domenica 30 dicembre 2012

L'assurda ragione.


            
            Lui cammina in silenzio. I suoi passi sono cadenzati, monotoni, le sue mani sprofondate dentro le tasche, il viso protetto dal bavero della giacca. Alcune persone per strada lo sfiorano camminando in senso contrario, altre lo notano per la sua aria assorta, i suoi pensieri forse persi dietro qualcosa di irraggiungibile. Poi entra dentro un portone, sale lentamente due rampe di scale, suona ad un campanello sul pianerottolo. Qualcuno gli apre silenziosamente, lo lascia entrare, chiude la porta alle sue spalle.
            Sa di essere atteso, ciò nonostante: sono qui per fare chiarezza, dice a voce bassa, e anche per prendere qualche decisione; come se alternativamente fosse lì soltanto per un puro caso. Viene fatto sedere ad un tavolo, da un cassetto si tira fuori una cartella piena di documenti. Lui se ci pensa forse vorrebbe già essere lontano da lì, anzi, probabilmente sarebbe contento di non esserci mai neppure venuto, eppure tutto quanto adesso pare andar bene, gli sembra anche più facile del previsto, una volta riuscito a superare qualsiasi moto spontaneo di repulsione, quella sua voglia naturale, dopo tutti quegli anni di guerre, di tenersi lontano da quella casa e anche da coloro che continuano ad abitarla.
            Là dentro si parla adesso in termini quasi legali, le carte riportano con chiarezza i confini di alcune proprietà da dividere, le espressioni sono fredde, niente di tutto questo esprime qualche sentimento, qualche bisogno reale, e le sensazioni che procurano, almeno a lui, quei nomi così legati a dei cari ricordi, che pur certamente convivono in mezzo a quei margini segnati sulle planimetrie e tra le parole degli atti, sono solo un’astrazione da quel contesto. Si prova sicuramente un certo disagio dietro agli occhiali con cui si osservano tutte le carte, ma in ogni caso si vuole andare avanti, fino in fondo, fino a quando tutto sarà debitamente appianato e deciso.
            Lui sa che sua sorella si trattiene nella stanza vicina, forse ascolta ogni parola restando in silenzio, al riparo di una porta ben chiusa: persino dopo tutti quegli anni non vuole incontrarlo, non vuole neppure vederlo, lascia che ogni cosa venga trattata da un legale e da suo marito, quel cognato pacato, tranquillo, che si è sempre offerto di fare da mediatore tra i loro caratteri a spigoli, cercando la giusta divisione di quelle proprietà di cui sono eredi, solo loro due, senza alcun dubbio. Si guardano ancora le carte, lui non dice quasi niente, lasciando che si formuli un’offerta finale: non si è neppure tolto la giacca, tanto riesce ad avvertire l’ostilità della casa, però sente con prepotenza la volontà di tutti di arrivare in fondo a quella faccenda, perché non è più proprio possibile lasciarla ancora in sospeso.
            Si prendono impegni, si firma qualcosa di importante, tutto quanto adesso, quasi per magia, sembra più facile di qualsiasi altra cosa; ogni nodo da sciogliere pare risolversi con poche frasi, con qualche sguardo, come se scorresse su una strada liscia e senza le curve. Infine tutto appare deciso, lui si alza, saluta, viene accompagnato alla porta, sta per andarsene, ma c’è sua sorella che esce improvvisa dal suo rifugio, lo guarda, gli va incontro, si abbracciano: che inutile cosa, credere di avere sempre ragione, pensa qualcuno.

            Bruno Magnolfi

giovedì 27 dicembre 2012

La danza di corteggiamento del niente.


            
            Oltre il raggio d’azione di questa lampadina elettrica perennemente accesa ad illuminare il piano del mio tavolo, c’è soltanto l’oscurità, un buio talmente denso, compatto ed omogeneo, da potersi paragonare ad un nulla assoluto. Dispongo in ordine sul tavolo i piccoli oggetti a cui sono maggiormente legato: un vecchio temperino, due penne di cui una non più funzionante, un tappo di sughero marchiato a fuoco all’estremità, un mozzicone di matita, e infine un anello di metallo per trattenere le chiavi. La lampadina mi permette di osservarli a lungo in ogni particolare, ed io mi lascio andare nello studio di tutti quei precisi dettagli.
            Non c’è nient’altro che valga la pena di essere ammirato come queste mie piccole preziosità: sono tutto ciò che mi porto dietro da anni, rimasugli di tempi diversi da questi, durante i quali forse mi sentivo addirittura migliore, meno rinchiuso come sono adesso nell’alveo rischiarato da questa semplice lampada. Ma non mi lamento, so che queste mie piccole cose sono ciò che avevo sempre desiderato di possedere, i fili robusti che legano il mio presente con il passato, segni concreti di qualcosa che adesso forse neppure ricordo, ma che indubbiamente una volta ha avuto una certa fondamentale importanza.
            Sul piano del tavolo, ora, tutto questo produce come una danza silenziosa, fatta di strani interscambi di un oggetto con l’altro, di allineamenti semplici eppure di grande interesse, quasi una ricerca continua di una disposizione finale, quella migliore, la più adatta di tutte. Dal buio si avvicina qualcuno con passi felpati da pantofole di casa: è una mia vicina parente che abita nelle stanze di questo appartamento, e viene qui ogni poco a sincerarsi di come io stia, se abbia bisogno di qualcosa, se perseguo anche oggi i miei scopi di sempre. Mi tocca una spalla, dice: stiamo guardando la televisione, di là; potresti venire anche tu, se vuoi. Sposto l’anello per le chiavi sul piano del tavolo, indico qualcosa che solo a me è evidente, ma lo faccio in silenzio, come se lei interrompesse qualcosa che porto avanti con grande applicazione. Se ne va, finalmente, senza aggiungere niente.
            Infine mi alzo, ripongo dentro la scatola di metallo tutti gli oggetti, avendo cura di metterli in una certa maniera sul fondo, poi affronto la zona buia della stanza. So che non c’è niente qui, niente che abbia davvero valore, però certe volte non posso fare a meno di rivolgermi verso quel qualcosa che neppure conosco, quasi un rincorrere degli elementi distanti da me, fuori dalla portata dei miei desideri. Avrei bisogno di un nuovo oggetto, penso, ma per quanto mi sforzi non so cosa possa mai essere, non riesco a mettere a fuoco ciò che mi manca davvero.
            Cammino fino alla porta, la apro, arrivo di là, dove tutti stanno guardando un programma alla televisione. Non dico niente, mi fermo, osservo la luce azzurrina che arriva da quello schermo, poi, accanto ad un soprammobile, osservo la stanghetta di plastica di un paio di occhiali rotti da tempo. Mi accosto, senza che nessuno mi veda: lascio scivolare dentro una tasca quel feticcio di qualcosa che neppure so bene che sia, ma che adesso è importante, serve per completare la danza sotto alla mia lampadina. Torno nella mia stanza e mi siedo. Dovrò smettere, penso; prima o poi gli altri me lo diranno in malo modo, con qualche minaccia e con la voce piuttosto alterata. Ma non importa, fingerò indifferenza, come ho sempre fatto, in fondo loro fanno solo parte del niente.

            Bruno Magnolfi 

lunedì 24 dicembre 2012

Distanza di sicurezza.


            

            Ero entrato nel piccolo appartamento alle spalle di quella signora che neppure conoscevo, ma alla quale avevo spiegato, con poche parole pronunciate sottovoce sulla porta, di essere un amico del figlio, e di avere notizie di lui. Ristagnava un vago odore di minestra nell’aria, e forse di chiuso e di mobili vecchi. Ero stato fatto sedere presso il tavolo del salottino, e la signora, in piedi, tenendosi le mani, mi aveva presentato rapidamente a sua figlia, una ragazza non bella e forse timida, che era rimasta in disparte e in silenzio, alzando appena il suo sguardo giusto un momento.
            Avevo spiegato con poche parole di non essere propriamente un amico, ma anzi di avere conosciuto Armando solo nell’arco di due o tre giorni, quando casualmente ci eravamo ritrovati insieme, a fronteggiare una situazione complessa quale quella di sopravvivere in qualche maniera in una terra straniera. Per me era stata solo una condizione momentanea, dicevo, ma lui non aveva più documenti, e per questo motivo mi aveva spiegato che non poteva arrischiarsi a varcare il confine e rientrare nella sua patria; e d’altra parte neppure cercare un lavoro era qualcosa in cui potesse facilmente confidare. Così stava vivendo alla giornata, spiegavo alle due donne, senza più un soldo né un indirizzo a cui farsi spedire un aiuto da voi o da chiunque altro.
            La signora sembrava comprendere perfettamente le mie parole, anzi, sembrava che fosse già preparata ad un rapporto del genere, tanto che fermò ad un tratto le mie parole giusto per chiedermi di quale città si stesse parlando e in che situazione fisica avevo trovato il suo Armando. Dissi che lui stava bene, almeno in apparenza, soltanto cercava di non dare troppo nell’occhio, e quindi si spostava continuamente, tanto da non permettermi di sapere con esattezza se attualmente fosse ancora nello stesso luogo in cui lo avevo lasciato, oppure no. In ogni caso è una persona che sa cavarsela, dissi con forza, sicuramente troverà la maniera di uscire da quella situazione.
            La signora era rimasta in silenzio sulle mie ultime parole, tanto che per uscire da quell’aria di imbarazzo che pareva aleggiare, stavo per alzarmi e prendere congedo da lei e da sua figlia, quando quest’ultima disse qualcosa, come parlando tra sé: voglio andare da lui, spiegò con una smorfia del viso; ho bisogno di vederlo di persona, o almeno di andare a cercarlo, anche se ho capito che non sarà facile. Dissi in due parole che era una faccenda complicata e pericolosa, che sconsigliavo vivamente, ma lei insisteva, quasi come una ripicca, o forse un proprio bisogno di staccarsi per un po’ di tempo da quella casa. In ogni caso spiegai con precisione dove avevo lasciato Armando l’ultima volta che lo avevo veduto, per il resto, dissi, ci vuole soltanto un po’ di fortuna.
            Quindi mi alzai, mi accorsi che la signora stava rigidamente in silenzio, come conservando una grande dignità, e ugualmente mi accompagnò verso la porta senza aggiungere una sola parola. La figlia, al contrario di ogni mia aspettativa, iniziò a dire che in quella casa c’era bisogno di Armando, che lei lo doveva trovare, che non poteva esserci nessuna soluzione diversa, quello era il suo compito, quella la missione a cui era chiamata. La signora mi guardò un momento negli occhi come a spiegare con uno sguardo ciò che non poteva con le parole, io le strinsi la mano ed uscii, ma fu mentre scendevo le scale che sentii urlare: lo amo, è un amico di Armando, voglio dedicargli la vita, andremo insieme a trovare mio fratello, lui saprà dove dirigersi. Raggiunsi la strada allontanandomi velocemente da lì, poi, più tardi, quando mi ritrovai con Armando, gli dissi soltanto che le cose che mi aveva precedentemente fatto presente, purtroppo non sembravano affatto cambiate.

            Bruno Magnolfi

venerdì 21 dicembre 2012

Chiuso dentro un pensiero.


            
            Era uscito dal locale quasi con stizza. Aveva perduto a carte, anche se questo in fondo non era particolarmente importante. Però non era riuscito ad essere il giocatore di sempre, spiritoso, brillante, di compagnia. Si era lasciato andare anche ad un piccolo sfogo contro la sfortuna che secondo il suo parere lo aveva perseguitato per tutta la sera, e questo non era da lui.
            Così era uscito dal circolino con l’impellente necessità di starsene solo, ma quel nervosismo che aveva accumulato lo faceva ancora star male. Perciò si era incamminato verso la stazione ferroviaria, giusto per guardare qualche treno in partenza e prendersi un caffè in quel bar quasi anonimo, in mezzo a qualche faccia che probabilmente non aveva mai visto.
            Ma alla fine si era ritrovato ad osservare la parte lucida dei binari, ad essere stanco senza il coraggio di tornarsene a casa, e ad avere sonno senza la possibilità di andare a dormire. Un barbone gli si era avvicinato senza neppure chiedergli niente, e lui aveva sopportato con indifferenza quella presenza, senza la volontà di allontanarsi o di dire qualcosa.
            Poi era arrivato un treno locale, fermandosi con un certo stridore dei freni, qualche passeggero era sceso dai vagoni e lui era rimasto ancora quasi impassibile. Non c’era alcun senso in ciò che stava pensando, eppure non riusciva neppure a riflettere qualcosa di minimamente diverso. Osservava gli sportelli aperti di quel convoglio come una possibilità di fuga da tutto, repentina, irrazionale, inspiegabile, e questa era l’unica idea che riusciva ad avere.
            Infine il barbone all’improvviso gli aveva chiesto sottovoce dei soldi, come se ognuno prima o dopo dovesse pur fare la propria parte: prima che parta, aveva detto, me lo lascia uno spicciolo? Ma lui lo aveva guardato a lungo senza rispondere, quasi incantato; e infine, come lasciando affiorare alle labbra un pensiero sofferto, aveva detto semplicemente: mi dispiace, in tasca ho soltanto il biglietto del treno, nient’altro; e con queste parole era salito senza più indugi.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 19 dicembre 2012

Stretta dai sogni.


            
            E’ soltanto il risveglio il vero problema. Io dormo e sogno, ed il mio mondo in questa fase meraviglia per la sua ricchezza.
La donna in genere inizia la sua giornata per automatismi, assaporando a volte, insieme alla consapevolezza del giorno reale, il gusto residuo che certe volte trattiene del suo assopimento. Qualche volta, proprio per questo, lei ha addirittura provato ad annotare ciò che riesce a ricordare di quei suoi sogni, ma non è mai riuscita a restituire minimamente qualcosa di quei sapori. Così affronta la realtà, esce da casa e osserva gli altri sopra il suo autobus, quasi come figure fantastiche imprigionate all’interno di un ruolo.
            Va da suo padre, quasi ogni giorno, a tenergli compagnia un’ora o due, a sbrigare qualche faccenda per lui, a rendersi conto con attenzione del suo stato corrente. Lui abita da solo la sua vecchiaia, non troppo distante da casa della donna, e trascorre le giornate in silenzio, seduto accanto alla finestra, come in attesa di qualcosa. Lei si muove in fretta, gli fa delle domande, a volte gli racconta qualche piccolo fatto, ma non gli parla mai dei suoi sogni e di come tutto sia diverso quando questi si snodano di notte nella sua mente addormentata ma vigile.
            Anche la donna vive nell’attesa, e intanto inganna le giornate portando avanti ciò che le sembra più naturale. Suo padre non le chiede mai niente di sé, forse per pudore, forse perché secondo lui tutta la vita è soltanto riuscire ad essere concreti, realizzati nello scandire il tempo nei giusti attimi. Lei non si sofferma quasi mai ad osservarlo, però qualche volta gli tocca un braccio, o una mano ruvida, lo sfiora come per sentirne la corporalità. Le giornate si assomigliano tutte in questa maniera, eppure ciascuna ha una sua peculiarità, una qualche caratteristica propria.
            Lei torna a casa, rivedrà suo padre la mattina seguente, gli porterà qualcosa di buono da mangiare, forse, starà di nuovo con lui, a tenergli un po’ di compagnia, perché certe volte ha paura che la solitudine per lui poco a poco diventi un disturbo o un malore. Nel pomeriggio si occuperà della sua famiglia, del marito, della sua casa. Sarà esattamente ciò che ognuno si aspetta che sia, senza minimamente cercare qualcosa di diverso. Certe volte poi la donna si siede a pensare, senza un oggetto preciso a cui riferirsi, e immagina tutta la sua giornata come una lunga pausa di sospensione nell’attesa dei sogni che coroneranno come sempre il suo sonno notturno.
            In molte occasioni le pare una forma solo egoistica la sua, ma non può farci niente. La rende felice quel suo pensiero, e la coscienza che tutto il suo tempo prima o poi terminerà in quel cullarsi di immagini oniriche, per lei è più importante di tante altre cose; ed anche se sa che i suoi sogni sono solamente proiezioni positive della sua fantasia, ugualmente è contenta soltanto al pensiero che la sua mente riuscirà ancora a vagare in quei suoi mondi fantastici, e forse questo, anche se non è sufficiente a darle una serenità che comunque non riesce quasi mai ad avere, sa che è comunque qualcosa di estremamente importante, almeno per lei.

            Bruno Magnolfi

domenica 16 dicembre 2012

L'uomo contemporaneo, 2.


            

Lui era entrato al caffè-lunch poco prima delle quattordici, ora di punta per quella tipologia di locale inserito in un contesto da quartiere dirigenziale di tipo avanzato. L’interno era giocato sostanzialmente sulla superficie di tre materiali: legno di ciliegio, acciaio inox con forme spigolose e taglienti, e soprattutto ritagli di specchi inseriti in ogni contesto possibile, a riflettere le persone presenti decine di volte, ingigantendo gli spazi e lasciando sconfinare gli sguardi oltre ogni limite. L’esterno era tutto coperto da enormi ombrelloni bianchi e quadrati, e al di sotto sedie e tavoli sempre in acciaio, con dei parallelepipedi piccoli e grandi usati come fioriere cariche di piante verdissime finte e improbabili, a delimitare tutte le aree. Dappertutto ragazze eleganti, a volte vistose, e uomini giovani spesso in cravatta, quasi come si desse un ricevimento a coronare un evento mondano. Entrare significava mostrarsi alla vista di chi era presente, e percorrendo i primi cinque o sei metri si camminava lungo una specie di passerella d’acciaio, al centro esatto di tutti gli sguardi.
Lui andava in quel locale ogni volta che gli era possibile, diceva che gli pareva un posto pieno di donne, anche se alla fine non era la cosa che lo attraeva di più; in realtà si sentiva estremamente a suo agio all’interno del gioco di sbirciare e guardarsi nelle tante porzioni di specchio, ed anche se cercava in apparenza di mimare un personaggio che tenta di passare il più inosservato possibile, vestendo i panni della persona qualsiasi, in fondo la sua era soltanto una posa. La maniera che generalmente gli piaceva di più era quella di entrare là dentro parlando sottovoce al telefono, senza fare alcun gesto, se non qualche sorriso o un saluto pacato indirizzato verso una conoscenza qualsiasi in fondo al locale, restando impassibile e guardandosi attorno in un attimo breve di sospensione quasi pneumatica, decidendo di dirigersi inevitabilmente verso il bancone del bar. Pur scegliendo di mangiare qualcosa, un toast, una tartina, un sandwich, pareva scegliere a caso, pur insistendo con garbo per avere sempre una cosa precisa, generalmente accompagnando tutto con un semplice bicchier d’acqua, e rimanendo rigorosamente in piedi vicino ai piani su cui si servivano tramezzini e caffè, ma senza mai né appoggiarsi né toccare la superficie del banco.
Lui amava andare nei posti da solo, specialmente locali pieni di gente, proprio come quel giorno, e spesso trovava da scambiare uno sguardo, un sorriso, a volte persino qualche parola, in genere considerazioni confezionate con spirito su qualcosa che appariva piuttosto evidente. Si tratteneva per il tempo strettamente necessario, forse anche meno, pur riuscendo ad evitare di venire scambiato per un tipo nervoso o peggio nevrotico. La ragazza, entrata dopo di lui nel locale, gli aveva chiesto in inglese se sapeva indicarle un negozio specificando un nome curioso. Lui, nel suo modo semplificato di parlare quella lingua straniera, aveva risposto che gli dispiaceva, ma non aveva mai sentito quel nome, però immediatamente ne aveva chiesto notizia in italiano al barista, che in due parole aveva saputo indicare dove si trovasse quell’esercizio. Una volta tradotta l’informazione, la ragazza aveva ringraziato con un gran sorriso, e a lui, pensando tra sé che avrebbe potuto benissimo invitarla a bere un caffè, o accompagnarla addirittura fino al negozio che peraltro rimaneva vicino, non gli era passato per la testa di fare né questo né quello, e non per una sorta di timidezza o di impaccio, ma per quel suo bisogno sovrano di stare da solo, anche in un posto pieno di gente.
Lui, infine, quando era uscito da quel caffè, si era accorto che la ragazza straniera era ancora nei pressi, fingendo di cercare con grande impegno qualcosa dentro la borsa, di fatto probabilmente aspettandolo, proprio per dargli una ulteriore possibilità; ma lui stava osservando con grande interesse un punto qualsiasi, qualcosa che restava in una zona distante del viale su cui si affacciava il locale, e sempre con il suo passo, mai affrettato, quasi una vera e propria cadenza, raggiunse la sua macchina parcheggiata vicino, e così, senza neppure voltarsi, se ne andò. 

            Bruno Magnolfi

venerdì 14 dicembre 2012

L'uomo contemporaneo, 1.




Per un attimo mi ero specchiato nei vetri lucidi della finestra, muovendomi lentamente ora in avanti ed ora indietro nell’ufficio, ma non avevo propriamente guardato fuori, piuttosto avevo avuto come la sensazione che fosse il fuori ad osservarmi. Poi avevo parlato per brevi monosillabi ai miei collaboratori vagamente imbarazzati, che continuavo a tenere ancora inchiodati di fronte a me, due seduti ed uno in piedi vicino allo scaffale, senza dare troppa importanza a nessuno di loro, o ai loro fogli e ai blocchi per appunti che tenevano tra le mani. Proseguivo piuttosto a guardare dei punti indefiniti, mostrando preoccupazione per qualcosa d’altro, qualcosa che oscillava tra la mia testa e qualche breve telefonata che ricevevo e che in genere mi aggiornava semplicemente sui tanti aspetti del mio lavoro. Avevo posto loro delle domande, naturalmente cambiando più volte argomento, e mi rammaricavo che molte cose fossero rimaste in aria, sospese e quasi in attesa di giudizio: l’accavallarsi dei fatti e delle decisioni nel mio ufficio era comunque sempre stato un elemento del tutto ordinario, perciò non c’era niente da stupirsi.
Poi, durante un’ulteriore telefonata al cellulare, ero uscito dalla stanza, giusto per farmi sentire dagli altri e dare una scrollata eventuale a chi non fosse pienamente impegnato nel proprio compito, e avevo visto così quella persona in sala attese, un ragazzo poco più che ventenne, mentre aspettava il suo turno probabilmente per un colloquio. Non mi piacque, anche se non avrei saputo dirne il motivo, ma per questo decisi subito che lo avrei fatto aspettare più di quanto fosse stato necessario. Tornando verso la mia scrivania alzai un po’ la voce spiegando che non era possibile complicare sempre le cose fino al punto di non trovare più in seguito una via d’uscita. Era una frase riferita a certe squadre di lavoro che per un motivo o per un altro, usando scuse tendenzialmente pretestuose, non completavano mai le cose così come veniva chiesto di fare ai caposquadra, creando in seguito pregiudizio sulla programmazione delle attività. Poi ebbi un vuoto, mi parve di rivivere una stessa situazione, come spesso capita, ma con la differenza che adesso mi pareva con terrore che tutto mi sfuggisse, e di non avere pieno controllo sulle persone. Per questo decisi di essere più duro con quei miei collaboratori scansafatiche.
Feci uscire tutti, dettai degli ordini da eseguire cercando il massimo dell’incisività, poi chiesi a che punto fossero arrivati certi aggiornamenti. Fu risposto con timore che erano indietro, come peraltro già sapevo, così con voce leggera chiesi di lavorare nella serata oltre le venti, per rimediare al più presto alle mancanze. Cambiai argomento prima che si commentasse il precedente, e detti una sferzata critica e generica a tutti coloro che probabilmente pensavano di fare un po’ come pareva loro, almeno secondo me, in modo che ognuno riflettesse bene prima di sollevare qualsiasi obiezione. Infine mi lamentai che niente ultimamente andava come avrebbe dovuto: le squadre di lavoro erano seguite troppo poco, la programmazione era poco definita e lasciata molto al caso, le contabilità spesso erano indietro, i mezzi ed i materiali nuotavano nel caos o nell’abbandono. Tutti abbassavano la testa; le mie parole inchiodavano ognuno di loro: ero sicuro che soltanto così potevo gestirli come volevo io.
            Con molto impegno solo apparente la segretaria continuava nella stanza a fianco a digitare qualcosa sulla sua tastiera del computer, ottemperando all’ordine di eseguire una relazione circa la produzione dell’impresa nell’ultimo mese, e aveva alzato la testa dallo schermo appena per un attimo, quando le avevo chiesto in malo modo e con voce troppo alta le date dei corsi per gli operai sulla sicurezza nei cantieri. Poi aveva riguardato il documento finito, zeppo di note e di cifre, lo aveva riletto svariate volte sostituendo qualche parola e limando qualche frase, lo aveva stampato e con qualche titubanza aveva portato i fogli debitamente spillati tra loro nel mio ufficio.
In quel momento stavo seduto sulla mia poltrona in pelle nera, e continuavo come sempre a discutere al telefono; così avevo allungato una mano senza alzare mai gli occhi dai numerosi fogli e incartamenti che invadevano la mia scrivania, e mi ero fatto consegnare il documento, disponendomi ad osservarlo attentamente. Lo avevo scorso tutto, velocemente, leggendo solo qualcosa e proseguendo la conversazione al telefono, segnalando con un lapis diversi punti da correggere mentre tenevo con la spalla la cornetta incollata ad un orecchio; alla fine lo avevo firmato con la mia penna in ultima pagina, non degnando la segretaria neppure di uno sguardo, neanche per un attimo; lei era rimasta lì, ad attendere istruzioni, ed io infine avevo appeso il telefono. Pausa. Quel documento probabilmente andava bene, pensavo, ma questo era inammissibile, e così le avevo detto: cancelli i miei segni, andrebbe senz’altro migliorato, è quasi illeggibile; purtroppo devo accettarlo, anche se con una certa sofferenza, adesso non c’è più neppure il tempo per renderlo minimamente presentabile.


            Bruno Magnolfi

martedì 11 dicembre 2012

L'incognita.


            Sono una sciocca, riflette Laura mentre torna casa, dopo il lavoro. Me ne vado, le aveva detto lui la sera prima, dopo l’ennesima litigata su cose futili. Lo ha già detto chissà quante altre volte, pensa adesso lei, con un sorriso. E’ una sua caratteristica, quella di volersi sentire sempre libero di fare, di scegliere, di interpretare la vita ad ogni passo, quasi non accorgendosi forse di perdere sempre qualcosa con i suoi modi da eterno ragazzo scapestrato. Non devo stare a preoccuparmi, pensa Laura, anzi: ogni volta che torniamo a fare la pace le cose improvvisamente si mettono ad andare d’incanto, almeno per un certo periodo, non sarà certo differente stavolta.
            L’autobus percorre il viale che attraversa il quartiere dove loro due abitano da quasi tre anni. Lei tra non molto dovrà scendere e farsi a piedi un tratto dove si aprono alcuni negozi. Voglio cucinare qualcosa di speciale stasera, pensa, mentre già immagina il bancone alimentari dell’esercizio dove va sempre, pieno di cose buone da mangiare. Qualcosa che gli faccia capire quanto non sia mia intenzione tenergli il broncio o allungare fin troppo il nostro malinteso. Perché di un malinteso si tratta, e di nient’altro. Lui probabilmente terrà ancora la parte, attenderà sicuramente un minuto o forse due, ma alla fine allargherà il sorriso, come sempre, giusto per dimostrare che la voglia di serenità e di leggerezza non è soltanto mia.
            Strano rapporto il loro, in certi momenti pieno di rancori e di recriminazioni, ed in altri dolcissimo e colmo di coccole e di affetto. A lei piace questa continua alternanza, inutile negarlo: ogni giorno sembra un po’ differente, da interpretare, come se niente fosse scontato, anzi, tutto da prendere solo tramite riflessioni e chiarimenti. Lei è convinta che le cose anche stavolta fileranno via lisce, in ogni caso, e che tra loro due non ci sarà alcuna necessità di tenersi mai troppo a distanza: la loro reciproca alternanza di comportamenti e di umori diversi sarà sempre l’ingrediente principale del loro realizzato rapporto, quello che alla fine li terrà uniti, dalla stessa parte.
            Con questi pensieri scende dal mezzo pubblico, incontra dopo pochi metri una vicina di casa e la saluta cordialmente. Come vanno le cose?, le chiede quella con slancio, fingendo di non apparire curiosa. I soliti alti e bassi, risponde Laura, ma non mi lamento, anzi, stasera mi sento addirittura piena d’entusiasmo, come se, rientrando a casa, trovassi qualche bella sorpresa. Non ti fidare troppo, dice l’altra, gli uomini a volte sanno essere infidi. D’accordo, dice lei, adesso ti lascio. Si ferma al negozio alimentari come aveva previsto per i suoi acquisti, e poi, con la busta delle spese, arriva davanti al portone di casa.
            Ma qualcosa l’ha indisposta, adesso non sa più bene cosa aspettarsi: lui potrebbe addirittura essersene andato veramente, pensa. Poi gira la chiave nella serratura del portoncino che dà accesso al loro appartamento, e lui è lì, seduto, rilassato, addirittura tranquillo. Ciao Laura, dice subito alzandosi in piedi. Sono qui soltanto perché volevo chiederti scusa prima di andarmene definitivamente da questa casa e dalla tua vita.

            Bruno Magnolfi

domenica 9 dicembre 2012

Il collezionista.


            
            Sono un collezionista, inutile negarlo. Ho memorizzato i gesti, le espressioni, i modi di comportarsi e di parlare di decine di persone, e le ho condensati dentro di me, restituendo quasi inconsapevolmente, in ogni momento della mia giornata, una raccolta completa di tutto questo mio lavoro. In tanti anni ho sempre cercato di perdere del tutto le mie caratteristiche più personali, ed ho lasciato spazio a tante altre cose da cui, in un periodo o in un altro, sono rimasto colpito, o che ho semplicemente visto fare o dire da qualcuno. Adesso nessuno di quelli che a volte incontro si accorge di niente, è soltanto una cosa che ha valore per me quella che continuo a portare avanti, e che naturalmente conosco soltanto io, però mi sembra di avere in questo modo un grande rispetto per tante persone che prima o poi sono riuscito a conoscere, e qualcuno di queste magari l’ho visto appena una volta o due, anche se in fondo io cerco semplicemente di memorizzare e di interpretare in qualche maniera soltanto un piccolo frammento dei modi di essere di ciascuno.
            Non ho mai potuto spiegare bene tutto questo perché mi hanno sempre fatto davanti le solite espressioni divertite, prendendomi per uno che probabilmente non ci sta con la testa. Ed invece io qualche volta ho proprio cercato al contrario di spiegare quanto cervello ci volesse per fare una cosa come la mia. Ma non c’è stato niente da fare, e quando ho iniziato a mimare certe piccole espressioni che ho visto fare a più d’uno, ecco che hanno subito pensato che fossi proprio uscito di senno. Il mio è un lavoro da attore, ho detto a voce alta qualche volta, ma nessuno mi ha dato retta, e mi hanno sempre lasciato da solo, ignorato da tutti, a portare avanti il mio nobile lavoro.
            Ho sempre seguito la mia vocazione, per nessun motivo ho pensato di smettere e di lasciare che gli altri iniziassero a guardarmi come una persona qualsiasi. Non perché non volevo esserlo, questo è il punto; quanto perché la mia normalità sta condensata nei gesti e nelle espressioni di tutti, che io ho recuperato per dare ad ognuno perfino una maggiore importanza. Ma perché continuo a spiegarlo ancora, mi chiedo; è bene lasciar perdere, tanto più che mi sento sempre più evitato, e alla fine la mia testardaggine non porterà certo a niente di buono.
            Così esco, vado al caffè, strizzo gli occhi come fa il barista, ma non cerco più di dirglielo, altrimenti mi intima di non entrare più nel suo locale. Allora mi guardo attorno, mi accosto ad un tavolo dove stanno portando avanti una partita a carte. Qualcuno fa una smorfia e mi dice di allontanarmi, perché teme gli porti soltanto sfortuna, ed io lo accontento subito annuendo con la medesima smorfia che mi ha fatto lui. Cosa importa se mi trattano male, penso; alla fine riesco a portare con me qualcosa di loro, senza che neppure se ne accorgano. Mi sento ricco di questo, è come se potessi avere in una tasca tutti loro. Esco dal locale e me ne torno verso casa. Un giorno mi metterò a descrivere in ogni dettaglio i particolari che ho notato nella gente in tutti questi anni. Ne farò un bel libro e poi lo regalerò in giro a quelle stesse persone che me lo hanno ispirato. Sarà la mia rivincita, penso, e forse per allora la mia collezione spero sarà proprio completa.

            Bruno Magnolfi
            

venerdì 7 dicembre 2012

La verità in un attimo.


          
            Il ragazzo guarda attorno a sé, cerca qualcosa o qualcuno che lo faccia momentaneamente sentire un po’ meno solo; finge di cercare qualcosa di necessario dentro una tasca della sua giacca, poi attraversa la strada e va a sedersi su una panchina del piccolo spazio verde ricavato in mezzo alle case. Forse gli servirebbe qualcosa da leggere, pensa, ma non ha niente, neppure un foglio di giornale o un volantino di una pubblicità lasciato in terra o da qualche parte là attorno.
            Conosce quasi perfettamente le parole da dire appena arriverà lei: cercherà di essere cortese, di apparire simpatico senza strafare, di parlare di sfuggita ma in modo lusinghiero di sé, giusto per farle capire chi veramente sia lui, cosa pensi quando è da solo, quale sia la sua vera natura. Poi le dirà dei film che gli piacciono, dei libri che legge, di tutto ciò che gli verrà a mente, insomma.
            Lui non sarebbe mai potuto arrivare in ritardo, pensa mentre guarda il suo orologio da polso, ma con le donne è così. Cerca di concentrarsi su qualcosa di importante, giusto per assumere un’espressione interessante, ma non gli viene a mente niente, e in più quei dieci minuti da quando è in attesa gli sembrano il periodo più lungo che abbia mai dovuto affrontare nella sua vita.
            Poi vede un amico con il suo ciclomotore, si alza, lo chiama, quello si ferma, a lui pare esattamente la salvezza che andava cercando, però pensa subito che non vorrebbe farsi scoprire ad aspettare lei, così lo saluta frettolosamente accostandosi un attimo, scambia giusto una battuta o due, e poi gli dice che ha qualcosa da fare, deve andare via. L’altro riparte, lui spera che la ragazza lo abbia visto, che lei adesso stia proprio arrivando, così si volta attono con circospezione, ma di lei ancora nessuna traccia. Non può pensare che abbia deciso di non venire al loro primo appuntamento, così comincia a riflettere a fondo su questo aspetto, ma gli pare, da qualsiasi parte guardi la cosa, che sia soltanto un’assurdità, qualcosa di stupido, di inaccettabile.
            Torna verso la panchina, ma adesso non se la sente più di sedersi. Vorrebbe quasi sparire, immagina lei da qualche parte nascosta che ride del suo struggimento, e questo è il pensiero più brutto che gli passi dentro la testa. Cerca con uno sforzo di scacciare dalla mente ogni idea triste che gli sia venuta negli ultimi minuti, ma ad un tratto gli prende quasi da ridere: perché mai doveva arrivare davvero, pensa; lo ha detto così, quando le ho chiesto di vederci, giusto per farmi contento. Quando la rivedrò nella scuola dirà che del nostro appuntamento se ne era completamente dimenticata.
            In ogni caso tentare non è stato male, pensa ancora il ragazzo. Ho capito cosa si prova se si tiene a qualcuno, se ci mettiamo in balia dei suoi modi di intendere le cose, dei suoi comportamenti. Continua a camminare a passi lentissimi intorno a quel giardinetto che adesso sente di odiare, poi si ricorda di avere con sé un pacchetto di gomme da masticare; ne scarta una ed inizia a mangiarla, con modi consunti e forse un po’ rassegnati. Infine si volta, ha deciso di andarsene, domani dirà che aveva capito che non sarebbe venuta, era soltanto uno scherzo, certo, e che lui era passato da lì soltanto perché gli rimaneva di strada. Però guarda qualcosa avanti a sé, e lei è lì, veramente.

            Bruno Magnolfi

martedì 4 dicembre 2012

La notte in città.


           
            Allungo una mano nel buio insonne della mia camera. Avverto il vuoto, e l’aria ferma, assieme a quel senso di protezione e di silenzio dato dalle pareti mentre racchiudono lo spazio finito di questa stanza. Mi metto seduto sul bordo del letto, non mi interessa neppure sapere che ore siano, mi basta immaginarmi sperduto come sono tra i sogni e il riposo di tutta la gente che abita questa città. Vorrei spingermi fino ad una finestra, osservare dai vetri la strada vuota rischiarata da qualche lampione, ma non lo faccio, resto qui a pensare al miglior comportamento da seguire appena si sarà fatto giorno.
            Sono una persona comune, penso; uno qualsiasi che persegue una lotta di sopravvivenza per riuscire a conservare se stesso; uno come tutti, un altro tra coloro che si ritengono capaci di avere ancora pensieri propri. Non voglio però sentirmi in balia della solita angoscia di cui soffrono gli altri, voglio reagire, immaginarmi qualcosa di diverso per la giornata che vado ad affrontare, magari sentirmi capace di riflettere a fondo sui gesti e le espressioni che mi appaiono di fronte, quali elementi da interpretare ed a cui almeno provare a dare un significato.
            Resto seduto sul letto, nel buio, ma immagino la stanza, non riuscendo a vederla, molto più grande di quanto lo sia veramente, e mi sento quasi sperduto in questa specie di capannone industriale dove è stato collocato per me questo giaciglio. L’aria adesso sa di lavoro, di persone che affrontano dei sacrifici, di gesti consuetudinari portati avanti nella ricerca di qualcosa che almeno sia di sollievo a questo niente di cui siamo fatti. Osservo il procedere delle cose che mi circondano, tutto mi sembra un assurdo, tanto vale distogliere la mente da questi pensieri.
            Vado alla finestra, la apro, lascio che il freddo mi punga la pelle, ma ancora non riesco a sentire la solidarietà che vorrei manifestare verso tutti coloro che avverto in tutte le case che ho intorno. Mi vesto, scendo per strada, mi pare che adesso tutto sia vivo, che attenda soltanto il momento in cui l’ingranaggio riparte, che la macchina ritrovi il suo moto. Corro, mi metto ad urlare lungo la via come fossi uscito completamente di senno. Nessuno mi ferma, vado avanti a sentire il freddo della notte sopra la faccia, sento la disperazione farsi largo nella mia testa. Infine mi fermo, mi accuccio per terra, spossato: spesso la realtà è incomprensibile, penso; adesso mi sento figlio di questa incomprensibilità, e anche di tutta questa follia.

            Bruno Magnolfi

sabato 1 dicembre 2012

Un saluto frettoloso.


            Forse, in tanti anni, ho soltanto cercato delle varianti, degli argomenti alternativi, delle possibilità differenti, che mi permettessero di non vedere quello che ero veramente, pensa Ernst; e tutto questo almeno fino a quando non ho conosciuto te, che mi hai fatto scoprire, soltanto con uno sguardo, la semplice umanità da cui ero composto.
            Poi lui esce dalla stanza, s’incammina verso la strada che lo attende, non si volta indietro, ciò che aveva da dire lo ha già detto, chiude la porta alle sue spalle ed improvvisamente ha la coscienza di essere da solo, come se questo stato fosse un vantaggio e non un limite. Guarda la campagna che si snoda avanti a sé, respira l’aria fresca che lo accompagnerà, e infine si avvia, senza alcun ripensamento.
            Lei lo osserva con distacco dalla sua finestra: quando lo rivedrà saranno ambedue diversi, non si può far niente per evitare tutto questo; tanto vale cercare di raccogliere tutti quei piccoli elementi positivi che possono quasi per gioco essere rimasti impigliati nella personalità di ognuno, e in questo modo archiviare il vissuto sotto l’egida dell’esperienza, perché nient’altro è possibile pretendere.

            Bruno Magnolfi