lunedì 29 aprile 2013

Svuotato dal vento.


            
            Oltre il vecchio muro di pietra in fondo alla strada non c’è più niente, se non un gruppo di case popolari tutte un po’ simili, dai colori attorno ad un indefinibile grigio-giallino levigato dal tempo. Alvaro se ne sta in piedi vicino alla finestra sopra una sedia che ha coperto con un giornale per evitare che se ne sporcasse la seduta con la suola delle sue scarpe, ed osserva quei panni stesi, quelle persiane spalancate, quei tetti di tegole brune. Lui starebbe lì anche per delle ore, a rendersi conto di qualsiasi dettaglio riesca a notare: qualcuno che si affaccia a chiamare un bambino giù nella strada, una donna che scuota uno spolveratoio dal davanzale, i piccioni che trovano da beccare qualcosa sui terrazzini.
            Certe volte ad Alvaro gli pare persino impossibile che il meccanismo della realtà appaia così perfetto, e che tutto in qualche maniera trovi il suo compimento; non sa mai spiegarne il perché, anche se in qualche occasione gli pare che il mondo brilli soltanto nel confronto con la sua vita. Si sente sempre sbagliato, Alvaro, qualsiasi cosa si metta a pensare; sospetta subito, quando ha un’idea, che non sia quella giusta, che stia perdendo l’occasione per qualcosa che forse potrebbe funzionare, e che invece inesorabilmente si sciupa già nel momento stesso in cui ci ha fatto conto. Il resto invece è semplicemente meraviglioso, per questo resta sempre in silenzio, proprio per non sciupare niente di quello che esiste.
            Così gli piace osservare le cose, quelle poche che riesce a vedere dalla sua finestra. Qualche volta, quando tira un poco di vento, Alvaro si incanta a sentire chioccolare i vetri chiusi davanti al suo naso: gli piace quel vento, è come se lo sentisse soffiare direttamente sulla sua faccia, e gli pare che arrivi da chissà dove, da luoghi che non ha mai conosciuto e che per questo motivo gli sembrano assolutamente affascinanti. Apprezza anche la pioggia quando scurisce tutti i colori, ma il momento che apprezza di più è quando il vento è così forte da far oscillare quegli alberi in fondo, oltre le case, alti e maestosi di foglie.
            La sera, alla fine di quella strada, proprio a ridosso del muro che in qualche modo la chiude, si radunano sempre quattro o cinque operai ancora vestiti delle tute con cui hanno lavorato per tutta quella giornata. Si piazzano là, le spalle appoggiate alle pietre, e parlano probabilmente di cose leggere, di argomenti che facciano ridere e su cui sono certamente d’accordo. Scuotono le mani e le braccia mentre raccontano ognuno una parte di storia, e Alvaro insiste a guardarli, come fosse capace di comprenderne le parole scambiate. Poi se ne vanno, e lui immagina di andare con loro, come potesse assoggettarsi a cane fedele di ciascuno, o come se fosse sufficiente essere insieme a quegli uomini, per sentirsi davvero come si sentono loro.
            Invece l’anziano padre di Alvaro lo osserva alle spalle, come fa tutte le sere, gli dice qualcosa senza importanza, poi gli chiede di seguirlo in cucina, di sedersi al suo tavolo, di parlare di ciò che ha sentito durante quel giorno, ma lui non riesce mai ad esprimersi come vorrebbe, si limita a guardarlo, a sorridergli, pensando alle mille immagini che conserva dentro di sé, e che non riesce a fargli vedere, ma che vorrebbe tanto condividere con lui, perché sono le uniche cose importanti di cui trattiene memoria: una memoria volubile, certo, come una scatola dove le cose entrano ed escono, come il vento che porta con sé tutto quello che vuole.

            Bruno Magnolfi  

venerdì 26 aprile 2013

Ritratto.


            
            Alla fine lei resta seduta in cucina, accarezzando come fosse il gatto la sua vecchia sciarpa di lana appoggiata alla spalliera di una delle sedie. Devo uscire, mormora tra sé; indossare la gonna, la camicetta, un soprabito, le scarpe adatte, fare una lista delle cose che servono, ricordarmi le chiavi, il sacchetto della spazzatura da portare giù, chiudere a doppia mandata la porta, lasciare accesa la radio, per i ladri, che sembri ci sia in casa qualcuno, e poi scendere le scale con lentezza e attenzione, che all’inquilino del piano di sotto i miei tacchi danno fastidio.
            Quando sarò rientrata nel mio appartamento con le buste della spesa, pensa ancora, che ad ogni passo si faranno più odiose e pesanti, sistemerò tutto nel frigorifero e nella dispensa, e rifletterò solo a quel punto che non ho praticamente fatto un bel niente: soltanto servizi, sopravvivenza, semplici gesti rituali di tutti, praticamente abitudini.

            Bruno Magnolfi
            

martedì 23 aprile 2013

Misteri consueti.


            
Osservo il nulla che credo di avere attorno mentre percorro a piedi la strada circondata da case quasi tutte uguali, che immette in poche decine di metri al piccolo vecchio centro di questa città. Qualcuno ha osservato il mio passo lento, ma non me ne sono dato peso, ognuno ha il diritto di incuriosirsi di ciò che vuole, penso. I pochi negozi sono aperti ma non si vede in giro molta gente a quest’ora, quasi che fosse la giornata sbagliata per andarsene a zonzo senza una meta, come certe volte faccio io. Una donna seduta senza fare niente, sopra la terrazzina al primo piano di un albergo, mi guarda per un po’, e in seguito, quando si accorge che l’ho notata, si disinteressa di me volgendo lo sguardo da tutt’altra parte.
Chiedo ad un uomo che staziona li davanti se sappia chi sia quella donna che mi ha colpito, ma lui non sa dirmi niente, oppure non vuole. Mi allontano di qualche passo, ma quello a cui ho posto la domanda mi richiama subito a sé con un gesto, entra con decisione dentro ad una piccola bottega lì nei pressi, e poi mi riserva un’altra occhiata, mentre sto quasi per raggiungerlo, sparendo in fretta sul retro dietro al banco, sottintendendo probabilmente in questa maniera che dovrei proprio seguirlo. Così faccio, scostando la tenda sul fondo che nasconde l’apertura, e trovandomi in un piccolo vano dove due uomini in una strana oscurità stanno giocando a carte sopra un tavolo. Mi salutano con la mano senza distogliere la loro attenzione dal gioco, ed io mi fermo per osservare l’uomo di prima che adesso mi sta guardando con un certo interesse.
Quello mi dice senza perifrasi che se io voglio, lui può portarmi subito da quella donna, non ci vuole niente, basta che io faccia segno di si. Resto perplesso per un tempo che lui non apprezza, poi quando infine risolvo il grumo di alcuni miei pensieri, capisco in un lampo che lui non accetta affatto quella mia indecisione manifesta, e cosi, ancora soltanto con un gesto del suo braccio, mi fa cenno con serietà che devo andarmene, il tempo che mi era concesso è già scaduto. Esco, in fondo non so neppure perché io sia entrato là dentro, mi dico, e dal marciapiede vedo che la donna di prima è ancora sopra al terrazzino, adesso mi sta guardando, forse sta solo cercando di capire se io abbia accettato la transazione che immagina si sia compiuta, oppure no.
Mi fermo sotto al sole guardandola per un momento con una certa intensità, e cerco di sorriderle, nell’attesa di vedere quale possa essere la reazione sopra al suo viso. Sorride a sua volta, difatti, forse non tanto perché si trovi in sintonia con i miei modi, quanto per dimostrarmi quanto sia distante dall’idea che mi sono fatto della sua persona, del suo starsene lì, sul terrazzino, a frascheggiare e nient’altro.
Mi volto da tutt’altra parte, forse potrei riprendere la mia passeggiata, penso; ma c’è qualcosa che mi trattiene, forse sento la voglia di andare fino in fondo a quella questione, così torno a voltarmi verso di lei, forse vorrei farle un cenno, farle capire che apprezzo molto il suo modo di guardare le persone che passano da quelle parti, di infondere vita e interesse in quella strada poco significativa, ma al momento che mi volgo verso di lei mi accorgo che è sparita, come a dimostrazione del fatto che io non faccio parte del mondo che la sostiene, sono lontano dalle sue convinzioni, inutile tirare per le lunghe qualcosa che non sta più neppure in piedi: devo andarmene, ecco, praticamente adesso è indispensabile.

Bruno Magnolfi

giovedì 18 aprile 2013

Fine di un'epoca.


            
            Liliana spesso prova un’ansia, una specie di frenesia: vorrebbe quasi correre, spingersi oltre, fare in fretta, come non ci fosse più tempo o quasi che tutto le sfuggisse di mano. Durante il giorno certe volte le pare di non avere neppure la possibilità di riflettere, così rimanda tutto alla sera, quando si sarà coricata nel suo letto, anche se poi la stanchezza ed il bisogno di dormire prendono sempre il sopravvento sul resto. 
            Lei lavora insieme ad altre otto ragazze in un grande ufficio dove sbrigano pratiche aziendali, ognuna china sulla propria scrivania, preparando le buste paga del personale di diverse piccole ditte di quella zona, e in orario di lavoro non c’è mai tempo per fare niente se non lavorare e nient’altro, con tutti quei numeri da inserire e incasellare che certe volte sembrano quasi rincorrersi.
Il ragioniere, titolare dell’ufficio, se ne sta quasi sempre chiuso nella sua stanza, uscendo un attimo ogni tanto giusto per controllare che tutte le ragazze facciano quello che lui chiama il proprio dovere, limitandosi a ricevere ogni tanto qualche piccolo imprenditore o qualche capo ufficio del personale delle società un po’ più grandi. Ma quando ha bisogno di qualche informazione, chiama sempre Liliana, e lei corre, qualsiasi altra cosa stia facendo in quel momento, cercando di essere sempre pronta a rispondere e a fornire tutti i chiarimenti che servono, anche se a volte si vede che fa un certo sforzo, o che prende tempo, mostrando la faccia arrossata.
            Le altre la guardano storta in qualche caso, ma non ha alcuna importanza; lei si sente bene così, e guai a parlar meno che bene del suo ragioniere in sua presenza, lei non vuole sentire delle stupide argomentazioni. Qualcuna di loro dice che lei non ha altro fuori da quell’ufficio, e che forse sarebbe disposta persino ad andarci a letto con il suo ragioniere, solo se lui glielo chiedesse. Liliana, le dicono certe volte le altre; non ti ha ancora chiamata oggi il tuo ragioniere?; e poi ridono sottovoce, tutte insieme, ma lei si rimette subito sopra ai registri, perché tanto quei discorsi non servono a niente, e quelle ragazze secondo lei non faranno mai alcuna strada. Forse neppure lei, pensa subito dopo, potrà mai fare qualcosa di diverso se non quello che sta già facendo. Però almeno ci provo, pensa Liliana, provo a far bene il lavoro che mi viene affidato, ad imparare più cose che posso, ad interpretare al meglio i miei compiti.
            Quando termina l’orario di lavoro Liliana è sempre l’ultima ad uscire da quell’ufficio. Bussa lievemente alla porta del ragioniere e lo avverte che le ragazze sono già andate, non c’è più nessuno, e che se lui non ha bisogno di altro potrebbe andarsene a casa anche lei. Il ragioniere le sorride, forse calcola quanto lei sia una buona alleata, come dicono le ragazze anche in termini peggiorativi, ma va bene così, non c’è proprio bisogno di chiederle ulteriori sacrifici. Ed al termine di una giornata qualsiasi, il ragioniere le dice di entrare, non c’è più nessuno, di accomodarsi, di sedersi di fronte alla sua scrivania. Non c’è più lavoro, dice di fretta; io ho accettato un impiego all’interno di una grande azienda, e questo ufficio si chiude, ad iniziare già dalla prossima settimana. Liliana fa cenno di si, ha gli occhi sgranati. Lentamente si alza da quella poltroncina, stringe la mano al suo ragioniere; poi non le resta da far altro che andarsene.

            Bruno Magnolfi   

martedì 16 aprile 2013

Migrazioni di ricordi.


            
            Le giornate si sono fatte lunghe, e il caldo adesso si fa già sentire, pensa il vecchio Luigi osservando di là dai vetri le piccole foglie verdissime degli alberi e dei cespugli nel giardino. Forse potrei andarmene, riflette, magari in questo periodo, proprio in una giornata simile a questa. Partire, ecco, senza neppure una meta definita, quasi nella stessa maniera di quelle persone che ad un tratto si perdono, nessuno le ha più viste e loro, chissà, vagano in qualche zona neppure troppo distante, con la mente smarrita dietro qualcosa di inspiegabile. Andarmene a vedere una realtà che fino adesso non sono neppure riuscito ad immaginare, e perdermi anche io lungo qualche contrada del mondo che non sapevo neppure esistesse fino ad ora, e forse trovare laggiù il senso delle cose.
            Se non fosse per queste gambe che quasi non mi tengono più in piedi, pensa Luigi, e la preoccupazione che continuo a provare per mio figlio, anche se mi dice che ormai si è sistemato, che lavora bene, ma che a me continua ad apparire fragile, senza la forza che ci vuole per affrontare le cose di oggi. Lui viene ogni tanto a farmi visita, magari di fretta e sempre più di rado, però si fa vedere ancora almeno una volta o due ogni mese, questo è vero, ed io faccio sempre finta che sia una bella sorpresa in mezzo a tante altre che mi capitano quasi ogni giorno, per non fargli pesare niente, e convincerlo che sto bene qui, che non mi manca nulla, e che ogni età ha la sua fase, come sempre gli spiego: vai adesso però, gli dico senza lasciarlo cercare dentro di sé altre cose da dire, che mi aspettano per la partita a carte, anche se poi non è del tutto vero.
            Viene una persona qui da noi, una volta alla settimana mi pare, ci piazza tutti assieme nella saletta, noi quattro o cinque che abbiamo voglia di seguire le sue spiegazioni, e ci incoraggia a ricordare, a sforzare la mente, a parlare di noi stessi, uno per volta, di tutte le cose che ci sono capitate anche tanti anni fa. Lui prende appunti, certe volte ci registra, poi mette tutto assieme con pazienza, e in certi giorni ci legge ad alta voce le nostre storie, come l’avessimo proprio scritte noi.
            Non so come sia, pensa ancora il vecchio Luigi, ma ogni volta che comincio a ricordare tutte quelle cose di una volta, di quando ero giovane e avevo tante idee, mi viene subito voglia di partire, di andarmene da qui, di viaggiare verso posti che non ho mai visto e che neppure immagino, tanto sono strani e particolari. Arriva questo che ci fa impegnare con le storie di una volta, e d’un tratto tutto mi sembra ancora possibile, come si potesse tornare giovani e con le gambe buone. Ho cercato di dirglielo, riflette poi Luigi, ma lui mi ha solo sorriso, con tutta la pazienza che ci vuole con noialtri. Non ho bisogno di dimostrare niente, pensa ancora, però l’idea di andare via mi fa sentire bene, e forse lui è riuscito a comprendere il mio pensiero al volo, senza bisogno d’altro.
            Anche lui non si trattiene molto, dice adesso il vecchio Luigi solo a se stesso. Riprende i fogli, le matite, quel suo registratore, e dice che ci vediamo presto, di aspettarlo, e che noi dobbiamo soltanto compiere quel piccolo sforzo che ci chiede sempre: ricordare, è questa la sua parola d’ordine, come se tutto il nostro futuro quasi dipendesse ormai da questa. Ed io ci penso, scrive Luigi in quei suoi appunti; soltanto che i miei non sono più proprio ricordi, sono speranze, voglia di vedere ancora cose nuove, di assaporare almeno una piccola porzione di futuro. Dobbiamo scrivere anche questo, gli dice all’operatore che torna quasi ogni settimana. Quello sorride, fa cenno di si con la testa: a lui gli basta, è così che si fa quando si è capito.

            Bruno Magnolfi

venerdì 12 aprile 2013

Amore di mare.


            
            Immagino le orme dietro di me, impresse sulla sabbia umida quasi in una linea ordinata e regolare, forse soltanto leggermente ondeggiante, mentre continuo a camminare sulla riva del mare deserto evitando con accuratezza di voltarmi indietro,  ad osservare la cruda realtà. Cammino senza una meta, cerco di godere del sole e di questo immenso mare calmo e azzurrino, senza pensare più niente, se non le cose piacevoli, e con leggerezza, lasciando affiorare qualche ricordo divertente, che non chieda il mio impegno.
            Qualcuno ha lasciato una busta stropicciata sotto alla mia porta, forse ieri sera, o stamani presto, non so. Il biglietto ripiegato dice che devo andarmene da qui al più presto possibile. La mia vacanza è finita, spiega qualcuno in uno stampatello oscuro e scritto di fretta con una matita. Non ho voglia neppure di riflettere su chi possa avere interesse a fare una cosa del genere: in fondo chi ha scritto queste parole ha ragione, non ha più senso per me stare qui, anche se non so dove altro andare. In fondo il mio è davvero una specie di esilio, un allontanarsi volontariamente da tutto, quasi per mostrare a tutti quanti la mia capacità di rinascere, di non perdermi d`animo nonostante le avversità che mi hanno accompagnato sinora.
            Rifletto, anche se non vorrei: probabilmente la dimostrazione che cerco di dare, incaponendomi qui, vale davvero soltanto per me, a conferma delle mie capacità camaleontiche, del mio essere fuori da tutto, sfuggente, buono però a sfruttare qualsiasi occasione che sfugge a tutti  quegli altri. Per questo resisto, per sentire che sono come mi sento da sempre, per provare che riesco a farcela, che non ho bisogno di niente di quello che gli altri elemosinano. Sono ricco di spirito, questo è l’aspetto che conta e che mi ripeto quasi ogni giorno quando esco di casa e vengo fin qui, a passeggiare e nient’altro. Il resto è soltanto abitudine al mondo, gesti ordinari che evito con il pensiero, pur lasciandomi immergere in certi comportamenti quasi scontati.
            Non capisco proprio a chi dia fastidio, ma non mi va neppure di perdere tempo a cercare di capire quale sia la mano che ha scritto quelle parole sopra al biglietto. Forse però quelle frasi dicono il vero: devo decidere qualcosa, la mia residenza in questo luogo è a termine, lo era fin dall’inizio, ma adesso ne ho una coscienza maggiore. Raccolgo un legnetto bianco e levigato da sopra la sabbia, e forse vorrei assumere dentro di me le proprietà di questo piccolo ramo: quelle di galleggiare senza preoccupazioni, quasi con indifferenza nei confronti dei venti, delle correnti, delle burrasche. Vorrei approdare in un luogo qualsiasi, lasciare appena un’ombra dietro di me, e sedermi all’ora del tramonto ad osservare prospettive lontane.
            Poi volto ad angolo retto, torno verso la strada asfaltata, torno a casa, quella che non è la mia casa, anche se proseguo a far finta che davvero lo sia, ed incrocio una persona che mi guarda e che io non conosco. Forse è il rappresentante di tutti quelli che non mi vogliono qui, penso per gioco; lo supero, me ne disinteresso, ma quello mi chiama, sembra proprio voglia dirmi qualcosa. Mi volto, lo guardo con maggiore attenzione: ha perso qualcosa, mi dice, qualcosa che forse per altri non è quasi niente, ma certe volte per qualcuno può avere una grande importanza. Ringrazio sorpreso, guardo a terra il legnetto di prima, poi lo raccolgo.

            Bruno Magnolfi
            

giovedì 11 aprile 2013

Spontaneità.



Mi sono sforzato, dice lui all’altro. Ho cercato dentro di me tutto quello che avevo da offrire. Certo, qualche volta mi sono anche lasciato andare completamente, ma poi ho sempre ritrovato in fretta tutta la lucidità che serviva per riuscire ad essere il più possibile profondo, sincero, all`altezza. Però con lei non è mai stato facile, dice ancora. Quella ti brucia l’anima, ti consuma cosi alla svelta che quasi non te ne accorgi, e riesce anche a leggerti dentro certe volte, e ad anticipare i tuoi pensieri, perfino i tuoi sentimenti. Non so, forse dovrei lasciarla, dice ancora lui.
Magari non è neppure questa la soluzione migliore, lo interrompe l`altro. Devi trovare il modo per renderla inoffensiva, toglierle un po’ di quel potere che sembra ancora avere su di te. Devi trovare la maniera per essere te stesso, senza finzioni, e contemporaneamente farle sentire l’importanza della tua persona nella sua vita. Poi ambedue restano in silenzio, le braccia incrociate sul petto, lo sguardo perso lungo le piccole onde che il fiume cittadino forma dopo aver attraversato i piloni del ponte.
Mi piacerebbe riuscire a vederla su un piano di forze paragonabili tra noi, dice lui, purtroppo lei quasi sempre, con una grande facilità, trova in un attimo la maniera per essere quella che determina, che definisce, che domina, insomma. A me pare continuamente di arrancare cercando di stare al suo passo, anche se non trovo altra maniera per continuare a vederla, e certe volte cerco anche di dirglielo, di farle presente come il suo comportamento non sia perfettamente corretto.
L’altro lo guarda, probabilmente adesso ha il quadro completo, ma non dice niente. Riprendono a camminare con passo lento lungo la spalletta, gli sguardi persi in avanti, le teste piene di pensieri in fondo poco chiari. Credo che dovresti allontanarti, fa l’altro senza preoccuparsi troppo di quello che dice. Evitarla, con i modi e per tutto il tempo che serve, quasi senza voltarti mai indietro. Forse hai ragione tu, fa lui, però così non vince nessuno, al massimo si sfalda poco per volta tutto quello che con fatica abbiamo cercato di costruire, e non arriviamo neppure a mettere a punto un’alternativa seria allo scatafascio che si è ormai determinato.
Allora non so, fa l’altro: con quanto se ne possa parlare non vedo proprio quale possa essere la soluzione migliore. Segue un silenzio vagamente imbarazzato ma anche piuttosto opprimente. Forse è proprio questo il punto, fa lui all’altro. Forse le cose vanno lasciate esattamente come sono. Bisogna soltanto prendere coscienza di come sono diventate poco per volta, ed accontentarsi, nient’altro. E poi, quando sappiamo come stanno perfettamente tutte quelle cose, riprendere ad essere spontanei e così tornare a vivere.

Bruno Magnolfi

martedì 9 aprile 2013

Quadro d'insieme.


            
L`immagine d`insieme, questo ciò che conta. Puoi girare per strada ed osservare tutta quella gente che corre, che si affanna, che sta perennemente alla ricerca di chissà cosa; e anche quella formata da individui che invece non capiscono ancora un bel niente, e restano lì, inebetiti, e tutto ciò che sanno fare è guardarsi le scarpe e nient’altro. Tu puoi osservare la gente che ti guarda e quella che immagina cosa tu stia pensando di loro. E infine puoi rimanertene da una parte a riflettere e basta, cercando qualcosa dentro di te che abbia più senso di quello che riesci a vedere. Questo è semplicemente quello che credi sia tutto ciò che puoi essere, ma ancora ti manca la capacità di raccogliere questo materiale, metterlo insieme e gettarlo in una volta sola dentro al secchio dell`immondizia. Questo è il punto, disfarsi di tutte queste cose, di tutti i pensieri parziali. Alla fine hai pensato tutto di te stesso, tutte le cose più diverse che hai potuto, ed è proprio così che quasi senza rendertene conto hai perso del tutto la tua identità.
Poi entri nel bar e ti fai servire la solita birra, e ti guardi attorno con tutta la calma che puoi, e sai che forse è proprio là dentro che troverai qualche risposta, ma sai anche benissimo che non puoi chiedere niente a nessuno, perché ti risponderanno tutti di non pensarci e di goderti la vita, e che è questa l`unica maniera di star su e di allontanare le tue preoccupazioni che oggi ti dannano l’anima. Cosi sorseggi la birra con calma e cerchi semplicemente di non pensarci, ma poi arriva questo tipo e ti dice che gli stai dando proprio fastidio, ed anche altre cose del genere, e tu cerchi di evitarlo e di stare in silenzio, ma lui è aggressivo e non riesci proprio a sfuggirgli. Infine ti mette una mano sul petto mentre stai ancora davanti al bancone, e ti spinge senza mezze misure e tu sai che non è lui, sono soltanto tutti i tuoi maledetti pensieri che ti portano fuori da là dentro e ti ammollano un pugno sul muso senza tanti problemi, e poi resti a terra con la faccia piena di sangue e non sai neppure perché sia mai successo a te tutto questo, ma è la realtà, e non ci puoi proprio fare un bel niente.
Alla fine cerchi con calma di ricomporre tutto quel quadro che adesso sembra costituito soltanto di pezzetti astratti, senza una logica. E’ un lavoro che fa faticare, e così ti metti d’impegno nella comprensione di questa faccenda. E poi capisci che è questo il percorso da fare, nient’altro che questo, e poco alla volta viene fuori che è soltanto l’immagine d’insieme quella che conta. Pensi. Che senso ha lamentarsi di qualcosa se non hai neppure capito dove sia collocata, dici a te stesso mentre cerchi di riportare le tue vecchie ossa al sicuro. Sarà diverso domani, probabilmente, ne sei quasi convinto. Per oggi ci vuole solo pazienza, nient`altro.

Bruno Magnolfi

lunedì 8 aprile 2013

Incomprensibile.2.




La vecchia corriera ogni volta che intercetta una buca pur piccola nel tragitto che compiono le sue grosse ruote di gomma rotolando sopra l’asfalto, ha una vibrazione rumorosa di vetri e ferraglia, quasi un lamento stridente. Lei siede apparentemente tranquilla sul sedile della vettura, e segue con convinzione la successione dei propri piccoli gesti abitudinari di ogni giornata. Quasi come un automa, inizialmente da sola, ha atteso nell’aria buia vicino alla fermata a poche centinaia di metri da casa, quel mezzo che ogni mattina in un’ora la traghetta fino al suo posto di lavoro, senza però, anche in quel caso, che i suoi pensieri si siano minimamente messi a disposizione di ciò che stava effettivamente compiendo. La sua mente generalmente in quegli attimi si astrae completamente dalla realtà, e anche se lei prosegue a compiere tutti quei gesti che servono, perfino dare il buongiorno al signor Dani, a cui poi non rivolge praticamente più la parola per tutto il resto del viaggio, lei è quasi come se non fosse presente, anzi quasi fosse molto distante, persa tra una massa di pensieri persino inspiegabili agli altri.
Che cosa importa, riflette lei in certi casi, tutto questo monotono completare un percorso sempre identico, quasi come non esistesse nessuna diversa possibilità. Ogni aspetto reale è sacrificio, piegare la testa a certe cose che poi sono la vita, l’esistenza vera e corrente; perché non c’è nient’altro nascosto da qualche parte, niente che possa raccogliere tutto questo e darne una forma diversa, se non il pensiero, la riflessione continua che modifica l’insieme, ne produce qualcosa di differente, compiendo un miracolo semplice, praticamente alla portata di tutti.  Lei certe volte prende un appunto delle sue riflessioni, scrivendolo in fretta su un quaderno scolastico che porta nella borsetta sempre con sé. La sua calligrafia risulta minuta, composta da pochi segni, non per essere incomprensibile agli altri, quanto per racchiudere in poco un insieme il più possibile vasto. E lei ne è orgogliosa di quelle sue pagine, quasi fossero un parziale compendio dei suoi giorni veri, quelli che scorrono praticamente sotto agli occhi di tutti, senza che tutti riescano forse a comprenderne il senso.
Se qualcuno le parla lei ascolta, spesso con grande interesse, ma quasi sempre non riesce a trarre dalle cose che sente un’opinione precisa. Pare come se qualcosa non le permettesse di farlo, come se non comprendesse addirittura gli aspetti più semplici di quanto le viene spiegato. Per questo non capisce neppure le parole che il signor Dani le dice, la mattina quando lo incontra come sempre alla fermata della corriera. Lui dice qualcosa con un tono diverso dal suo buongiorno di sempre, qualcosa che lei non ha mai sentito, ed usa termini che sono fortemente volgari, insinuanti, del tutto diversi dall’immagine che lei se ne è fatta in tutti questi anni. Non dà peso a niente, resta semplicemente in silenzio, abbassa la testa, forse sorride per rompere l’imbarazzo che prova, e compie in questa maniera il suo errore più grande.
            E’ il giorno seguente che infine tutto si compie, quando il signor Dani con fare concitato la invita a salire sulla sua auto, poco prima dell’arrivo della corriera, per una cosa che dice essere molto, molto importante. Lei, presa così di soprassalto, accondiscende, forse senza neppure pensare, e quasi non si ribella di fronte alle sue mani che la toccano dappertutto, cerca soltanto di fermarlo, certamente, ma senza usare neppure maniere forti; e resta praticamente in silenzio, quel fortissimo silenzio che adesso avverte, che conosce e riconosce soltanto quando si trova di fronte a qualcosa che per lei è così incomprensibile. E basta.

            Bruno Magnolfi

giovedì 4 aprile 2013

Frequentazione insana.



Non ci vuole molto, è sufficiente costeggiare tutto il marciapiede lungo la strada principale, poi girare a destra, fingere di entrare in quel caffè che rimane proprio all’angolo, e invece proseguire per altri trenta metri circa, fino ad arrivare al portone perennemente aperto di quel condominio. Così fa il signor Effe, più o meno tre volte alla settimana. Lei, nell’appartamento del secondo piano a quell’ora del pomeriggio lo aspetta, ed è  già mezza spogliata quando lui arriva, così si scambiano qualche parola di circostanza nel piccolo ingresso, quasi un principio di affetto, poi si trasferiscono in camera, dove tutto in genere si conclude abbastanza velocemente, senza altri eccessivi preamboli. Perché in fondo questo aspetto non è certamente ciò che conta di più.
Il signor Effe, al momento che rimangono sdraiati, ormai fermi, rilassati, nella penombra delle tende tirate, quasi senza avere ulteriormente altro da fare, in genere inizia col dire qualcosa sottovoce, quasi impersonalmente. Lei ascolta, seguono spesso delle pause di silenzio, poi lei comincia a raccontare qualcosa di sé, delle sue difficoltà, dei suoi pensieri leggeri sul suo pesante passato, e certe volte anche di quell’esistenza sempre un po’ sbagliata, con quel senso di colpa sempre attuale, anche se non c’è alcuna colpa, devi convincerti, le dice a volte il signor Effe con tutta la semplicità che riesce a trovare. Non c’è neppure da crucciarsi troppo, ribadisce lui, è andata così; ma lei è testarda, dice ogni volta che ha sbagliato tutto, che avrebbe dovuto fare ben altre scelte, non ritrovarsi in questa maniera; ma in quei momenti, quando aveva affermato le cose in cui credeva, e forse aveva lo spirito adatto per portarle in avanti, non c’era stato mai nessuno ad aiutarla, a darle un minimo credito, a sostenerla in qualche maniera.
Lui ascolta, capisce perfettamente che quelle parole sono vere, ed è tutto tremendamente serio quello che gli viene riferito, ma non può ormai fare niente, se non continuare ad ascoltare e sentire una stretta dentro di sé, tanto forte che certe volte non vorrebbe più andarsene via, o allontanandosi vorrebbe semplicemente lasciarle qualcosa, qualcosa di suo, di intimo, di personale, superiore a qualsiasi promessa, oltre qualsiasi ricerca di quella stupida manciata di parole capaci forse di pacificare momentaneamente i pensieri di lei, ma buone a nient’altro. Che senso ha che le dica o cerchi di dimostrarle che provo degli autentici sentimenti per lei, riflette. Il signor Effe tenta di evitare quel senso di ridicolo che pensa ne scaturirebbe inevitabilmente, così tiene quasi tutto per sé, ma ci sta male, lo sente, c’è una parte sostanziale di irrisolto anche nelle sue giornate.
Infine il signor Effe cammina per strada, attraversa con regolarità sui passaggi pedonali, guarda qualche vetrina, finge di non avere niente di importante da fare quando esce da quella casa, e invece si rende conto quasi d’improvviso che sarebbe tutto diverso senza di lei, che non può più fare a meno di quell’equilibrio che si è creato tra loro. Contemporaneamente si sente morire sempre di più quando sale quei medesimi gradini fino a raggiungere l’appartamento del secondo piano. Vaga senza una meta, e pensa, i suoi pensieri si fanno sempre più fitti e più forti, e si mescolano ormai con quella oppressione che avverte e che ritiene ingenerosa verso se stesso e forse anche verso di lei. Infine decide di restare a girare lungo le strade: non devo più andare da lei, pensa; non intravedo nessun tratto positivo nel continuare questa frequentazione ormai troppo affannosa.

Bruno Magnolfi

martedì 2 aprile 2013

Giornata incompleta (cortometraggio n.4).


           
            Sto qui e penso. Potrei occuparmi di tante cose, talmente tante che mi confondono e non mi lasciano decidere. Il mio cane bastardo dorme in un angolo. Infine esco, porto anche lui, al guinzaglio, e vado subito ad infilarmi in un locale senza pretese, dove giocano a carte, e mi faccio servire una piccola birra al bancone. Uno mi guarda male per il cane, è normale, e lo lascio perdere. Pago ed esco. Per strada lui annusa gli angoli e segue il mio passo, senza tirare. Mi siedo su una panchina al giardino, aspetto senza fretta che i pensieri tornino a tenermi compagnia.
            Una donna sorride, le piacciono i cani, penso, poi si ferma e chiede se è buono. Fo cenno di si, lei gli tocca il muso, lui annusa la mano. Se ne va, credo che potrei fare un lungo giro alla ricerca di angoli di città che non conosco, ma forse sarebbe anche inutile, non ho in questo momento lo spirito adatto. Torna la donna, dice che ne ha avuto uno simile, qualche anno fa. Annuisco, le dico che se vuol fare un giro con il mio cane bastardo per me va benissimo. Lei ne è felice, prende il guinzaglio, si allontana ma soltanto di poco.
            Torna, dice che non ce la fa con la pensione, un altro cane non se lo può proprio permettere, così le dico che posso prestarle il mio ogni tanto, basta ritrovarsi al giardino a quell’ora. Risponde che le va bene, lei si chiama Teresa, potrebbe tenerlo qualche volta, magari quando io ho da fare. D’accordo, le dico, è tutto a posto. Se ne va contenta, Teresa: oggi ho fatto un incontro importante, pensa quasi dicendo a voce alta questa sua frase.
Potrei arrivare fino alla stazione degli autobus, tanto per incontrare un po’ di persone, ma sono i pensieri quelli che cerco, e loro stamani non vogliono proprio farsi vedere. Così resto fermo e cerco di riflettere qualcosa senza programma. Il mio cane bastardo mi guarda e mugola, forse ha capito qualche passaggio che mi vuol suggerire. Va bene, gli dico, andiamocene sull’argine del fiume, forse troveremo qualcuno anche lì. 
Non ha alcun senso che io continui a sforzarmi per comprendere qualcosa che sfugge. Qualsiasi cosa mi metta in testa di fare risulta sbagliata, o inadatta. Il cane mi guarda, scuote le orecchie, prosegue a camminare con tranquillità. Cerco gli altri su dei temi che a me stanno a  cuore, ma sembra proprio che tutti mi evitino, come se i miei argomenti fossero assurdi, privi di qualsiasi possibilità di dialogo.
Ripenso alla donna che ho incontrato al giardino, e credo che potrebbe essere la persona perfetta con la quale iniziare un percorso. Potrei trovare con lei delle affinità, qualcosa che possa coinvolgere anche altre persone. Poi rido. Il mio cane bastardo mi guarda, lui forse è d’accordo, insieme continuiamo a camminare, come se ci fosse davvero qualcosa alla fine di quei nostri passi. Arriviamo al fiume, sgancio il guinzaglio, lui corre in giro senza una direzione precisa, annusa dappertutto e marca il territorio come l’istinto gli suggerisce di fare. Poi torna verso di me, sembra vagamente abbattuto: qui non c’è niente, pare suggerirmi; niente che possa permettere di trattenerci ancora da queste parti.

Bruno Magnolfi