lunedì 27 febbraio 2012

Soltanto questione di tempo.


            
            Resto immobile, quanto più mi è possibile, fermo, ad osservare il silenzio nella mia stanza, gli oggetti di sempre che mi circondano, questa luce al crepuscolo che cerca ancora di dipingere tutte le cose con colori sempre più scuri, mentre poco per volta prosegue a ritirarsi via, fuori dalla finestra, e poi ancora indietro, fino a raggiungere, laggiù, il profilo dell’orizzonte. La mia solitudine non è spaventosa, anzi, è l’unico momento in cui posso pensare e immaginare. Soltanto ieri sono corso di nuovo da lei, nella stessa esatta maniera come mi ero riproposto di non fare mai più. Sono sicuro che lei non meriti la mia dedizione, le mie attenzioni, ma cosa importa, mi chiedo, piuttosto che proseguire a nuotare in questo vuoto che spesso mi pesa, va bene anche così.
E’ un comportamento stupido il mio, è evidente a chiunque che dovrei sforzarmi di cambiare, mostrarmi più distaccato ai suoi occhi, meno assiduo di come proseguo imperterrito ad essere. Lei mi guarda, con sguardo perlopiù indifferente, come fosse incapace di provare delle vere e proprie emozioni, ed i suoi comportamenti in genere si limitano a trattare tutto con un certo distacco. Ma non è sempre così, io lo so, ci sono dei casi in cui il suo autocontrollo si fa meno serrato, e riesce a dimostrarsi addirittura sensibile.
            Ecco, forse è proprio questo che mi proietta sempre in avanti: la speranza; anzi, la coscienza, almeno per qualche occasione, di riuscire a sentirla vicina, con me, anche se questo avviene per motivi che non sono ancora riuscito a capire. Ho cercato di provocarla, qualche volta, darle della sfinge, oppure della falsa persona enigmatica, ma non ho ottenuto mai alcun risultato, come se questi fossero argomenti senza importanza. Certe volte mi sono sfogato con gli amici di sempre, al caffè, e loro hanno detto tante volte che devo ribellarmi, che non è il caso di continuare così.
            Ma io vado avanti, e anche ieri sono uscito di corsa per riuscire ad incontrarla lungo il tratto di strada vicino casa sua. Passo da lì quasi per caso, la riconosco, la saluto, mi offro di accompagnarla. Lei mi sorride, mi saluta, lascia che le parli di qualcosa senza interrompermi, guardando avanti a sé, mentre cammina. Quando arriviamo, lei mi osserva un momento, mi lascia un attimo di tempo, giusto per dirle che mi piacerebbe passare la serata con lei, ma risponde subito no, poi mi saluta e rientra, in quell’appartamento dove abita con la sua madre anziana.
            Qualche volta le ho chiesto se potevo telefonarle, ma lei ha sempre detto sottovoce che era meglio evitarlo. Così anch’io torno a casa, camminando lentamente con la testa sempre piena di nuovi pensieri, mi fermo al caffè a salutare qualcuno, lascio che scherzino, che dicano qualcosa per prendermi in giro, poi arrivo al mio appartamento e di nuovo sento di essere lì, immobile, senza alcuna differente possibilità. Mi dispero, qualche volta, senza neppure sapere bene il perché, ma quasi sempre sono contento almeno di averla veduta, di essere riuscito a parlarle. Sono sicuro che le cose dovranno cambiare, ne sono convinto: è soltanto una questione di tempo, e infine la mia costanza vedrà sicuramente una variazione importante.

            Bruno Magnolfi
              

giovedì 23 febbraio 2012

In giro, assieme alle nuvole.


           

            Mi avevano sistemato in un letto della corsia, nel reparto di medicina generale; gli infermieri erano stati bravi e veloci, anche se si erano subito dileguati. Gli altri cinque ammalati della mia camera pareva fossero là dentro da sempre: mi avevano osservato in silenzio, io ero rimasto immobile nella stessa posizione in cui ero stato messo, voltando soltanto lo sguardo, per qualche momento, verso l’unica grande finestra che c’era, per osservare quel piccolo pezzo di cielo che restava inquadrato in fondo alla stanza, oltre la parete slavata. Dopo un po’ era sopraggiunta la dottoressa con un infermiere, mi avevano fatto qualche domanda, mi avevano anche toccato e rigirato su tutti i lati. (...)  
          
 Questo racconto non è più fruibile su questo blog in quanto sotto contratto con Lillibook Edizioni

            Bruno Magnolfi

martedì 21 febbraio 2012

Un'immagine persa per sempre.


            

            Lui la guarda, senza insistenza. Lei, bionda, con appena un filo di trucco sugli occhi, sorseggia il suo cappuccino con calma, quasi con disinteresse, poi dice sottovoce qualcosa all’amica che le siede vicino, e mai, per nessuna ragione, va ad incrociare lo sguardo con l’uomo che le siede quasi di fronte, nella saletta del bar. Lui apre il giornale, sfoglia qualche pagina, scorre alcune notizie, senza soffermarsi su nessuna in particolare. Forse desidererebbe non essere calamitato dal viso di quella ragazza, ma è quasi più forte di sé, deve quasi obbligarsi per non tornare a guardarla. (...)

Questo racconto non è più fruibile su questo blog in quanto sotto contratto con Lillibook Edizioni

            Bruno Magnolfi

domenica 19 febbraio 2012

Senza respiro (ripresa cinematografica n. 10).


                  
            Lei sale sulla corriera con modi quasi consunti, guardandosi attorno in modo sommario; prende posto sul sedile che le piace di più, accanto ad un finestrino, e si sistema con calma proprio mentre il mezzo riparte. Ci sono molte persone a viaggiare con lei, ma c’è qualcuno che prosegue ad osservarla con attenzione da dietro, ne studia i dettagli, i piccoli gesti, probabilmente pronto a seguirla appena scenderà da quella vettura. Lei, quasi per abitudine, estrae dalla borsa un libro tascabile, ne cerca la pagina giusta, inizia a leggere, forse per sentirsi lontano da lì. Scorrono i minuti e anche i chilometri della campagna, intervallati da borghi di case: tutto scivola fuori dai finestrini, come la pellicola di un film anche troppo realistico. Qualcuno sale ancora sul mezzo pubblico, ma la maggior parte dei passeggeri, ad ogni fermata, sa che ormai è arrivata a destinazione, considerata l’ora serale, e poco per volta la vettura si svuota. Alle spalle di tutti, il tramonto segna di arancio quel panorama ordinario.
            La donna lascia che tutto prosegua, quasi indifferente alle abitudini che giornate pressoché identiche hanno reso ormai priva di sensibilità; poi però ripone il suo libro, osserva fuori, per un momento, gli ultimi sprazzi di luce prima che la sera, tra pochi minuti, renda buio tutto quanto, e infine, con gesto femminile, si sistema la gonna, chiude i bottoni del suo soprabito, sa che la prossima fermata è la sua, si sente pronta per scendere. La corriera rallenta, lei si alza, altri due o tre passeggeri si sollevano quasi contemporaneamente dietro di lei. Tutti scendono il gradino di quel mezzo pubblico, uno dietro l’altro, qualcuno saluta il conducente, il pendolarismo compie ormai l’ultimo atto della giornata. La donna cammina sul marciapiede con passo svelto sopra i suoi tacchi, qualcuno continua ad andarle dietro, sono poche le centinaia di metri che la separano dalla sua abitazione, ma sufficienti per essere raggiunta da una persona che continua a seguirla. Lei non si volta, prosegue imperterrita a camminare, anche se avverte una presenza inquietante dietro di sé. Poi, alle sue spalle, qualcuno dice netto e a voce bassa il suo nome.
            Allora si ferma, si gira di scatto, come ormai consapevole quasi di quel suo destino, forse ha riconosciuto la voce, probabilmente la sua immaginazione ha già formato una figura nella sua mente, e soltanto i suoi occhi adesso possono darne conferma. I due si guardano, si osservano per qualche secondo, fermi, a distanza di quattro o cinque metri; la luce di un lampione rischiara la scena. Non c’è niente da dire, a lei spunta inarrestabile una lacrima, lui trattiene con sacrificio tutte le parole che avrebbe da dirle; poi arretra di un passo, di due; infine si volta, superando la sua volontà, lei non fa niente per cercare di fermarlo. La nostalgia di un tempo passato è fortissima, ma non c’è alcun significato nel cercare qualcosa che dia una variazione pur minima a quello stato di cose.
            Nessun saluto, neppure un gesto, soltanto il vedersi per uno sparuto momento da soli, alla fine di un giorno qualsiasi, come qualcosa che resti sospeso, un non detto, forse neppure pensato, il coraggio della fantasia che si spinge più avanti, oltre la concretezza di qualsiasi altra cosa, il senso di ciò che sarebbe potuto avvenire, forse anche avvenuto davvero, ma in una dimensione diversa. Infine il distacco, che resta la cosa più dolce e più dolorosa di tutte: inarrestabile, eppure così forte da fermare il respiro.

            Bruno Magnolfi

giovedì 16 febbraio 2012

(Profilo n. 16). Solo una vecchia.


            
            Non mi interessa molto dare retta ai discorsi di tutti. Preferisco rimanere in disparte, accennare un saluto o un sorriso ogni tanto, e lasciar perdere qualsiasi altra cordialità. Qualcuno  mi ha riferito bonariamente che ho la faccia cattiva, e che, da un tipo come sono io, ci si aspettano le cose peggiori. Non lo so, forse è vero, forse hanno dei buoni motivi per dire così: certi giorni odio il mondo, me la prendo con tutti gli oggetti che mi trovo a portata di mano, e a volte mi perdo a cercare di capire perché piccole cose quotidiane ambiscono mettersi quasi regolarmente di traverso, fino a farmi rimpiangere di essere uscito dal letto al mattino.
            Non sono per niente capace a sbrigarmela con i problemi che si incontra ogni giorno. Esco di casa, cammino per le solite strade, e mi sembra che tutto sia ostile, come se un’asprezza di fondo affinasse una specificità nei miei confronti. Così sono sempre nervoso, teso, pronto a reagire, a dibattermi all’interno di questa realtà, per cercare una soluzione il più immediata possibile, nei confronti dei problemi che mi trovo di fronte.
            La mia vicina di casa è una vecchia curiosa che fuma una sigaretta dietro quell’altra, e se ne sta sulla porta del suo appartamento proprio per farsi gli affari del vicinato. Mi è insopportabile, neppure riesco a salutarla, tanto gradirei non trovarmela lì, su quel pianerottolo, quando rientro. Ma lei aspira una boccata di fumo e dice qualcosa con quella maniera di chi la sa tutta, e per questo motivo è capace di prenderti in giro e di ridere dietro ai tuoi affanni.
            Io neanche la guardo, tiro fuori la chiave di casa quando ritorno, e apro in fretta la porta, ma a lei non le basta, e così dice subito alle mie spalle: abbiamo fatto più tardi stasera; oppure: stamattina abbiamo dimenticato la lampada accesa nel corridoio, si vedeva, da sopra la soglia, un filo di luce. Io non dico niente, lascio che parli di quello che vuole, con quella maniera impersonale di riferirsi, come a voler segnalare che lei si accorge di tutto, ma che è pronta a tollerare ogni cosa, sempre che non le si faccia dei torti. Perciò la sopporto, ma certe volte sento di raggiungere il limite.
            Così quando mi muovo per casa cerco di non fare troppo rumore, perché immagino che quella vecchia sia pronta a seguire con l’orecchio i miei movimenti, a immaginare cosa io stia facendo e cose del genere. Un giorno esco, chiudo la porta e lei è lì, come al solito, mentre sta tranquillamente fumando. Mi avvicino a lei, la spingo con forza per una spalla e la faccio cadere per terra. Lei inizia ad urlare ed io me ne vado. Quando torno è ancora lì, che mi aspetta. Dice: se provi a toccarmi solo un’altra volta, io ti denuncio. Mi guarda con gli occhi cattivi, di chi lo farebbe davvero. Io non rispondo, apro la porta e rientro.
            Oggi non c’era, la sua porta era accostata, così le ho bussato, e quando è arrivata ho detto a voce bassa, senza perifrasi, che se lei mi dice ancora qualcosa l’ammazzo. Le ho parlato con lo sguardo serio e cattivo di chi è perfettamente convinto di quello che dice; lei mi ha osservato con la faccia un po’ spaventata, si è portata alla bocca tremante una delle sue sigarette e l’ha accesa. Con calma mi sono mosso, ho sceso le scale, e prima di arrivare alla fine, mi sono lasciato andare ad una risata sonora, esagerata, quasi da pazzo. Per strada, la serata mi è parsa migliore.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 15 febbraio 2012

Un oggetto qualsiasi.


            

            Dopo essere rimasto in piedi, fermo per diversi minuti, era andato quasi di malavoglia a sedersi sulla sua poltroncina preferita, sistemandosi con calma e stendendo gli avambracci sopra i braccioli, facendosi immobile, come alla ricerca di un pensiero che riuscisse ad occupargli la mente. Infine era dovuto tornare, poco dopo, ad alzarsi di nuovo, senza un vero motivo, forse solo per appoggiare una spalla alla parete comune del salottino e della cucina, dentro al suo appartamento, proprio soltanto per restarsene lì, quasi paralizzato, come incapace di qualsiasi altra cosa. Avrebbe potuto accendere la radio, perdersi nell’ascolto di qualche programma musicale, oppure, sintonizzandosi su un’altra stazione, apprendere le ultime notizie della cronaca o della politica; ma gli pareva perfettamente adeguato quel silenzio, quella pacatezza completa, e così cercava di starsene immobile ancora quanto gli era possibile, quanto riusciva a resistere, non fosse altro almeno che per quei pochi minuti, i quali, per qualche motivo sconosciuto al momento, gli apparivano così fondamentali.
            Non c’era niente che potesse fare in concreto, lo sapeva, ne era cosciente, questo era il punto: niente che desse dimostrazione del suo sentirsi vivo, utile in qualche maniera, capace di elaborare soluzioni. Cercava di ricordare qualcosa, qualcosa che gli desse la spinta utile alle sue necessità del momento, ma all’improvviso gli pareva proprio che niente di particolarmente importante, degno di essere conservato nella memoria, fosse mai semplicemente accaduto in tutta la sua lunga esistenza.
            Lentamente, quasi senza rendersene conto, era scivolato in cucina, si era versato un bicchiere colmo d’acqua, e aveva iniziato a berne dei piccoli sorsi, pur senza aver sete. Qualcosa dovrà pur succedere, aveva pensato, non può continuare tutto così, all’infinito. Gli pareva che nulla potesse intervenire davvero ad interrompere quel senso profondo di niente che lo stava trascinando verso la mancanza totale di qualsiasi entusiasmo, eppure sentiva ancora dentro di sé la forza per ribellarsi a quel vuoto che continuava a circondarlo, e a renderlo prigioniero, anche se non riusciva a immaginare la maniera per ribellarsi.
Qualcuno aveva improvvisamente suonato alla porta, come per dare una sciabolata a quei pensieri così inconcludenti, e lui si era spostato, quasi per una reazione spontanea, verso l’ingresso del suo appartamento: aveva socchiuso il battente, senza gran convinzione, ed aveva osservato con interesse la persona che si era trovato davanti, lasciando con gentilezza, pur senza conoscerla, che la ragazza che aveva di fronte gli dicesse buongiorno, senza ombra di falsità, nella cornice di un largo sorriso. L’aveva fatta subito accomodare, in fondo non aveva niente da perdere, e per parlare meglio si erano spostati nel salottino, erano andati a sedersi, quasi una di fronte a quell’altro, e lei aveva iniziato a dire qualcosa, quello che probabilmente le stava più a cuore.
Avevano discusso pacatamente, per un certo tempo, su alcuni argomenti generali, lei aveva subito insistito su temi che a lui risultavano abbastanza familiari, fino a quando gli aveva mostrato il contratto con il quale, firmandolo, lui si sarebbe impegnato ad acquistare una serie di grafiche d’autore delle quali gli stava mostrando delle semplici raffigurazioni, materiali originali firmati e numerati, autentici, opere assolutamente di pregio. In fondo non era difficile dire di si, che tutto andava bene, mostrarsi contento di quella opportunità che gli veniva offerta addirittura in casa sua. Anche se non aveva scelto lui tutto quanto, se non era andato a cercare niente di ciò che adesso gli veniva proposto, eppure ogni cosa appariva perfetta, non trovava niente su cui recriminare.
Infine le cose si erano sistemate, lei era uscita dalla porta con il medesimo sorriso con cui era entrata, e lui si era sentito migliore, capace ancora di valutare positivamente le proprie esperienze. Quando ormai, rimasto solo, era tornato a sedersi sulla sua poltroncina, si era sentito improvvisamente sicuro di avere acquisito qualcosa che non osava neppure sperare: era contento di quella opportunità a cui aveva aderito con entusiasmo, e poi la ragazza gli aveva lasciato, forse senza volerlo, inconsciamente con ogni probabilità, quasi per lasciargli un segno di sé, la penna con cui aveva annotato i suoi dati e con la quale lui aveva firmato quei fogli: un oggetto da poco prezzo, senz’altro, ma per lui, in quel momento, di uno strano, particolare, inestimabile valore.  

Bruno Magnolfi

sabato 11 febbraio 2012

Scena n. 22. Sipario chiuso.


            

            Non mi frega niente di te, avevo detto puntandogli un coltello alla gola. Lui allora, pur continuando a tremare, aveva smesso per un attimo di supplicare e di ripetere le solite frasi sulla famiglia e tutte le altre cose del genere, ma aveva piagnucolato ancora qualcosa che io non mi ero neppure premurato di stare a capire. Lo avevo in pugno, questo era il punto, quel maledetto signorino beneducato dal colletto bianco e la cravatta era mio, lo dominavo, ci potevo praticamente fare ciò che volevo.
            Fin da quando ero entrato là dentro, ero sicuro che niente sarebbe potuto andare in maniera diversa, i clienti della banca non avrebbero avuto la possibilità neanche di accorgersi di quanto stava accadendo, e per me essere riuscito a cogliere il direttore della filiale da solo dentro al suo ufficio, semplicemente prendendo un appuntamento telefonico con un falso nome apparentemente importante, era stato un vero colpo di genio. Gli avevo subito detto che il mio complice era in quello stesso momento nella sua abitazione, con la sua famiglia, anche se non era vero, e lui se l’era bevuta, ed adesso non poteva far niente, nient’altro che eseguire alla lettera tutte le indicazioni che gli stavo impartendo.
            Ecco, proprio in quell’esatto momento, dopo la concitazione iniziale, si era manifestato là dentro qualcosa che mi era parso perfino surreale, ed io, non so come, all’improvviso mi ero sentito del tutto rilassato, quasi come se tutto ormai fosse finito, che non ci fosse più nient’altro da fare, come se già fossi lontano da lì, con i miei soldi infilati dentro alle tasche e nella mia borsa, seduto magari in un rifugio in montagna, in pace e da solo, a godermi il sole brillante, il panorama, la quiete di una giornata perfetta, che immaginavo pienamente meravigliosa.
            Non mi ero accorto di niente, continuavo a sognare queste mie cose mentre il direttore era lì, accanto a me, ormai ridotto al silenzio, quasi rassegnato alla sua condizione, ormai in mio pieno potere. Gli avevo chiesto di andare a prendere tutti i liquidi che riusciva a raggranellare, e lui, come un automa, aveva subito ubbidito senza ribattere, quasi come affrettando tutti i suoi gesti, tanta la voglia che anche lui doveva provare, di raggiungere velocemente la fine di tutta quella faccenda, di riuscire a guadagnare di nuovo quella tranquillità che nessuno doveva aver mai messo in discussione in tutta la sua vita precedente.
            Gli avrei lasciato un segno col mio coltello ben affilato, un bel graffio profondo sul corpo, forse sul viso, in evidenza, tanto per dimostrargli, prima di uscire con tutti i miei soldi, che facevo sul serio, che non ero tipo da lasciarsi prendere in giro. In un primo momento, quando lui era andato a raggiungere la cassaforte, avevo pensato di mettermi dietro la porta, tanto per aspettare con una certa cautela il suo ritorno con le mie banconote, ma poi avevo sorriso tra me, sicuro di tutto, ed ero andato a sedermi dietro la sua scrivania, quasi a fingermi, almeno per quell’attimo, un uomo d’affari, una persona importante, un tizio pieno di soldi, come stavo sicuramente per diventare.
            I due agenti mi avevano spianato le pistole sul muso, una volta entrati di colpo dentro l’ufficio, tanto da cogliermi così di sorpresa da non essere neppure riuscito a muovere un muscolo. Il direttore non c’era con loro, in quella stanza adesso c’ero soltanto io e quelle divise, e a me pareva impossibile che tutto finisse così, in quella maniera da stupidi; per questo, in un attimo, con tutta la forza che avevo, avevo affondato il mio coltello, che ancora tenevo con la mia mano destra, nella carne del mio braccio sinistro, perché era quella la punizione che mi meritavo, non ce ne poteva essere un’altra: tutto il resto per me in quel momento cadeva completamente di qualsiasi interesse, come il risveglio da un sogno, come scoprire un segreto che ti cambia la vita, come un sipario che si chiude a teatro su una scena finita.  Il resto, adesso, era soltanto una cosa di altri.

            Bruno Magnolfi

giovedì 9 febbraio 2012

Il ripristino della situazione precedente.


            
            Poco distante da me, proprio davanti ai miei occhi, la realtà scorre senza alcuna difficoltà, come seguendo un percorso che non prevede incertezze. Gli alberi nel vento si incurvano, le persone per strada si stringono nei loro cappotti, ambiscono raggiungere le proprie abitazioni, rilassare i nervi tesi, uscire da situazioni ostiche, così impersonali, che tolgono qualcosa senza riuscire ad offrire niente nel cambio.
            Vado in giro senza preoccuparmi di nulla, osservo i comportamenti delle persone che incontro, attendo quasi con impazienza che qualcuno mi chieda spiegazioni sul mio modo di pormi di fronte alle cose, o sulla maniera con cui considero tutto. Un uomo si ferma, mi osserva un momento, dice: oggi niente è una verità definita; ciò che appare spesso nasconde il contrario, ogni dato viene fatto credere legge, ma è soltanto per un tornaconto che è quasi divenuto usuale, tanto da risultare persino prevedibile. Non esiste un responso, tanto vale non credere niente.
            Osservo qualcosa in fondo alla strada, annuisco; mi sposto ad osservare una pubblicità sopra un muro: forse ha ragione, penso, ogni elemento serve a qualcuno, e tutti insieme ruotano su una giostra infernale. Vado avanti, il senso di angoscia mi pare si acuisca se cerco di comprendere qualcosa di più, così torno indietro, verso la stessa persona che mi ha parlato poco prima, e cerco con lui di essere scherzoso, di alleggerire le cose.
            Va bene, dice qualcuno dietro di noi; è giusto lasciare ogni preoccupazione al di fuori, possiamo andare in un bar, bere una birra, parlare di niente e sentirsi in sintonia completa, dimenticandoci di tutto e divertendoci di fronte alla nostra capacità di sentirsi al di fuori. Ci avviamo, si entra dentro al locale, ma all’improvviso a me sembra che le cose non stiano in piedi, almeno così come sono state impostate; mi guardo attorno, quasi senza interesse, poi, dentro una tasca, scopro di avere un piccolo coltello tagliente. Lo estraggo con espressione rabbiosa, dico a tutti i presenti che non c’è niente di cui scherzare e ridere, le cose adesso si sono fatte notevolmente più serie, non può essere altrimenti.
            Stanno tutti in silenzio, nessuno ha voglia di dire alcunché, lasciano che io me ne vada, che raggiunga di nuovo la strada e le mie convinzioni: nessuno mi segue, sanno che sono solo, che non avrò vita facile, probabilmente riuscirò a mettermi in guai certi, anche peggiori di quelli di adesso, tanto vale che corra come voglio quella mia corsa, poco per volta l’inevitabile si parerà davanti ai miei occhi, non ci sarà più alcuna possibilità per tornarsene indietro.
            Cerco di fuggire senza sapere per dove e neppure da cosa, ma sono sicuro che la conservazione dei geni di cui sono composto dipende soltanto da me, dai miei comportamenti, dalla capacità che riuscirò a manifestare di essere superiore alle difficoltà ordinarie del mondo contemporaneo: diversificarmi dagli altri, modificare il mio stato, trovare un significato più alto nei miei atteggiamenti, nei pensieri che adotto. Non ho niente alle spalle: tutto si gioca in questo futuro.  

            Bruno Magnolfi 

lunedì 6 febbraio 2012

Un percorso da iniziare.


            

            Il vento adesso è calato quasi del tutto; lei osserva qualcosa in fondo allo spiazzo, oltre lo steccato del suo giardino, restando ferma sulla porta di casa, poi rientra con calma e chiude il battente. Non c’è più nulla che sbatte nella rimessa sul retro, se ne è accorta già dal primo mattino, eppure il silenzio di adesso le sembra quasi peggiore di qualsiasi rumore molesto. Lo aspetta, continua ad aspettarlo con tutta se stessa, ma non lo rivedrà prima di domani, ne è cosciente, anche se all’improvviso le pare che quell’arco di tempo sia assolutamente non definito, una misura forse grandissima, insopportabile, impossibile per lei da accettare, come lasciare che tutto scorra in quel niente che continua a circondare ogni cosa, anche in questo preciso momento.
            Lo sa bene, non deve pensare a se stessa, deve guardare la realtà assumendo un criterio più distaccato, meno passionale ed egoistico, proprio come le ha detto a chiare lettere il suo medico, eppure non riesce a togliersi da dosso quella vertigine in cui oggi si sente precipitare, quel senso di vuoto incolmabile, quella mancanza, quella sensazione di inadeguatezza che solo quando lui è lì, assieme a lei, riesce per incanto ad attenuarsi. In fondo che importa, pensa di getto, starmene qui da sola, oppure no: tutti quanti siamo sempre da soli, a meno che non si riesca a lasciarsi coinvolgere da qualcosa che spesso neppure riusciamo a comprendere, qualcosa che per sua natura ci porti via, via da tante sciocchezze, lontano dalle solite cose.
            Davanti alla casa lo spiazzo desolato appare terribile, un luogo fatto di niente, di vuoto e nient’altro, eppure, mentre ci pensa, lo trova quasi accettabile, come affascinata da un posto che non è definito, che risulta ancora in cerca di una sua identità, un luogo dove ogni caratteristica appare ancora da stabilire. Seguendo quel pensiero ritorna, quasi incoscientemente, ad aprire la porta di casa: lo steccato è da riverniciare, pensa, è evidente, forse si dovrebbero piantare dei piccoli alberi, probabilmente anche dei cespugli, forse una siepe, che costeggi il perimetro di tutto il giardino; ma che importa, riflette in un attimo di scoraggiamento, tutto questo non ha senso se manca l’anima, la voglia principale di far vivere le cose, di tenerle su in maniera corretta, definita, ben fatta.
            Osserva la terra coperta di un bel manto erboso, laggiù, ai piedi della collina, dove in mezzo ad una fila sparuta di alberi, scorre un rigagnolo d’acqua, e le pare una distanza incolmabile tra lei e quella zona, come se, pur impegnando tutta se stessa, non potrebbe in nessun caso riuscire a coprirla con i suoi passi; ciò nonostante scende lentamente i gradini davanti alla porta, osserva con decisione il sentiero che si snoda di fronte, e si incammina, come se fosse certa che solo provandosi potrebbe essere sicura dei propri pensieri. Così va avanti, procede, lascia alle spalle lo steccato quasi con un senso di liberazione, continua a camminare al bordo del campo coltivato a granturco, come se la sua direzione fosse ormai definita, irrinunciabile, come se seguisse un percorso ormai stabilito.    
            Continua a fissare un punto qualsiasi laggiù, dove prima ha visto qualcosa, e a camminare imperterrita, conservando sulla sua faccia quasi un sorriso, come se il senso di liberazione che prova mentre continua ad avanzare, fosse tangibile, qualcosa a cui prima d’ora non era mai riuscita neppure a pensare. Vede lui, laggiù in fondo, sopra la riva di quel rigagnolo, sa per certo che lo troverà ad aspettarla, ma anche se questo non fosse, pensa, probabilmente non ha alcuna importanza: sta a lei decidere adesso cosa trovare, ne è cosciente, non le importa neppure avere lasciata aperta la porta di casa; il fatto essenziale è esserne uscita, il resto le appare molto più marginale. 

            Bruno Magnolfi

giovedì 2 febbraio 2012

Ricostruzione di un ricordo.


            
            Tengo le mani dentro le tasche, ti guardo, o meglio, è come se ti guardassi, mentre resto voltato di fianco, e intanto rifletto su cosa sia questo disagio che provo. Intorno a noi tutto è uguale, non sembra sia cambiata neppure la nostra espressione di sfida, quando restiamo in silenzio a studiarci, cercando il punto più debole in cui affondare le piccole cattiverie di sempre. Mi giro, dico in un soffio che forse è l’ora di andare, tu non rispondi, forse ti perdi in fondo alla stanza che pare allungarsi e rendere enorme la distanza che da tanto tempo ci sta separando, senza che ce lo siamo mai detto. Qualcosa oscilla, come l’aria surriscaldata da una gran fiamma.
            Vorrei sdraiarmi, penso; sdraiarmi da solo in un letto qualsiasi, immaginando attorno a me la notte di questa città buia ed estranea, chiuso in un bozzolo composto di soli pensieri scollegati tra loro: qualcosa è cambiato dentro di me, non mi rendo conto di cosa, non riesco neppure a capire per quale motivo questo possa accadere. Tu ti avvicini, mi sfiori, apri la porta, siamo pronti, possiamo procedere. Ti guardo un momento, una perplessità mi attraversa la mente, aspetta, ti dico, poi torno indietro, rientro dentro la stanza, cerco qualcosa che sono sicuro di dimenticare. Non importa, dico, ho tutto con me, mi basta questo sapore di niente.
            Infine siamo fuori, e le persone, la strada, le facciate di queste case, senza alcuna caratteristica, formano lo sfondo di un pensiero che non riesce a formarsi compiutamente. Cerco con gli occhi qualcosa che non riconosco, e alla fine trovo soltanto le cose di sempre, eccettuato i miei passi che sembrano farsi flemmatici, quasi indecisi. Tu dici: muoviamoci, non è il caso di perdere ancora del tempo, ed io non so quale tempo stiamo cercando di recuperare, visto che tutto si è dilatato, ogni attimo sta diventando il contenitore di tanti altri attimi, come se non ci fosse altro da fare che scegliere cosa vogliamo cercare.
            Rallenti, attendi che io ti raggiunga, ti volti verso di me e mi costringi a guardarti: ecco, d’improvviso ti vedo con gli occhi di qualche altra volta che non mi rammento, ma ti riconosco, so che è quella l’esatta espressione che cercavo da qualche parte dentro di me, e mi viene da sorridere, perché non saprei come spiegarti la sensazione che provo. E’ come se tutto adesso si raddensasse in un attimo, come se un semplice gesto rispondesse da solo di tante altre cose, ne rappresentasse il compendio: una sciocchezza qualsiasi che parlasse per ore di qualcosa che non abbiamo perduto, anzi, è qui, lo sento, e non vorrei che fuggisse mai più, anche se sono cosciente che la realtà sarà un’altra. Riprendiamo a camminare vicini, forse non ha neppure importanza il luogo verso cui siamo diretti, importante è che tratteniamo il più a lungo possibile almeno qualcosa di noi, un piccolo segno preciso che definisca un’intesa.
            Non dico niente, le parole non servono, ascolto i rumori di questa città in movimento che a volte ci lascia impauriti di quanto possiamo incontrare. Tu adesso guardi avanti, sembri non curarti di niente, neppure di me: eppure so per certo che abbiamo condiviso lo stesso pensiero, un’unica riflessione come una dolce carezza, un medesimo lontano ricordo, che forse è l’unica cosa che ancora abbia un senso.     

            Bruno Magnolfi