martedì 30 novembre 2010

Il degrado nella luce del giorno.

            

            Si parlava di niente, si scherzava, qualcuno faceva il verso ad un altro, poi tutti ridevano. Non c’era niente di male, si passava un’oretta così, fuori dal bar, seduti sul muro alla fine del marciapiede, o appoggiati ad uno degli alberi al bordo del viale. Il resto della giornata era ordinario, inzuppato della normalità più noiosa, ma la fine del pomeriggio bastava per rimettere a posto le cose. Già, perché se non si trovava l’impulso a tirare avanti, a che sarebbe servito tutto quanto? 
            Qualcuno arrivava fino lì solo per ascoltare, per rendersi conto di come fosse facile divertirsi e ridere di tutto, senza bisogno di piantarsi a credere che quel periodo fosse più triste di altri; anzi, se si trovava la maniera per essere allegri, forse si riusciva a dimostrare che i soliti piagnoni avevano torto, ed era colpa loro se le cose apparivano sempre e solo così. Già, perché era fin troppo facile dire che le cose non andavano bene, era un attimo sparare su tutto, dire che peggio di così non sarebbe stato possibile. Chi si avventurava ad accennare una cosa del genere veniva immediatamente isolato, e lo capiva da sé che era il caso di andarsene.
            Certe sere qualcuno raccontava cosa gli era accaduto nella giornata, spiegava che non avrebbe mai voluto essere coinvolto in faccende così serie come gli era successo, però si era visto costretto a dare relazione a persone particolarmente pesanti, vestite in modo sbagliato, con dei discorsi che parevano usciti da noiosissimi libri di storia. Tutta gente lontana da quell’ora serale, dalla voglia di ridere, di fumare sigarette leggere e bere aperitivi di moda. Cosa ci importa, si diceva, chi sceglie una vita grinzosa faccia pure, ma almeno si tenga alla larga, non cerchi di coinvolgere nei loro problemi chi se ne vuole tenere distante.
            A volte si riusciva persino a far tardi, raccontando cose insensate e dando loro un’importanza superiore a qualsiasi altra faccenda, ma era proprio questo il gioco più bello: divertirsi di niente alleggerendo la testa, vincere la gara a chi si mostrava più indifferente di tutti, a chi se ne fregava delle cose che dicevano sempre i giornali o tutta la gente nata sfigata; c’era un segno diverso nel terminare la giornata proprio lì, questo era il dato più importante di tutto, il resto delle persone poteva andarsene da qualsiasi altra parte. Davanti a quel bar c’era un’atmosfera speciale, nessuno aveva il diritto neppure di dubitarne.
             In certi casi si diceva che presto tutto sarebbe cambiato, oppure che non importava neanche, il vero cambiamento era già lì, tra quelle risate, nella stessa maniera di trattare le cose, come se non ci fosse assolutamente bisogno di affrontare i problemi: era sufficiente sapere di essere tutti concordi, convinti di costituire la parte migliore che quel periodo riusciva ad esprimere. Rimanere al bordo di quel viale alberato, davanti a quel bar, nei confronti di tutti coloro che si trovavano a passavare da lì, era la dimostrazione più chiara di quanto fosse semplice vivere bene e godersi le cose, senza bisogno di intristirsi nei problemi degli altri, anzi, mostrando tutta la sufficienza possibile nei loro confronti.
            Poi, si faceva più scuro, il pomeriggio lasciava lo spazio alla serata incipiente, i lampioni venivano accesi, qualcuno iniziava ad andarsene: a tutto c’è un termine, pareva l’ultima cosa da dire, anche se quanto era stato raccontato, ogni sciocchezza, ogni risata, ogni disprezzo, restava nell’aria, come un concetto superiore alla quotidianità, come un pazzesco ma tangibile brillare di luce, superiore perfino alle tenebre.

            Bruno Magnolfi    

              

lunedì 29 novembre 2010

Soltanto questa può essere vita.

            

            “In fondo non ritengo di avere bisogno degli altri, almeno di quelli con cui non trovo alcuna somiglianza; e invece coloro che potrebbero essere davvero come me, o avvicinarsi molto ai miei modi di essere e di pensare, mi incutono paura, credo sia meglio sfuggirli”.

            Mi sono stancato di me stesso, ho riflettuto in un attimo di particolare agitazione. In fondo ho impiegato molto tempo nella costruzione della mia personalità, ho cercato molte volte di allontanare da me alcuni aspetti che razionalmente mi parevano obbrobriosi, oppure inutili, in certi casi terribilmente ordinari, senza alcuna caratteristica. In fondo, penso, che c’è di male, si può sentirsi delusi di tante cose, e forse, se ci pensiamo in modo appropriato, persino riconoscersi lontani dal nostro stesso modo di essere, di vivere e di comportarsi, specialmente nei confronti di tutti coloro che ci stanno attorno. Ma si può rimediare.
            Così ho iniziato a studiare i gesti e i comportamenti di un mio vicino di casa, un bell’uomo dall’espressione sicura di sé, a cui non manca mai la frase giusta con la quale accompagnare un qualsiasi saluto quando mi incontra lungo le scale. L’ho guardato, mi sono reso conto di quanto sia somigliante a ciò che vorrei essere io stesso, ho iniziato a cercare di far meno lo scostante con lui, di mostrarmi simpatico, di parlargli il più a lungo possibile.
            Buongiorno, mi ha detto, oggi è proprio una bella giornata, il sole splende e invoglia ad andarsene in giro. Verissimo, ho risposto, effettivamente è proprio quello che immaginavo di fare: una stupenda passeggiata alla ricerca della voglia di vivere, di starsene bene, in perfetto equilibrio con tutto. Lui mi ha guardato, forse con una leggera perplessità, ma poi ha subito aggiunto: bravo, questo è quanto dobbiamo cercare di essere, perché niente di noi sarà mai diverso da ciò che desideriamo dalla realtà.
            Così gli ho chiesto di accompagnarmi, e lui dopo un attimo ha risposto che andava bene, tanto non aveva altro da fare, si poteva parlare, ha spiegato, sarebbe stato contento se io gli avessi chiarito come mai ero sempre scontroso e scostante. Mi sono immediatamente sentito a disagio, ma ho cercato di nascondere quel mio malessere, e così ho cercato di fare lo spiritoso, quello che riesce a mostrarsi diverso da ciò che normalmente dimostra, mi sono dilungato sul fatto di avere dei problemi di comunicazione, ma lui non è sembrato molto attento alle  mie riflessioni.
            Abbiamo camminato sui marciapiedi del nostro quartiere,  abbiamo incontrato altre persone che lui ha salutato con la medesima, spudorata, cordialità, fino a dimenticarsi quasi di non essere solo, di avere me al suo fianco, pronto a studiare tutti i suoi atteggiamenti. Infine ha detto che doveva rientrare, non si poteva permettere grandi libertà, doveva tornare nel suo appartamento, ritrovare le sue solite cose, studiare, anche lui, come tutti, la sua solitudine. Gli ho spiegato, con parole a dir poco confuse, che il suo atteggiamento mi sembrava un po’ falso, così lui si è fermato, mi ha nuovamente sorriso, infine mi ha detto: è così, dobbiamo dare solo un’immagine, non importa se dietro ci sia seriamente la verità, l’importante è riuscire a sostenere che questa è la vita.


            Bruno Magnolfi

domenica 28 novembre 2010

Al bordo del mondo.

          

            L’appuntamento era fissato in una larga piazzola panoramica accanto alla strada provinciale, subito fuori città, all’apice di una bassa collina; vi si trovavano alcune panchine di legno dove era possibile sedersi ad osservare un pezzo di aperta campagna, nelle giornate di sole, ed era bello attardarsi là sopra, come se il tempo perdesse di consistenza, limitandosi a far calare la sera, alla fine di quei pomeriggi, ma con una piacevole calma. Già altre volte lui e lei si erano ritrovati su quelle panchine, a parlare, a scambiare le proprie opinioni, a cercare, quasi fondendosi tra loro e in quel panorama, di uscire fuori dalla loro diversa e ordinaria realtà.
            A lui piaceva arrivare in anticipo, restare qualche minuto da solo ad osservare le cose, rimanersene in piedi appoggiato alla staccionata di legno, con le spalle coperte da una siepe che divideva quel luogo dal tracciato stradale. Pensava a se stesso, a lei, al loro incontrarsi, senza dare giudizi su niente, solo immaginando i loro sorrisi incontrandosi, il loro abbracciarsi, quell’immediato ricostituire ogni momento che avevano passato distanti, sin dall’ultima volta che si erano incontrati.
            Lui stava lì, e gli era piacevole allungare a dismisura quel momento, come lasciandolo intrappolato tra il desiderio di rivederla al più presto, ed il leggero bisogno di preparare i suoi sentimenti alla vista di lei. Restava lì, appoggiato con gli avambracci su quel corrimano, e con gli occhi persi in quella campagna, a cercare le sfumature di grigio nella distanza che fondeva la terra col cielo. Si sentiva felice in quel momento, quasi come se un tremore, di chissà quale natura, ma tutta elaborata dentro se stesso, arrivasse tra un attimo a sconvolgere insieme a lei qualsiasi sua aspettativa, stravolgendo ciò che aveva immaginato a favore della realtà.    
            Scommetteva su quel momento, ne avvertiva il suo approssimarsi, evitava di girarsi per scoprirla mentre stava arrivando, e al contrario lasciava volutamente che fosse lei a sorprenderlo solo, immerso in quella visione aperta su tutto e su niente, come se una scoperta inattesa tingesse di colori meravigliosi quel loro incontro. Sognava quasi il momento, e proiettava ogni sua immagine attorno a cose minori: cosa si sarebbero detti, come si sarebbero guardati, quanto desiderio ognuno dell’altra sarebbe stato possibile trasmettersi con un semplice gesto, forse soltanto con uno sguardo.
            Infine lei era lì, fermava la sua automobile a ridosso della siepe, tirava il freno di stazionamento, scendeva dall’abitacolo, con calma, con i suoi soliti modi compassati, di chi non vuole sbagliare. Lui si voltava, osservava il suo abito, la fisionomia, le andava incontro, felice di tutto, come se niente ci fosse di diverso da ciò che aveva vagheggiato fino ad allora. Si prendevano le mani, si salutavano, sorridendo, quasi senza riuscire a contenere le loro espressioni deliziate di quel ritrovarsi esattamente come avevano tanto desiderato.
            Niente sembrava valere quel loro momento, se non quella campagna, quel luogo qualsiasi appena fuori città, quell’ora calda del pomeriggio, quando il giorno è ancora pieno, denso di cose da pensare e da dire, quando è ancora possibile immaginarsi e sognare qualcosa di superiore ad un semplice appuntamento. La strada, oltre la siepe, restava la stessa, con il suo traffico abbastanza rarefatto a quell’ora, quelle automobili in corsa verso qualcosa: loro due si sentivano fuori da tutto, almeno quando erano lì, in quella piazzola appoggiata sul mondo, come se fosse possibile scavare un piccolo nido fuori da tutto, un angolo fuori dalla vita di sempre, e lasciare che il resto di tutte le cose si disinteressasse di loro.


            Bruno Magnolfi

sabato 27 novembre 2010

Pensieri di vento (estratto di un romanzo inedito).

           

            Forse non potrebbe essere diversamente, penso, mentre continuo a camminare nel vento gelido che mi scompiglia i capelli. Non è affatto un problema di solitudine, dico tra me, ma soltanto il rendersi conto che molte cose non si possono affatto spiegare; intuire magari, averne una percezione immediata e inspiegabile, penso, ma se si mettono in mezzo le nostre amate parole, tutto si complica, la comunicazione si arresta o si fa ingarbugliata, la comprensione si allontana sempre di più, tanto vale annullare questa esigenza, credo, e starsene qua, dentro al vento, a rimuginare qualcosa, senza importanza.


            Bruno Magnolfi

venerdì 26 novembre 2010

Ora di pranzo per una bella signora.

           

            Lei aveva bevuto un piccolo sorso di vino rosso dal calice, poi si era toccata leggermente le labbra con il tovagliolo, infine aveva guardato qualcosa fuori dal finestrone, in fondo alla vasta sala da pranzo. Non erano rimasti in molti nel ristorante, oltre loro soltanto due tavolate di famiglie complete di bambini e di persone anziane, dall’altra parte del locale, nella forte luce di quel primo pomeriggio della domenica. Si vedeva una collina verde, fuori dai vetri, con il suo fianco cosparso di ulivi e vigneti, e una casa, forse un rudere ristrutturato, una pennellata di rosso sbiadito sul corpo grigio e giallastro della pietra dei muri.
            Il cameriere aveva portato la frutta, sistemato qualcosa sulla tovaglia bianca, dopo si era allontanato, mostrando gesti e portamento meno impeccabili e più rallentati del momento quando la sala si era riempita di gente, ogni gruppo vantando la propria prenotazione, a cui si era dato seguito con l’immancabile biglietto sul tavolo dal cognome ben scritto, in evidenza. Erano belli da vedere, quei pranzi di famiglia retaggio di vecchie tradizioni, quasi un contrasto con il loro tavolo piccolo, per due persone soltanto, una tristezza forse, sottolineatura forzata del giorno di festa, da trascorrere in modo diverso praticamente per obbligo.
            Lui aveva gradito, come suo solito, gli arrosti abbondanti che erano stati serviti; aveva elogiato più di una volta la cucina ottima e semplice di quel ristorante, e si era dedicato in modo quasi completo a quel pranzo cadenzato con calma, completo di tutto, coronamento perfetto di una bella giornata di sole, dei suoi pensieri ottimistici, del suo sorriso di soddisfazione. Aveva parlato quasi senza interesse di alcune altre cose, il suo lavoro, le feste impellenti, qualche aneddoto della sua vita, ma giusto per non lasciare nell’aria troppi silenzi. Lei lo aveva ascoltato, immersa in una calma disappetente, toccando qualcosa nei piatti qua e là, giusto per dare importanza alla tavola. Poi si era svagata, più di una volta, con quella campagna che si vedeva fuori dai vetri, poco lontano, ed aveva pensato alla sua infanzia, chissà perché, come tentando di fuggire dai suoi quarant’anni di adesso.
            In fondo non era nostalgica, però si perdeva certe volte nei ricordi di qualche giornata di tanti anni fa, in occasioni in cui si era sentita distante da tutto, e aveva iniziato ad osservare e a valutare le persone che in quei casi aveva d’intorno, come estraniandosi, osservando di tutti quanti solo i lineamenti, i gesti, gli sguardi, fino ad annullare le loro parole, come se soltanto il silenzio desse loro la giusta collocazione, immergendo ogni situazione che si presentava ai suoi occhi dentro ad un tempo irreale, dilatato, quasi distorto.
            Un piccolo vezzo della sua mente di bambina, forse, ma anche una maniera diversa per rendersi conto di aspetti minori, quasi per ritrovare un senso comune nelle persone che conosceva, valutandone discorsi e argomenti, per come quelle riuscivano a interpretarli col viso, con le mani, coi gesti, annullando le loro parole, i loro argomenti, qualsiasi discorso ordinario. Ecco, insieme a quell’ultimo sorso di vino, le erano tornate a mente quelle volte, come se adesso potesse ancora permettersi di rivivere quello stesso comportamento, quella medesima curiosità.
            Lui aveva detto qualcosa, lei aveva sorriso guardandolo; poi aveva notato la piega che dal naso andava diritta fino all’angolo della bocca, come se fosse la prima volta che la vedeva. Aveva valutato il naso, leggermente spugnoso, le guance, ben rasate ma quasi inerti dietro al bisogno di sorridere di tutta la faccia. Una distanza incommensurabile le era parsa stagliarsi dietro quella espressione, forse la maggiore tra tutte quelle che aveva registrato nella sua infanzia. Infine aveva appoggiato il suo tovagliolo sul tavolo, si era alzata in piedi lentamente scostando la sedia, ma quasi senza averne coscienza. Il cameriere aveva detto che le avrebbe chiamato subito il taxi, non c’era alcun dubbio: una bella signora, aveva detto, non si deve mai far aspettare.

            Bruno Magnolfi    
             

            

giovedì 25 novembre 2010

Le speranze di sempre.

            

            Il gruppo dei ragazzi si era sistemato in un angolo della piazzetta, alcuni rimanevano seduti sopra i gradini davanti alla chiesa, altri erano in piedi, lì accanto. Parlavano con calma delle loro cose, scherzavano, ma pacatamente, senza urlare, mentre l’ora pomeridiana era quella in cui la luce del giorno inizia lentamente a svanire, anche se ancora i lampioni non erano accesi e non se ne sentiva per niente la necessità. Un uomo, giaccone scuro, mani sprofondate dentro le tasche, restava fermo poco distante: pareva incuriosito di qualcosa, così rimaneva immobile, come se tutti i suoi pensieri si esaurissero lì, in quel suo sguardo innocuo, ininfluente, quasi senza significato.
            L’uomo, senza allontanare gli occhi dal gruppo, si era poi avvicinato, non molto, ma in modo appena sufficiente per farsi ascoltare senza bisogno di alzare la voce: dovete smetterla, aveva detto, con tono convinto e deciso. I ragazzi avevano capito subito che quell’uomo stava riferendosi proprio a loro, o magari forse solo a qualcuno tra quei sei o sette che erano, così si erano voltati tutti verso di lui, avevano avuto un attimo di perplessità, poi uno aveva risposto qualcosa di spiritoso, ma sottovoce, e tutti avevano riso, disinteressandosi della faccenda.
            Allora l’uomo si era avvicinato di un altro passo, forse due, poi aveva ripreso: non avete forse capito che in questo modo non si andrà da alcuna parte? Poi aveva dato uno sguardo verso la piazza, come se si aspettasse che altri, forse alcuni che immaginava potessero pensare le sue stesse cose, arrivassero a dargli sostegno, ma notato che al contrario i passanti restavano indifferenti, preoccupati soltanto di se stessi, ritornò immediatamente a strizzare gli occhi verso i ragazzi, in attesa di una presa di posizione o di una risposta da parte loro.
            Scusi, disse uno di quelli che rimanevano in piedi, ma a che cosa di preciso si riferisce? Ci sembra di non dare fastidio a nessuno, di aver scelto un angolo di un luogo pubblico per parlare delle nostre cose, per scambiarci le nostre opinioni, nient’altro. L’uomo sorrise, tolse una mano da dentro la tasca, si voltò su di un lato osservando la facciata dell’antico palazzo che si apriva di fronte, poi parve disinteressarsi di tutto.
            I ragazzi avevano intanto cercato di interpretare quelle parole, ma non erano riusciti a comprendere a che cosa potessero riferirsi, così quello che aveva parlato con l’uomo, si staccò dal resto del gruppo, come a dimostrare di non essere intimidito, si avvicinò di tre o quattro passi, poi disse: forse, qualcosa del nostro ottimismo, della nostra gioventù, della nostra voglia di vivere, la fa sentire a disagio? Il resto dei ragazzi si era girato in maniera decisa verso le spalle del loro rappresentante, e ognuno di loro seguiva con curiosità e attenzione qualsiasi sviluppo della questione.
            L’uomo era tornato a voltarsi verso di loro, aveva estratto ambedue le mani da dentro le tasche, infine, sollevando le braccia in un gesto da grande conferenziere, aveva cercato di dire qualcosa, ma come restando senza le parole che forse servivano. Infine gli era come preso un debole moto di prostrazione, aveva scosso la testa, spostato lo sguardo verso il lastricato di pietra, e tutto questo solo per dire, alla fine: siete la nostra speranza; e nient’altro.
            I ragazzi lentamente si erano avvicinati, ricompattando il loro gruppo, fermandosi ad un passo appena dall’uomo, in silenzio, come se nessuno trovasse qualcosa da aggiungere, ma ugualmente interrogandosi, ognuno dentro se stesso, su ciò che era possibile dire; ma nonostante ogni impegno, pur dispiacendosi, non riuscirono più a scambiare alcuna parola, così le mani di tutti tornarono a sprofondarsi dentro le tasche, le persone attorno continuarono a camminare avanti e indietro, quasi senza ragione, e l’immobilismo riprese pienamente il dominio di tutta la piazza, inevitabilmente.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 24 novembre 2010

Il sorriso delle bambine.

            

            Adesso stiamo tutti in silenzio mentre il motore della macchina di papà sembra il lamento monotono di un animale domato. Guardo dal finestrino le case, la campagna, gli alberi, mentre fuori continua a piovere e le gocce d’acqua scivolano giù lungo il vetro, a pochi centimetri dal mio naso. Io e mia sorella come sempre stiamo sistemate sui sedili di dietro, i nostri genitori davanti. Ci siamo divertite un sacco a prendere in giro papà che non riusciva a vedere la segnaletica giusta lungo la strada, anche perché  lui con noi è costantemente in minoranza. Ma dopo un po’ la mamma ci ha detto: via bambine, ora basta, lasciate guidare papà in santa pace, e io e mia sorella ci siamo raggomitolate qua dietro, ognuna per conto suo, dando corso ai nostri pensieri.
            Non so neppure verso dove stiamo andando, e neppure perché, in fondo che importa, a me piace star qui a sonnecchiare, a lasciare che tutto scivoli intorno, come questo paesaggio troppo veloce per poter essere racchiuso dentro a un pensiero, troppo rapido per definire un’immagine che possa restare dentro la mente. Così tutto corre, e per me è come se questa giornata fosse infinita, e questa automobile riuscisse ad attraversare tutto il possibile, senza tornare mai indietro, lasciando alle spalle la scuola, i giocattoli, la cameretta che divido con mia sorella, tutti i pianti e gli scherzi in cui abbiamo ecceduto in questi ultimi tempi.
            Papà dice qualcosa alla mamma, io non ascolto, mi lascio cullare dalla presenza rassicurante dei miei genitori, e questo mi basta. Adesso piove di meno, ma le ruote ogni tanto fanno schizzare l’acqua da dentro le pozze. Non so cosa sia voler bene, so che vorrei tanto che questo viaggio non avesse uno scopo, che non ci fosse niente che definisse il bisogno di aver affrontato questa giornata piovosa, vorrei che mio padre dicesse che stiamo facendo soltanto una gita, un giro qualsiasi per vedere se in un’altra città riesce a piovere alla stessa maniera come in quella dove abitiamo.
            Forse i miei genitori hanno accennato qualcosa di questa giornata, forse ci hanno spiegato, a me e a mia sorella, il motivo per cui oggi non c’è stato bisogno di andarcene a scuola. Magari è qualcosa di particolarmente importante, ma io non ho ascoltato le loro parole, mi sono rifugiata nel gusto di questo viaggio, senza preoccuparmi di altro. Penso tra me che forse ho sbagliato, avrei dovuto stare più attenta a quanto dicevano, ma in fondo che importa, rifletto, a me basta star qui, aver piena fiducia nel loro essere perfettamente consapevoli di cosa sia meglio per noi.
            L’auto va avanti, adesso è smesso di piovere, mia sorella mi ha dato una spinta col piede, forse solo per stuzzicarmi, ma io l’ho ignorata, ho voglia solo di starmene qui, per conto mio, in mezzo ai pensieri. Forse lei ha capito dove si va, e questo un po’ mi dispiace, però poi rifletto che non è niente di particolarmente importante, che lei ne sappia un po’ più di me non cambia assolutamente le cose. Infine la nostra automobile rallenta, entra dentro un enorme parcheggio, riconosco i simboli di un ospedale, guardo mia sorella con un’espressione interrogativa.
            Andiamo a trovare lo zio ammalato, dice lei sottovoce, coprendo perfettamente in un attimo ogni vuoto che all’improvviso mi si era aperto dentro la testa. Giusto, penso tra me, la nostra famiglia è più larga di noi quattro che stiamo qua dentro, dobbiamo avere un pensiero per tutti, anche per chi vediamo di rado, portare il conforto a chi non può muoversi. Infine la macchina è ferma, gli sportelli si aprono, mi sento restia a scendere da qui, ma poi esco fuori, guardo il grande edificio di fronte e tiro un respiro nell’aria lavata; adesso credo di sapere cosa sia voler bene: guardo i miei genitori e so che stiamo portando un sorriso allo zio, forse perché è proprio di questo che lui ha un gran bisogno.    


            Bruno Magnolfi

martedì 23 novembre 2010

Il pensiero di una mattina qualsiasi.



Stamani mi sono svegliato come ogni mattina, alla stessa ora di sempre, ritrovandomi quasi nella stessa posizione di ogni giorno. Non mi sono meravigliato, in fondo non c’era proprio nulla di cui meravigliarsi, anche perché davanti a me non avevo alcuna altra possibilità se non quella di compiere i soliti gesti usuali di ogni giorno.
Muovendomi lentamente ed evitando di disturbare il mio cane che da sempre passa le notti sdraiato sopra al pavimento ai piedi del letto, ho pensato che l’unica vera differenza rispetto ad un altro qualsiasi dei miei risvegli fosse data dai pensieri. Certo, se tutto era uguale fin nei dettagli dei colori del pigiama e nella posizione del cane, forse l’unica vera differenza era quella, anche se per dati oggettivi restava impossibile da vedere. Sicuro, una volta in piedi, quando fossi stato completamente sveglio, ma forse ancora prima, mentre ero intento ai riti di sempre, la barba, l’acqua, lo specchio, ed anche una volta adempiuti i compiti di ogni mattina, finito di preoccuparmi di qualsiasi piccola cosa, bene, potevo pensare. Pensare qualsiasi sciocchezza, immaginarmi le cose più strane e più ardite, fantasticare su tutto ridisegnando anche gli oggetti che arredano la mia piccola casa e che sembrano emergere dalla nebbia quando vengono rischiarati dalla fioca luce della mattina appena abbozzata. Pensare anche qualcosa di me, oppure degli altri, oppure di nessuno in particolare. Prepararmi alla giornata nascente, o a quella seguente, o a tutta la settimana, ai mesi, agli anni a venire, progettare cambiamenti, trasformazioni, qualsiasi cosa, qualsiasi cosa io potessi desiderare.
Subito dopo ho avuto paura di quel mio pensare. Ho preso il latte dal frigo, l’ho versato freddo dentro un bicchiere, ci ho messo dentro due cucchiaini di zucchero stando ben attento a non prendere l’identico involucro riempito di sale, e dopo aver fatto girare diverse volte quel latte, ne ho bevuto un bel sorso.
Se all’improvviso non avessi avuto pensieri, neanche uno piccolo che ne valesse la pena; se non avessi avuto nessuna fantasia, né sulla casa, né sui gesti di ogni giorno, né quest’atteggiamento critico sui miei comportamenti giornalieri, né su queste povere cose che ogni giorno mi vengono incontro, che mi aiutano a ritrovare la mia personalità, la mia indole; se non avessi il mio sentirmi persona che a volte si sdoppia fino a farmi vedere ogni cosa con gli occhi dello specchio del bagno, o del mio cane che alza la sua testa pelosa ad osservare la medesima scena di ogni giorno. Se non avessi tutto questo, ebbene, neppure sarei. O sarei altro.
Mi sono immaginato la giornata di fronte. Ed ho avuto voglia di cambiarne la struttura, i contenitori stessi del suo ordinario trascorrere. Poi mi sono reso conto che è del tutto impossibile. Ma in fondo tutto questo è stato sufficiente: avere delle possibilità, anche se non vengono neppure sfruttate, è già sufficiente per poter essere vivi.


            Bruno Magnolfi

lunedì 22 novembre 2010

(Profilo n. 6). Quasi oltre le case.

            

            Un uomo cammina per strada, si guarda attorno, indubbiamente non ha alcuna fretta, tiene le mani sprofondate dentro le tasche di un soprabito logoro, mentre nelle sue idee tutto di quella strada cittadina appare indifferente ai suoi passi. Ci sono persone che lo incrociano, alcuni lo sfiorano, qualcuno forse lo nota, vestito malmesso com’è. Un signore abbigliato in maniera elegante gli tocca un braccio, gli chiede: ha bisogno di qualcosa?, ma l’uomo scuote la testa sotto al suo cappellaccio consunto, senza neppure girarsi; non ha bisogno di niente, lui, solo di percorrere quel lungo marciapiede, fino alla fine, nel punto dove quella strada si immette in un viale alberato. Non sa perché, ma ha deciso così, e questo è tutto ciò che adesso ha importanza per lui.
            Poi ci ripensa, si ferma, guarda dietro di sé. In fondo è vero che non abbia bisogno di niente, che cosa importa se la sua vita si sia ridotta allo stremo, riesce benissimo a tirare avanti in qualche maniera; in fondo, tra la moltitudine delle persone di una città, qualcuno deve pur fare la parte del povero e del senza casa. No, lui vive di piccole cose, percezioni da niente, sottili messaggi che gli giungono in modo inconsueto, che ritiene di saper interpretare, di vivere appieno, e la sua ritiene sia una gran libertà, quella cioè di sentirsi sempre pronto e adeguato a quei segnali.
            Resta fermo, sopra a quel marciapiede, annusa l’aria come farebbe un cane che cerca una pista, infine vede il portone semichiuso di un condominio lì accanto, ed entra dentro, come rispondendo a qualcosa che non sa neanche lui a quale natura appartenga. In fondo all’ingresso ci sono le scale, e lui si siede, come in attesa di qualcosa che non riesce a capire cosa possa mai essere, ma sa che arriverà, sicuramente, mentre in apparenza resta su quel gradino soltanto per riposarsi, per uscire dalla vista della gente lungo la strada.
            Il palazzo sembra deserto, non si sentono giungere neanche rumori, oltre quelli della via transitata, e dall’alto arriva una luce diffusa, trasmessa probabilmente da un lucernario che si apre sul tetto. L’uomo si sente curioso, volge lo sguardo in mezzo alle scale, su verso il tetto, e vede la luce che giunge da lì. Allora si alza, sale le scale con tutta la calma possibile ed evitando qualsiasi rumore. C’è una porta alla fine di tutte le rampe, là dove la luce è più intensa, lui gira quella maniglia e la apre.
            Una vasta terrazza malandata torreggia sopra tutte le case là attorno, l’uomo osserva con calma tutto il quartiere, guarda a lungo la chiazza di verde lontano dove ci sono i giardini pubblici, poi si incuriosisce del viale alberato, quello verso cui era diretto, poco distante da lì. Le automobili si muovono svelte lungo le strade, lui si sente bene in quell’aria piacevole che circola lenta tra i tetti e i comignoli. Poi si sporge dal muro, guarda la strada, il marciapiede, vede persone rispetto alle quali adesso si sente preferito, in qualche maniera, come se fosse al di sopra delle sciocchezze ordinarie di cui è preda chiunque.
            Infine si siede, con le spalle appoggiate a quel muro scrostato e con tutta la città sotto mano, quasi lì accanto: no, pensa, non ho bisogno di niente; posso spostarmi da una parte a quell’altra, guardare la gente, la loro nevrosi; ho la capacità riflessiva per apprezzare cose che gli altri non vedono, la libertà di sentirmi al di fuori da quasi tutte le regole, nessuno mi attende, nessuno si aspetta qualcosa da me; ecco, è questo il messaggio che doveva arrivare, sapevo che era nell’aria, era evidente che avessi necessità di questo sostegno, adesso posso tornare a camminare lungo quel marciapiede, adesso sto bene, mi sento ricco.


            Bruno Magnolfi

domenica 21 novembre 2010

Contro l'ingiustizia.

            

            Quelle prime luci dell’alba apparivano tenere e definite sotto gli alberi, mentre la piccola barca a remi scivolava leggera sopra l’acqua verde di quel fiume, davanti agli occhi attenti del ragazzo riparato dai cespugli, curioso delle piccole onde che lentamente andavano formandosi. L’uomo remava, attento a rispettare il silenzio della natura: il suo abbigliamento era di tipo mimetico, il fucile in bella vista, appoggiato verso la poppa della barca.
            C’era stata una riunione la sera precedente, i ragazzi avevano deciso che la natura andava protetta, a costo di qualsiasi sacrificio; era stato sorteggiato lui per fronteggiare gli eventuali cacciatori che quel sabato si sarebbero avventurati lungo il fiume, e lui si era sentito convinto della loro giusta presa di coscienza, per cui restava lì, nascosto, pronto a far esplodere i petardi di cui aveva pieno lo zaino, allo scopo di far scappare tutti gli animali, avanti che fossero raggiunti dai proiettili.
            Oltre l’argine, lungo il sentiero in cui camminava il ragazzo, gli alberi erano radi, ma diventavano più fitti quando il fiume si allargava nel laghetto dove in quel periodo stanziavano le anatre. Il cacciatore aveva rallentato il ritmo con i remi, poi li aveva sostituiti con una semplice pagaia, in modo da guardare sempre in avanti mentre avanzava in modo lento, senza rumore e quasi senza onde. Il ragazzo si era guardato attorno, si sentiva sicuro di sé, aveva anticipato l’uomo arrivando nei pressi del lago con un certo anticipo.
             Poi si era perso ad osservare quegli uccelli acquatici che se ne stavano tranquilli a galleggiare sopra l’acqua, indifferenti al mondo e alle sue congetture, semplici nelle loro piccole occupazioni, tranquilli nel silenzio della mattina appena sorta. Sentiva dentro di sé di amare la natura, però aveva già riconosciuto l’uomo che stava arrivando faticosamente con il suo fucile carico: nel paese lo conoscevano tutti, era uno di quelli che non si sarebbe mai piegato a comportamenti diversi da quello scelto, e il ragazzo si era sentito debole nella sua ricerca di fronteggiare quelle cose, così la sua perplessità si manifestava adesso in un tremore delle mani quasi inarrestabile.
            I suoi pensieri all’improvviso vorticavano, vedeva nei suoi occhi le persone del paese, il bar dove si radunavano ogni giorno tutti i cacciatori per raccontare delle loro prodezze, vedeva il gruppo dei ragazzi, quelli del gruppo ecologista, tutti bravi quando si trattava di affrontare le cose con semplici parole, e poi vedeva le sue mani, sempre più tremanti, incapaci di qualsiasi gesto.
            Le anatre lanciavano qualche piccolo richiamo, il sole aveva iniziato a illuminare tutta la vallata, le colline attorno mostravano il panorama più fantastico che si potesse immaginare, il silenzio coronava tutto, come se nessun rumore innaturale fosse possibile là attorno. Poi il ragazzo tornò ad osservare il cacciatore, e si accorse solo in quel momento che l’uomo aveva già imbracciato il suo fucile, in piedi sopra la barca quasi immobile, prendeva la mira, stava ormai per sparare il primo colpo.   
            Il petardo esplodendo percorse come corrente elettrica tutta la zona del laghetto e delle colline attorno, le anatre presero il volo tutte assieme, il ragazzo osservò le sue mani quasi incredulo di essere riuscito nel suo compito; il cacciatore si volse, sparò un colpo quasi senza guardare, proprio verso gli alberi dove si trovava il ragazzo, lui sentì i pallini che fischiavano vicino alla sua testa e si buttò giù, con la faccia sopra al muschio. Aveva rischiato, ne era cosciente, ma adesso si sentiva grande, ancora più forte e deciso nelle sue convinzioni.


            Bruno Magnolfi  

sabato 20 novembre 2010

Laboratorio teatrale, lungo la strada.

            

            La finestra è chiusa, come sempre, ma scostando appena la tendina riesco a scorgere la strada, con il marciapiede di fronte e i due negozi che si aprono lì, uno di generi alimentari e l’altro di ferramenta. Passano di fronte a me le persone di tutto il quartiere, qualcuno lo conosco, altri no; acquistano il pane o una scatola di chiodi, e ognuno sorride, si salutano incontrandosi, si augurano l’un l’altro una buona giornata.
            Non c’è mai niente di nuovo, solo quelle solite cose, quei comportamenti ordinari, quegli identici gesti così precisi, così importanti, che mostrano di quanta umanità la gente di questo piccolo quartiere sia capace. Io li guardo, li riconosco, spesso, e quando parlano tra loro è come se parlassero anche insieme a me, mi spiegassero le loro cose, i piccoli problemi, le faccende di cui devono occuparsi, lasciando i saluti da portare a qualcuno rimasto a casa, qualcuno che non si vede da un bel po’, proprio come me.
            Io non esco mai, resto qui, tra queste stanze, mi basta guardare le persone che si incrociano sopra al marciapiede, davanti a questa mia finestra. Sono d’accordo con il negoziante di fronte, e lui, quando arriva l’ora di chiusura e non ha più nessuno dentro al suo negozio, attraversa la strada e mi porta le cose che mi servono, quelle che gli ordino ogni volta. Non mi dice niente, mi saluta con riguardo, prende i suoi soldi, rispetta la mia solitudine, anche se io so perfettamente cosa pensa.
            Pensa di me che sono solamente un povero vecchio curioso, senza speranza, ristretto a guardare la vita che scorre da dietro una tenda, senza più nessuna socialità, privo di qualsiasi interesse vero per il mondo fuori dalla mia casa. Ma non è così, lui si sbaglia, a me piace molto quel piccolo teatro che si snoda fuori, sulla strada, lungo quel loro marciapiede, ci passo tante ore a immaginare come declami, per esempio, la signora imbellettata che ogni giorno transita da lì solo per farsi vedere, o cosa dica sempre a voce alta l’insegnante in pensione, mio vicino di casa.
            Li osservo, ne studio i gesti, le espressioni del viso, i sorrisi e gli ammiccamenti, mentre spiegano con convinzione le loro ragioni, ed io riesco perfino a comprendere quei loro argomenti, quei modi di dire, quei saluti più o meno convinti, fino a poterne quasi decifrare le parole. E’ la vita quella che ho di fronte, per qualcuno sciocca, semplice, superficiale, per altri più complessa, da spremere per cercarne la sostanza, per sfruttarne ai propri scopi e per ragioni più importanti di quanto vogliono mostrare.
            Il negoziante viene da me ogni giorno, in silenzio, con la sua busta di provviste, io gli sorrido, lo ringrazio, gli corrispondo i soldi che mi chiede. Una volta invece dice qualcosa, come tra sé, mentre prende i suoi soldi: si sono litigati gli inquilini qua di fronte, dice, come se per me fosse importante, come se mi avesse preso per uno che spia la vita della gente, o si diverte alle spalle degli altri. Io lo osservo, dico che a me non interessa, gli spiego che quando guardo le persone che passano lungo il marciapiede è solo per immedesimarmi in loro, per essere con loro a dar vita a questa strada, a questo piccolo teatro, non per curiosità su ciò che fanno o per come conducono le loro esistenze.
            Il negoziante non capisce, mi guarda con un sorriso ironico, poi mi saluta, se ne va. A me non è piaciuto quel suo atteggiamento, così il giorno seguente mi vesto di tutto punto, con una bellissima cravatta, prendo anche il cappello ed il bastone, esco sopra al marciapiede, affronto ciò che devo, attraverso la strada ed entro dentro al negozio dei generi alimentari. Non c’è nessun cliente in quel momento, lui è dietro al bancone, come sempre, mi guarda con sorpresa, io lo fisso, sollevo lentamente ma di poco il mio bastone, e dando un senso teatrale al mio viso e alla mia voce, dico soltanto: buongiorno, vorrei solo del pane; non mi serve altro.


            Bruno Magnolfi   

venerdì 19 novembre 2010

Scena n. 11. Stupide illusioni.

          

            A piccoli passi, in una luce morbida e calda, con un paio di scarpine celesti, giunge sul palcoscenico una bambola dal largo vestito di pizzo, un delizioso cappellino, il viso di meravigliosa porcellana, con grandi occhi brillanti e labbra rosse; si ferma al centro della scena, accenna un saluto, resta immobile e in silenzio per un attimo, poi dice: ero stata abbandonata in un angolo della soffitta, nel buio e nella polvere, e la tristezza dell’immobilità era calata su di me. Per questo avrei voluto essere viva, per ribellarmi al mio destino, per andarmene, vedere il mondo.
            Con grande sforzo mossi una mano, voltai la faccia verso un sottile spiraglio di luce che arrivava da sotto la porta, infine mi alzai in piedi. Non so neppure come feci a ritrovarmi lungo la strada, forse qualcuno mi aveva messo insieme ad altra spazzatura, ma io ero riuscita a liberarmi dal sacchetto, e avevo deciso di cercare qualcosa che valesse la pena di tutti quei miei sforzi.
            Passarono gli uomini, e qualcuno di loro mi prese con sé per un’ora, a volte anche di meno, riabbandonandomi ogni volta lungo quella strada. A me non importava delle loro manie, ero felice di scoprire il mondo, mi guardavo attorno e mi pareva incredibile poter essere lì, in mezzo alle persone vive, dove ogni cosa è possibile acquistarla ed i soldi girano per rendere tutti contenti e spensierati.
            Mi sollevavano la gonna di pizzo, quegli uomini, è vero, ma io li lasciavo fare, in fondo era solo il mio corpo di bambola quello di cui abusavano, non dei miei pensieri, e in cambio quelle persone mi mostravano le loro debolezze, la loro incapacità ad essere gentili, premurosi, e quel non sapersi comportare era così lontano dal mondo delle fiabe che certe volte mi meravigliava.
            Le macchine sopra a cui salivo erano tutte uguali, come quegli uomini d’altronde, ma ognuno di loro cercava a suo modo di essere spiritoso, di lasciare qualcosa di sé alle sue spalle, come se portasse dentro una grande solitudine, una tristezza infinita, un’incapacità a vivere bene, in modo solare, senza la necessità di confondersi con una povera bambola come potevo essere io.
            Proseguivo con la mia scoperta del mondo, e lo stupore più grande era sapere che riuscivo ad avere dei pensieri sempre più liberi e sempre più complessi, lontani dalla vita lungo quella strada, e in mezzo a quella gente senza grandi sogni, laddove i sogni per me, al contrario, erano tutto. Dopo un certo tempo, poi, trovai qualcuno che mi disse che potevo andare via da lì, che poteva aiutarmi, ed io lo lasciai dire, per me era tutto nuovo quello che poteva capitarmi, così sbattei i miei occhi e mi abbandonai a qualunque cosa stesse succedendo, senza fare alcuna resistenza.
            Mi ritrovai in una casa insieme a diverse ragazze, tutte con la testa piena di sogni come me, ma che dicevano delle cose orribili, che eravamo tutte segnate, che non potevamo essere diverse, dovevamo accontentarci di essere un corpo con la testa altrove, come secondo loro erano quelle che facevano la nostra vita. Io le ascoltavo, avevo tutto da imparare, però iniziavo a vedere quel mondo come qualcosa ben più triste di come lo avevo immaginato, e le persone che lo abitavano delle figure sole, perse certe volte nella ricerca di apparire anche peggiori di com’erano. Non rimpiansi mai la soffitta da cui ero partita, ma forse lo feci solo per orgoglio.
            Infine decisi che era venuto anche per me il tempo di parlare, di spiegare agli altri che cosa avevo visto fino a quel momento, che cosa mi era capitato e tutto quello che ero riuscita a pensare. Per questo adesso sono qui, per dire a tutti voi che le illusioni esistono, che spesso non sono neppure così distanti dalla nostra esistenza, e forse sono anche migliori di tante cose vere.


            Bruno Magnolfi

giovedì 18 novembre 2010

Per non dimenticare un amico.

            

            In genere ci vedevamo un paio di volte la settimana. Non perché lo avessimo mai deciso, ma solo per consuetudine, perché in qualche maniera ci eravamo resi conto che andava bene in quel modo, o meglio: perché non ci saremmo mai sopportati a vicenda frequentandoci più assiduamente, e sapevamo che vederci più spesso non avrebbe avuto assolutamente alcun senso. Lo passavo a prendere in macchina, lui saliva su con un’espressione ogni volta diversa, mi guardava, io riaccendevo il motore senza avere minimamente un’idea verso dove dirigermi.
            Si parlava immediatamente di qualcosa, spesso le cose più strampalate, a volte anche aggiornamenti importanti su ciò che ci poteva essere accaduto, ma il più delle volte erano le nostre differenti opinioni che mostravano l’elemento più importante da discutere subito. Si parlava di tutto, entrando in maniera anche pignola nei dettagli, ma in genere si saltava da un argomento ad un altro con una grande disinvoltura.
            Certe volte si andava in giro, spesso lasciando la macchina in qualche parcheggio, e si proseguiva a piedi diretti verso qualcosa, mai una meta precisa, solo qualcosa da raggiungere o da vedere che era più un frutto della nostra fantasia che un luogo reale. L’elemento importante era andare, avere la coscienza precisa che qualcosa era in atto, ci stava trascinando verso una direzione precisa, per niente al mondo ci avremmo mai rinunciato, anche se era solo vedere uno scorcio di città oppure un tramonto.
            Lui diceva: siamo due fessi, ci stiamo perdendo la cosa più importante degli ultimi tempi, ed io allungavo il passo, oppure dicevo che non c’era niente di bello dietro la sua idea disancorata da tutto. Piuttosto raggiungiamo quella collina, tiravo fuori con convinzione, da lì si domina tutto. In fondo non c’era niente di particolare di cui rendersi conto o da scoprire proprio quel giorno, ma il fatto di averlo deciso tra noi ne mostrava tutta l’enorme importanza.
            La maggior parte delle volte ci raccontavamo le cose in maniera assai divertente, giocando attorno a qualsiasi pretesto e paragonando tra loro argomenti diversi, tanto da tirarne fuori aspetti surreali e da ridere, ma c’erano anche giorni in cui si dicevano cose importanti in maniera più seria. Passato e presente entravano in relazione tra loro con grande facilità nei nostri discorsi, e spesso commisurare le nostre diverse esperienze portava a riflettere e a vedere le cose in maniera insperata.
            Quel giorno quando mi disse che sarebbe partito, lo fece senza dare importanza alla cosa, come se fosse quello uno dei tanti ingredienti della nostra amicizia. Anch’io non gli detti importanza, non potevamo certo fare i sentimentali tra noi dopo tutti quegli anni. Però gli promisi che sarei stato attento a tutte le nostre piccole cose a cui tenevamo, i nostri giri, le discussioni, le camminate verso una destinazione mai definita, e lui disse grazie, come fosse un regalo.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 17 novembre 2010

La mia semplice deludente natura.

            

            Stavo là, al margine di qualcosa, senza sentirmi attratto da nulla che non fosse quella foschia leggera attraverso cui vedevo ogni cosa, una volta uscito alla sera dal solito bar. In fondo non facevo niente di male se non a me stesso, pensavo, ma pur essendo convinto che dovessi finirla, un giorno a l’altro, di bere in quella maniera smodata, specialmente come mi era accaduto in quegli ultimi tempi, ogni sera l’attrazione che aveva per me quel locale, era più forte di qualsiasi altra cosa.
            Forse ciondolavo anche un po’ durante tutti quei tre o quattrocento metri che mi separavano da casa, però stavo bene, dimenticavo ogni lato negativo della mia vita, e la giornata in quel modo mi pareva concludersi al meglio. C’erano stati anche giorni in cui non mi andava proprio di bere, e allora andavo in giro, parlavo con la gente e spiegavo a tutti in quale modo mi sarebbe piaciuta la vita: senza tante complicazioni, cercare di dar seguito alle cose nella maniera più semplice e più lineare possibile, ecco tutto.
            Qualcuno mi guardava senza parlare, osservava i miei gesti, l’espressione del viso, ed ecco che la mia maledetta paura di deludere chi mi stava di fronte, tornava a far mostra di sé, come se quella gente capisse fin dalle mie poche parole che ero un fallito, uno che scontentava costantemente chiunque, in tutto ciò che cercava di fare. Non so perché, ma è stato sempre così, fin da quando ero piccolo. Mi si chiedeva di fare una cosa ed io la sbagliavo, regolarmente, oppure dimenticavo di farla.
            La sensazione che nessuno mi avrebbe mai preso sul serio era già forte in quegli anni, e col tempo quasi mai era andata indebolendosi. Poi decisi che bastava così. Fu un lungo periodo in cui cercai di impegnarmi a fondo in tutto ciò che mi capitava di fare, ma la sensazione di affrontare le cose sempre in maniera inadatta non cambiò mai. Infine mi accorsi che nessuno si attendeva qualcosa di buono da me, come se fosse scontato il mio essere incapace di fronteggiare le piccole difficoltà, la vita comune, quella normale, di ogni giorno.
            Quando andavo al bar stavo bene, scherzavo con tutti gli amici, ci facevamo tanti discorsi spesso basati sul niente, ed eravamo quasi sempre d’accordo. Adesso, dopo aver passato dei mesi nella comunità, mi sento di essere solo, inutile a tutto, senza niente che mi faccia piacere, se non la convinzione di essere uscito dal tunnel. Soltanto pensare all’alcool adesso mi fa venire un gran mal di testa, spesso passo davanti al solito bar, ma in nessun caso mi viene voglia di rientrare là dentro.
            Penso di essermi allontanato quanto basta dal margine che avevo raggiunto, ma adesso avrei bisogno di fiducia in me stesso, di capacità vera ad affrontare ogni giornata. Invece spesso sto qui, mi guardo attorno, so che per me è meglio star fermo piuttosto che cercare di fare qualcosa. Qualcuno mi osserva, lo so, ma non mi chiede mai niente: mi guarda, sa che potrei ancora cercare di dimostrargli qualcosa, ma è già sicuro che sarò deludente, perché è solo questa la mia vera natura.   


            Bruno Magnolfi

martedì 16 novembre 2010

Sul mare coperto di nuvole.

            

            Il lungomare era il solito, l’acqua appariva grigia in autunno, quando il cielo era coperto di nuvole come in quel giorno. Inutile cercare di farsi portar via dai richiami di qualche gabbiano che batteva le ali svogliatamente poco distante dal largo marciapiede. Tutto sembrava come immobile, inutile, senza prospettiva, e un’ombra di tristezza si allungava sulla città e sul suo litorale.
            Era domenica, Vittorio aveva camminato guardandosi attorno, si era sistemato su una panchina di pietra, aveva sfogliato distrattamente il suo quotidiano. Poi aveva notato un ragazzo che andandogli incontro lentamente, lo aveva salutato come si fa con una persona che si è riconosciuta. Si era fermato davanti a Vittorio, gli aveva sorriso, e infine, senza dir niente, si era seduto al suo fianco.
Ho perso l’entusiasmo, aveva detto con la faccia triste, come tra sé; fino a poco fa tutto mi pareva perfetto, andavo in giro, incontravo gli amici, passavo serate divertenti. Subito dopo ho incontrato una ragazza che mi ha fatto immaginare il futuro, mi ha chiesto che cosa rappresentasse per me, ed io mi sono sentito diverso da lei, come se il mio pensare fosse tutto racchiuso in un piccolo spazio e non riuscisse ad uscirne. Ho risposto vagamente, allora, ma per lei non è stato sufficiente e così se n’è andata.
            Ho cercato di tornare dai miei amici, riprendere le cose di sempre, ma li ho visti diversi, come se qualcosa tra me e loro si fosse incrinato. La ragazza era sparita, improvvisamente ero solo, come mai mi era successo. Mi sono messo seduto e ho cercato di pensare alle cose migliori da fare in un caso del genere, ma non sono riuscito a costruire neppure un progetto, neanche a dare un senso ai miei giorni. Ho un lavoro, anche se non so quanto possa durare. Mi pare adesso che tutto il mio tempo si trasformi automaticamente in spazzatura, materiale da nascondere, da incenerire, da allontanare da me.  Ecco, questo è tutto quanto mi sta succedendo, e non riesco a trovare nessuna risposta.
            Vittorio intanto aveva piegato il giornale ascoltando con attenzione il ragazzo, lo sguardo rivolto al mare e ai gabbiani. Infine si era alzato da quella panchina, aveva sprofondato le mani dentro alle tasche, ed era rimasto un momento in silenzio, come preso da una riflessione difficile. Non posso aiutarti, gli aveva detto alla fine. Sei tu che devi trovare delle risposte, senza che gli altri ti suggeriscano quale sia il percorso che cerchi. Forse ci vorrà molto tempo, forse no: dipende da te, e da nessun altro. In ogni caso credo sia positivo che tu ne parli, come hai fatto qui oggi: solo analizzando le proprie difficoltà si riesce a superarle, solo affrontando le cose queste smettono di essere problemi, soltanto conoscendo se stessi si riesce a capire che cosa è meglio per noi.
            I gabbiani continuavano con il loro richiamo, le nuvole sul mare parevano sempre più compatte, come se il sole non fosse mai esistito e il mare non potesse essere di altro colore se non di quel grigio spiacevole. Vittorio riprese la sua camminata, il ragazzo rimase sulla panchina: su quel lungomare non c’era nessuno, soltanto loro, e niente lasciava sperare in qualcosa di meglio.


            Bruno Magnolfi

domenica 14 novembre 2010

Viaggio oscuro nella propria città.

           

            Avevo la febbre quel giorno, e la mia faccia doveva avere un’espressione contorta mentre continuavo a ridere nervosamente senza motivo. Restavo alla fermata, in attesa, come gli altri, sicuro che tutti là attorno mi osservassero come si osserva un pazzoide. Non mi importava, neanche io sapevo che cosa stessi facendo, e neppure dove dovessi recarmi, però mi stringevo dentro alle spalle e davo corso ai miei pensieri, alle mie incomprensibili voglie.     
Salii sopra l’autobus appena il mezzo aprì le porte pneumatiche, guardai con una rapida occhiata le poche persone là sopra, poi mi sedetti di fronte ad una donna che mi fissò per qualche secondo. Subito dopo quella strana signora con una buffa sciarpa attorno alle spalle ebbe un moto come di preoccupazione, si toccò leggermente la fronte, tornò ad osservarmi, quindi si alzò da dove si trovava avviandosi verso l’uscita. Sentii come scendere una calma improvvisa e momentanea dentro di me, mi volsi senza un motivo, osservai con occhi appannati fuori dai vetri il gruppo di palazzi a cui stavamo passando vicino, ed ebbi la forte impressione di trovarmi in un luogo e in una città a me sconosciuti.
            La giornata era grigia, l’asfalto appariva umido anche se non pioveva; rimasi ancora un minuto seduto, infine mi alzai spostandomi vicino all’autista. Devo scendere alla fermata dopo al mercato, dissi strascicando le parole ma come fosse la cosa più importante del mondo. Quale mercato, rispose l’autista che continuava a guidare con estrema tranquillità; da queste parti non ce ne sono di mercati, o almeno io non ne conosco. Va bene, risposi, spostandomi con estrema difficoltà verso l’uscita.
            L’autobus ebbe un sussulto rallentando, infine si fermò. Scesi, e quando fui sopra al marciapiede mi accasciai subito a terra, colpito da un dolore fortissimo. La donna di prima, con la strana sciarpa sopra le spalle, mi era vicino, mi guardava, pareva quasi felice del mio stare male. Tutti mi fissavano ma nessuno aveva il coraggio di toccarmi, né di chiedere di che cosa avessi bisogno. Mi sentivo un estraneo, lontano da tutto, non riuscivo neppure a pensare come comportarmi, cosa chiedere per farmi aiutare. Mi rialzai da solo, con uno sforzo notevole, e mi allontanai barcollando lungo quel marciapiede. Incontravo persone che si fermavano a guardare che cosa facessi, come se tutto nel mio aspetto fosse fuori da qualsiasi logica minimamente accettabile.  
            In fondo le città sono tutte identiche, pensavo mentre continuavo a camminare senza una meta precisa; ci convinciamo di essere parte di qualcosa solo perché abbiamo paura di essere soli, e anche se sappiamo di esserlo - isolati, senza riferimenti - fingiamo che gli altri siano solidali con noi; invece è vero che ognuno pensa a se stesso, e ci aiuta soltanto in casi sporadici, forse perché in rare occasioni non riesce a mostrarsi del tutto indifferente. Nel mio caso la gente mi guardava, ma solo per fare attenzione a scansarmi, come non fossi uno di loro, uno identico a loro.
            Cercavo di sorreggermi anche con le mani, appoggiandole ai muri delle case vicine, e strisciavo lentamente in quella maniera pensando a cosa mi sarebbe stato possibile fare, ma senza riuscire a trovare nessuna soluzione, se non andare avanti, sperare in qualcosa, qualsiasi cosa fosse. Vidi la medesima donna con la sciarpa che adesso mi seguiva, pareva divertirsi cinicamente con le mie difficoltà, così feci un gesto di sfida verso di lei, a cui seguì una delle mie risate nervose.
            Vidi una piccola chiesa aperta a fianco del marciapiede: pensai di entrare là dentro, chiedere aiuto a qualcuno dei fedeli, poi mi resi conto che non c’era nessuno, che era deserta, così passai oltre. I locali pubblici al contrario erano pieni di gente che beveva e si divertiva, ma nessuno di loro avrebbe mai mosso un dito per me, era del tutto evidente. Infine, con le ultime forze rimaste, girai ad un angolo che immetteva in una strada minore, poco frequentata, e con sorpresa mi trovai davanti alla mia porta di casa. Frugai dentro alle tasche trovando anche la chiave, così entrai. Ero a casa, ero salvo, pensavo: potevo chiamare il mio medico, mettermi a letto, farmi curare, potevo fare ciò che volevo, perché tanto ormai l’inferno era rimasto alle mie spalle.  


            Bruno Magnolfi

venerdì 12 novembre 2010

Per le violette fiorite.

            

La casa era silenziosa a quell’ora, la lampada bassa diffondeva nella stanza una luce calda, lei stava seduta sulla sua poltrona preferita, e scorreva le parole delle pagine di un libro, un romanzo che aveva già letto molti anni prima. Le piaceva rivedere le cose che le erano piaciute durante la sua gioventù, era un po’ come ritrovare anche qualcosa di sé, di quelle passate emozioni, di quegli stupori che spesso aveva provato nella scoperta del mondo.
            Le capitava spesso di ripensare qualcosa dei tempi passati, a volte anche senza volerlo, come se i suoi ricordi affiorassero alla mente da soli, composti da una propria vitalità, ma ogni volta lei si mostrava pronta a scacciarli, in dei casi con un gesto, oppure con un sorriso, o con un repentino ritorno al presente, quasi che il tempo dedicato a quei sentimentalismi si dimostrasse a lungo un comportamento deteriore, e comunque una sciocchezza poco importante. Loro tornavano, lo sapeva benissimo, lievemente, poco alla volta, senza ingombrare, e lei lasciava che si affollassero attorno alla sua poltrona per la lettura, per poi riprendere di nuovo ad allontanarli da sé, come un piccolo gruppo di animaletti curiosi.
            Non si era sentita mai troppo vecchia, lei, che ancora andava a spasso con le sue amiche, sapeva adeguatamente truccarsi gli occhi, e spesso in giro riusciva a dar mostra di sé, con la sua personalità non da tutti e i suoi capelli curati, anche se quella solitudine che spesso provava certe volte indubbiamente la faceva soffrire. I libri la portavano via, ma lei voleva restare con i piedi ben piantati per terra, essere cosciente di tutto ciò che avveniva, informarsi, stare aggiornata sulla realtà ed i suoi cambiamenti continui. 
            La sua piccola casa certe volte le pareva perfetta per le sue esigenze: ogni angolo aveva uno scopo e da ogni parte lei si sentiva a proprio agio, come se tutto fosse disegnato per ogni sua piccola necessità. Ma più di ogni altro, era il posto dove teneva i piccoli vasi con le violette ciò che le dava una soddisfazione particolare. Aveva trovato il sistema per riprodurle, quelle piantine, partendo ogni volta da una semplice foglia, e ciascuna di loro, quando nasceva sopra a quel tavolo su cui le curava, accanto ad una finestra, mostrava, dopo aver messo le minute radici, una fioritura di colori sempre diversi. Non chiedevano molto, le sue violette, solo un poco di cure e di attenzioni, il resto lo facevano da sé, in bella mostra sopra la mensola, con delle fioriture meravigliose.
            Le guardava, le toccava, ed era come se loro sapessero che lei era lì, ad osservarle con attenzione, pronta con orgoglio a mostrarle ogni volta che qualcuno andava da lei a farle visita. Prima di uscire di casa passava ancora da loro, come ad assicurarsi che tutto fosse a posto, poi si fermava davanti al grande specchio del corridoio, e dava un ultimo sguardo al suo viso, ai suoi capelli, come a raccogliere con un gesto il meglio di sé, e affrontare ogni aspetto che fuori l’attendeva.
            Ma quel giorno non si era sistemata per uscire, non aveva guardato le sue piante, era rimasta seduta a leggere il libro, quel romanzo della sua gioventù, e quando si era alzata, forse in modo repentino, dalla sua poltrona, era andata, chissà come, a cadere come una sciocca, quasi senza rendersene conto. Il dolore fortissimo a una gamba le aveva reso evidente in un attimo la gravità di ogni cosa, e lei, impossibilitata a muoversi, era rimasta lì, semisvenuta, incapace di chiedere aiuto.
            Il silenzio della casa non le dava sollievo, i suoi pensieri adesso correvano veloci, si soffermavano su tutto ciò che avrebbe potuto portale un aiuto, ma restarsene ferma là a terra era qualcosa che non aveva mai preso in considerazione, e il telefono era lontano, proprio all’ingresso, sotto allo specchio. L’avrebbero trovata lì, priva di vita, pensò in un attimo, fra tre o quattro giorni, o anche di più, ma in fondo tutto questo era un aspetto che riusciva persino ad accettare.
Ma poi le erano venute a mente le sue violette: non poteva lasciarle, avevano bisogno di lei, sarebbero seccate senza la sua mano esperta: quell’esperienza che aveva maturato con loro non poteva averla nessuno come lei, ne era sicura. No, non poteva lasciarle, sarebbero rimaste lì ad appassire, giorno dopo giorno, ignorate da tutti, e questo non lo meritavano. Si fece coraggio, pensando queste povere cose, si trascinò alla meglio lungo quel pavimento, e alla fine raggiunse il telefono. Non mi importa niente di me stessa, aveva detto alla sua amica che fortunatamente abitava vicino, spiegandole tutto ciò che era successo, ma devo pensare a queste violette, sono anche loro che hanno bisogno di cure, hanno bisogno di me, ed io non posso permettere che quei fiori meravigliosi appassiscano.    
           

            Bruno Magnolfi

giovedì 11 novembre 2010

(Profilo n. 5). Nessuna socialità.

            

            Era fin dalla mattina che non stavo bene. In ufficio non era capitato niente di nuovo, avevo sbrigato le solite cose come ogni giorno, avevo scambiato anche qualche parola con i colleghi, niente di speciale, i soliti apprezzamenti e le solite battute scherzose. Una volta tornato a casa con la mia macchina, avevo notato come tutte le cose fossero rimaste esattamente com’erano, senza che niente si fosse spostato o io ricordassi di averlo messo in un luogo diverso. Pensavo che era difficile tirare avanti in quella solita esatta maniera, non trovavo nessun gusto nel vedere come tutto restasse esattamente così, senza nessuna variazione, perché questo immobilismo mi dava la nausea.
            Allora ero uscito di casa, avevo fatto un giro a piedi lungo la strada principale del mio quartiere, poi ero entrato dentro un locale, un bar qualsiasi, dove sinceramente non ero mai stato. Sentivo l’espressione del mio viso quasi irriverente verso chiunque, come un maschera che mostrasse la voglia per chi la indossava di stare da solo, di essere fuori dagli atteggiamenti ordinari, lontano da tutti, ma dovesse piegarsi a convivere con persone casuali con le quali confrontare degli atteggiamenti normali, scambiare qualche parola, mostrarsi sociale.
            Mi ero fatto servire una birra, poi mi ero accostato al biliardo in fondo alla sala, dove giocavano in tre o quattro, ma giusto per guardare qualcosa e ascoltare qualche opinione. Un uomo ben vestito vinceva, ma in silenzio, pacatamente, senza mostrare la sua superiorità, evitando di dare a vedere la soddisfazione, che probabilmente provava, per quanto era capace di fare. Osservai le sue mani, i suoi modi di comportarsi. Qualcuno tra i giocatori si lamentava della serata sfortunata, altri incassavano la sconfitta senza troppo dannarsi.
            Appoggiai la mia birra su un tavolo, mi sedetti al margine della zona di gioco. Rimasi diversi minuti in silenzio, sempre osservando quei giocatori, infine irruppi con una fragorosa risata che non saprei neanche dire da che cosa fosse causata. Mi guardarono tutti, ognuno immaginando che ridessi di lui, o di qualcosa a lui riferibile, ma nessuno trovò niente da dire. Infine mi alzai, chiesi scusa del mio atteggiamento, pagai la mia birra ed uscii. Rimasi sul marciapiede qualche minuto, senza sapere esattamente che fare, se tornarmene a casa oppure no, fino a quando dalla porta del bar vidi uscire l’uomo ben vestito che poco prima vinceva al biliardo.
            Si era incamminato verso il parcheggio poco distante, ed io lo seguii. Attraversammo la strada a pochi passi di distanza, lui aveva coscienza che io gli ero dietro, ne ero sicuro, ma continuava a mostrare la sua indifferenza. Infine estrasse la chiave della sua auto, mise la mano sulla maniglia della portiera nell’esatto momento in cui io ero lì, accanto a lui, senza neppure saper bene cosa stessi lì a fare. Lo colpii al volto con un pugno fortissimo, tanto da farlo cadere, poi gli assestai alcune pedate, mentre era a terra, che probabilmente gli fecero perdere i sensi. Mi allontanai con indifferenza, senza che nessuno si fosse accorto di niente.      
            Continuai nel mio giro lungo le strade del mio quartiere, avevo il fiato grosso, sentivo la fronte sudata per l’impegno che mi aveva richiesto quella mia azione. Non ero contento, non mi sentivo particolarmente sollevato per ciò che avevo compiuto, però sapevo che era stato un mio preciso dovere quello di accanirmi su una persona qualsiasi: era come se non avessi potuto sottrarmi dal compiere ciò che sentivo nella mia natura di uomo, quasi che per uscire almeno per un attimo dal ruolo di persona ordinaria, non mi restasse altro che fare così.   
            Rientrai in casa dopo aver ritrovato la calma: non sentivo niente dentro di me, solo quell’indifferenza di sempre, quella solita medesima sensazione, della quale sinceramente avrei fatto anche a meno. Cercai di pensare qualcos’altro che non fosse solo me stesso, però mi resi conto che non era possibile: tutto intorno vorticava su ciò che io ero, o almeno su ciò che potevo dimostrare di essere. Quando mi adagiai sopra al letto sentii di star bene: un’altra giornata era trascorsa, non era poco, forse potevo affrontare le prossime con un minore malessere.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 10 novembre 2010

Pianto di noia.

           

            Lei stava seduta, una rivista aperta davanti agli occhi, fingeva di leggere, o forse scorreva le righe ma senza interesse, riflettendo di fatto sugli accadimenti di quegli ultimi giorni, che avevano visto alcune discussioni animate. Da dietro le tende appena scostate le due grandi finestre della stanza mostravano una bella giornata, e una luce diffusa, piacevole e calda, arrivava da fuori, dando mostra di sé in tutta la casa. Lui, lentamente e in silenzio, era entrato dal corridoio tenendo con la mano una tazza di caffè, quindi l’aveva appoggiata sul tavolo, poi si era seduto, osservando per un attimo i capelli sciolti e voluminosi di lei, che gli dava le spalle, quasi alla ricerca di un solitario raccoglimento.
            Forse ti andrebbe di uscire?, aveva detto, giusto per evidenziare la sua presenza dentro la stanza, già sapendo perfettamente quale sarebbe stata la risposta di lei, sempre che avesse sentito la volontà di rispondergli. No, non credo, disse la donna, tagliando corto. Ho bisogno di dedicami alla casa, piuttosto che preoccuparmi di andarmene in giro. Lui non amava affrontare in modo brusco le cose, così rimase in silenzio sorseggiando il caffè. Poi si alzò, raggiunse una finestra per osservare qualcosa fuori dai vetri, sorrise leggermente, come a mostrare una certa sopportazione del clima in cui era costretto a passare le giornate.
            Lei si sollevò, appoggiando la rivista sulla poltrona, e uscì dalla stanza senza aggiungere altro. Lui rimase fermo a guardare dei ragazzi che giocavano sul marciapiede di fronte alla casa, poi ritornò verso il tavolo, si sedette di nuovo e aprì il libro che aveva abbandonato la sera precedente. Lesse svogliatamente qualche riga senza concentrazione, poi sollevò lo sguardo dalle pagine, giusto per seguire i movimenti di lei che era rientrata dentro la stanza.        
            Credo che dovremmo parlare di noi, disse la donna, con un tono che dava estrema importanza alla frase. Non mi pare che le nostre discussioni continue ci permettano di andare avanti con indifferenza. Lui chiuse il libro, lo appoggiò sopra al tavolo, si sollevò dalla sedia. Sapeva che le cose affrontate in quella maniera portavano solamente a controversie infinite, così prese la tazza del caffè ormai vuota e la portò nella cucina, restando in silenzio. Quando tornò vide che lei si era seduta sulla poltrona, nella stessa esatta posizione in cui era prima, così si avvicinò, e appoggiando una mano sullo schienale, disse: forse siamo solamente annoiati di noi stessi.
Lei rimase immobile, lo sguardo verso la finestra, come se una soluzione forse potesse giungere soltanto da quella parte. Si sentivano ogni tanto le grida dei ragazzi che continuavano a giocare sul marciapiede, ma era l’unico sprazzo di vita che giungeva da fuori. Si alzò lentamente dalla poltrona, raggiunse i vetri per guardare la strada di fronte, sempre poco frequentata, poi sentì una mano di lui che le prendeva delicatamente un braccio all’altezza del gomito. Quando si volse si trovò vicinissima a lui, si sfiorarono lentamente le guance e le labbra, poi lei si accorse di piangere, senza che niente fino ad allora ne avesse mostrata la voglia.  


Bruno Magnolfi

martedì 9 novembre 2010

(Profilo n. 4). Soltanto abitudini.

            

            C’è un vecchio che vedo ogni giorno; lui, subito dopo l’ora di pranzo, si piazza con la sedia davanti al suo uscio di casa, e sta lì, sfoglia qualche rivista illustrata o legge qualche pagina di un libro, godendosi l’aria aperta ed il sole. Io gli passo davanti, lo guardo, mi sembra un vecchio noioso, pieno di ugge e abitudini, e forse vorrei anche dirglielo quel che penso di lui e di quel suo modo di gettare via il tempo, ma poi immagino che ne avrei dispiacere e così resto in silenzio e vado avanti per la mia strada.
            Credo che lui mi riconosca subito quando passo da lì: non mi guarda, evita di fare anche una minima mossa che possa dimostrare che mi ha notato, continua a leggere le sue cose o a guardare nel vuoto, senza distogliersi, come se non ci fosse nessuno lungo quel marciapiede. A me non interessa affatto che lui mi saluti o che mi sorrida, non voglio avere niente a che fare con quel vecchio rincretinito, mi basterebbe non doverlo sopportare ogni volta che passo da lì, saperlo su quella sedia, a godersi quell’aria e quel sole come se fossero soltanto di sua proprietà.
            Sicuramente lui pensa qualcosa di me, uno di questi giorni sono sicuro tirerà su la sua faccia grinzosa e mi dirà qualche cosa, ne sono certo, sfodererà un saluto strascicato o un apprezzamento sulla bella stagione, chissà. Lo lascerò dire, non risponderò niente, mi limiterò a camminare lungo quel marciapiede, come se non ci fosse nessuno ad ingombrare il passaggio con quella maledettissima sedia. Certe volte penso che dovrei prenderlo per le spalle e tirarlo per terra, rovesciando lui e la sua sedia, mi prendono i brividi se solo ci penso, ma poi lascio correre, in fondo non voglio assolutamente toccarlo, e neppure guardarlo, vorrei soltanto che sparisse da lì, nient’altro.
            Poi, un giorno, passo dal solito marciapiede e il vecchio non c’è. Non penso niente, non voglio pensare nessuna cosa, continuo a camminare per la mia strada e guardo davanti ai miei piedi, senza interessarmi di nulla. Passano i giorni e non cambia niente, lui non c’è, e non c’è neppure la sua sedia stramaledetta. Così, dopo un po’, getto uno sguardo dentro alla porta di casa rimasta socchiusa, vedo nel buio che qualcosa si muove leggermente, così spingo l’uscio con delicatezza per vedere un po’ meglio. E’ lì il vecchio, con la sua sedia e una coperta avvolta intorno alle spalle, e legge qualcosa alla luce di una lampadina debole e gialla.
            Non dico niente, vado via, lui mi ha notato, forse pensa qualcosa di me. Non mi interessa, credo che quel vecchio debba fare tutto quello che vuole, non ha certo bisogno di rendere conto a me dei suoi pomeriggi. Anzi, adesso sono sicuro che insisterà nella sua posizione: resterà in casa sua con la porta socchiusa per vedere quando io vado a chiedergli se magari ha bisogno di qualcosa o per domandargli, magari rimanendo sull’uscio, se va tutto bene. Non lo farò, è chiaro, non ne sento il bisogno.
            Infine passo ancora da lì, qualche giorno più tardi, osservo la sua porta che lentamente si apre, il vecchio si fa avanti, mette un piede sul marciapiede e mi vede. Forse sapeva in anticipo che io stavo passando, penso, forse sta costruendo qualcosa nella sua mente da rimbecillito per farmi cadere in una trappola che ha preparato. Mi guarda, si ferma in quella posizione proprio sopra la soglia di casa, attende paziente che io dica qualcosa, che faccia una mossa nei suoi confronti, e allora mi fermo, lo guardo severo, dico: buongiorno; stiamo un po’ meglio, vedo. E senza aspettare risposta vado via, come sempre, per la mia solita strada.


            Bruno Magnolfi

lunedì 8 novembre 2010

Legato ad uno sguardo.

            

            Quasi ogni giorno vengo qui, da ormai un po’ di tempo, come per dar seguito a un appuntamento preciso, sempre alla medesima ora, al pomeriggio; scelgo un tavolino del bar tra quelli vicini alle vetrate lungo la strada, all'incirca sempre lo stesso, e mi siedo, come ad attendere qualcosa. Dal cameriere mi lascio servire un caffè, certe volte sfoglio un giornale, in altri casi mi limito ad osservare fuori la vita che scorre lungo la via. Non è solo un’abitudine quella che ormai ho adottato: attendo una persona che neppure conosco, una donna che ho visto soltanto una volta proprio in questo locale, e dentro di me sono certo che lei, prima o poi, dovrà ripassare da qui.
            Quella volta ero entrato quasi per caso, insieme ad un amico, non ci eravamo neanche seduti, avevamo preso un cognac al bancone mentre continuavamo a scherzare. Lei al contrario era ad un tavolino, insieme ad un uomo, lui parlava sottovoce, lei seguiva le sue parole guardandosi attorno. L’argomento forse era serio, lei aveva l’espressione tirata, i suoi occhi parevano cercare un rifugio. Infine ci guardammo, giusto un momento, e lei forse trovò dentro di sé il coraggio che le serviva per replicare qualcosa a quel suo compagno. Lui alzò leggermente la voce, disse ancora qualche parola, infine si alzò, dette dei soldi al cameriere, ed uscì dal locale.
            Non so dove trovai quel coraggio, feci passare soltanto un momento, poi mi accostai al suo tavolo, mi inchinai verso di lei, che era rimasta immobile, e dissi soltanto: posso esserle d’aiuto? Lei mi guardò, esattamente come aveva fatto poco prima, ma non disse niente, prese soltanto un sorso dalla tazza di the che aveva di fronte, poi sussurrò: grazie. Il mio amico aveva visto tutto quanto, ed era uscito per non essermi in qualche modo d’impaccio, io avevo scostato la sedia, lentamente, e mi ero seduto. Avevamo continuato a guardarci, io e quella donna, senza rivolgerci alcuna parola, come se un misterioso magnetismo si fosse azionato tra noi; infine lei si era alzata, aveva fatto cenno a me di rimanere seduto con un leggero, delicatissimo sorriso, e in questo modo era scivolata via, quasi come da un sogno.
            Avevo atteso un attimo, giusto qualche secondo, poi mi ero sollevato anch’io dalla sedia, ero uscito, ma lei ormai era già salita sulla sua auto e stava sparendo lungo la strada. Disse il mio amico, rimasto lì fuori ad attendermi, che forse stava piangendo mentre raggiungeva la macchina parcheggiata, ma aggiunse che si sarebbe anche potuto sbagliare. Ripensando a quella donna nei giorni seguenti mi era sembrato quasi di averla conosciuta da sempre, come se quello sguardo, quell’espressione, fossero rimasti dentro di me trovando delle radici tra le mie cose, quasi che la mia vita avesse scoperto improvvisamente un suo scopo di cui neppure io sapevo in precedenza di avere bisogno.   
            Così iniziai a cercarla da qualsiasi parte della città, ma senza alcun risultato, e alla fine decisi che forse l’unico modo per ritrovarla davvero era quello di tornare proprio qui, in questo stesso locale, ed attenderla, con tutta la pazienza che potesse servire. Ormai non importa quanto tempo ancora ci vorrà, tornerò qui ogni volta con la stessa speranza, e non mi interessa neanche sapere se sarà domani o un giorno qualsiasi il momento in cui la potrò rivedere davvero. So che è mio dovere sperarlo, ma anche così, indipendentemente da tutto, mi sento riconoscente verso quella donna, perché so che con niente è riuscita a cambiarmi la vita.


            Bruno Magnolfi 

domenica 7 novembre 2010

Dentro la pietra.

            

Le cose a volte galleggiano sulla superficie dell’acqua, si muovono lentamente spinte da una leggerissima brezza. Non ha alcun senso preoccuparsi della direzione che possono prendere, la loro natura è di andare, restare in balia di elementi fuori dal nostro controllo, senza che nulla possa cambiare questa semplice condizione.
            Nella clinica psichiatrica la donna osservava una pietra sul muro di fronte, una pietra liscia, gialla, ai suoi occhi l’unico oggetto importante al margine di quel giardino e di tutta la costruzione. Il medico le aveva chiesto più volte che cosa vedeva là sopra, in quel punto, ma lei non aveva mai voluto rispondere. La sua giornata scorreva così, con un’espressione del viso immutabile, raccolta in silenzio, e un lavorio incessante di quei suoi pensieri che indubbiamente scorrevano lungo tanti elementi diversi.
            Si ha pena di una persona quando è succube di qualcosa più forte della sua volontà, ma quando è la volontà stessa che riesce ad arginare tutto il resto, fino a mostrare di sé soltanto un involucro chiuso, invalicabile a tutti, allora ci si stringe dentro alle spalle, e si ha voglia solo di dichiararsi impotenti.
            Veniva il marito, quasi ogni giorno, per una visita breve, come a tentare una possibilità, a scrutare in quegli occhi fermi, quasi senza più sguardo, se qualcosa di diverso potesse aleggiarvi. Non diceva quasi mai niente, si sedeva lì, accanto a lei, osservava con lei la pietra gialla incastonata nel muro, prendeva la mano della sua donna e la teneva un po’ tra le sue, come a cercare, sperandolo, di sentire un brivido nuovo, qualcosa di diverso sotto alla pelle. Poi andava via, con la testa bassa, conservando la stessa speranza per il giorno seguente.
            Certe volte veniva la figlia con lui, una ragazza giovane, che rimaneva in genere un passo distante, come a cercare di tenere lontana da sé la malattia che attanagliava sua madre. Aveva voglia di piangere, si vedeva, le pareva impossibile osservare quello straccio seduto senza alcuna volontà. Però c’era qualcosa di diverso a volte in quei giorni, dietro a quegli occhi di mamma; qualcosa di nuovo sembrava soffiare sulla superficie dell’acqua: difficile dire cosa fosse davvero, impossibile captare la traccia di tutti i pensieri che continuavano incessanti dentro a quella mente ammalata.
            Ma poi, quando i suoi familiari andavano via, quando lei restava da sola, ecco che all’improvviso si alzava dalla sua sedia. Non cambiava espressione, niente di diverso pareva attirarla, eppure, con lentezza infinita, arrivava fino a quel muro in fondo al giardino, fino a quella medesima pietra gialla cementata in mezzo alle altre. Stava lì quella donna, almeno per qualche minuto; accarezzava la pietra come fosse il dolce viso di un suo familiare, forse proprio la figlia, e ci lasciava senza parole a noi, poveri infermieri al servizio della medicina, convinti di poter indagare con la nostra piccola scienza su cose così maestose, superiori alle nostre pretese, oltre la superficie immobile dell’acqua, sfiorata soltanto da una brezza leggera.

            Bruno Magnolfi