giovedì 30 aprile 2020

Nulla da dire.


            

            Lei è lì, non l’avevo neanche mai vista prima, saranno dodici o quindici metri dalla panchina dove sono seduto, seduta su di un’altra identica panchina messa di fianco, al margine del camminamento intorno ad una piccola vasca rotonda per i pesci rossi, nei giardinetti pubblici di questo quartiere. Nessuno dei due indossa protezioni, quindi non mi posso avvicinare o sedermi accanto a lei, forse potrei solamente chiederle qualcosa da lontano, ma ogni frase che in questo momento mi viene alla mente mi pare così scontata o addirittura banale da lasciarmi privo di qualsiasi fonema, incapace di pronunciare anche una sola parola, mostrandomi però come se già il mio riserbo e questo silenzio convinto, potesse assumere in qualche modo un certo valore ai suoi occhi. Lei legge un libro, ma si ferma ogni tanto, osserva qualcosa intorno a sé e poi qualche volta incrocia il mio sguardo, tanto che sto pensando di farle un sorriso, oppure una smorfia di simpatia, giusto per tentare di smuovere questa penosa e insopportabile sospensione. Ma non mi decido a fare un bel niente, restando qui semplicemente seduto, immobile, a guardarla ogni tanto, fino al momento in cui lei, chiuso il libro, si alza con calma per andarsene via.
            Il viottolo di ghiaia che subito prende è quello che porta alla strada asfaltata fuori dal giardinetto, varcando un pesante cancello di ferro battuto, ed io penso che devo fermarla in qualche maniera prima che giunga a superare quel passo, non perché ci sia una ragione precisa per farlo, quanto per una specie di traguardo che in questo momento mi pongo. Così affretto la mia camminata dietro di lei, e già il rumore dei sassolini sotto alle scarpe sono un indizio evidente del fatto che la sto seguendo, ma non aspettandomi certo che lei potesse girarsi verso di me, la chiamo nella maniera più stupida che mi possa venire alla mente: “signorina”, le fo con un tono che sembra già tolto dalla buffa recitazione di un attore del cinema, però lei si ferma, si volta, mi guarda, ed attende con rassegnazione il resto del mio debole darle disturbo. Mi blocco a distanza di sicurezza, con un gesto le faccio presente che non ho la protezione, lei sorride leggermente della mia evidente goffaggine, poi: “non l’avevo mai vista da queste parti”, le dico.
            Lei ha molta pazienza, sorride, osserva qualcosa da qualche parte togliendo il suo sguardo dalla mia sciocca espressione, non mostra però desiderio di andarsene subito, ma neppure la volontà in ogni caso di avviare una pur semplice conversazione con me, lascia soltanto che la nostra distanza in qualche maniera si faccia maggiore, forse per quei modi che ho avuto assolutamente inadatti, forse perché ritiene quanto le ho detto una sciocchezza da niente. Trascorre un secondo infinito, poi due o anche tre, ed in questo stallo lei muove il suo libro da una mano a quell’altra, come indecisa se lasciarmi così senza aggiungere niente, oppure scagliare contro di me una parola secca, che non lasci alcun dubbio. Abbasso lo sguardo; “sono uno sciocco”, le fo, tornando ad essere per un momento un po’ meno affettato. “E’ così difficile sentirsi naturali in questo momento, che si riesce alla fine ad essere unicamente impacciati. Parlo soltanto per me, mi pare ovvio”. Lei mi concede uno sguardo di un attimo, poi torna a voltarsi e a riprendere la propria via, ma dopo due passi si ferma di nuovo, a cinque o sei metri da me, in sicurezza: “non è molto che abito da queste parti”, mi dice con una voce meravigliosa. “Può anche darsi che accada di incontrarci di nuovo”.
            La lascio andare, lei supera il pesante cancello spalancato, prende da una parte senza girarsi, e sparisce così alla mia vista. Chissà, penso io, forse potremo davvero tornare a incontrarci; o magari è persino meglio che questo non debba accadere. Non so, rifletto con calma; in qualsiasi caso va bene così: non avevamo niente da dirci quest’oggi, e può darsi che neppure incontrandoci ancora riusciremo davvero a trovarli, gli argomenti di conversazione più adatti.

            Bruno Magnolfi   

martedì 28 aprile 2020

Disinteressato, quasi altruista.


          

            “Non fa niente”, dice Renato; “per me è la stessa cosa, e se per l’appunto dovessi scegliere davvero tra queste due opportunità, mi troverei sicuramente in forte imbarazzo”. Attività diverse, probabilmente diverse le maniere per sentirsi in pace con se stessi, a posto, senza alcuna necessità di altro. Qualcuno in casi simili potrebbe parlare tranquillamente di stranezze, altri quasi di diavolerie; però non essere capaci di decidersi tra degli impegni futuri tanto diversi, pare quasi qualcosa di cui ridere, tanto appare il colmo di qualsiasi incertezza. Già, perché alla fine non c’è cosa maggiormente insopportabile dell’incapacità manifesta di saper scegliere tra due possibilità così distanti da non apparire neanche assimilabili. “Il fatto è che non sono abituato a prendere delle decisioni; lascio sempre che siano gli altri oppure il caso a scegliere per me”.
Lui sta nella sua casa al primo piano, affacciato alla finestra mentre dice in questo modo, e c’è il signor Parrini dall’altra parte del cortile, dove si trova il retro del giardino della sua villa, che gli spiega di che cosa potrebbe occuparsi se davvero volesse accettare una di quelle sue due offerte. Di fatto è un favore che intende fare nei confronti della madre di Renato, una donna che conosce oramai da tanti anni, ed in considerazione del fatto che per la momentanea situazione economica abbia dovuto licenziare più di un dipendente, e sia fuori di dubbio che alla riapertura completa della sua piccola azienda di trasporti si troverebbe senz’altro con diversi posti di lavoro rimasti ormai scoperti, si vede costretto a dare un’opportunità a tutti coloro che conosce in qualche modo, anche chi forse non gli pare del tutto all’altezza della propria generosità. “Va bene”, gli dice alla fine; “vorrà dire che proverai a fare il magazziniere, piuttosto che il contabile”.
Renato pare contento, non immagina neppure di che cosa precisamente debba occuparsi, però è ancora un ragazzo, e la sua timidezza è tale da non avergli permesso fino ad oggi di fare la benché minima esperienza di lavoro. Sua madre appare di nuovo dieto alle sue spalle, ringrazia anche lei sorridendo, ed intanto riflette su come sdebitarsi nei prossimi tempi per un favore di quel genere. Sapevano tutti, nel vicinato, che quel signor Parrini aveva un’azienda ben avviata, e che proprio non gli mancassero i quattrini; ma da lì a chiedergli un favore di quel genere, a nessuno tra coloro che abitano dietro alla sua residenza era mai venuto a mente. Quindi loro due rientrano, chiudono con garbo la finestra dopo i saluti doverosi, e Renato va subito nella sua stanza a riguardare le sue cose. Ha preso il diploma tecnico ormai da più di un anno, e di tutte le richieste di lavoro che ha spedito in giro fino adesso non gli è tornata indietro neppure un’opportunità di prova. Ora si sente quasi smarrito da quest’offerta: è come se si fosse quasi abituato all’idea che nessuno avesse davvero necessità dei suoi servigi. Rispettare degli orari, indossare indumenti precisi, muoversi al minimo accenno di un’attività da compiere, obbedire sempre: questo immagina adesso.
“Forse era meglio se sceglievo di occuparmi della contabilità”, dice a sua madre quando lei si affaccia alla porta della cameretta. Lei lo guarda, si avvicina, gli accarezza con un gesto semplice la nuca. “Non te lo avrebbero permesso”, gli dice a voce bassa. “Avrebbero finto di farti provare per qualche giorno, per poi scartarti, spiegandoti con due parole che non eri adatto”. Renato guarda sua madre con occhi spersi: “allora chiedermi di scegliere non era un atto vero, una possibilità che avevo”. Lei si muove come per mettere a posto qualche cosa, poi torna a guardarlo: “ci sono dei casi in cui qualcuno finge di essere magnanimo, di voler bene agli altri, come se donare qualcosa sia assolutamente senza interesse. Ma non è quasi mai così, e capita spesso che la furbizia di chi ha la possibilità di dare, resti in qualche modo superiore ad ogni gesto apparentemente generoso”.   

Bruno Magnolfi

domenica 26 aprile 2020

Testardamente felice.


           

            La donna si siede, attende un momento in silenzio, osserva il velo leggero di polvere sopra il piano del tavolo, poi si decide a telefonare. “Sono da sola”, dice a qualcuno che le risponde da una diversa e lontana città. “e forse comunque è anche giusto così; di fatto non ne soffro, come a tanti succede, ed anzi mi sembra questa per me una buona occasione per riflettere a fondo sui diversi argomenti delle mie giornate”. Poi riaggancia, si alza lentamente da dove si trova e va diretta in cucina, come per occuparsi di qualcosa che purtroppo non sa neppure lei cosa sia. Ci sono delle verdure già pronte dentro al suo frigo; può usarle come contorno ad un semplice uovo fritto in un tegamino, ed in questa maniera anche il problema della sua cena sembra presto risolto. Non c'è niente di cui doversi preoccupare davvero, visto che ognuno in questo momento può ritirarsi dentro al suo nido ed affrontare la propria giornata nel chiuso delle mura di casa. Lei è consapevole del proprio isolamento derivato da questo periodo, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi, anche se in verità è proprio quello che le sembra di avere continuamente desiderato.
            “Ma non è andata sempre così”, vorrebbe dire ora al telefono. “C’è stato Armando per quasi due anni, anche se è successo oramai parecchio tempo fa, ed io mi sono sentita in quei momenti una persona diversa, completa, del tutto una donna. Certo, ho le mie colpe: molte volte non mi sono tirata fuori da me stessa, lo so; spesso anzi ho cercato ancora di coltivare la mia individualità, i miei interessi, i miei desideri. Ma non potevo concedermi tutta, è evidente, dovevo pur lasciare qualcosa per me, conservare in qualche maniera le mie idee, i miei pensieri, le mie piccole manie. Forse l’ho spaventato, il mio Armando, ecco; l’ho fatto però quasi inconsapevolmente, tenendogli testa forse su troppe cose, opponendomi alla sua personalità qualche volta, giocando quasi sempre con lui a braccio di ferro”. Probabilmente sono proprio questi gli errori che si continua a pagare per il resto degli anni, senza renderci conto sul momento che la partita è troppo importante per farla decidere da una scenata o da qualche parola sfuggita di bocca. “Adesso lo so, anche se è tardi”.
            Poi stende la tovaglia prendendola dal cassetto sopra al piccolo tavolo di fronte ai fornelli, piegandola precisamente in due parti, con attenzione, che tanto non serve utilizzarla completamente sul piano per una sola persona. Sistema i piatti, le posate, il bicchiere, il tovagliolo, infine apre il gas per accendere il fuoco. E’ rimasto del pane da ieri, adesso può scaldarlo nel forno, ci vuole una brocca d’acqua sul tavolo, la boccetta dell’olio, la saliera, poi tutto è pronto, anche se non le sembra di avere più voglia neppure di mangiare. “Non sono da sola”, potrebbe dire al telefono; “ci sono i ricordi con me, le presenze nella mia mente di tutte le persone che ho conosciuto”. Infine torna nell’altra stanza, vorrebbe adesso qualcosa che attirasse un po’ della sua attenzione: un compito qualsiasi, un interesse, una voglia, un elemento qualunque per rompere questa monotonia, questo andamento usuale e un po’ assurdo per tutti, specialmente per lei.
            Infine torna in cucina e si siede: è tutto pronto, ogni cosa al suo posto così come le piace, può cenare con calma, riflettere ancora su tutto quanto, incontrare di nuovo se vuole i frutti della sua memoria. Torna ad alzarsi, come in preda ad una specie di improvviso pensiero profondo, prende il telefono e torna a chiamare la stessa persona di prima, lontana da lì, però l’unica persona a cui può ancora dire alcune delle sue cose. “Sono felice”, dice all’apparecchio senza neppure spiegarsi. “Non so per quale motivo, e forse può apparire anche a te del tutto incomprensibile; però è così, e tu devi crederlo, devi saperlo, devi fartene una ragione, senza bisogno di chiedermi ancora il perché, come sia mai possibile nella mia solitudine. In questo modo; così”.

            Bruno Magnolfi   

venerdì 24 aprile 2020

Armonie celesti.


         

            Abito in un cascinale isolato, dove la strada sterrata giunge e non prosegue, tanto che dalla mia nascita in avanti sono sempre stato qui, dapprima con i miei genitori, e poi da solo. Me la so cavare abbastanza bene in ogni attività, e so badare a me stesso per tutto quello che possa servire per mandare avanti i miei mestieri, per cui mi risulta difficile sentire il bisogno di qualcosa di diverso, magari allontanarmi un po’ da questi paraggi, o addirittura andarmene del tutto da questa piccola vallata, cosa questa che non mi è mai neppure passata per la mente. Il silenzio comunque è l’elemento preponderante da queste parti, spesso anche durante la giornata, per esempio quando lavoro nel campo accanto a casa, oppure al momento in cui mi occupo semplicemente dei miei animali; però ci sono delle volte, generalmente durante alcune strane nottate in cui non riesco subito a lasciarmi andare al sonno e alla stanchezza, che avverto distintamente giungere fino a me il suono della terra. Non è un rumore forte, piuttosto si manifesta come una specie di respiro profondo emesso sembrerebbe da una bestia gigantesca. Naturalmente è necessario che non ci sia del vento a confondere le mie orecchie, e che non si facciano sentire gli animali selvatici che abitano nel bosco qua vicino. Però quando tutte queste condizioni si presentano, ecco che quel suono arriva, giunge fin qua da chissà dove, ed alla sua maniera cerca di parlarmi, come per tenermi compagnia.
            Oggi poi non sono stato bene: mi è presa come una spossatezza per me del tutto inusuale, così mi sono sdraiato sopra al letto, e sono rimasto nella mia camera abbastanza a lungo, senza riuscire a decidermi se occuparmi di qualcosa, come sarebbe stato mio preciso dovere, oppure no. Ho pensato molte volte nel passato alla maniera migliore di comportarmi in situazioni simili a questa, però ho quasi deciso che se il dolore in questi casi non mi diventasse proprio del tutto insopportabile, lascerei che la natura facesse con tranquillità tutto il proprio corso, mollando ogni cosa e rispettando i tempi ed il volere di ciò che mi dovesse capitare, senza cercare niente e neanche nessuno. Invece oggi è giunto, mentre stavo qui a riflettere qualcosa in mezzo a tutte le altre mie preoccupazioni, questo solito grandioso suono della terra, come da tempo ormai l'ho appellato e come già tante altre volte ho avuto modo di ascoltare. Qualcosa dentro di me ha subito come accelerato ogni mio comportamento, e mi ha spinto a muovermi senza tanti indugi, scrollandomi di dosso qualsiasi debolezza per recarmi almeno fino al paese più vicino, e lì cercare al più presto la maniera di farmi aiutare da qualcuno. Ho seguito con naturalezza quel consiglio, e così pur con fatica ho messo in moto il mio furgone, ho ingranato la marcia e nonostante una certa difficoltà nell'attenzione e nei movimenti, ho fatto quello che mi veniva fortemente suggerito.
            Ma è stato già lungo la strada bianca, mentre guidavo con calma sul percorso di questi chilometri solitari, cercando di osservare bene il piano viario avanti a me, e lasciando dietro le ruote una gran nuvola di polvere, che le cose sono iniziate rapidamente a migliorare, tanto che quando alla fine sono giunto proprio davanti alle prime case, mi sono reso conto di non avere ormai bisogno proprio di niente, tanto più che in giro non c’era neanche un’anima viva. Allora mi sono fermato nell’unico negozio aperto del paese, e quando sono entrato mi sono fatto incartare dal tizio che conosco, una bottiglia di ottima acquavite, senza dirgli niente di particolare, limitandomi soltanto a lasciargli un semplice saluto di circostanza, mentre lui continuava a guardarmi in modo strano, quasi fossi un fantasma. Appena ho preso la strada per tornare indietro ho bevuto subito un sorso alla salute della mia amica terra, quella che mi ha dimostrato quanto il suo aiuto sia sempre più fruttuoso, e poi ho guidato senza fretta fino a casa, fermando il mio furgone sullo spiazzo davanti alla mia porta. Sono tutti ammalati, ho pensato rientrando nelle mie semplici stanze: non riescono a comprendere che l’unico aiuto vero che possono ricevere è quello che può portarti soltanto chi hai sempre rispettato, e che mai ti tradirà, se lo metti sempre al centro di tutti i tuoi pensieri.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 22 aprile 2020

Fiore per maggio.


           

            “Certo, ci si può anche convincere poco per volta che sia meglio così”, fa lei mentre spazza con attenzione il pavimento del suo piccolo laboratorio di ceramica, chiuso oramai da diverse settimane. Esattamente sopra quel fondo, che funziona naturalmente anche come negozio, c’è il suo appartamento, quattro stanzette al piano superiore, a cui si accede da una buffa scala interna a chiocciola, dove lei abita oramai da parecchi anni con la figlia adesso quasi maggiorenne, a seguito della separazione da suo marito avvenuta tanto tempo prima. La ragazza, seduta accanto alla parete su di uno sgabello di legno, cerca di seguire i ragionamenti di sua madre, anche se spesso le appaiono un po’ strani, inconcludenti, come se la donna cercasse sempre la maniera più surreale di riflettere le cose. La minuta esposizione del vasellame finito e decorato, e anche di tutti gli altri prodotti, costituita da molti pezzi sistemati sopra alcuni scaffali aperti in legno scuro accanto alla vetrina, praticamente è pronta per riaprire agli acquirenti, appena questo sarà possibile, ma il fermo dell’attività fino adesso ha portato tra loro due soltanto malcontento e ristrettezze.
            “In fondo non fa male ogni tanto fermarsi per ripensare tutte le proprie cose, cercando magari dentro di noi una nuova spinta per andare avanti”, dice ancora mentre sua figlia sorride, forse per alleggerire quegli argomenti che non vorrebbe mai affrontare. A volte ha anche provato ad aiutarla in quella sua attività, ma non si ritiene del tutto capace, troppo imprecisa, disattenta ai dettagli e anche alle forme. L’unica cosa a cui le piace star dietro è l’essicazione e la cottura in forno delle argille preparate da sua madre, cosa che viene fatta normalmente soltanto una volta alla settimana, a negozio chiuso; e poi certe volte stare dietro la cassa al pomeriggio, dopo la scuola, quando giunge qualche compratore. Le piace anche a lei, come a sua madre, disporre con calma tutte le cose del negozio, ma non le piace per niente pensare troppo al loro futuro. “Dobbiamo fotografare di nuovo alcuni pezzi di tutta la collezione”, fa la donna quasi per cambiare argomento; “e riguardare meglio anche le proposte della nostra pagina elettronica”. 
"Va bene", fa lei già con la testa da altre parti, mentre si ferma un attimo ad osservare un piccolo disegno decorativo su un pezzo di carta caduto sbadatamente a terra in quel momento. Si tratta di una specie di fiore stilizzato, un modello probabilmente da riportare sopra la ceramica. "Lascia stare", fa sua madre che l'ha vista raccoglierlo. "È molto bello", fa la ragazza osservandolo a lungo e studiandone i contorni. Sua madre allora appoggia quanto aveva in mano fino adesso e si avvicina a sua figlia. "Lo so", le fa; "non l'ho mai usato fino ad oggi, ma potrebbe anche essere un portafortuna, un simbolo di rinascita di tutta la nostra attività, così i prossimi oggetti potremo decidere di decorarli proprio con delle variazioni sui contorni di questo fiorellino". "Certo", fa sua figlia, "mi pare proprio il momento più adeguato per avere un pizzico di buona sorte, magari prima di dover chiedere di nuovo dei soldi in prestito a papà".
Perciò si mettono ambedue sul tavolo da lavoro per estrapolare la massima esemplificazione di quel disegno, ritracciandone a matita e con calma i petali ed il breve gambo, tanto che in breve riescono ad essere piuttosto compiaciute di quanto realizzato. "Ecco", fa la ragazza; "un fregio semplice, completo, e soprattutto sempre riconoscibile, quasi un nuovo marchio di fabbrica". Sua madre sorride, gira l'abbozzo di carta tra le sue mani più di una volta, e poi le fa: "allora mettiamoci subito all’opera, che tra poco dobbiamo essere pronte per riaprire". "D'accordo", fa lei, "in fondo, adesso che ci penso, mi sembra quasi doveroso ripartire proprio con un fiore".

Bruno Magnolfi

lunedì 20 aprile 2020

Uno che guarda.



Tutto insieme non si comprende, però poco per volta il senso può anche apparire chiaro. Questo pensa lui, mentre esce da casa, di nascosto, scivolando alla sera tardi quasi come fosse un ladro lungo le strade del suo quartiere, nel tentativo di non farsi sorprendere mentre prende una semplice, innocua, doverosa boccata d'aria. Ha trascorso la giornata sul suo terrazzino al terzo piano, ha telefonato a quasi tutte le persone che conosce, ha cercato di affrontare con loro ogni argomento, ha scavato il più possibile dentro di sé nella ricerca di dare a tutti nuove opinioni, differenti significati, i più svariati sensi alle proprie parole; infine si è fermato, ed ha sentito improvvisamente l'assenza degli argomenti e l'inevitabile conseguente solitudine ricadere su di lui. Allora ha guardato la strada sotto casa sua, ed ha notato ad un tratto qualcosa che forse non si sarebbe mai aspettato. Ha visto se stesso in carne ed ossa muoversi lungo il marciapiede: un suo secondo lui andarsene tranquillo tra i negozi aperti e le case della sua città. Camminava lentamente quella sua controfigura, quasi senza un vero scopo, cercando di ripercorrere esattamente il tragitto più usato da tutti, forse nel tentativo di mettere a fuoco adesso parecchi di quei particolari che normalmente alle persone paiono sfuggire.
Per questo, quando lui è uscito veramente dal suo appartamento a sera tardi, ha cercato di ritrovare quei dettagli che aveva soltanto immaginato durante il giorno dal suo terrazzino, e con sua grande sorpresa li ha rintracciati quasi tutti. Così ha provato di nuovo, e si è accorto con stupore di riuscire a tirar fuori dalla propria semplice memoria molti più elementi di quanti mai avrebbe previsto. Quasi un gioco quello di proiettarsi in una situazione e tentare soltanto con la mente di visualizzare tutto ciò da cui ci si ritiene circondati, però talmente interessante da portarlo, lui che ha sempre vissuto soltanto di fatti e di cose concrete, a prendere degli appunti veloci e a sviluppare dei veri disegni su quanto ritiene di vedere quando pensa alle strade e alle case della sua città. Ha preso poi una vecchia cartina stradale, ed ha cercato di ricostruire passo dopo passo tutti gli edifici che secondo il suo parere si mostrano presenti lungo quelle vie. A riprova di tutto è tornato ad uscire nottetempo, e si è reso conto naturalmente di aver commesso alcuni errori, ma nell’insieme della massa dei dettagli di non essersi mai discostato molto dalla verità. Perciò ha iniziato con calma a ricostruire con la mente l’intero quartiere.
Fantastico riscrivere completamente tutto ciò che non si può vedere di persona, pensa adesso; certamente un esercizio impegnativo, però qualcosa che porta a figurarsi di fronte a sé mille dettagli a cui non si è dato in precedenza mai alcuna importanza. Alla fine, con tutta l’attenzione che necessita questo compito, lui si sente continuamente calato quasi in una realtà del tutto virtuale, anche se molto vicina a quella vera, tanto da telefonare a qualche amico per chiedere loro cosa ricordassero di una certa piazza, di un negozio lungo il viale, o della facciata di qualche noto edificio. Strane domande, buffo modo di impegnare la memoria, però in fondo una maniera come un’altra, pur così inventata, di uscire di casa, di farsi qualche passeggiata senza muoversi, di usare meglio la propria capacità di vedere tutte le cose, e di imparare poco per volta ad osservare meglio e con maggiore attenzione ogni particolare intorno a sé.


Bruno Magnolfi



sabato 18 aprile 2020

Soldato di difesa.

         

            Sto ben nascosto dentro alla mia tana, e sono sicuro che a nessuno verrebbe mai in mente di arrivare a cercarmi proprio fino qui. Là fuori forse sta accadendo chissà cosa, ma a me non interessa proprio niente dei problemi generali che dannano la gente: io mi rannicchio in questo buco ed esco soltanto quando servono qualcosa da mangiare, una volta o due al giorno, nella nostra sala comune. Dietro al muro e a questo paravento ben sistemato, quando i soliti curiosi transitano dal corridoio, non possono vedere dove sto, neanche se qualcuno di loro si affaccia al mio bugigattolo, e magari cerca di scansare con le mani quegli oggetti che ho messo a protezione di questa mia preziosa intimità. E’ buio dentro, non c’è nessuna lampadina da accendere. Comunque mi piace quando da qui sento le voci degli infermieri e degli inservienti che si incrociano dentro le sale di questo edificio odioso, tanto nessuno può sospettare del mio nascondiglio, visto che io mi faccio trovare sempre dove vogliono loro nelle ore pattuite durante la giornata. Poi torno a rifugiarmi subito nel mio luogo segreto, ed a nessuno passa per la mente di essere più scaltro di quanto sono io.  
            E’ un sottoscala oscuro e umido, lo ammetto, non è proprio un gran bel posto, ma è qui dove avevano piazzato una porticina piccola che neanche si può chiudere del tutto, un varco minuto che lascia entrare soltanto una persona, qualcuno che abbia proprio voglia di abbassarsi, ed anche se forse non serve a niente questo mio rifugio, per me è comunque il luogo più sicuro tra tutti quelli che ho trovato da quando sono qui. Mi ci sono sistemato poco per volta, con una vecchia sedia ed anche due sgabelli rotti, sui quali appoggio generalmente tutte le mie cose, specialmente il soldatino di legno verniciato che sta con me da tempo immemorabile. Lui adesso appare un po’ scrostato e consumato dal tempo, come è quasi naturale che sia, ma per me è rimasto sempre il solito, il mio portafortuna che non mi abbandona mai, e che spesso mi avverte quando c’è qualcosa che non va. Io sto nel buio della mia tana, e lui ecco che inizia a muoversi. “Che cosa c’è”, gli fo, tanto per sentire quali siano le sue ragioni. E lui mi parla di cose che in parte non comprendo, anche se alla fine si spiega in modo estremamente chiaro quando devo preoccuparmi di qualcosa.
            Se devo dire proprio la verità, è lui che mi ha indicato la prima volta questo nostro nascondiglio segreto, in questo meraviglioso sottoscala. “Devi infilarti in quel buco”, mi ha detto con le sue maniere dirette, un giorno che non sapevo proprio dove andare; ed io evidentemente gli ho obbedito subito, perché di lui mi fido, so per certo che non mi tirerebbe mai una fregatura. In questi giorni sento gli inservienti che parlano spesso di contagi, ed è per questo forse che si tengono alla larga da tutti gli ospiti di questa struttura dove mi hanno messo. Sono al sicuro, dico al mio amico soldatino, e lui sorride, sa che prenderà in ogni caso le mie difese, ed io so che su di lui posso contare, che mi difenderà comunque vadano le cose.
Poi arriva un infermiere, uno di quelli che si occupa generalmente dei casi gravi, e mi spiega subito che la mia cuccia va benissimo, e poi che devo stare là dentro il più possibile per non mescolarmi mai con gli altri. Lo guardo, ma non gli rispondo niente, continuo a mangiare in un angolo della sala refezione per conto mio, e poi appena ho finito mi alzo e vado a chiedere cosa ne pensi il mio prezioso amico in armi. “Ha ragione”, dice anche lui; “devi stare qui, fermo, senza cercare mai nessuno”, mi fa. Così io mi metto seduto sulla seggiola, tengo in mano il soldatino e lo guardo prima di rimetterlo in piedi accanto a me. Sono fortunato, penso: tutti hanno da affrontare un sacco di problemi, e si preoccupano continuamente di ogni cosa. Non io però, che sto sempre tranquillo al mio posto insieme al mio soldato, e non mi muovo, non mi faccio neanche vedere, perché ho soltanto da guadagnarci a comportarmi in questo modo.


            Bruno Magnolfi
           

          

giovedì 16 aprile 2020

Indistinguibili solitudini.


          

            “Tutto bene”, dice lei affacciandosi leggermente alla finestra del suo appartamento al terzo piano, rispondendo ad una sua vicina di casa che l’ha salutata mentre stava sistemando dei panni ad asciugare sulla terrazza a fianco. L’altra però non replica niente, come se non ci fosse proprio null’altro di cui parlare. La sensazione di sospensione del tempo adesso è quasi palpabile, ed abitare da soli rende tutto ancora più pesante, riflette lei. “Ho voglia di andarmene”, aggiunge poi a voce più alta, come si fosse dimenticata dell’elemento più importante, mentre l’altra prosegue, assumendo adesso un debole sorriso sulla faccia nella luce forte del sole, a sistemare tutte le proprie cose. Una fotografia, pensa lei senza più muoversi da dove si trova; un’istantanea che ferma in un attimo le nostre più semplici abitudini, rendendole indelebili, incancellabili, quasi eterne. Ha ragione, la mia vicina, pensa ancora: a cosa serve parlare, spiegarsi le cose che comunque sanno tutti, e ripetersi vicendevolmente le medesime ribadite sensazioni. Dobbiamo chiudere con quello che è stato fino ad oggi, e mettersi tutti a ripensare le proprie percezioni in maniera differente.
            Poi rientra in casa, si guarda attorno, cerca di decidere qualcosa di cui occuparsi, almeno per il momento, senza però trovare cosa. Allora torna ad affacciarsi alla finestra, in fondo è la cosa più vitale che può fare in un pomeriggio come questo. La sua vicina adesso ha terminato di stendere la biancheria, e si è fermata a guardare qualcosa giù lungo la strada. Anche lei adesso guarda sotto al loro condominio, anche se non c’è proprio niente da vedere, o almeno niente di particolare che possa essere differente da qualsiasi altro momento della giornata. Però osservando meglio si nota che c’è un giornale abbandonato sopra ad una panchina vicino a un alberello, forse messo lì apposta per qualcuno che abbia voglia di sfogliarlo. Di fronte poi, un segnale stradale è un po’ piegato rispetto a come dovrebbe stare normalmente, e la serranda di un negozio invece di essere chiusa lascia uno spiraglio quasi sufficiente a farci passare una persona che si abbassi per entrare.
            Tante sciocchezze normalmente di poca importanza, pensa lei; ma che adesso forse vanno riconsiderate meglio ed anche con più attenzione. Perché se è vero che dobbiamo osservare in altro modo ciò che ci circonda per tenere conto di particolari che fino a ieri passavano per ignorati, è anche vero che dobbiamo imparare ad essere più attenti, maggiormente accorti, più precisi. La vicina di casa rientra, ha terminato con i suoi panni ed anche di guardare i particolari della strada, e lei però attende ancora un attimo, come dovesse accadere proprio adesso qualcosa di particolarmente interessante. Una nuvola velata oscura leggermente il sole, una folata di vento debole smuove appena le foglie delle piantine sul suo davanzale, e lei adesso si sente viva, pronta per qualsiasi novità, semmai si dovesse presentare. La sua vicina torna sopra la terrazza, la chiama, dice che le ha lasciato qualcosa sul pianerottolo davanti al suo portone.
            Lei la ringrazia, anche se non comprende che cosa possa essere, e risponde che va subito a vedere, qualsiasi cosa sia; poi rientra in casa, accosta i vetri della finestra ed infine compie il tragitto del breve corridoio del suo appartamento, ed apre il portoncino. Niente di speciale, c’è soltanto una fetta di una torta incartata dentro un fagottino, un piccolo regalo come a volte ci si scambia tra persone che si conoscono da parecchio tempo. Però è anche un segnale importante, secondo lei, tanto che torna subito alla sua finestra per ringraziare, per mostrare quanto sia stato gradito quel piccolo regalo, anche se la sua vicina adesso non si vede, non sta più sulla terrazza. Allora prende una piantina delle due che tiene sopra al suo davanzale, ne spolvera le foglie con i polpastrelli delle dita, e poi va a metterla a sua volta sul pianerottolo davanti al portone dell’altra donna. Forse è questo che ci vuole, pensa adesso: sentirsi simili, quasi identici, accomunati in una stessa solitudine.   

            Bruno Magnolfi

martedì 14 aprile 2020

Via da casa.


        

            Dapprima sono come fuggiti, salendo sopra al prima treno che andava verso sud, ma quando si sono visti costretti a scendere dal convoglio, hanno proseguito immediatamente con un’automobile a noleggio, percorrendo strade minori e poco frequentate. Peraltro non è facile spostarsi rapidamente con un bambino piccolo, e lei proprio per questo, tenendo suo figlio costantemente sulle proprie braccia, continua ogni poco ad insistere con il marito che è meglio per loro fermarsi, far trascorrere almeno qualche giorno, assumere con maggiore calma le decisioni più importanti, adesso che hanno abbandonato la città e la loro casa. In seguito lui, che guida adesso senza staccare mai gli occhi dalla strada, dice ad un tratto che comunque prova una grande stanchezza, che non ce la fa più ad andare avanti, così sterza verso una frazione di poche case dove un cartello di legno verniciato indica la presenza di una piccola pensione di campagna, e va a fermare la macchina sulla ghiaia di uno spiazzo. Scendono dall’auto, si fanno immediatamente dare una stanza, poi spossati come sono si sdraiano sul letto riuscendo subito a dormire per diverse ore filate, specialmente lui che non riapre gli occhi neppure quando il bambino si mette a fare un po’ di confusione. “Dobbiamo decidere qualcosa”, gli fa lei alla fine. Lui l’osserva con attenzione per qualche attimo, poi dice che potrebbero ripartire il giorno seguente.
            “Io non vengo”, fa lei però a quel punto. “Torno indietro; non credo sia una buona idea spingersi ancora avanti senza sapere neppure cosa ci possa attendere”. Il marito consulta una cartina stradale, gira nervosamente dentro la stanza, guarda qualcosa dall’unica finestra da cui si vedono degli alberi in fila e la piccola strada che giunge fino lì. “Non essere sciocca”, le fa ad un tratto con voce bassa. “Quando giungeremo a casa di mia madre saremo a posto e soprattutto al sicuro”. Poi il bambino inizia a piagnucolare senza apparente motivo, e lui esce nel corridoio per chiedere al proprietario dell’albergo se fosse possibile avere qualche cosa da mangiare. Gli viene portato poco dopo un vassoio con dei salumi già affettati e dei formaggi insieme al pane, della frutta, una bottiglia di vino, e dei piatti per servirsi. Fuori la giornata appare grigia, senza sole, ed anche se ancora non piove non ne è esclusa affatto la possibilità. Lui appoggia tutto sul tavolino tondo della camera, spiluzzica qualcosa dal vassoio quasi con disinteresse, poi torna a sdraiarsi sopra al letto.
            “E che cosa intenderesti fare”, chiede lui a sua moglie che adesso sta allattando al seno il suo bambino. “Torno indietro”, fa lei, “anche se siamo quasi a metà strada, ora non voglio ritrovarmi bloccata a casa di tua madre o chissà dove per chissà quanto tempo”. Suo marito accende la piccola radio sopra al comodino, ed anche con il volume posizionato al minimo le notizie che vengono diramate in questo momento non sembrano per niente incoraggianti. “Quindi vorresti che tornassi indietro insieme a te”, fa lui. La moglie prosegue ad occuparsi del bambino, come per non dare troppa importanza a quella domanda che adesso però appare cruciale. “Sarebbe meglio”, fa lei alla fine, senza aggiungere neppure una parola. Lui sembra indifferente a quanto detto, poi esce dalla porta e va verso la loro macchina parcheggiata sullo spiazzo a prendere qualcosa. Sua moglie dalla finestra vede che sta telefonando, probabilmente a sua madre, magari per avvertirla che ci sono delle complicazioni, che le cose non stanno proprio andando come era stato previsto.
            Quando il marito rientra in camera gli sembra in apparenza non sia cambiato niente davanti ai propri occhi, neppure la posizione di sua moglie oppure quella di suo figlio. Lei lo guarda adesso con espressione seria, lui riprende per un attimo a girare con agitazione dentro la stanza, ma poi si ferma. “Va bene”, dice con sforzo. “Abbiamo con noi un po' di soldi, torneremo indietro; ma senza rientrare a casa nostra, almeno per ora”.

            Bruno Magnolfi

domenica 12 aprile 2020

Utile ricordo.


           

            Lei resta a letto, anche se è tardi. Semplicemente non trova dentro di sé una buona ragione per alzarsi da dove si trova e mandare avanti le attività del giorno, anche se non riesce più a dormire neanche per ulteriori cinque minuti. Si copre la faccia con le lenzuola, riflette qualcosa che non sembra adesso abbia né capo né coda, lascia che alcuni ricordi scollegati facciano capolino a rammentarle qualcosa del proprio passato, poi si concentra per farsi tornare a mente il nome di un paesino dove si è recata qualche volta moltissimi anni fa. Ma non ha alcuna importanza adesso, e la necessità più profonda che avverte è quella di scovare dentro di sé un buon motivo per affrontare la giornata che inesorabilmente avanza. Si ricorda però la strada tortuosa per arrivarci, il profilo delle case arroccate sulla cima di una collina puntuta, rocciosa, con le poche strade strette ed irregolari inerpicate attorno. Potrebbe farsi una doccia, poi occuparsi di sé, dei suoi capelli, delle unghie, delle piccole rughe insidiose sopra al viso, di tutti quei particolari che normalmente si tralasciano insomma, forse perché poco importanti, forse perché segno di motivazioni troppo legate all’età, che non si possono affrontare mai con leggerezza, ed in certe giornate anche meno volentieri. 
            Poi si decide, scansa le coperte, infila i piedi dentro le pantofole e subito va in cucina a prepararsi un caffè che le procuri un po’ di quella carica che serve. Chissà come mai si chiamava quel posto, pensa ancora. La prima volta c’era andata da ragazza, insieme ad una amica, perché lì ci abitava la sua nonna, e loro due erano passate da quelle parti fermandosi per un saluto che poi si era prolungato oltre misura, con un pranzo squisito nella casa della vecchia, ed un intero pomeriggio trascorso tra le strade e le solitarie mura, piene di storia, di cose ferme. In seguito, con quell’amica si erano perse, come succede a volte, ma lei era ritornata in seguito da quelle parti con suo marito, molto prima della loro separazione, compiendo un giro per quelle colline dolci costellate di vigne e di oliveti. Adesso tutto sembra quasi ironico, anche i suoi pensieri confusi e quei suoi ragionamenti attorno a cose che la riportano infine soltanto alla sua incapacità di ricordarsi come si chiamasse quella cittadina. Potrebbe consultare una cartina geografica qualunque, ma non sarebbe certo la solita faccenda. Deve ricordarlo, è quasi essenziale. Si siede accanto alla finestra con la sua tazza in mano, e guarda fuori quest’immobilità da giorni assurdi, quasi insensati.
            Non ha ancora voglia di niente, questo è il punto: nessun bisogno di spingersi in avanti, occuparsi di qualcosa, provare a recuperare almeno nei pensieri la sua esistenza incapace di una direzione vera, di un significato di personalità, di un’idea di fondo adatta a produrre un senso importante, che illumini i contorni delle sue scelte troppo casuali, forse anche troppo insipide. Ricorda solo la strada tutta curve, in questo momento, e l’emozione di giungere il un luogo proprio come quello, costruito praticamente a mani nude, nel corso di chissà quanti decenni, da persone che hanno modellato l’intera collina fino a darle una precisa personalità. Uomini capaci e donne brave, figure intrise di grande dignità, che due ragazzette certo non potevano comprendere, ma una femmina matura forse sì, di fronte ai suoi pensieri pur confusi ed incompleti, pronti però ad essere rimessi in perfetto ordine, come è doveroso fare prima o dopo.
            Nessuna volontà di cambiare, questo è il punto; e neppure una memoria degna che faccia tenere alla larga dagli sbagli. Poi si siede al tavolo davanti ad un libro che in questo periodo sta cercando di leggere scorrendo qualche pagina alla volta, senza neppure usare quell’interesse che probabilmente meriterebbe il testo, e confondendo spesso la trama delle pagine già lette, scocciandosi alla fine, e andando avanti in modo meccanico, quasi per scommessa. Montemassi, ecco il nome del paese, adesso le pare quasi di vederlo, e di ricordarne ogni particolare. Ripartirà da lì appena possibile, sembra promettere adesso a se stessa; ricercando così il proprio passato rimasto troppo in bilico, mettendo in fila uno per uno tutti i suoi sbagli, ed impegnandosi di più per il futuro.

            Bruno Magnolfi

venerdì 10 aprile 2020

Brutte giornate.



"Sono solo", dico a voce alta tra le pareti dell'appartamento, dentro alle mie piccole tre stanze di questo palazzetto giallo e disadorno, costruito cinquant'anni fa nella periferia industriale cittadina, dove le fabbriche presenti, da quel momento in poi, si sono ritrovate costantemente in crisi, tanto da deprezzare pesantemente anche tutto questo nostro quartiere, e rendere appetibile per tutti andarsene via da queste strade e da queste abitazioni. L'affitto è modesto per fortuna, però starsene in casa in certi giorni è qualcosa che alla lunga lima i nervi in maniera quasi inverosimile. Avverto dei rumori dall'appartamento esattamente simmetrico al mio, che si apre di faccia alla mia porta, sopra al pianerottolo, e penso che il mio vicino stia mostrando in qualche maniera anche a me la sua presenza, la sua situazione presumibilmente simile alla mia, anche se lui abita con la moglie. Fino a qualche tempo fa c'era una ragazza che dormiva da me qualche volta, specialmente nei fine settimana, poi ci siamo litigati, non ricordo neanche bene quale sia stato il vero motivo, e così non ci siamo visti più.
Vorrei che qualcuno ora mi rispondesse subito che non è del tutto così come io credo, che non sono proprio solo, che tutti siamo insieme nella medesima situazione, e che c’è della solidarietà comunque che lavora come un collante tra di noi, anche se a me non pare del tutto vero questo aspetto, ed anzi credo che l’isolamento di adesso per tutti sia ancora più forte che in altri momenti, in questo tempo in cui ciascuno di noi cerca di costruire qualcosa come una corazza di protezione attorno a sé. Non mi interessa niente che dei vicini sentano le mie urla attraverso le pareti, e si figurino che a produrle sia il solito svitato del terzo piano, quello che abita da solo e spesso non saluta neppure quando ti incontra sulle scale. “Ci sono”, vorrei dire a tutti, “sono qua, non sono un fantasma privo di qualsiasi consistenza: ho i miei modi, il mio carattere, la mia maniera di comportarmi quando incontro il vicinato, come chiunque, come ognuno di voi, più o meno gentili, più o meno sociali nel vostro essere degli ordinari cittadini”.
“Sono solo”, riprendo ad urlare dopo un po’; “venite a vedere se non ci credete, è sufficiente vi mettiate ad origliare dall’esterno alla mia porta per rendervene conto, per capire che non riesco più a stare qua dentro senza fare niente, senza occuparmi di nulla che abbia un minimo di senso”. Mi siedo, sto in ascolto per sentire se per caso ci fossero reazioni, ma non avverto alcun rumore adesso, neppure quelli del vicino di fronte al pianerottolo. Allora apro l’unica mia finestra che si affaccia sulla strada, e da lì vedo che non c’è nessuno che gironzola a quest’ora, neppure per andare a fare acquisti. Così torno a chiudere i vetri ed a mettermi seduto.
Dopo un po' sento che qualcuno mi sta bussando con insistenza, così apro la porta e vedo che c'è il mio vicino di fronte a me ad una certa distanza sopra al pianerottolo, mentre mi chiede se per caso abbia bisogno di qualcosa. "Non lo so", gli dico confondendomi per la domanda; "stare da soli a volte sembra così  terribile". Lui mi guarda, dice che sono tempi duri, che ci vuole pazienza, che bisogna essere forti, poi se ne va, rientra lentamente nel proprio appartamento, ed intanto pensa sicuramente che sono sempre il solito, uno che non sa mai stare al proprio posto. Allora prendo una sedia e spacco un vetro della mia finestra, l’unica che si affaccia sulla strada, e poi mi siedo, aspetto che qualcuno si occupi di me, anche se adesso mi vergogno di essere così poco resistente ad un periodo di tempo che torna così difficile per tutti.


Bruno Magnolfi




mercoledì 8 aprile 2020

Appetito.


          

            Certe volte lei si sente strana, come se la propria sensibilità accelerasse durante quei casi, fino al punto di farle percepire dei minimi particolari normalmente ignorati da tutti, divenuti in quei momenti per lei fondamentali nella classificazione delle cose: piccoli dettagli forse senza importanza alcuna, semplici minuzie senza nessun peso, sciocchezze forse, come la posizione degli oggetti, ad esempio, la forma ed anche i colori che questi mostrano; persino la loro scelta e la sistemazione finale, probabilmente decisa già con uno scarso criterio, pensa adesso sia stata effettuata con evidenza da persone senza neppure troppi scrupoli, di certo indifferenti alla percezione della fondamentale importanza di qualsiasi azione primaria, che non tenga conto per nulla di quanto sia prezioso dare un senso a quanto si propone. Da un lato lei prova una leggera sensazione di disturbo in tutti questi casi, dall'altro, se le fosse possibile, vorrebbe quasi non essere ciò che invece si dimostra. Alla fine tira fuori la propria personalità, non potrebbe fare altrimenti, anche se comprende benissimo così facendo di non essere apprezzata da nessuno.
Cammina da sola lungo la strada, allontanandosi da tutti, fino ad arrivare generalmente davanti al suo negozio preferito, un ortofrutta di quartiere sviluppato nella maggiore metratura espositiva direttamente sopra al largo marciapiede, in cui tutti i colori e le differenti forme dei vegetali sistemati dentro le cassette e sopra alcuni banconi dedicati, mostrano in quante maniere la natura intenda manifestarsi, in quel tripudio cromatico quasi del tutto ineguagliabile. "Le posso dare un sacchetto per scegliere da sé quello che più desidera, cara signorina", fa il negoziante con un debole sorriso. Sa che lei non è per nulla una buona cliente, capace com’è di guardare tutto ciò che sta esposto davanti ai propri occhi per un tempo quasi infinito, e terminare quasi sempre con l'acquisto di una semplice zucchina, o di un arancia, oppure di due banalissime patate. Lei si guarda attorno con quell'aria innata da indecisa cronica, poi dopo aver scrutato l’aria per comprendere se tutto è di suo gusto, dice soltanto "grazie", come per aggiungere un marginale incoraggiamento.
Le pare impossibile non amare quel mestiere, mettendosi dalla parte del negoziante di ortofrutta, e dopo questo pensiero immagina però che l’abitudine a maneggiare e ad esporre tutti quei prodotti così belli e colorati, gli abbia provocato quasi una specie di saturazione, riguardo al suo reale vedere quei prodotti della natura, così che lei, nel corso del tempo da quando lo conosce, ritiene di avere maturato un senso di velata compassione per quei suoi modi bruschi ed incapaci di quell’attenzione che assolutamente le parrebbe quasi del tutto doverosa. “Non importa”, gli fa schernendosi; “oggi prendo soltanto queste due mele verdi”. Lui la guarda come per mostrare un moto di sopportazione nei confronti dei clienti come questa donna, poi si interessa subito d’altro.
Lei non si ritiene una persona molto differente da tutti gli altri, però sa che girando i propri occhi attorno a sé, riesce a vedere spesso delle cose che probabilmente a molti sfuggono, come la meravigliosa buccia verde delle mele che ha appena acquistato, ad esempio, e di questo si ritiene orgogliosa e anche felice. Poi rientra a casa, appoggia la frutta in un piatto sopra il piano di un tavolo di legno, mentre il sole da una finestra le irraggia in modo obliquo, quasi formando un dipinto iperrealistico di natura morta. Potrebbe lasciare dove stanno quelle mele, sopra il piatto di ceramica, ed attendere con calma la loro lenta decomposizione: un modo come un altro per rendere omaggio alla loro bellezza fugace, per osservare con calma la capacità che ha la natura di trasformarsi in altri aspetti. Potrebbe farlo, pensa mentre continua ad osservare quella sua composizione, ma infine addenta le mele una per volta e come era previsto le divora.

Bruno Magnolfi

lunedì 6 aprile 2020

Modi differenti.


        

            “Sono scemo”, mi dico ogni volta che affronto con la solita determinazione qualcosa che magari neppure conosco, magari solo per il gusto di mettermi ad individuare quale sia il mio vero limite. Poi mi riprendo, e capisco quasi sempre di aver esasperato il mio egocentrismo, così cerco almeno di rientrare nei ranghi, e tento anche di dimenticare rapidamente tutte le mie brutte figure. Mi sento spesso per telefono con gli amici, e dico a loro che non sono certo il tipo che si fa fregare facilmente, così quando propongono qualcosa dico sempre di no, anche se poi mi lascio supplicare almeno fino a quando non acconsento, mostrando comunque ancora della ritrosia. Loro mi conoscono, sanno come prendermi, e ormai è diventato come un gioco comportarmi così.
            “Mi piacerebbe annullarmi”, dico qualche volta quasi per provocazione. “Mi sento ingombrante, con troppa personalità, incapace di tenere un basso profilo”. C’è una ragazza che non parla quasi mai quando siamo tutti in compagnia, ed io mi chiedo come faccia ad essere così, piena di pensieri e di riflessioni che non scambia mai con nessuno. Le offro una birra, tanto per tastare il terreno, poi le dico che per calmare un po’ il mio modo di essere ci vorrebbe che trovassi una ragazza, proprio una come lei. “Vedi Sonia”, le fo; “certe volte sento di avere molto da dare, e per questo motivo impegno tutto me stesso nel tentativo di far comprendere il mio punto di vista, il mio parere, le mie opinioni più varie. Non sono molto convinto delle cose che dico, però mi sembra che tutto questo sviluppi la discussione, offra ai miei amici la possibilità di trovare degli argomenti critici”. Lei mi guarda, non dice niente come suo solito, però elabora le cose dentro la sua testa.   
            “Va bene”, fa lei alla fine. Possiamo metterci assieme”. Io comprendo lo spirito di sacrificio da parte di una come Sonia, così mentre la guardo e sorrido, impongo a me stesso di provare a cambiare, almeno in parte, e di pormi il tentativo di assomigliare un po’ anche a lei. Le chiedo come mai a lei non piaccia parlare con gli altri, ma Sonia alza una spalla, si schernisce, ed infine dice che non è soltanto per timidezza, è anche per il gusto di ascoltare quello che tutti hanno da dire, dando per scontato che ci sia tutto da scoprire in ciò che pensano le altre persone. Rifletto, mi sembra un ottimo punto di vista, però mi pare che abbia molte più possibilità di confronto con la realtà uno proprio come me, piuttosto che una ragazza come è lei, anche se adesso non dico più niente. Più tardi ci sentiamo per telefono, e le dico che mi sembra quasi una sfida comprendere cosa lei nasconda dentro di sé, e questo mi piace moltissimo. Sonia non risponde niente, però in questo modo mi costringe immediatamente a riflettere su ciò che forse avrebbe anche potuto rispondere.
            “Sei misteriosa”, le fo a Sonia. “Però più ti conosco più mi piace la tua maniera di essere”. Dopo che ho riattaccato il telefono mi prende una specie di dubbio di base, così ricompongo il suo numero velocemente e la richiamo. “Forse siamo uguali”, le fo; “però anche se abbiamo sviluppato due maniere completamente diverse di confrontarci con l’esterno, quando parliamo tra di noi penso che ci capiamo al volo, e questo è quanto di più importante possa esserci”. Lei non risponde niente, sembra che elabori di nuovo tutte quante le parole che cerco di rivolgerle, come se dall’interpretazione di quello che le dico ne possano scaturire degli elementi fondanti per nuove riflessioni che Sonia si limita semplicemente a provocare in me, quasi fossi io alla fine quello che concretizza le idee, lasciando a lei il compito di esaminarle nel pensiero. “Devo lasciarti”, dice alla fine. Ed io le dico che va bene, non c’è problema, ci sentiamo più tardi. “Non parlavo della telefonata”, mi fa lei. “Non posso sopportare più i tuoi modi. Siamo troppo differenti”.

            Bruno Magnolfi

sabato 4 aprile 2020

Migliori idee.

         

            “Non mi interessa niente di tutto questo”, dice la ragazza al telefono mentre si raggomitola in una poltrona del salotto. “Ci sono momenti in cui è bene rinchiudersi in se stessi, e riflettere a fondo su ciò che sia meglio per tirare avanti”. Poi chiude la comunicazione, si alza rinfilando ai piedi le sue pantofole, ed alla fine va verso la cucina, dove sua madre sta sistemando qualcosa dentro al frigorifero. “Niente”, fa lei; “le solite chiamate da scemi per dire che sta andando tutto male, e che le cose potrebbero facilmente andare meglio, basterebbe volerlo”. La mamma l’osserva per un attimo, appoggia sul piano del tavolo un sacchetto di verdure congelate, poi le dice che forse non è poi così sbagliato impegnarsi per cercare qualche miglioramento. Lei la guarda, si affetta un piccolo pezzetto di pane, poi dice soltanto che non le pare proprio così facile. Torna nell'altra stanza, apre un libro e scorre qualche riga dal punto in cui lo aveva lasciato. "Non significa niente volere una cosa se quel desiderio non è sostenuto da altri", dice a voce alta. Poi richiude il libro.
Dopo qualche minuto la mamma si affaccia alla porta: "si tratta di capire se comunque è meglio avere un'opinione comune, o se sarà un'opinione comune a peggiorare prima o poi le cose", le fa. La ragazza non risponde niente, certamente questo è un momento in cui è difficile avere le idee chiare, pensa, e se poi tutte le idee sono diverse tra di loro non sarà proprio possibile combinare niente di buono. Certo è che se ciascuno desidera qualcosa di differente dagli altri, ogni sforzo si neutralizza rapidamente e non risulta proponibile mandare avanti le cose. Ma è davvero inutile lambiccarsi troppo il cervello, immaginare di poter variare qualcosa: tutto quanto è nelle mani di un vasto gruppo di persone ben fornito di strumenti, che prima di pensare a ciò che è meglio per tutti, mette in pratica quasi sempre ciò che risulta meglio per se stesso.
Suona il telefono, è l’amico di poco prima che adesso non vuole più parlare delle faccende di cui hanno discusso precedentemente, ma soltanto chiedere alla ragazza come si immagina il futuro al momento in cui tutte le cose dovranno tornare alla normalità. “Non lo so”, fa lei, “però adesso mi sembra che nulla sarà davvero come prima, anche se non riesco a comprendere se dovrà essere peggio oppure meglio”. Poi parlano di argomenti più semplici, si scambiano le solite superficialità sulla noia e sulla monotonia, ed infine riattaccano perché sentono di non avere più degli argomenti per mandare avanti la conversazione. “Una grande nebulosa”, dice la mamma quando lei riappare sull’uscio di cucina. “Però potresti aiutarmi a compilare un programma che preveda i pranzi e le cene almeno per i prossimi tre o quattro giorni, naturalmente tenendo conto di ciò che abbiamo in casa”. Così fanno un breve sommario della roba da mangiare mettendo da una parte tutto quello che va consumato più rapidamente perché non conservabile troppo a lungo.
“Forse dovremmo fidarci maggiormente di chi ci rappresenta”, dice la mamma, “anche se appare evidente che è difficile credere sempre a ciò che ci dicono”. La ragazza ha uno scatto improvviso, poi si blocca in un’espressione ambigua. “C’è qualcosa di inadeguato a questi tempi, secondo me”, dice con intensità. Poi fa qualche passo ed apre il frigorifero. “Mi pare addirittura che sia sufficiente qualche variazione negativa, per mettere in crisi tutto quanto il sistema. E questo significa fragilità”. Infine mette il naso dentro al congelatore, tira fuori degli avanzi di qualche serata precedente, li valuta nella loro vaschetta dove sono stati conservati, poi si volta verso la sua mamma che annuisce con un lieve sorriso: “nella memoria collettiva forse c’è ancora qualcosa con cui possiamo modificare questa attualità; perché magari adesso si tratta soltanto di tirare fuori e riproporre con piena dignità le migliori idee di sempre, per riconsiderarle davvero; e dopo magari mettere da parte una buona volta tutte le opinioni più superficiali”.   


Bruno Magnolfi
         

giovedì 2 aprile 2020

Quasi una colpa.




"Vorrei mangiare un piatto di pasta al pomodoro", fa lui timidamente alla ragazza indaffaratissima che serve i tanti clienti della tavola calda alla buona che resta vicino alla stazione ferroviaria. "Va bene", fa lei senza guardarlo, "tra un attimo si libera un posto accanto a Billi", indicando con il mento, in considerazione del fatto che ha le mani occupate, un tizio stralunato che sta inforchettando qualcosa tenendo lo sguardo fisso dentro al proprio piatto. Lui con pazienza si mette in un angolo all’entrata, e restando così poco in mostra la ragazza probabilmente si dimentica subito della sua presenza, tanto che ad un certo punto fa sedere altre persone a dei tavoli che si sono ulteriormente liberati, e lui allora scivola fuori dal locale cercando di non farsi vedere, per non metterla a disagio per quella lunga attesa senza scopo. Poi attraversa tutta la piazza di fronte e arriva fino al solito chiosco di pizza a taglio frequentato generalmente dai ragazzi, dove addenta una focaccia ripiena restando in piedi davanti ad un bancone lungo la parete. Potrebbe permettersi una vera cena in un bel ristorante con i quattrini che si ritrova nelle tasche, ma per lui adesso mostrarsi è esattamente come condannarsi.
Ha trovato un portafoglio bello gonfio in terra appena qualche ora prima, accanto a due tizi che stavano discutendo dandogli le spalle, e lui non visto ha tirato fuori i tanti soldi che ci ha trovato dentro, e poi ha rimesso tutto come stava, infilandosi in tasca solo quel denaro. Non è un furto, ha subito pensato per giustificare il gesto: probabilmente il portafoglio non era neppure di quei due. Però adesso non si sente a posto con la propria coscienza, anche se oramai non può più restituire niente. Forse qualcuno potrebbe avere dei sospetti su di lui, quei due potrebbero averlo intravisto per un attimo alle loro spalle; potrebbero cercarlo, magari proprio attorno al posto dove si è indebitamente appropriato dei loro quattrini. Potrebbero essere dei soldi segnati quelli che lui ha preso, ha pensato persino poco dopo, e così li ha infilati in una tasca interna del tutto invisibile, disposto a non spenderne niente almeno per un paio di settimane.
Ma anche così non si sente a posto, e nonostante viva di espedienti, sa perfettamente che quei soldi non sono proprio i suoi, e che in un modo o nell’altro deve trovare la maniera per scaricare la propria coscienza, e ritrovare quella tranquillità che da questo pomeriggio non ha più. Gira a caso con una birra in mano per un po’, quindi getta la bottiglia vuota in un cestino e lascia sprofondare le sue mani nelle tasche, con in mente soltanto la pensione da disgraziati dove la notte generalmente va a dormire, e dove deve rientrare entro l’orario in cui chiudono l’ingresso. Poi, seguendo un istinto, torna alla tavola calda dove era entrato prima, e dalla vetrina vede ancora la ragazza che serviva ai tavoli. Dentro non c’è più nessuno adesso, lei probabilmente ha finito il suo turno, difatti dopo un attimo la vede mentre indossa un giaccone, va verso la porta ed esce sulla strada, proprio davanti ai suoi piedi.
“Ciao”, le fa lui timidamente; “scusa se sono andato via poco fa, ma forse stasera c’era troppa confusione nel locale”. Lei lo guarda sorridendo, non si ricorda proprio di lui, però le viene a mente che c’era stato qualcuno che le aveva chiesto di mangiare, così gli dice soltanto: “dispiace a me, forse era soltanto il momento peggiore di tutta la serata”. “Posso accompagnarti”, le fa lui. “Va bene”, dice lei dopo un attimo; “la mia casa comunque è qui vicino”. “Ho trovato dei soldi”, le fa subito lui, “ma non posso tenerli, e non so neppure cosa farne”. “D’accordo”, dice lei, “puoi pure darli a me; ed io ti terrò ogni sera un posto libero ad un tavolo nella mia tavola calda, per tutto il periodo che serve, magari fino a quando non finiscono”.

Bruno Magnolfi