mercoledì 10 giugno 2009


            Il letto per una lunga malattia di un bambino in certi casi può trasformarsi in un elemento sensibile ai dettagli più piccoli della realtà. Per mesi una febbre bassa e persistente mi aveva tenuto sotto alle coperte, spossato e preda di una emicrania oscillante. La mia dieta consisteva di cibi sconditi, in bianco, senza sapori, uno schifo, buoni solo al sostentamento e a nient’altro. Provavo pena per la mia mamma che mi accudiva ogni giorno conservando lei stessa un’espressione di pena, e avrei fatto qualsiasi pazzia, anche guarire, pur di vederla sorridere, cancellandole quell’espressione di sofferenza stampata sul viso. Da solo, con il mio mal di testa perenne, restavo nelle lenzuola anche quando il sole era caldo ed immobile sopra le tende della finestra. Restavo lì a rigirarmi nei pensieri e nella mia solitudine, per pomeriggi completi, buoni solo a percorrere sentieri inventati e pensare a tutto quello che la mia fantasia poteva dettarmi. I rumori, fuori, lungo la strada o nelle case vicine, apparivano da lì confusi e ovattati, come tanti piccoli rebus pronti per essere carpiti, risolti, interpretati. Era bello lasciarsi cullare da quei rumori sottili, un martello dentro a una casa, un cane in un giardino, una risata sguaiata chissà dove, e poi, la motocicletta del babbo. Il caleidoscopio del mondo passava accanto al mio letto, specialmente durante le giornate di vento, quando fruscii e scricchiolii davano un senso proprio di vivo e presente alle cose, rassicurandomi per ore e per giorni che tutto scorresse fuori da lì, e quel tempo apparentemente inutile e perso si dimostrasse capace e fecondo di idee e di progetti.

            Bruno Magnolfi


martedì 9 giugno 2009

Assemblea.



I primi dissensi sugli argomenti di fondo si manifestarono quando qualcuno disse tra i denti che così non si sarebbe andati lontano. Le ultime riunioni erano scivolate via in modo tranquillo ma probabilmente era stata soltanto calma apparente. La sostanza cambiò durante l’ultima assemblea generale. “In questa associazione trovo che ormai l’interesse individuale abbia soppiantato quello pubblico”, disse uno appena avuta la parola; “perciò dichiaro che da questo momento tramonta la mia esperienza con voi”. Ecco, fu come aver rotto la diga, tutti da quel momento si dichiararono solidali con quella presa di coscienza iniziale, e i più lo fecero in maniera verbalmente violenta, autoritaria, quasi come se fino ad allora non si fossero accorti di niente, o non volessero rimanere tra quelli più silenziosi che pensavano a come salvare il salvabile. Alcuni dissero che se l’erano immaginati fin dall’inizio che tutto prima o poi sarebbe andato per quel verso, però ci furono altri che fecero notare quanto interesse individuale ci fosse nelle parole di chi si indignava per l’interesse individuale degli altri, e così tutto quanto divenne un inestricabile continuo distinguere e distinguersi gi uni dagli altri, fino a trovare posizioni leggermente diverse e isolate per ciascuno di coloro che prendeva la parola e spandeva sugli altri la propria dichiarazione. A fine assemblea a terra rimasero una moltitudine incredibile di stampe, di fogli, fogliacci di carta, appunti strappati e tessere usate, mozziconi di sigaro e sigarette di ogni tipo e misura, gomme già masticate, penne, lapis, e altre cianfrusaglie rotte e inservibili. Il personale incaricato di svolgere le pulizie non capì cosa fosse accaduto là dentro, però tutti loro compresero subito che l’impegno richiesto per far ritornare tutto pulito era tanto, e forse persino superiore alle loro piccole forze.

Bruno Magnolfi


lunedì 8 giugno 2009

L'urlo di dolore.



            In fondo, cosa mai può essere questa emicrania, se non l’incapacità materiale ad affrontare le attività di ogni giorno in maniera corretta, abituale, scontata, così come appare alla maggior parte di tutti? Inutile anche parlarne, come minimo: l’incomprensione è totale, anzi, spesso il risultato è negativo del tutto, e già il percorso di acquisizione dei dati da parte di chi pur vorrebbe aiutare, sgretola il nesso causale, smantella le cose usando una logica che confligge con quello stato iniziale. Per cui niente, va conservato in silenzio ciò che nasce e si muove nell’ombra, lasciandolo sempre in quel margine e invidiando, certe volte, coloro che per espansività o modi spontanei di porre le cose, riescono davvero a farsi aiutare, almeno tramite moti solidali in genere del tutto insperati. Il malessere spesso dilaga, radica a fondo le basi, minaccia di mostrarsi a ogni passo, pur contenuto com’è da uno sfiancante volere, e talvolta toglie energie ad ogni altra qualsiasi attività. Ma si, giochiamo tutti a fare i superficiali, che tanto la vita è talmente veloce che non ci permette di approfondire alcunché, e se poi lo facciamo siamo proprio di fuori. Si gira nel giorno lamentandoci di compiere i soliti gesti, ma se uno non accetta il percorso o per sua iniziativa o per incapacità innata, siamo pronti ad additarlo come diverso, e lo releghiamo tra quelli da ignorare senz’altro, che tanto dentro di lui non c’è niente di buono.

            Bruno Magnolfi


domenica 7 giugno 2009

Uscire da casa.



            “E’ meglio per tutti se smetti di lamentarti continuamente dei tuoi malesseri esistenziali”, disse lei.
“Certo”, rispose lui, “provoca sempre un certo fastidio quando qualcuno cerca onestamente di esprimere i proprio disagi in mezzo a della gente che è abituata ad ammalarsi a comando, a seconda di ciò che vuole ottenere”.
“Non dire idiozie, sei senza spina dorsale, ed è questo il tuo principale problema: non riesci ad affrontare i problemi, la quotidianità, le normali difficoltà che abbiamo tutti”.
“No, non è così”, riprese lui. “Tutto parte dalla differente sensibilità con cui sentiamo le cose”.
“Va bene”, rispose lei sistemando alcune stoviglie in cucina, “ma ciò rafforza comunque il comportamento lamentoso e inconcludente che hai”.
“Ma non potrei essere in altra maniera, a patto di non frustrare i miei istinti e la mia personalità”.
“Questo è vero, ma tutti quanti noi siamo sulla terra con il compito di migliorare e correggerci. Non ti dico di essere completamente diverso da come sei, ma trovare un equilibrio più stabile e una maniera per non apparire così pessimista come ti ritrovi, a noi che abbiamo la sventura di viverti attorno, ce lo devi un comportamento migliore”, concluse ironica sbattendo un cassetto. Lui sul momento non ebbe da rispondere niente. Non era la prima volta che affrontavano quegli argomenti, ma a lui pareva impossibile che si ergesse ogni volta un muro di incomunicabilità invalicabile. C’era stato anche di peggio. C’erano state delle volte in cui lei si era messa in mente un qualcosa che con qualsiasi razionalità era diventato impossibile smontare. In difesa delle sue convinzioni, poi, lei diventava aggressiva, denigrava le maniere e i comportamenti di lui, perdeva la testa.  Così, quella sera, lui disse soltanto: “Non importa, hai ragione; la cosa migliore è che esca e mi svaghi”.

Bruno Magnolfi


sabato 6 giugno 2009

L'attore.



            Si era stancato andandosene in giro così, senza meta. Perciò era entrato dentro a un caffè e si era seduto. Si era fatto servire qualcosa dal cameriere, poi aveva cercato dentro alle tasche della sua giacca un taccuino che portava spesso con sé. A stampatello aveva scritto la data, e subito sotto: “passeggiata; osservazioni; pensieri al passato”. Erano anni che prendeva degli appunti del genere, una specie di indice o di sommario delle giornate trascorse. Non che gli servisse a qualcosa, ma era un’abitudine dalla quale non riusciva a staccarsi. Poi la sua attenzione fu catturata da altro. Davanti a sé, fuori dai vetri del bar, c’era un uomo, un signore, che semplicemente, approfittando della bella giornata di sole, leggeva il giornale appoggiato a un lampione. Non c’era niente di strano, eppure qualcosa di quella espressione dell’uomo concentrato nella lettura del suo quotidiano, gli faceva ricordare un attore, non uno molto noto, ma un attore di quelli che fanno spettacoli nei teatri di quartiere, e ogni tanto lo ritrovi in qualche parte minore nei teatri più grandi. Non ricordava adesso quali commedie, però era quasi certo di averlo veduto più di una volta sul palcoscenico. Pagò il suo caffè ed uscì andando come a inciampare, mimando estrema disattenzione, proprio sul giornale che l’uomo reggeva con le due mani. “Mi scusi tanto; sono stato sbadato, e in più le pietre di questo marciapiede sono leggermente sconnesse. Spero di non averle disturbato più di questo la sua tranquilla lettura”. L’uomo non rispose, si limitò a bofonchiare qualcosa ripiegando il giornale in modo un po’ goffo, probabilmente per ridurlo al formato da tasca e così andarsene da qualche altra parte. Indossava una giacca aperta e un po’ logora, ma non impresentabile, e all’altezza della cintura dei suoi pantaloni si notava qualche chilo di troppo. I suoi capelli erano bianchi sopra le tempie, e tirati all’indietro, e la sua faccia, pur burbera, appariva carnosa e simpatica. “Aspetti”, gli disse, prima che l’uomo abbandonasse definitivamente il lampione. “Se posso offrirle un caffè, qui, dentro al bar, mi sentirei meglio, come alleggerito per il disturbo che sono riuscito a crearle…”. “Non importa”, disse l’uomo, che probabilmente non si aspettava una cosa del genere; “non si danni, me ne stavo andando comunque”. “Insisto”, disse l’altro, “ci vorrà solo un momento; e staremo meglio ambedue…”. “D’accordo”, disse l’uomo, “la seguo”. Così entrarono per andarsi ad appoggiare al bancone e farsi servire un caffè e un’aranciata. “L’ho riconosciuto”, gli disse una volta serviti, “lei è un attore, non neghi. Mi ha sempre affascinato chi fa il suo mestiere, non per la fama più o meno grande di cui riesce a godere, ma per la capacità di vivere storie non proprie, di immedesimarsi nella vita degli altri, di pensare e sentire cose diverse da quelle in cui ognuno di noi siamo portati a rinchiuderci”. “Non creda”, disse l’altro con un’espressione che assecondava volentieri quell’argomento, “quella capacità che a lei sembra una dote, in realtà dopo un po’ diventa mestiere, consuetudine, ordinarietà. Non si fa alcuno sforzo, si impara il copione, si studia ogni scena e poi si fa come farebbe chiunque. Vede, lei, quando va a vedere una scena e si trova a piangere o a ridere a seconda che il personaggio sia triste piuttosto che comico, compie lo stesso percorso, e si trova a piangere o a ridere immedesimandosi in quel personaggio. Mi creda, tutta la scienza è nel testo; se è buono quello, il resto viene da sé”. “Lei fa il modesto”, gli rispose mentre ambedue già stavano uscendo. “Sa quanta gente vorrebbe avere la sua consuetudine, come dice lei, anche solo per recitare qualche commedia da dilettante dentro al teatrino dell’oratorio”. “Si, forse è vero”, disse l’attore, probabilmente anche per chiudere quei discorsi che indubbiamente non lo interessavano affatto. Così non trovarono meglio che stringersi la mano e salutarsi così, davanti al caffè. Rimasto da solo, lui si appoggiò per un attimo allo stesso lampione dove l’attore aveva letto il giornale, godendosi il sole. Poi, preso di nuovo il suo taccuino di tasca, aggiunse soltanto: “immedesimato in attore”.


            Bruno Magnolfi

venerdì 5 giugno 2009

Parlare da sola.



            “E’ quasi ora…”, disse Corrado spostandosi leggermente in avanti per appoggiare il suo bicchiere sul tavolo. Lei, discosta, continuava a rimanere in silenzio, ferma in piedi, appoggiandosi leggermente ad un mobile. Sembrava guardare nel vuoto, come stesse trasformandosi in una dimensione diversa. Poi si scrollò leggermente, solo per dire: “sarò insieme a te coi pensieri, almeno fino a quando riuscirò a immaginarti”. Corrado avrebbe voluto abbracciarla, baciarla con tutto il suo amore prima di muoversi, ma all’improvviso gli pareva un atteggiamento sbagliato, quasi ridicolo. Si alzò, indossò il suo soprabito restando un attimo immobile, vicino alla porta, solo a guardarla, poi disse in un soffio: “mi aspettano, bisogna che vada…”, ed uscì, richiudendo lentamente la porta. A lei erano rimaste molte cose da dire a Corrado, ed iniziò a dirle a se stessa, ora che era rimasta lì sola, senza più quell’addio che falsava le cose.

            Bruno Magnolfi


giovedì 4 giugno 2009

Gesto di sfida.



            Il treno si era fermato alla stazione all’orario previsto, e la ragazza, con una piccola valigia ordinaria, era salita assieme ad altre quattro o cinque persone. Non aveva nessuno da salutare dal finestrino, così si era seduta nel primo posto che aveva trovato e quando il treno fischiando si era rimesso in movimento, lei era impegnata a sfogliare la rivista che aveva comperato all’edicola. Stava andando in città dalla zia, per almeno una decina di giorni, ma non era una visita di piacere, e neanche una vera e propria vacanza. Un uomo in paese si era invaghito di lei, un certo Giannelli, e siccome era in vista e pieno di soldi, il suo capriccio sembrava inarrestabile, anche se lei era ancora minorenne. Suo padre, per non dover affrontare la situazione in modo più deciso, aveva escogitato quel piccolo viaggio, e secondo lui con quel pur breve periodo di assenza le cose avrebbero potuto riprendere il corso di quelle normali. Dopo mezz’ora la ragazza aveva chiuso la rivista ed era uscita nel corridoio, giusto per guardarsi un po’ attorno. Era stato in quel momento che aveva visto il Giannelli dall’altra parte del vagone: non c’era dubbio, l’aveva seguita, non poteva essere un caso. Rientrò nello scompartimento pensando al da farsi, poi uscì di nuovo per cercare di incrociare lo sguardo con lui. Il Giannelli la vide e lei fece un cenno come per essere raggiunta. Lui, che in fondo era soltanto un timido ragazzone poco meno che trentenne, goffo e impacciato, però figlio di una famiglia di imprenditori, fino ad allora non era stato capace di prendere alcuna iniziativa se non quella di dire a tutto il paese del suo amore per lei. Lei praticamente non lo aveva neanche mai salutato per strada, ma adesso voleva fare le cose in maniera diversa. Si era spostata, mentre il Giannelli stava andando verso di lei, in fondo al vagone, dove non c’era nessuno, e appena sentì la presenza di lui alle sue spalle si girò, e tirandolo per la camicia si fece baciare senza che lui si aspettasse minimamente quel gesto. Di più, mentre continuava a sbaciucchiargli la bocca, pur non avendo alcuna pratica in quelle faccende, gli mise una mano aperta sui pantaloni, scioccandolo. Poi si staccarono. Il Giannelli era rimasto senza parole, probabilmente si era immaginato una ragazza del tutto diversa, così bofonchiò qualcosa di poco chiaro e ritornò velocemente da dove era arrivato. Per la ragazza la decina di giorni dalla zia fu una vera e propria vacanza, e per tutto il periodo si sentì orgogliosa di sé come mai si era sentita.

            Bruno Magnolfi


mercoledì 3 giugno 2009

Corsa irragionevole.



            L’uomo era ormai senza fiato. Aveva corso come un pazzo lungo la spiaggia dietro all’idea che lo avessero fregato di nuovo. Aveva corso dei rischi pazzeschi per portare quella partita di cocaina grezza fin lì: non era il suo campo, anzi, gli rivoltava lo stomaco far cose del genere. Ma i creditori lo tallonavano e lui non aveva trovato di meglio se non quel traffico sporco per mettere assieme quei soldi che gli avrebbero permesso di tirare un po’ il fiato. Il contatto con quelli del motoscafo era per la sera seguente, così lui aveva preso una camera in un alberghetto e si era sdraiato senza porsi problemi. Era stata la cameriera, quando aveva bussato alla porta, ad avvertirlo che qualcuno lo aveva cercato, ma siccome c’era la chiave nel casellario, il portiere aveva risposto che il cliente era fuori. Era un vecchio trucchetto quello di rimettere a posto la chiave, evitava dei guai, come in quel caso. Ma nessuno sapeva che lui era lì, se non i suoi fornitori. Era volato di corsa alla stazione dei treni con la ricevuta del bagaglio che aveva lasciato in deposito, e aveva scoperto che era stato già ritirato. Avevano anticipato l’appuntamento, lo avevano trattato come uno straccio, lui che solo per necessità si era piegato a fare il corriere. Però aveva bisogno disperato di soldi, così era corso verso il luogo previsto, anche se non c’era da aspettarsi un bel niente, anzi. Ma al punto in cui era arrivato tanto valeva tentare quell’ultima carta. Le sue scarpe erano affondate anche troppo nella sabbia morbida e fresca, la fatica della corsa lo aveva immediatamente sfiancato. Quando vide in lontananza il segnale seppe che erano arrivati, quelli del motoscafo erano lì, con i soldi. Doveva parlare con loro e con gli altri, farsi riconoscere la parte che era stata concordata fin dall’inizio, ma quel molo era ancora lontano e lui non aveva più fiato. Cadde lì, sul bagnasciuga, privo di sensi, e quella buona mezz’ora che gli ci volle prima di rimettersi in piedi fu sufficiente a fargli perdere tutto.

            Bruno Magnolfi


martedì 2 giugno 2009

Le parole di Sonia.



            In fondo, non avevano alcuna importanza tutte le parole che adesso erano state impiegate per quella faccenda: si erano come neutralizzate da sole, scontrandosi tra loro alla ricerca del concetto più forte o fondante da esprimere. Le parole rimanevano comunque una bella materia da usare e plasmare. Ci si irrigidiva, certe volte, anche per una sciocchezza; in altri casi, al contrario, tutto sembrava già detto, come fosse scontato, anche se non ne aveva mai parlato nessuno. Il dibattito era stato comunque fruttuoso, ed anche se la voglia era quella di arretrare di un passo e smetterla di parlare di tutto con tutti, in realtà le parole continuavano lentamente a fluire, come sempre avevano fatto. Sonia si era voltata verso di lui al tavolino del chiosco all’aperto, e lui aveva considerato quel gesto un’apertura e un confronto. Un mese più tardi gli sembrava che non esistesse niente oltre lei, e in ogni pur piccola fase del giorno in cui Sonia non c’era, lui ripensava a tutte le parole che lei aveva appena finito di dire. Questa la materia fondante, questo il materiale di scavo e di costruzione: le sue parole, nient’altro che quelle.

Bruno Magnolfi


lunedì 1 giugno 2009

Inerzia.


            Alterando quasi tutte le percezioni dei sensi, la febbre aveva dato il suo apporto stravagante alle cose. Lui barcollando si era alzato dal letto per bere un po’ d’acqua, in realtà solo perché odiava farsi fare l’iniezione rimanendo sdraiato. Lei lo aveva guardato un momento continuando a parlare al telefono e spiegando con voce flautata dettagli di qualche faccenda relativa al lavoro. Poi aveva abbassato la cornetta e dopo una pausa era tornata a guardarlo di nuovo. “Dovremmo far tornare il dottore”, aveva detto in maniera decisa ma in modo un po’ impersonale. “Non potrebbe certo dire molto di più”, aveva risposto lui senza guardarla. Poi lei aveva preso con calma la fiala da dentro la scatola, e riempito la siringa di liquido bianco e vischioso. Lui si era appoggiato a una sedia e lei senza parlare gli aveva velocemente fatto l’iniezione più o meno nella solita zona di pelle di tutte le altre. Lui aveva fatto una smorfia, come sempre faceva, poi aveva detto: “questa completa dipendenza da te mi fa sentire una larva”. Poi si era voltato per tornarsene a letto. Lei senza parlare aveva messo via tutto quanto, aveva indossato la giacca, poi si era affacciata alla stanza. “Esco”, aveva spiegato. E lui di rimando: “Forse, se tu fossi più furba, non torneresti neanche…”.

Bruno Magnolfi