lunedì 27 febbraio 2017

Fantasmi ordinari.

          
            Se guardo dalla finestra dentro al buio di questo cortile, proprio di fronte alla mia stanza, certe volte ci vedo qualcosa di incomprensibile: ci sono delle forme che sembrano vive, e le pietre del muro di cinta che in qualche caso paiono muoversi; il semplice pavimento di nudo cemento poi sembra accogliere sopra di sé come delle fluttuanti ombre scure sul grigio della polvere: ma se scruto quelle forme con maggiore attenzione, proprio per rendermi conto da cosa siano generate, purtroppo quelle svaniscono subito. Stringo gli occhi, impiego tutta la concentrazione che posso, eppure non riesco a intravedere nient’altro, se non le solite cose che conosco già perfettamente. Di giorno invece tutto sembra restare al posto consueto, tanto che gli altri condomini di questo casamento attraversano lo spiazzo, passano davanti alla mia finestra senza alcun problema, ed ogni cosa ai loro occhi e davanti ai loro piedi appare normale. Per questo vorrei evitare di parlarne con loro: mi secca essere forse scambiato per uno sciocco bugiardo, uno che si inventa le cose per apparire magari più interessante agli occhi di tutti.
Poi una anziana signora che abita al terzo piano e conosco da sempre, mi viene a chiedere incrociandomi nel corridoio, se per caso abbia visto qualcosa di strano. La guardo, non credo abbia voglia di prendermi in giro, e poi non è il tipo che farebbe mai una cosa del genere, così le rispondo immediatamente che tutte le sere, quando scende il buio più fitto, ci sono delle cose che passano davanti alla mia finestra del piano terra, anche se non riesco a comprendere che cosa diamine possano essere. Lei attenta mi ascolta, dice che sono una persona affidabile, sicuramente potrò indagare meglio nei prossimi giorni e farle presente che cosa stia realmente avvenendo dentro al cortile del nostro condominio. Io la ringrazio per la fiducia, poi, confortato da quel suo sostegno, mi piazzo la sera stessa dietro ai vetri della mia finestra armato di una potente torcia elettrica, pronto a rendermi conto una volta per tutte di quello che avviene.
Attendo a lungo, forse anche troppo, e niente succede, come se l'ideatore di tutta la messinscena conoscesse già perfettamente quelle mie intenzioni, tanto da fare probabilmente anche di tutto per renderle vane. Oramai a notte inoltrata invece, proprio quando mi volto da lì al momento di sentirmi praticamente quasi deluso, pronto a lasciare del tutto la mia postazione, ecco che esattamente in quello stesso momento qualcosa si muove. Ripeto la medesima operazione diverse volte, voltando di scatto la faccia e poi tornando a guardare, fino a rendermi conto che un semplice riflesso nelle lenti dei miei occhiali produce un facile e stupido inganno. Accendo la torcia, mi assicuro di tutta la realtà delle cose, poi con calma chiudo le tende, spengo la luce ed infine, ormai completamente tranquillizzato, me ne vado a coricarmi nel letto.
Il giorno seguente incontro proprio sul portone del caseggiato condominiale quella signora curiosa, e subito, usando gesti e occhiatacce che rendono più verosimile qualsiasi faccenda, le faccio presente con dei bisbigli che la costringono a chiedermi diverse volte che cosa diamine le stia raccontando, che adesso non ci può essere più alcuna perplessità: la notte si muovono dei fantasmi nel nostro cortile, le dico con l’espressione di terrore che semplicemente pronunciare quelle parole produce: ma rimanga tra noi, le chiedo con impegno e grande serietà; si potrebbe innestare il panico generale nel nostro quartiere, tale da rendere questi nostri appartamenti addirittura inabitabili, pronti ad essere abbandonati da qualunque persona non del tutto priva di senno.


Bruno Magnolfi

giovedì 23 febbraio 2017

Interpretazione musicale.

            
            Il suono è quello che conta, pensava lei anni prima lucidando all’infinito quel suo amato violino. Adesso, dopo l’abbandono quasi repentino dell’orchestra e di quel mondo, soprattutto per la sua incapacità di stare al passo con le prove, considerati anche gli estenuanti spostamenti di città e di nazione per l’esecuzione di tutti i concerti, le resta soltanto quella custodia: un guscio chiuso, dentro ad un mobile di casa, e le poche fotografie dei suoi amati successi inserite in un album. Non ha mai voluto dare lezioni, non è per questo che si è sacrificata, nonostante il suo diploma e tutta l’esperienza che aveva maturato, perché la musica resta per lei soltanto la giusta interpretazione della pagina scritta, e quindi adesso quello è come un capitolo chiuso, qualcosa che è esistito una volta e poi basta. Però ascolta ancora le belle sinfonie alla radio o sui dischi, e le piace farlo sempre da sola, con la mente proiettata in quelle mani che sente ancora scorrere veloci sopra le corde, e quel suono che ancora le appare fantastico, meraviglioso.
            Suo marito non le ha mai chiesto niente: quando si sono conosciuti, diversi anni prima, lei aveva già abbandonato la sua carriera da concertista, e non desiderava neppure parlare troppo di quella dolorosissima scelta, così adesso niente di quel passato sembra mai affiorare nelle sue giornate attuali. Lei esce da casa, guida la sua utilitaria, va al supermercato e sceglie gli acquisti; poi torna a casa e sistema dispensa e frigorifero. Spesso si vede con un’amica, vanno insieme a sedersi dentro un caffè e parlano della famiglia, dei loro gusti, delle scelte che fanno. Lei dice: certe volte negli ultimi tempi mi sento malinconica; ma poi penso che i giorni futuri saranno senz’altro migliori di adesso, e così tutto mi passa. L’amica la guarda con un’espressione vaga. Comprende benissimo che in fondo accontentarsi di un’esistenza normale non deve essere stato per lei troppo facile, eppure sembra quasi impossibile scavare tra i suoi sentimenti alla ricerca di quella materia. 
            La malinconia fa parte di noi, le risponde l’amica cercando di pungerla in qualcosa che magari ancora le brucia, ma lei si limita ad osservare qualcosa in un punto qualsiasi, per poi dire che per lei sono soltanto degli attimi, e dopo nient’altro. Però spiega che si è messa negli ultimi giorni a spolverare le cose, a fare pulizia di alcune cianfrusaglie, ed ha lucidato persino la custodia del suo violino, ritrovato in mezzo a tutte le cose vecchie. L’amica torna a guardarla, ma solo per un attimo. Lo hai anche aperto, immagino, le dice sbrigativa. Lei ci pensa per un tempo infinito, poi dice: si, ed è stato terribile. Ma cambia immediatamente argomento, senza spiegarsi, senza dire che cosa davvero ha trovato dentro quel guscio, e che cosa ha provato nel tornare a riaprirlo.
L'amica resta in silenzio, la lascia dire quello che vuole, a ruota libera, nell'attesa che torni spontaneamente a parlare della cosa importante che aveva da dirle. L'ho ripreso, spiega lei alla fine evitando ancora di guardare l'amica; l'ho messo sopra la spalla, senza neanche accordarlo, ma così, solo per sentirne l'effetto lungo il mio braccio. Penso che dopo tutti questi anni riprenderò un pochino per volta ad esercitarmi, dice adesso tornando a guardarla; forse solo per suonare qualche sera che ho bevuto un po' troppo, di fronte agli amici o ai parenti, spiega ridendo. Certo, il mio suono non sarà mai più neppure somigliante a quello che è stato, ma non voglio buttare via definitivamente  una parte così importante di me. Eppoi ho scoperto che quella cassa armonica, così bella e perfetta, da troppo tempo non è stata più lucidata.


Bruno Magnolfi

mercoledì 22 febbraio 2017

Come una giornata qualsiasi.

            

Pedalo svogliatamente sopra la mia vecchia bicicletta in quest’aria fredda e buia della mattina, e non penso a niente altro che sia semplicemente cercare di giungere al giusto orario sul mio luogo di lavoro, e forse stringere gli occhi lacrimosi che mi frizzano ad ogni colpo di questo strano vento artificiale, restando dietro a tutti i furgoni delle consegne, anonimi e frettolosi. Un giorno qualsiasi anche oggi, senza alcuna novità, al punto che col mio collega dovrò inventarmi qualcosa da dire, magari qualche argomento che non abbiamo mai affrontato, o che al contrario abbiamo così sfruttato da mandarne a memoria ogni dettaglio, tanto da poter riderci sopra.
Ma non voglio pensare a niente adesso, niente di quello che potrà essere questa mia giornata, uguale o estremamente simile a qualsiasi altra, con quel suo retrogusto vagamente amaro e privo di sostanza. Voglio andare avanti, minuto dopo minuto, senza riflessioni che sono sicuro non porterebbero da nessuna parte, e senza ricerche spasmodiche di senso che non troverò mai, in nessun caso, neppure se le analizzassi al microscopio.
Provo ogni volta sempre più fatica quando mi siedo sopra al sellino di questa bicicletta; mi impongo al mezzo con qualche sofferenza, e poi il mio spirito ecologista mi richiama subito all’ordine, incoraggiando i miei muscoli a dare forza a queste ruote stanche, annoiate, che magari vorrebbero seguire un percorso un po’ diverso, e portarmi da qualche parte che ancora valga la pena di essere visitata. Invece l’itinerario è il solito, quello segnato una volta per tutte, lungo questo viale di cui mi è nota anche la livrea di ogni albero che incontro, nelle diverse stagioni che ne modificano pur meravigliosamente l’aspetto ed il colore.
Può essere sufficiente forse transitare sotto agli striscioni delle date canoniche dell’anno, sempre nell’attesa di quello che sta di seguito una settimana o un mese dopo, come tentare una rincorsa perenne, un sentir bruciare dentro un desiderio di qualcos’altro che alla lunga però diventa anch’esso un’abitudine. Ma può anche non esserlo, specialmente quando qualsiasi variazione piccola o grande che sia in tutto il panorama, sembra non bastare più a spingere sui pedali per questo semplice tragitto, casa e lavoro, e viceversa, senza cambiamenti. 
Proseguo, guardo avanti, qualche nuvola schiarisce sopra ai tetti delle case, ormai ho percorso più di metà di questa strada che mi separa dall’entrare dentro l’edificio che mi terrà racchiuso nel suo interno per tutta la giornata. Un uomo dal marciapiede mi chiama col mio nome, così mi volto, lo guardo, ma non lo riconosco; mi fermo, comunque, accostando verso di lui che continua a guardarmi con un semplice sorriso. Non mi ricorda niente, nessuno con cui abbia mai avuto a che fare, però lui ancora mi guarda, mi dà una piccola pacca amichevole sopra una spalla, mi chiede come vada, ed io gli rispondo nella maniera più stupida che riesca a trovare, sorridendo mentre gli dico che sto andando al mio lavoro e comportandomi come se stessi ricordando esattamente dove prima di adesso abbia già conosciuto i suoi modi e quella sua espressione.
Mi stringe la mano, dice che la giornata non è bella, forse verrà a piovere nel pomeriggio, addirittura. Gli dico che sono in ritardo, lui alza la mano e fa subito come un passo indietro, io rimetto il piede sul pedale, stringo il manubrio, riparto senza perdere altro tempo, e quando sono già a qualche metro di distanza, quello mi grida: divertiti, tu che lo puoi, per me invece sarà una pessima giornata. Mi giro verso di lui, quasi incredulo di quelle parole, e mi accorgo solo adesso che cammina zoppicando, come avesse un grosso problema ad una gamba. Poi giungo sul posto di lavoro, ed improvvisamente ho voglia di abbracciare il mio collega, forse soltanto perché in tutti questi anni da quando lavoriamo assieme, non l’ho proprio mai fatto.


Bruno Magnolfi

martedì 21 febbraio 2017

Come una colpa fondamentale.

            

E’ stato proprio nell’esatto momento in cui era richiesta determinazione e freddezza che mi sono mostrato un uomo debole, troppo indeciso sul da farsi, incerto persino nei movimenti più naturali, e sono riuscito soltanto a guardarmi attorno come per cercare una via di fuga solo per me e per nessun altro, si ripete lui mentalmente, come non perdonandosi neppure in parte ciò che gli è capitato da poco. Ma è successo tutto così in fretta che non ho avuto neanche il tempo per rendermi conto di quanto stava accadendo, dice tra sé trattenendo ancora le lacrime. Ora gira per strada, cerca il modo di lasciarsi alle spalle quei fatti, di riprendere in qualche modo la sua vita normale. Ma ha quasi paura di incontrare qualcuno che lo riconosca, che gli possa puntare un dito ed indicarlo come il colpevole, per questo cammina lontano dal suo quartiere, tra gente che spera non sappia niente di lui, tenendo comunque la faccia sprofondata tra i baveri del suo cappotto.
Ogni tanto si ferma, si guarda attorno, rivede ancora una volta quei fatti come fossero ancora lì, a portata di mano, e si sente di nuovo un vigliacco, incapace di stare con gli altri, ormai ai margini della comunità dei cittadini che ha sempre considerato come la sua famiglia. Che vita può essere quella che ruota soltanto nella ricerca di qualche scusa con cui giustificare le cose successe, che non riesce a guardare gli altri negli occhi senza più alcuna paura, senza quell’angoscia che provoca un tempo inevitabilmente scaduto, che non permette recuperi.
Si siede su una panchina, stremato, e forse vorrebbe che qualcuno tra coloro che lo conoscono meglio fosse in questo momento lì accanto a lui, a dargli la propria opinione, a proporre un diverso punto di vista per una attenta lettura di quanto accaduto, magari anche per consigliarlo su quanto sia possibile fare per ritrovare la sua elementare normalità, ma mai avrebbe il coraggio di andare a cercare quella persona per chiedergli aiuto. Così resta solo, fermo sulle sue posizioni, paralizzato in una opinione di sé che non porta da alcuna parte, e che non riesce a sgombrargli la mente da quei pensieri, nemmeno in piccola parte.
Forse la sua è soltanto una forma di ordinaria disperazione, un incubo in cui è caduto senza neppure essersene reso conto davvero, ed adesso che tutto ormai sembra compiuto, il suo assomiglia soltanto ad un esilio dal quale non è proprio possibile sottrarsi, e che forse rappresenta l’unica forma disponibile per espiare almeno in parte una colpa che comunque resta lì, sopra di lui, inevitabilmente. Poi si guarda attorno, un anziano signore lo osserva, lui distoglie velocemente lo sguardo, quello invece si avvicina con calma, si siede accanto a lui, quasi come cercando la sua compagnia. Infine apre il giornale, scorre qualche notizia, sembra quasi ignorarlo, ma forse solo per non apparire troppo curioso.
La colpa è soltanto mia, dice lui; l’altro lo guarda, in silenzio, attende così che vada avanti, che si spieghi, che ormai dica tutto quello che sa. Ci sono delle volte che per un qualche motivo non si riesce ad incarnare le idee in cui si è sempre creduto. Allora tutto ci sfugge, improvvisamente tiriamo fuori una persona che neppure conosciamo, dei modi coi quali non abbiamo mai avuto niente a che spartire, e che invece sono qui, dentro noi stessi, anche se fino ad un attimo prima non lo sospettavamo neppure. Rimaniamo sorpresi, storditi, increduli, ma non c’è niente da fare: questa è la realtà, oltre noi stessi. L’altro lo fissa ancora un momento, ripiega il giornale con calma, e infine gli dice: poi arriva anche il momento in cui dobbiamo accettarsi per quello che siamo, e andarcene a casa; così come avremmo fatto in qualsiasi altro giorno.


Bruno Magnolfi  

lunedì 20 febbraio 2017

Come un foglio di carta.

            

Fuori da qui non c'è niente, dice lei ogni tanto con voce non troppo alta e scuotendo la testa, visto che nessuno generalmente mostra la voglia di ascoltarla o di prenderla sul serio. Resta seduta nel suo angolo, guarda qualcosa in un punto imprecisato invisibile agli altri, e poi basta, immobile, senza provare alcun desiderio apparente. Ma certe volte si alza, cammina lentamente fino ad uno dei finestroni del corridoio, guarda qualcosa nell’ampio cortile di fronte ed infine torna a scuotere la testa, come se tutto confermasse la sua idea di fondo e lei non riuscisse proprio a vedere in mezzo a quel piccolo spiazzo ciò che desidererebbe trovarvi.
Qualcuno certe volte sorride di quei suoi comportamenti, altri invece li ignorano. Lei trattiene costantemente quella specie di fissazione dentro di sé, ma nessuno riesce a spiegarsi che cosa significhi veramente. Gli altri al centro anziani giocano a carte, passano il tempo in conversazione, o a leggere i giornali, oppure impegnandosi in tante altre cose, ognuno cercando in ogni caso di stare con tutti, di fare comunità, di ripescare dentro se stesso uno spirito solidale che tutti gli animatori e i volontari della associazione naturalmente incoraggiano. Con lei invece è difficile persino farsi rispondere a delle semplici domande: lei sta in quelle stanze perfettamente in silenzio, come se quella fosse la sua postazione ormai definita, nell’attesa perenne che solo il pulmino comunale, nella stessa maniera di quando la trasporta fin lì, alla fine dell'orario di apertura del centro la riaccompagni fino alla sua porta di casa.
Una delle altre donne, per provare a scuotere quel suo torpore, le dice che nei giorni a seguire si dovranno trasferire da quella sede, e che è già pronto un altro edificio poco distante, attrezzato e forse anche più confortevole. Lei ascolta in silenzio, guarda con attenzione il suo punto invisibile, poi dice che a lei non importa, qualsiasi luogo non le appartiene, è privo di senso, che tutto quanto secondo lei risulta vuoto, un contenitore del niente. L’operatore di turno la guarda negli occhi, le dice che certo non deve aspettarsi delle grandi novità, ma forse dentro la nuova sede potrà trovare qualcosa che la incoraggi ad essere maggiormente vitale.
Lei, come fa spesso, torna a guardare fuori dai vetri, poi muove la testa, osserva un punto qualsiasi, senza apparente importanza, ed infine dice qualcosa, con una voce meno incolore rispetto a tutte le volte, come si fosse davvero smosso qualcosa dentro di sé. Non c’è niente là fuori, spiega di nuovo ma adesso quasi con un certo entusiasmo: dobbiamo perciò essere noi, con le nostre esperienze, con tutto il passato che abbiamo da dire e da raccontare, a riempirlo con qualcosa di vivo. Gli altri la guardano increduli, in due smettono addirittura la partita di carte, l’operatore sull’immediato resta senza parole, poi si riprende e le dice: certo, questo è proprio quello che dobbiamo stabilire come obiettivo finale.
Più tardi arriva il pulmino, salgono tutti lasciandosi aiutare dall’autista e da un volontario, ma lei resta per ultima, come fosse restia ad abbandonare quel luogo. Infine si siede nella vettura, assume la postura e l’espressione di sempre, però tra sé dice ancora come seguisse una logica precisa, che pur non essendoci niente da quelle parti, niente di interessante davvero, allora tutto si potrebbe osservare come qualcosa di estremamente importante, quasi fosse un semplice foglio bianco di carta, dove si può ancora scrivere.


Bruno Magnolfi  

venerdì 17 febbraio 2017

Come una serata insignificante.



Sono arrivato fino qui da solo e senza aspettative per seguire questa assemblea; mi sono seduto in una delle ultime file della sala che mi ha accolto, poco prima che qualcuno iniziasse a parlare, e nel brusio generale dei presenti ho iniziato a scrivere questa nota, forse soltanto per darmi importanza con i vicini di posto, e in fondo anche per riempire un po' il tempo. C'è molta gente, molti si salutano con apparente calore, altri parlano in piedi a voce alta magari soltanto per farsi sentire da qualcuno che sta seduto poco distante da loro. L'idea di andarmene prima dell'inizio di tutto ha già iniziato a sfiorarmi da qualche minuto, ma per il momento ho deciso che devo restare, almeno per seguire gli argomenti dei primi che daranno vita al dibattito. Le strette di mano si susseguono con naturalezza senza alcuna interruzione, ma infine qualcuno sul palco prende il microfono ed allora tutti in questa platea finalmente si siedono mostrandosi pronti ad ascoltare ciò che viene proposto.
Scrivo con una semplice matita, un vecchio lapis che ho trovato abbandonato all’entrata sopra uno dei tavolini, ed il volantino cartaceo che pubblicizzava l’incontro, adeguatamente piegato in quattro, è quanto di meglio potessi desiderare per prendere appunti. Un signore accanto a me scruta quanto sto scrivendo quasi con attenzione, così volgo lo sguardo verso di lui con l’espressione di chi chiede qualche spiegazione su quella evidente curiosità. Quello invece sorride, come a mostrare che non voleva disturbarmi, così rispondo al sorriso scuotendo il mio foglio, a mostrare quanto poco importante per me sia tutto quello che sta succedendo. 
Sul palco si dice che le cose cambieranno, ci sono i presupposti per sperare in un miglioramento. Annoto le parole con diligenza, poi mi viene voglia di inventarmi qualcosa che non viene detto, come forzando il senso delle affermazioni fatte davanti al microfono. Qualcuno si arrabbia, scrivo, altri sostengono che sono soltanto parole vuote, e chi difende il proprio pensiero sembra proprio quasi convinto di ciò che continua ad affermare. Il mio vicino apprezza le mie parole, ride senza produrre rumore, e poi sottovoce mi chiede se io sia un giornalista. Certo, gli dico, mi pare evidente. Ma non sono di quelli che si prestano a cavalcare un’idea oppure l’altra per una qualche convenienza, ma cerco sempre di dire quello che penso nel pieno rispetto delle opinioni di tutti. L’altro irrompe nell’aria circostante con una risata incontenibile, tanto che alcune persone si voltano verso di lui. Io guardo avanti a me, l’espressione seria di chi si dissocia da certe esagerazioni.
Intanto altri hanno preso la parola, e qualcuno ha sventolato sul tavolo la propria mano, come a mostrare quali siano le cose migliori da fare al più presto possibile. Io proseguo a scrivere con la matita, ed il mio vicino si accosta, sempre a voce bassa mi chiede scusa per prima, infine dice che la mia attività è assolutamente apprezzabile e degna di nota. Mi allunga con modi da grande segreto un biglietto con il suo indirizzo personale di posta elettronica. Dice che gli interessa e non poco quella mia schietta scrittura, tanto che è disposto a pubblicare immediatamente, anche senza revisioni, lui che è direttore di un grande giornale, quanto io possa avere annotato di questa parata di esseri paradossali, che non dicono mai niente di nuovo, e gonfiano l’aria di parole svuotate di senso.
Lo guardo, raccolgo il biglietto, scuoto la testa, come per fargli capire che sono dalla sua parte, sono d’accordo con lui, e che ci deve essere per forza qualcuno che si mostri stufo e indignato delle solite serate che non portano a niente. Lui mi allunga la mano, me la stringe come per suggellare un’intesa completa, ed io gli assicuro che domani mattina avrà un mio messaggio con tutti gli appunti su questa assemblea, ed il titolo del documento sarà: noia mortale. Infine mi alzo con un lieve sorriso e in questo modo raggiungo l’uscita. Potrei addirittura aspettarmi un applauso scrosciante alle mie spalle, ma forse è anche meglio che nessuna attesa venga convalidata.


Bruno Magnolfi 

martedì 14 febbraio 2017

Come un segreto da custodire.

                          14 febbraio 2017 – Come un segreto da custodire

Come per una qualsiasi abitudine, lei si osserva sempre le mani prima di uscire da casa. Le sfrega ancora una volta dolcemente una con l'altra, apprezzando il velo sottile della crema che usa ogni giorno ancora rimasta sopra la pelle, un prodotto che ne combatte la secchezza e che risulta anche adatto per ammorbidire e rendere meno visibili quelle piccole rughe sui dorsi; poi riavvia con la spazzola i suoi capelli già pettinati con cura, ed infine sentendosi confortata da un ultimo sguardo dentro lo specchio che le restituisce l'immagine di donna che lei si sente di essere, è pronta ad uscire. Poi prende il solito giaccone invernale ed una piccola sciarpa dai colori intonati col resto, e mentre indossa questi due capi con attenzione torna di nuovo ad osservarsi le mani, come se quello fosse ancora l'elemento meno adeguato di tutto ciò che normalmente pensa ed accetta di sé. Alza le spalle alla vista di quelle dita così bianche e un po’ raggrinzite, e pur non contenta di quella visione, spalanca lentamente la porta ed esce di casa.
Forse il colore dello smalto sulle mie unghie è un po’ troppo vistoso per non mettere in grande evidenza anche tutte le mani, pensa mentre scende le scale; ma in fondo è quello che mi piace di più, riflette con convinzione, così intenso e definito come risulta; ed anche se forse proverò nei prossimi giorni una tonalità meno marcata, per il momento sento che questo colore è quello che maggiormente si avvicina ai miei gusti. Con il suo passo ritmato arriva fino alla fermata dell’autobus che giunge fortunatamente dopo appena un minuto, e dopo il breve tragitto percorso quando ne scende va a rallentare soltanto trovandosi vicina al caffè dove sa di essere attesa. Lui gentilmente si alza alla sua vista, sorride, l’aiuta a togliere il giaccone salutandola con delicato calore, e poi la invita a sistemarsi al suo tavolo, come ogni pochi giorni succede da circa un anno.
Arriva un cameriere che prende le ordinazioni e poi si ritira, lei si schernisce per qualcosa che lui sta dicendo, infine si guarda un po’ attorno, senza insistenza, come se non conoscesse il locale. Il cameriere dietro al bancone scuote la testa parlando di qualcosa con un suo collega, lei con la coda dell’occhio lo vede, così quasi per un automatismo torna a guardarsi le mani, che subito tenta di nascondere, rattrappendole in parte dentro le maniche, e cercando di muoverle il meno possibile. Arriva il caffè e la tisana, accompagnati da qualche pasticcino, e lui, di fronte al lieve vapore che emanano le loro bevande, mette sul tavolo un piccolo regalo, un pensierino che sottolinea quanto ci tenga al loro rapporto.
Lei indossa subito l’anello con gioia, ma tornando evidenti in un attimo quelle sue dita ossute e poco eleganti, cerca subito di parlare di qualcosa che almeno disorienti lo sguardo di lui. Però si sente felice, appare con ogni evidenza, tanto che sente ammorbidirsi lo sguardo, come per un accesso di commozione, anche se poi prende un sorso della sua tisana e cerca di mettere velocemente ogni debolezza alle spalle. Sa che quell’anello è estremamente importante per tutti e due, sa quanto assuma valore quel gesto, molto più che tante parole, anche se ciò che le dispiace di più è non poter avere le mani più adatte ad indossare un pensiero del genere. 
Lui si schernisce, si guardano a fondo negli occhi, sorseggiano le loro bevande e sorridono vicendevolmente di qualcosa che provano ambedue con ogni evidenza. Poi decidono nel giro di pochi minuti di uscire da quel locale, e magari andarsene da qualche altra parte; così lui paga le consumazioni al solito cameriere, lei torna ad indossare il giaccone, ed infine si avviano fuori, sul marciapiede, ma considerato che la stagione è ancora invernale e non fa molto caldo, lei volentieri tira fuori dalla borsa dei guanti che ha sempre con sé, ed adesso velocemente li infila sopra le mani. 

Bruno Magnolfi

lunedì 13 febbraio 2017

Come una meta introvabile.

           

Eppure deve essere per forza da queste parti il bivio che cerchiamo, dice lei mentre continua a scrutare il buio intenso intorno a quella strada illuminata soltanto dai suoi fari, reggendo comunque il volante dell'auto con una certa leggerezza, quasi in punta di dita, pronta a svoltare o a fermarsi alla prima avvisaglia del cartello stradale che spera ancora di vedere. Lui, al suo fianco, non sembra neanche molto interessato a quei segnali, quanto alle mappe del territorio, purtroppo non aggiornate, proposte da un vecchio navigatore elettronico che adesso tiene acceso e posizionato sopra ad una gamba, quasi fosse una bussola o un sestante, e da cui sembra tirare fuori, con grande ottimismo, gli allineamenti previsti con le stelle maggiori, dalle quali cerca di trovare un riferimento almeno storico, proprio all’interno di quell'angolo, probibilmente corretto anche se non adeguatamente calcolato nei confronti di un ipotetico orizzonte geografico.
Tutto qui intorno, dice lei; da qualche parte dietro questo bosco di vecchie querce e di castagni, o nascosto proprio da quel poggiolo qui di fronte, come un villaggio arcaico sperduto nel nulla ed oramai dimenticato, come una realtà viva ed importante purtroppo incastonata in mezzo, e contemporaneamente situata anche lontano da tutto ciò che si conosce persino troppo bene, ma che ha perso con ogni probabilità qualsiasi interesse per chiunque, e magari è stata persino nascosta ed oscurata da ciò che la circonda. Ecco, prosegue, credo che stiamo andando incontro ad una vera e propria scoperta, quasi un ritrovamento epocale, e tutte le difficoltà di questo momento verranno ripagate sicuramente dallo stupore che senz'altro proveremo al nostro arrivo.
Lui non sente la stessa carica emotiva così evidenziata, e continua quasi a svagarsi con delle mappe luminose sempre meno attendibili, praticamente inutili, fino a sbadigliare forzatamente passandosi una mano tra i capelli, preludio alle semplici parole: penso che dovremo proprio tornacene sui nostri passi, magari fermarci ad una trattoria di campagna ai margini della nostra civiltà, e concludere la serata semplicemente in questo modo. Lei non lo ascolta neppure, proseguendo a guardarsi attorno e cercando ancora con insistenza qualcosa che le dimostri almeno di essere nel giusto, di avere avuto fede, coraggio, tenacia, anche se alla fine sa benissimo che probabilmente non ci sarà niente a ripagare tutti quei suoi sforzi.
Va bene, dice ad un tratto, fermiamoci pure in questa piazzola e facciamo il punto della situazione. La zona collinare, a cavallo tra quelle due province povere, sembra proprio scarsamente frequentata, come fosse una valle rurale senza sbocchi, priva di risorse, quasi un deserto inabitabile. L'unica cosa di cui abbiamo certezza è data dalla stessa strada che abbiamo percorso fino qui, spiega ancora lei guardando insistentemente il buio fuori dal parabrezza. Tanto vale tornarcene indietro usando quel minimo di razionalità che ci rimane, anche se sono sicura che oltre qualcuna di queste semplici curve avanti a noi ci attenderebbe probabilmente una sorpresa inimmaginabile.
Lui annuisce senza convinzione, spenge definitivamente il suo aggeggio elettronico, sorride tra sé per quella decisione presa, e fa un semplice cenno con la testa, sottintendendo la sconfitta parziale del momento che non dovrebbe in nessun caso inficiare l'impegno per quel risultato finale tanto desiderato, qualora ci fosse stato. Lei così ingrana la marcia, inverte la direzione dell'automobile, ed improvvisamente appare quasi contenta di quella comune decisione.


Bruno Magnolfi

giovedì 9 febbraio 2017

Come un pesce fuori dall'acqua.

            

Forse dovrei smettere di pensare le cose sempre nella stessa maniera. Forse esiste anche il modo di evitare questi soliti luoghi comuni in cui regolarmente mi rifugio: l’uso continuo delle frasi fatte, questo lasciarmi andare a grasse risate superficiali con la gente che conosco da sempre, perdermi dietro delle attività del tutto inutili; tanto più che mi rendo conto perfettamente di quanto queste espressioni di vita non mi aiutino neppure a sentirmi particolarmente sereno. Mi guardo attorno da questa finestra all’ultimo piano del palazzo popolare dove abito da anni, mentre sono in attesa degli altri per la solita partita a carte del pomeriggio. C’è il sole oggi, si sta bene con questa luce, e a me piace osservare la città che si erge qua attorno, anche se mi pesa sempre di più cedere quasi ogni giorno a queste abitudini, parlare con gli altri delle solite cose, resistere alla voglia sempre più forte di lasciar perdere tutti e andarmene da qualche altra parte. 
Preparo il tavolo svogliatamente, le sedie, le carte da gioco, qualcosa da bere che una volta ogni tanto acquistiamo tutti insieme dentro al supermercato. Stando qui forse ci immaginiamo di stare lontani da tutto, e che il tempo ci conceda una pausa, come se rallentasse, senza chiederci niente nel cambio. Invece vorrei smettere con queste sciocchezze, trovare la maniera per guardare quanto mi sta circondando con maggiore serietà, con spirito critico, coltivando l’esigenza di inseguire una metamorfosi interna. Da qualche tempo ritrovarci qua sopra mi pare sempre più il tentativo di sentirsi come dei ricchi annoiati, paghi del loro essere inutili, tanto più che al contrario di loro stiamo qui anche perché non abbiamo neppure i quattrini per andarcene altrove.
Poi arrivano tutti, abitano ai piani inferiori, sono persone che come me hanno poco altro da fare nelle loro giornate, e così ci vediamo nel mio appartamento, come per una normale abitudine. Prima di impegnarci nella solita partita si scambia qualche parola, ci impegniamo a trovare delle nuove battute, anche se in fondo ci diciamo soltanto le solite cose, parliamo in negativo di qualche assente che ben conosciamo, tanto per risultare migliori di tutti, e fingiamo di essere amici, ma è solo perché ci sentiamo soltanto nella medesima situazione. Si danno le carte, iniziamo a giocare, ma dopo un attimo mi alzo, vado in un’altra stanza, mi guardo in uno specchio appeso sopra ad una parete, e decido che adesso è il momento di smettere.
Così torno dagli altri, dico che oggi non me la sento di giocare con loro, non mi pare neanche di sentirmi benissimo, ed è meglio se rimandiamo quella partita, e che magari mi farò vivo io nei giorni seguenti. Perplessi loro si alzano e se ne vanno, in fondo senza chiedermi troppo, come rendendosi conto che qualsiasi periodo della vita prima o dopo trova una sua conclusione. Hanno visto la mia faccia seria, i miei modi scostanti, il mio evidente bisogno di stare da solo, forse per meditare qualcosa che a loro non riuscirei nemmeno a spiegare, e che tutti quanti non sarebbero neanche capaci di comprendere bene.
Attendo qualche minuto, infine indosso la giacca ed esco anche io, forse per andarmene in giro a cercare qualcosa di cui non so ancora nulla. Giro parecchio, mi stanco, infine rientro. Non è tutto uguale, penso guardando di nuovo lo specchio: posso trovare il modo di cambiare le cose, dico tra me; basta che davvero lo voglia.


Bruno Magnolfi

mercoledì 8 febbraio 2017

Come una serie infinita.

            

            Prima c’è un muretto, subito dopo un albero, ed infine la casa, senza possibilità di alcun errore. Lui passa sempre lì davanti, accompagnato ogni volta da qualcuno della sua famiglia, che in genere lo aiuta a percorrere la rampa di scale quando esce, e poi lo tiene sottobraccio per tutto il tempo. Sta in silenzio lui, e guarda sempre avanti a sé; cammina lentamente ma in modo regolare, fermandosi ogni tanto, e dopo un po’ lascia che il suo accompagnatore gli chieda se voglia restare ancora fuori a passeggiare, o se al contrario sia già possibile rientrare nella loro abitazione. Lui fa un semplice gesto con la mano, e allora rientrano; altrimenti produce un piccolo verso di sofferenza con la gola, come se ancora non avesse preso tutta l’aria di cui sente il bisogno, e così viene ripetuto ancora una volta, o magari anche due, quel piccolo percorso lungo il marciapiede, prima di rincasare e sistemarsi di nuovo dentro la sua stanza preferita.
            Quando invece è nel suo appartamento, lui parla e parecchio: dice spesso con parole secche che cosa abbia notato di particolare quando è uscito fuori per la sua piccola passeggiata, proprio come qualsiasi attento osservatore, e poi ripete le sequenze che conosce meglio, e soprattutto quella del muretto, dell’albero e infine della casa, perché sono gli elementi più importanti, quelli che stanno sempre a fondamento di tutto il suo percorso. Il mondo nei suoi occhi forse sembra ridotto a pochi elementi, per chi magari lo osserva da fuori con un certo distacco ed anche con sufficienza, ma c’è invece molta sostanza in quei suoi occhi attenti, più di quella che potrebbe sembrare.   
            Ci sono delle grosse pietre regolari alloggiate nella terra nuda; stanno lì a circondare il piede dell’albero, come per creare una piccola aiuola, e lui ne conosce perfettamente sia le sfumature di grigio che la posizione, tanto che quando un ragazzo ne aveva spostata una per gioco, lui si era abbassato, aveva spinto in avanti con le mani quella fuori posto, e aveva ripristinato la situazione precedente. Anche la casa accanto ha delle particolarità nascoste: piccoli dettagli inseriti direttamente sopra la facciata, e che lui conosce perfettamente, anche se non per un vezzo maniacale, quanto per esercitare anche con se stesso la propria capacità di essere attento, capace, perfettamente abile nelle attività di cui si interessa.
            La mamma, con la quale esce più spesso che con chiunque altro, lo controlla ogni volta, ma senza guardarlo mai direttamente e neppure facendogli delle domande, e lui, che adesso ha raggiunto quasi i quindici anni, conosce bene quelle maniere, tanto da riuscire spesso ad eluderle, certe volte semplicemente girandole le spalle, magari solo per osservare di nascosto qualcosa di cui è interessato. Poi si mette a disegnare al suo tavolo, sempre con quel suo modo essenziale, con una matita, senza colori né orpelli, delineando giusto gli oggetti, e rendendo con un metodo del tutto personale, quelle sequenze precise che prosegue a ripetere dentro di sé. Quei disegni sono il suo lato comunicativo maggiore, naturalmente, e quella raccolta è tenuta in serbo con molta attenzione.
            Lui mostra il disegno, qualcuno della famiglia lo guarda, ma senza che sfugga mai da nessuno troppa  emozione. Non è molto bravo, questo è certo, però è assolutamente preciso, ed ogni tanto inserisce nelle sue serie un elemento che nella realtà non si è mai visto. Per questo la siepe tra l’albero e il muro è diventata motivo di studio da parte di tutti. Poi si è chiarita ogni cosa: la siepe fa parte di un’altra sequenza, un gruppo di altri elementi che stanno poco più avanti lungo la strada; una componente di fantasia insomma, che definisce soltanto la sua voglia di superare una visione diventata forse troppo monotona.


            Bruno Magnolfi  

lunedì 6 febbraio 2017

Come un giorno di sole.

       

Basta, dico a me stesso. Devo assolutamente cambiare, è doveroso per me e per chi mi sta intorno. Spengo la radio, prendo la giacca, le sigarette, le chiavi, ed esco senza neppure riflettere verso dove mi andrebbe di dirigermi. Fuori la giornata è piovosa, i marciapiedi brillano d’acqua, e la gente cammina intanata sotto agli ombrelli. Cosa mi importa, dico a un vicino che mi ferma soltanto per parlare di qualche sciocchezza: sono stufo di tutto, gli fo, non ho più voglia di perdermi in stupidaggini, e continuo per la mia strada senza guardarlo.
Vado avanti da solo, nervoso, a passo svelto, poi entro in un bar, e mi faccio servire qualcosa di forte. Butto giù due o tre bicchierini, pago alla cassa e torno ad uscire. Ho bisogno di gente, di perdermi in mezzo alla folla, di annullare me stesso per essere proprio come sono quegli altri, ed iniziare a ridere e a gustarmi il tempo che passa ed il niente che sono.
Mi dirigo verso una piazza, e quando sono lì in mezzo mi fermo a guardare qualcosa che mi appare subito ipnotico: delle luci che brillano sotto la pioggia, due ragazzi che ridono scherzando tra loro; alcuni che camminano nonostante il tempo inclemente, tenendosi a braccetto e tirandosi l’un l’altro dentro le pozze sopra la pavimentazione di pietra. Vorrei essere loro, divertirmi di niente, togliere di colpo da dentro la testa le preoccupazioni che proseguono a darmi tormento. 
Rido forzatamente, mi aggiungo ai ragazzi, faccio vedere che riesco anche io a divertirmi, ma quelli si paralizzano, mi guardano con serietà, respingono la mano con cui sono stati toccati, di fatto imponendomi di levarmi dai piedi. Continuo a girare, mi piacciono le luci brillanti che mi circondano: le persone si muovono dentro di loro, si specchiano e rifrangono nelle vetrine multicolori, ed una danza di piccoli passi e di gesti essenziali prosegue senza stancarsi, come un teatro infinito. Mi sento respinto da tutti, mi fermo, entro dentro un caffè molto elegante. Ancora un semplice bicchierino, poi di nuovo la strada per cercare ancora qualcosa, senza riuscire a decidere quale sia il vero punto di svolta, il cambiamento, la direzione da intraprendere e da cui non sia più possibile voltarsi all’indietro, per vedere ancora quello che ero, giusto fino ad un attimo prima.
Invece riprendo senza alcun entusiasmo la via verso la mia abitazione, e proseguo a ritroso sopra le medesime orme che ho impresso io stesso con queste mie scarpe, fino a trovare di nuovo il mio noioso vicino, ancora lì sopra quel marciapiede, quasi in attesa. Gli dico che non c’è niente di nuovo, e che forse sono soltanto quelle sciocchezze di prima che possono rappresentare davvero qualcosa di diverso nella mia giornata così ostile e monotona.
Lui mi osserva un momento, dice anche lui che dobbiamo cambiare, smettere di prendere tutte le cose come nemiche della nostra esistenza. Abbiamo provato ad agire d’impulso, mi spiega, quasi senza riflettere, ed abbiamo sbagliato. Adesso è arrivato il momento di usare più logica, maggiore razionalità, e finirla di intravedere in ogni avversario un nemico.

Bruno Magnolfi



sabato 4 febbraio 2017

Cosa gradita.

       

            Certo, signor Mini, in pochi minuti sarà tutto a posto, non si preoccupi, dice lui mentre sistema rapidamente almeno i fogli degli ordini dietro la piccola scrivania che funziona anche da cassa. Non si fa vedere molte volte in quel negozio di libri, il signor Mini, ma quelle poche volte vorrebbe sempre trovare tutto ordinato, è quasi una sua fissazione, e se questo non appare proprio come lui se lo immagina, si limita comunque a girare tra gli scaffali ed a guardare da tutte le parti quasi senza parlare, come se fosse già sufficiente la sua presenza a mostrare quel senso di rimprovero che prova dentro di sé per il suo dipendente nonché direttore della libreria.
            Non ci vuol niente a mettere a posto le cose, dice lui con le mani ancora piene di carte e di volumi, ma se vuole posso rimanere oltre l’orario di chiusura, stasera, per rimettere in ordine alfabetico tutti quei libri che lei mi ha segnalato. Il negozio naturalmente non fa molti utili, e la decisione di chiudere definitivamente è sempre pronta dietro ad un angolo. Lui è riuscito poco per volta ad attirare là dentro diverse conoscenze culturali del quartiere, personaggi interessati ai buoni libri, e che animano volentieri la discussione letteraria: si piazzano là dentro durante certi pomeriggi, e sfogliando qualche edizione parlano tra loro e consultano volentieri le pagine stampate. Acquistano anche qualche cosa, naturalmente, e quindi tutto appare così giustificato e funzionale. Ma quando arriva l’ora della chiusura del negozio i libri appaiono immancabilmente confusi tra loro, posizionati in scaffali diversi da quelli di origine, e per il signor Mini, quando si fa vedere là dentro, questo non è minimamente sopportabile.  
            A volte lui si è anche chiesto, per pura curiosità, quale sia stato il motivo per far aprire al signor Mini quella libreria che porta il suo nome, ma non si è mai sentito tanto in confidenza con quell’anziano signore, in quei quattro anni da quando lavora là dentro, da poterglielo chiedere. Perciò prosegue a mandare avanti le cose come gli sembra maggiormente opportuno, e tutto sommato si ritiene abbastanza orgoglioso del suo operato, tanto che, nonostante le brutte espressioni che assume la faccia del signor Mini, lui non evita di far presente quali siano i buoni risultati di quella attività: si fanno vedere alcuni noti scrittori in quel negozio, docenti universitari ben conosciuti, e non passa settimana senza che venga richiesta qualche presentazione di libro a cui assistono spesso anche decine di persone, che poi acquistano sempre qualcosa.
            Lei forse li regalerebbe i libri, pur di trovarsi sempre attorno tutta questa gente, dice a volte il signor Mini con un sorriso ironico; e lui sorride, prende frasi del genere quasi fossero un gran complimento, ma quando poi si tirano le somme sul venduto effettivo, le cose non appaiono più tanto allegre, anche se le cifre non sono mai scese sotto al minimo dell’effettiva sopravvivenza per quel tipo di attività. Alla fine tutto quello che si riesce a dire di male del suo operato è sempre ridotto a questioni di precisione, anche se è proprio quella la caratteristica della libreria: se fosse tutto perfettamente ordinato, sostiene lui a suo discapito, probabilmente qualcuno inizierebbe magari ad evitare quel luogo asettico e poco disponibile, fino a far ritrovare chi ci lavora con un negozio perfetto sotto il profilo formale, ma sterile sotto quello umano, e quindi inappropriato.
            Faremo dei lavori, dice alla fine il signor Mini: sto per acquistare degli spazi ulteriori a fianco della libreria, ho anche dei finanziamenti, così potremo ingrandirci e tenere in vendita anche altri volumi, e diventare punto di riferimento per molti altri clienti. Ma tutto questo dipende anche da lei: le sua capacità di fare di questo esercizio un punto di ritrovo si sono già viste; adesso ci sarà bisogno anche di una migliore organizzazione, se non altro per fare a me cosa gradita.


            Bruno Magnolfi

venerdì 3 febbraio 2017

Abiti da fare.

           

Non le è mai piaciuto essere guardata dritta negli occhi da sua mamma. Devi fare in questa maniera, le dice lei in certe occasioni usando la sua voce in un modo sempre così mansueto e dolce, mentre le ricorda con grande pazienza qualcuno dei suoi grandi segreti del cucito. La figlia osserva i suoi modi, le sue mani, magari mette bene a fuoco quei tagli ancora da imbastire, che dovranno essere in seguito ripassati a macchina con un punto un po’ particolare, quei pezzi da montare con pazienza, e spera ogni volta che i loro sguardi non si incrocino, cosa che prima o dopo avviene sempre, immancabilmente. Ci trova qualcosa di freddo e di remissivo in quello sguardo, in quei bulbi oculari sempre lacrimosi, con quella strana luce spenta in fondo, di un colore indefinibile, come un lieve accenno di espressione ignota e mai completa.
I cartamodelli stanno tutti divisi in gruppi dentro ad appositi armadietti, e le due donne lavorano nel laboratorio della propria casa generalmente per tutta la mattina, interrompendosi soltanto per preparare e consumare il pranzo utilizzando le altre stanze, e lasciandosi per il pomeriggio generalmente solo qualche piccola rifinitura: un orlo, qualche asola, cose di poco conto insomma. Ma è proprio alla luce del mattino che la mamma assume quello sguardo, magari mentre vengono composte ed assemblate quelle porzioni di vestito che poi faranno parte della collezione di qualche nome importante della moda. Bisogna lavorare bene, dice la mamma: ci vuole un attimo a perdere la fiducia che ci è stata assegnata.
Durante tutto il tempo che la mamma taglia le pezze di tessuto, oppure passa la stoffa sotto ad una macchina, o magari imbastisce gli abiti, la sua attenzione appare interamente focalizzata da ciò che sta creando, da quei dettagli che poco per volta magicamente prendono forma, tanto da avvicinarsi con le mani il più possibile alle lampade, proprio per vedere ancora meglio ciò che sta facendo. Ma è quando appoggia per un attimo il cucito sul piano di lavoro, o quando adatta la stoffa sopra a un manichino, che allora guarda la figlia in maniera diretta e scrutatrice, come per comprendere se qualcosa non sia forse stato preso in considerazione come lei avrebbe voluto. 
Certe volte la figlia si avvicina alla finestra; la scusa è sempre quella di osservare alla luce naturale come le appare il colore di una stoffa, oppure come sia venuta una certa cucitura, ma in realtà allontanarsi da quello sguardo di sua madre è qualcosa di cui ogni tanto sente fatalmente la necessità, ed una volta vicina ai vetri osserva volentieri tutte le persone che passano lungo quella strada, mentre conversano tra loro, o si tengono a braccetto, oppure passeggiano tranquille.
La figlia è ancora giovane, ma si è sempre impegnata, e sa già fare molte delle cose che sua madre le sta poco per volta trasmettendo. Tra non molto forse potrà cavarsela da sola, eseguire in autonomia gli ordini degli abiti che nominalmente vengono ancora passati alla sua mamma, e prendere decisioni già per conto proprio, lasciando che sua madre poco alla volta esca dal laboratorio, almeno dalla zona esecutiva. Ci sono già due o tre lavoranti che vanno ogni giorno lì da loro, forse in seguito ce ne potranno essere anche alcune altre; prima o dopo la figlia diventerà quella che decide e che gestisce tutto quanto, e così potrà lasciare sua madre a riposare, se lo vuole, e ad occuparsi di altre cose nel resto del loro grande appartamento.
Quel suo sguardo allora diverrà sempre meno utile, e lei finalmente potrà tornare a guardarla dritta dentro gli occhi; e forse non ci sarà niente di male se qualche volta ci troverà soltanto la stanchezza di una vita trascorsa in mezzo agli abiti da fare.


Bruno Magnolfi

mercoledì 1 febbraio 2017

Soccorso finale.

           

            Certe volte appoggio l’orecchio al lato interno della porta di camera mia, e resto in ascolto nella medesima posizione anche piuttosto a lungo, cercando di comprendere le parole che si scambiano tutti i miei familiari mentre continuano a conversare tra di loro. Loro si muovono avanti e indietro nelle altre stanze della casa, affrontando a voce alta, come fanno spesso, gli argomenti più diversi, e in qualche caso finiscono per parlare anche di me. Ho bisogno di sapere con anticipo cosa verrà deciso, questo è il punto, perché se loro, come ho già intuito, volessero farmi tornare di nuovo in quella clinica dove sono già stato anche per troppo tempo, stavolta sarei disposto a saltare subito giù dalla finestra e scappare via da qui. Non mi fa paura niente, la mia stanza si affaccia sulla parte posteriore del giardino della villa, basta che io mi cali lentamente tenendomi con le mani al davanzale, e dopo un piccolo salto sarei a posto. La recinzione del giardino invece è alta, ma c’è un buco segreto in fondo a un angolo, dietro dei cespugli: basta strisciare sulla terra e in un attimo si riesce a guadagnare la strada comunale.
            Quando vengono da me sono tutti molto cortesi: mi chiedono come mi senta, di che cosa abbia maggiore desiderio, e così via. Ma io ho capito da lungo tempo che senza dirmelo direttamente si vogliono di fatto liberare della mia presenza, rinchiudendomi di nuovo tra dottori ed infermieri, per farmi imbambolare con una miriade di calmanti e lasciarmi in una branda a vegetare chissà per quanto tempo questa volta. Loro credono di essere dei furbi, di potere fare di me quello che vogliono, sostenendo che io riesca ad essere persino pericoloso in certi casi, pur di far accettare a tutti quelli che mi conoscono l’idea che io non possa rimanere ancora a lungo in questa casa. Mi vogliono estromettere, ecco, sistemarmi in un luogo dove non possa nuocere alla loro tranquillità, e soprattutto che non torni a chiedere, come sarebbe assolutamente giusto, la mia parte di patrimonio.
A me non interessa niente dell’opinione di tutti questi miei parenti: io voglio fermamente restare qui, deve essere chiaro, perché questa, grande com’è, è anche casa mia; ma sono disposto ad affrontare non so neppure io quali disagi, pur di non accondiscendere neanche in parte a questa loro volontà. Soltanto perché me ne rimango giornate intere per conto mio, senza chiedere niente più che consumare i pasti dentro la mia camera, ed impegnarmi da solo nei miei semplici passatempo, loro sono sempre stati pronti a definirmi un tipo asociale ed una personalità completamente disadatta ai contatti con tutti gli altri. Non mi aspetto niente di buono da quelle loro bocche rosee, se non parole che denigrano ogni mio comportamento. Non li odio, semplicemente li sopporto a malapena, e comunque se si tengono alla larga dalla mia stanza per me è già sufficiente.
E’ anche vero che una volta fuori non saprei proprio dove andare: agli inizi magari vagherei per la città utilizzando questi soldi che sono riuscito a mettere da parte; in seguito però, considerando che ho l'indirizzo di un avvocato che mi può aiutare seriamente, potrei tramite lui o un suo collega, far valere appieno i miei diritti, e difendermi degnamente in questa mia battaglia contro tutti. È venuto a casa nostra qualche volta, e mi ha sempre stretto la mano con grande cortesia, informandosi immancabilmente circa le mie condizioni di salute. Lui sta dalla mia parte, questo è evidente, e ci sarà bisogno di ben poco per fargli capire che il mio dovrà essere niente più che uno strenuo salvataggio, un riprendere appieno la mia vita, insieme a tutto ciò che mi spetta di diritto, naturalmente, al di sopra di qualsiasi diversa ed infondata convinzione.


Bruno Magnolfi