è tempo per capire qualcosa…”.


            Bruno Magnolfi

lunedì 7 settembre 2009

Distanti per anni.

            

            Le due cugine, di età quasi uguale, non avevano mai avuto una gran simpatia tra di loro, anche se erano coscienti di nutrire, fin da quando erano piccole, dei sentimenti indotti dalle loro famiglie, iniziati per una assurda competizione spesso priva completamente di senso. Erano cresciute perciò con un atteggiamento ostile e un po’ rancoroso l’una nei confronti dell’altra, e per questo si erano sempre evitate, fatte salve le volte in cui le loro famiglie si erano riunite per qualche rara occasione.
La notizia della morte improvvisa di uno zio di ambedue, fratello dei loro papà, in una cittadina un po’ fuori mano dove aveva sempre abitato, le aveva colte in città, mentre seguivano i loro corsi universitari, nelle loro differenti facoltà di lettere e di biologia, così avevano deciso di affrontare il viaggio per l’ultimo saluto al defunto in macchina assieme. All’inizio avevano parlato un po’ dello zio, poi degli studi, infine erano rimaste in silenzio. Poi, dopo una pausa infinita, Cristina, che guidava la macchina, aveva detto a Valeria: “Vorrei dirti la verità: i pregiudizi che ho avuto fino ad oggi su te, vorrei dimenticarli del tutto. Ci conosciamo da sempre, tra qualche anno la nostra vita prenderà per ognuna di noi un proprio corso, non trovo adeguato continuare ad essere ostili…”. Ci fu un silenzio riempito solo dal motore dell’auto; poi dopo qualche minuto: “…e questo bel discorsetto lo tenevi in serbo per un momento del genere, immagino…”, aveva detto Valeria. “Non provo nessuna ostilità nei tuoi confronti, puoi credermi, è solo che tu hai sempre cercato di metterti in mostra con tutti i parenti, come se fossi la grande risorsa di tutta la nostra famiglia, e questo è sempre stato mal digeribile, almeno per me, ne converrai…”
“Va bene”, aveva ripreso Cristina, “forse ho accettato un po’ troppo alla lettera il confronto tra noi di quando eravamo bambine, ma adesso mi pare tutto diverso, e comunque cambierà tra non molto, direi che potremo chiudere un’epoca…”. “Forse hai ragione”, aveva ripreso Valeria con modi più amabili, “però sappi che con ciò che certe volte ho sofferto, adesso non è affatto facile, almeno per me…”.
Fermarono la macchina in un autogrill per la benzina e un caffè, poi, quando tornarono a rimettersi in moto, si accorsero che era stata rubata una borsa che Valeria aveva lasciato sul sedile posteriore dell’auto. “Perché non avevi chiuso a chiave la macchina?”, disse Valeria quasi urlando. “Non lo so,” rispose Cristina, “me ne sono dimenticata, tutto qui, mi dispiace…”. “Non ci credo per niente che ti dispiaccia”, riprese Valeria, con tutti i discorsi che hai fatto, sembra quasi che tu abbia orchestrato le cose per farmi stare più male!” “Cosa dici”, riprese l’altra, “non puoi pensare una cosa del genere. Piuttosto c’era qualcosa di prezioso dentro la borsa?”. “No, solo dei libri, un po’ di vestiario, nient’altro”. “Facciamo così”, riprese Cristina, “ricompro io tutto quello che manca, compresa la borsa, ti va?”. “Va bene”, disse Valeria visibilmente indispettita, pensando tra sé che in quella maniera si sarebbe lavata anche la coscienza dalla sua responsabilità; poi, quando Cristina rimise in moto la macchina, tutto apparentemente sembrò tornare tra loro com’era sempre stato, ed il viaggio restante, se non fu decisamente sereno, non scorse via neppure in maniera troppo pesante.
Arrivarono al paese che oramai si sentivano stanche, e davanti alla casa, quasi fossero lì ad aspettarle perché mancavano oramai solo loro, c’erano tanti dei loro parenti strinti in quel comune dolore, compresi i loro papà vicini ed uniti, e all’improvviso, senza che nient’altro ci fosse da aggiungere, a Valeria le parve di essere stata una sciocca, le rimbalzarono dentro alla testa le parole che aveva usato Cristina, e sentì dentro di sé che forse c’era qualcosa che stava sbagliando. D’istinto abbracciò sua cugina, mormorandole solo: “…scusa, hai ragione…” che l’altra comprese e apprezzò in maniera completa; continuarono a restare abbracciate, salutarono tutti come se fossero loro due una sola persona, e quando entrarono dentro alla casa, i loro parenti le andarono dietro, come se una nuova immagine di forza e di unione di tutta quella grande famiglia arrivasse da quel loro gesto, unione che forse era mancata per tanti, persino troppi anni.

            Bruno Magnolfi

            

domenica 6 settembre 2009

Fatti inesistenti.

            

            Ero andato in campagna, a stendermi sopra un prato sotto al sole di quella primavera avanzata, per starmene un pomeriggio da solo, pensare un po’ alle mie cose e godermi la bella giornata senza nessuno a cui spiegare cosa stessi facendo. Guardavo le nuvole, ma mi ero portato anche un libro, e mi sentivo sereno, a posto col mondo e con la natura, fino a quando un ronzio aveva attirato il mio sguardo. L’ultraleggero sopra alla mia testa aveva girato con il motore in lenta ma progressiva decelerazione, e a giudicare dalla lenta virata che aveva compiuto si poteva tranquillamente pensare che stava cercando una qualsiasi striscia pianeggiante dove poter atterrare. Era arrivato fino in fondo ad una fila di alberi, quelli che chiudevano lo spazio di prato dove mi ero sdraiato, e la sua rotta sembrava sempre più bassa; poi aveva virato di nuovo puntando decisamente nella zona vicina a dove io mi trovavo, e il motore adesso scoppiettava come a volersi fermare, anche se il pilota del piccolo aereo doveva avere le idee molto chiare su ciò che stava cercando di fare. Mi alzai da dov’ero, e feci una beve corsa per evitare di trovarmi troppo vicino alla traiettoria di atterraggio, poi osservai l’apparecchio che con le ruote toccava il terreno. Rimbalzò troppo su un fianco, perse l’assetto e il controllo, infine toccò malamente di nuovo la terra e il carrello si ruppe, lasciando che il velivolo strisciasse di muso per un tratto che pareva infinito. Poi si fermò, senza prendere fuoco né altro, io corsi a vedere cosa fosse successo, e dall’aereo, prima ancora che fossi arrivato, uscì fuori un ragazzo dallo sguardo intontito e leggermente ferito alla fronte. Disse che era la prima volta che volava da solo, aveva sentito il motore che perdeva potenza, aveva visto quel prato, non aveva avuto modo di pensare nient’altro. Gli dissi dov’eravamo, più o meno, che avevo la macchina a poca distanza, avrei potuto portarlo dove voleva, non c’erano assolutamente problemi. Lui disse di sì, razionalizzò tutto quello che era meglio per lui, poi, mentre ci voltammo verso l’aereo, si vide una lingua di fuoco che usciva da dentro al motore. Fu un attimo, ci allontanammo di corsa dello spazio preciso che minimamente serviva per non avere problemi, e intanto il carburante residuo nel serbatoio scoppiò con un fragore terribile, distruggendo tutto quanto poteva essere rimasto di buono. Imprecò, se la prese con la sua proverbiale sfortuna, poi iniziò a piangere in modo nervoso. Dopo qualche minuto mi chiese di accompagnarlo al primo paese che incrociavamo, ma quando salì sulla mia macchina tirò fuori un coltello che aveva sotto la giacca. Mi disse che dovevo dimenticarmi della sua faccia, dimenticarmi anche di quello che era successo, non dire a nessuno quello a cui avevo assistito. Dissi che andava bene, non c’erano affatto problemi per me, poi, quando scese dalla mia auto, ancora prima di arrivare al paese, disse soltanto che era dentro ad una cosa più grande di lui, doveva comportarsi così, non poteva spiegarmi. Pensai a lungo alle parole con cui ci eravamo lasciati, per parecchi giorni a seguire, e mentalmente costruii diversi scenari possibili, ma alla fine mi parve che forse aveva avuto ragione: era impossibile spiegare o capire certi fatti complessi, in certi casi era meglio così, dimenticare del tutto le cose, come non fossero neanche esistite.  


            Bruno Magnolfi

sabato 5 settembre 2009

Conoscenze occasionali.

            

            Non avevo avuto del tutto voglia di orinare, lì in quella sala di attesa del medico che avrebbe dovuto visitarmi. Però mi era sembrata una buona occasione, quella, per mettere in mostra la mia capacità di indifferenza nei confronti del luogo dove io mi trovavo. In più erano presenti diverse donnette con i capelli ben sistemati sopra la testa, sedute nella loro poltroncina di stoffa con le riviste di attualità da sfogliare, le espressioni seriose, i vestiti decorosi ed in ordine, tutte cose che ovviamente mi facevano venire il disgusto.
Si era formata quasi un’aria da salottino, lì in quella stanza con le file di sedie, mancava giusto che qualcuna di loro offrisse del tè coi biscotti e le tazze del servito migliore. Contro gli uomini personalmente avevo in genere meno da dire, se proprio non mi imbattevo  in qualcuno che veniva ad osservare da vicino le mie smorfie o le mie espressioni da matto, ma c’era stato qualcuno, anche in questi casi, che aveva buffamente superato la situazione uscendosene con una battuta azzeccata o mostrandosi assolutamente al di sopra di certe ironie.
Quelle donnette benpensanti invece mi facevano schifo. Ti appiccicavano addosso la loro etichetta in un attimo e non la toglievano più, qualsiasi cosa accadesse. In quella sala d’attesa ne avevo trovate diverse, tutte speciali, come solo in certe occasioni ti capitano. Una parte di queste senz’altro andava dal medico solo per parlare un po’ con qualcuno dei loro malesseri, visto che oramai non trovavano più alcun volontario che avesse voglia di ascoltare i loro discorsi monotoni. Con pazienza aspettavano il loro turno di visita, e ogni volta che una di loro si alzava per entrare nella stanza del medico, fingeva di non essersi resa conto fino ad un attimo prima che era proprio il suo nome quello che veniva chiamato dall’infermiera.
Ce n’era una, poi, con i capelli celesti, ovviamente vedova, ben sistemata sopra la sedia con le ginocchia unite e la schiena diritta,  come a voler dimostrare di essere capace di stare con gli altri, di non abusare dello spazio che le era stato concesso, e di far parte della schiera delle persone perbene. Conservando la sua borsetta sopra le gambe, osservava le altre persone presenti con il margine del suo campo visivo, pronta a registrare qualsiasi anomalia si potesse verificare là dentro, ma di fatto sfogliando  il primo giornale che aveva trovato sopra a quel ridicolo tavolinetto da fumo in mezzo alla stanza, fingendo interesse per pagine e articoli. Era pronta a salutare chiunque l’avesse salutata per primo, quella vecchia imbecille, regalando però un’immagine di indifferenza verso chiunque.
Non mi aveva guardato al mio arrivo, mi aveva soltanto dato un’occhiata veloce, mostrando la maggior indifferenza possibile. Quando si accorse che stavo pisciando, si alzò in piedi per prima, con gesto di disgusto e allontanandosi il più possibile da dove io mi trovavo, come a sottolineare il profondo disagio che aveva nel trovarsi nello stesso locale con una persona che si permettesse una cosa del genere.
I miei pantaloni si bagnarono tutti, ovviamente, mentre io continuavo a guardare le espressioni di quelle persone, ed una piccola pozza per terra si era velocemente allargata, non lasciando alcun dubbio. Mi venne da ridere, in fondo ero anziano, con la faccia da matto, sarei stato capace di tutto; quando arrivò l’infermiera per accompagnarmi nel bagno, subito chiamata da qualcuna delle presenti, avrei avuto voglia di battere i piedi per terra sopra la pozza, di schizzare chi capitava con il mio piscio, ma non lo feci, sarebbe stato troppo il contatto tra noi: in fondo, con tutte quelle signore, non ci conoscevamo neppure.   


            Bruno Magnolfi

venerdì 4 settembre 2009

Qualcosa di buono.

            

            Nel paese non ero tenuto molto di conto, di questo ero certo. Giravo per strada, percorrevo tutto il corso centrale più di una volta, avanti e indietro, salutavo diverse persone perché tanta gente sapeva chi ero e conosceva anche la mia famiglia, anche se sapevo benissimo che nessuno parlava bene di me. Quelli che erano stati i miei compagni di scuola e di giochi, tanti anni prima, erano tutti sposati, qualcuno era andato via dal paese, e avevano figli, un lavoro, una vita completa. Per me non era così. Ero rimasto in famiglia, con i miei genitori, non avevo voluto studiare, non mi ero mai interessato di niente, avevo solo continuato fin da ragazzo a dare una mano a mio padre, nella sua ditta, ma senza che questo fosse il mio vero mestiere, solo così, tanto per riempire un po’ il tempo e non sentirmi di peso. Gli anni passavano, non me ne ero neanche reso conto, e non avevo combinato niente di buono. Agli inizi mi facevo grande dell’attività di mio padre, quel magazzino con il suo ingrosso di frutta, poi anche la sua attività si era ridotta, e dei dieci magazzinieri che aveva quando ancora ero piccolo, adesso erano rimasti solo quattro, e non c’era neppure lavoro per tutti quanti i mesi dell’anno.  La gente in paese era cattiva, ti giudicava male in un attimo, e poi, per cambiare opinione, non bastava una vita. Certe volte qualcuno mi aveva preso un po’ in giro, in modo bonario, lanciandomi qualche battuta di spirito, ma in fondo a me non importava, ero cosciente di quello che ero, e che nessuna ragazza aveva mai stretto un rapporto con me. A volte mio padre diceva, anche davanti ai suoi operai: “Hai già quarant’anni, e non sai neanche quante cassette di frutta possono stare in un camion!”. Io lo lasciavo dire, tanto non cambiava un bel niente, salivo sopra il carrello e smistavo i pancali con sopra la frutta, tanto per fare qualcosa e non dar retta a nessuno. Mio padre qualche volta aveva anche detto che un giorno avrei dovuto occuparmi di tutto, probabilmente quando lui non sarebbe stato più in grado di farlo: “Bisogna trattare coi produttori, rinnovare i contratti con chi ti acquista la frutta, organizzare gli orari dei camion, lo scarico e il carico, è tutto come un grande orologio, se qualcosa si inceppa non funziona più niente…”. A volte era nervoso ed io mi tenevo alla larga, andavo nel corso a camminare su e giù, lentamente, con le mani sfondate dentro alle tasche e la testa leggera, senza pensieri. Nella cartoleria, proprio in fondo alla strada, c’era una donna, una vedova, e a volte mi lanciava un sorriso. Poi andai a comprare qualcosa che serviva giù al magazzino. Mi chiese se andavo da lei, quella sera, ed io dissi di si. Passò un mese e ormai andavo da lei quasi tutte le sere, però non mi sentivo a mio agio, mi pareva di essere sporco, e immaginavo che in paese ormai tutti lo sapessero della nostra faccenda, così lo dissi alla vedova, e lei si arrabbiò, disse che ero un cretino, che nella vita non avevo combinato un bel niente, che vivevo alle spalle di mio padre, e altre cattiverie del genere. Mi venne da piangere a vederla così: presi la porta ed uscii, disperato. Corsi senza respiro fino in fondo al paese, poi presi una strada e camminai per tutta la notte, senza fermarmi. Non sapevo dov’ero, non mi riguardava, mi fermai e dormii sotto a un albero. Pensavo di buttarmi da un ponte, o qualcosa del genere, ma non lo feci. Tornai a casa il giorno seguente, e dissi che volevo provare a sostituire mio padre, lui fu felice e si mise a insegnarmi tutto ciò che sapeva. Dopo due mesi gli prese un infarto che lo inchiodò in casa per un sacco di tempo, ma il magazzino continuò ad andare avanti, ed io mi sentii bene, importante.


            Bruno Magnolfi

giovedì 3 settembre 2009

Più forte la solitudine.

           

            L’oscuro fondo di un giorno qualsiasi è il senso di vuoto e di inconcluso dei soliti gesti, degli stessi pensieri, delle medesime cose di sempre. Mario è lì, gira nella sua casa cercando con le mani qualcosa che sa perfettamente non potrà mai trovare, perché è dentro di sé ciò che cerca, soltanto dentro di sé, e solo la consapevolezza di questo a tratti gli procura un’angoscia sottile, lieve e costante. Non ha saputo reagire in maniera adeguata quando lei è andata via, adesso ne è del tutto cosciente. Peraltro non è stato un colpo di testa o una scelta improvvisa quella di lei; tutt’altro: il percorso è durato un lasso di tempo infinito, in cui lui ha assistito allo svuotamento progressivo del loro rapporto, il lento allontanarsi di loro percorsi, l’acquisizione di una distanza sempre maggiore. E’ stato terribile rendersi conto di quanto stava accadendo, assistere poco per volta ai meccanismi già in atto, vedere giorno per giorno quanto stava sfuggendo lontano da sé, dalla sua vita. Eppure Mario ha pensato e pensato tutto quello che era possibile fare, anche se poi non ha fatto niente di pratico, non ha trovato nessuna maniera per contrapporre una diga a quell’emorragia ormai in atto. Si è limitato a osservare, a rendersi conto, a capire che tutto avveniva indipendentemente dalla sua volontà. Ha analizzato se stesso, i suoi modi, i suoi comportamenti, fino a raggiungere la consapevolezza finale che non poteva dimostrarsi diverso da quello che è. Mario si reputa una persona qualsiasi, uno tra tanti come si possono trovare un po’ dappertutto, ma allo stesso tempo dentro di sé lui si sente diverso dagli altri, come se il suo modo di sentire le cose usasse un linguaggio ai più sconosciuto, intraducibile in termini noti. Certe volte è confuso e non sa spiegarsi il motivo, ma in altri casi vede con estrema chiarezza tutto ciò di cui il suo spirito avrebbe bisogno. Lei se ne è andata, ma non è un vero e proprio dolore quello che sente adesso dentro di sé, quanto la solita angoscia sottile che gli dimostra l’incapacità che ha avuto a mostrare se stesso anche a lei. Gli manca, è evidente, ma la sua solitudine non urla, ed è la prova evidente tutto il percorso era già inevitabile. Non sa spiegarsi perché, ma forse davanti a lei, alla sua dipartita, è riuscito soltanto a rimanere lì, immobile, senza riuscire a mostrare i suoi sentimenti. Adesso è da solo. La consapevolezza di questo gli procura una spinta verso il futuro. Gira per casa, cerca gli oggetti di sempre, poi trova qualcosa che immediatamente non riconosce: è un fermacapelli, una specie di spilla di foggia ordinaria, qualcosa che parla di donne senza specificarne una sola, ma lui in casa non lo ha mai visto avanti di adesso, non lo aveva mai notato neanche prima, quando lei presumibilmente lo stava indossando, e solo questa, anche se è una piccola cosa, gli sembra di straordinario rilievo. Riflette, cerca di trovare il nesso tra tutte le cose, infine ripone l’oggetto in un luogo qualsiasi, senza farne reperto di un periodo felice. Adesso Mario comprende come potrà superare il momento difficile: potrà proiettare dentro al presente tutto quello che gli è sfuggito del periodo passato, nel bene e nel male; riparerà poco per volta ai suoi errori, cercherà di essere meno ancorato al suo modo di essere, smonterà pezzo per pezzo i suoi modi cercando di farne affiorare gli sbagli evidenti, e infine sarà certo di andare un giorno da lei, ne è assolutamente convinto, a riportarle il suo fermacapelli.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 2 settembre 2009

Lasciare e perdere.

            

            Il motore del camion mugghiava nello sforzo di trainare quei dieci metri cubi di calcestruzzo bello pronto e impastato dentro la betoniera che continuava a girare e a lavorarlo al suo interno, mentre mi avvicinavo al posto di scarico. Chissà stavolta a cosa servivano quei quasi duecento quintali di ghiaia e cemento: a fare un muro, una fondazione, il pilastro di un ponte, una travatura? Il mio lavoro non prevedeva curiosità di quel genere, a volte il materiale era più chiaro e a volte più scuro, ma a me non spettava preoccuparmi del suo colore. Col mio camion caricavo all’impianto quanto era stato ordinato, mi scrivevo l’indirizzo di destinazione e via, a scaricare l’impasto dentro al cantiere, dove mi diceva il geometra, più sodo, più fluido, lentamente, tutto come voleva; infine lavavo la mia betoniera da tutti i residui, ed ero pronto per un nuovo viaggio e un’altra consegna. Eppure certe volte mi pareva impossibile. Impossibile che ogni giorno ci fosse bisogno di tutto quel calcestruzzo, pronto a infilarsi dentro alle casseformi, a scorrere lungo i pannelli di legno, ad avvolgere le strutture d’acciaio preparate. Incredibile quanto cemento veniva colato, senza battute d’arresto, senza soste quella cementificazione continua. Facevo sei, sette viaggi ogni giorno così, e avevo trenta colleghi che lavoravano con un camion identico al mio, tutti autisti e padroni di quel proprio mezzo. In fondo era soltanto un mestiere, a volte pensavo, ma tutto quel materiale che intanto induriva e prendeva la forma mi lasciava perplesso. All’impianto, quando facevo la fila per caricare, era quello l’unico momento in cui tra colleghi, tutti ragazzoni della mia età, si poteva scambiare qualche parola, giusto per affrontare argomenti triti, buoni per dirsi le battute di sempre, ma spesso cercavo di evitare che qualcuno mi parlasse in maniera diretta, limitandomi ad ascoltare quello che dicevano gli altri. Parlare con loro di problemi relativi alla quantità di cemento che veniva prodotta, alla sabbia e alla ghiaia utilizzata, o cose del genere, neanche a pensarci: avevo provato qualche volta a capire cosa sapessero, a voce alta avevo detto ciò che pensavo, ma ognuno svolge il proprio lavoro, dicevano, e noi più si gira più si guadagna, non è il caso di porsi tante domande. Ma negli ultimi tempi era arrivata una nuova ragazza a lavorare dentro l’ufficio; dicevano fosse la figlia di uno dei soci. Si vedeva di rado sopra al piazzale, in mezzo alla polvere bianca di inerti e cemento, e a me pareva impossibile che una ragazza del genere lavorasse là dentro. La osservavo, mentre aspettavo il mio turno, oltre il vetro di quell’ufficio, e a volte anche lei mi guardava. Poi un giorno ero andato dentro per prendere il documento di trasporto e l’indirizzo relativo a uno scarico, e lei era rimasta sopra al suo tavolo con gli occhi sui fogli, in quell’attimo in cui ci trovammo da soli. “Ciao, Elena”, dissi con la voce più naturale che mi fosse possibile, anche se non ci eravamo mai presentati. Lei alzò lo sguardo, mi osservò solo un istante, poi disse: “Se solo faccio vedere che ho maggiore simpatia per qualcuno, qui dentro mi mangiano”, così non dissi più niente, presi i miei fogli ed uscii. Ma qualcosa era cambiato, e quando qualche giorno più tardi capitò l’occasione ed entrai di nuovo dentro al suo ufficio, le lasciai scivolare sopra la sua scrivania un foglietto piegato con su scritto il mio nome e il mio numero di telefono. Quando mi chiamò, disse soltanto che le dispiaceva, ma quella sarebbe stata la sua unica telefonata per me. Mi spiegò che era meglio non fare troppe domande, che ero tenuto sott’occhio per via dei discorsi che a volte avevo affrontato, che ero ritenuto uno scomodo. “Stai attento”, mi disse, “se sbagli qualcosa darai l’occasione per non chiamarti mai più a lavorare. Non domandarmi nient’altro. Devo salutarti. Lasciami perdere: non sono adatta per te…”.


            Bruno Magnolfi

martedì 1 settembre 2009

Diverse realtà.

            

Il muro era là, altissimo, e delimitava la strada da qualcosa che restava invisibile. Ogni giorno lei usciva dal suo appartamento per affrontare la monotonia delle cose, della solita vita, e ritrovava quelle pietre di selce, una sull’altra, su in alto, a coprire la vista. Era una vecchia strada la sua, irregolare e tortuosa, ma lei vi abitava da sempre, e tutto negli anni era rimasto invariato. Poi, sopra a quel muro, in un giorno qualsiasi, era apparsa una scritta:
“VIA. LONTANO DA QUI!”, diceva.
Inizialmente a lei aveva dato fastidio che qualcuno si fosse permesso di imbrattare il suo muro, poi aveva pensato che in vita sua non era mai riuscita a vedere cosa ci fosse oltre quel perimetro costituito da sassi e da calce: forse era lì la spiegazione di tutto. Abbattiamo tutto ciò che ci offusca la vista, era questa la spiegazione probabile di quelle parole, e lei era in parte d’accordo.
Ci aveva pensato, non avendo nient’altro da fare, per degli interi periodi uscendo da casa, e si era convinta poco per volta che la chiave di tutta la storia era là, subito oltre quella barriera alta e invalicabile. Il tempo, con la sua cadenza costante, aveva continuato a trascorrere senza che niente di nuovo avvenisse, e anche la scritta a vernice sul muro era andata poco per volta sbiadendo e perdendo importanza.
Fu soltanto dopo un periodo ulteriore durante il quale lei aveva iniziato a provare un leggero malessere dovuto all’indifferenza di tutti coloro che abitavano nella sua medesima strada, che pensò a quanto fosse stato opportuno prendere un po’ di vernice e ripassare la scritta, in modo da renderla di nuovo leggibile e attuale. Acquistò quanto le poteva servire, e con tutta la calma e la concentrazione che poteva essere utile, una sera si apprestò a compiere quanto aveva deciso. Ma fu vista, e compreso ciò che stava per fare, fu chiamata d’urgenza l’autorità.
Ridotta in condizioni psicologiche tali da non poter più intervenire, lei per un lungo periodo credette seriamente di cadere ammalata, tanto la prostrazione in lei era forte. Nel suo appartamento al piano terreno, da sola, a volte si affacciava all’unica finestra da cui si vedeva quel muro, e cercava di immaginarsi con qualsiasi sforzo cosa potesse esserci oltre le pietre: degli orti, dei giardini, forse dei fiori stupendi ricchi di colori e profumi, varietà botaniche ignote, intrecci di foglie larghe e verdissime capaci di intercettare qualsiasi goccia di fresca rugiada potesse cadere dal cielo. Immaginava una terra scurissima e fertile, lavorata ogni giorno da mani sapienti che ne riuscivano a sfruttare qualsiasi potenzialità, e poi tanti piccoli solchi disegnati con precisione parallelamente a quel muro, a seguirne le linee come direttive di sintonia naturale, e piccole canne allineate e con la medesima altezza inserite dentro al terreno in maniera precisa e metodica, a sorreggere lo stelo delle piccole piante incapaci da sole di resistere al vento e alla pioggia. Forse nei suoi pensieri avrebbe fatto di tutto per valicare quel muro, ma nei fatti se ne sentiva incapace.
Arrivarono un giorno degli operai con l’escavatore ed il camion, ed in pochissimo tempo aprirono un varco che subito richiusero con un provvisorio cancello di legno. Lei andò lì, a fine sera, quando se ne furono andati, socchiuse il cancello e vide finalmente ciò che aveva sempre voluto vedere: un piccolo sentiero congiungeva due case, il terreno era incolto e i radi cespugli presenti apparivano tutti polverosi e pieni di spine. Ma una mano aveva scritto qualcosa sul muro, da quella parte rovescia, ed era la medesima frase che lei già conosceva, come a dimostrare l’indifferenza con cui si poteva osservare una faccia o quell’altra, interpretando il punto di vista di qualcuno che non comprende chi non conosce, e non è a sua volta compreso da quello, come se si volesse definire un elemento qualsiasi che taglia in due una realtà e lascia, una volta compiuta l’operazione traumatica, due situazioni diverse, separate per sempre. 


Bruno Magnolfi