martedì 31 maggio 2016

Pazienza innata.

          

Mia sorella credo sia la persona migliore del mondo. Certe volte per dire la verità non mi tratta molto bene, anzi mi sgrida, muove le braccia, mi dice urlando delle brutte parole, e poi spesso aggiunge subito come dovrei comportarmi secondo il suo modo di vedere le cose. Ma dopo poco le passa ogni sfuriata, ed in seguito riesce sempre a neutralizzare tutto quanto, persino il disordine che quei confusionari dei suoi figli piccoli sono capaci di lasciare per tutta la casa dietro di loro; e poi bisogna anche dire che è brava, indubbiamente, ed è sempre pronta a metterci a tavola tutti e in silenzio, con le sue minestre belle calde e abbondanti.
Certe volte esco, specialmente durante le mattinate che mi sembrano sempre un po’ troppo lunghe. Cammino in avanti da solo, senza fermarmi, quasi senza fare caso a ciò che c’è intorno, fino ad arrivare alla piazza. Ci sta sempre qualcuno lì che discute, che tenta di parlare a gran voce degli argomenti più disparati, perciò, senza neanche guardare in faccia nessuno, io mi metto da una parte ed ascolto quello che le persone presenti hanno da dire. Non c’è niente di male, penso mentre mi stringo una mano nell’altra, se cerco semplicemente di starmene qui seduto su una di queste panchine, fermo senza dare fastidio, ad ascoltare qualcuno che spesso riesce anche ad accalorarsi su un argomento o su un altro. Mi trattengo poco, di solito, una mezz’ora circa al massimo, perché veramente non vorrei farmi notare troppo da queste persone, e così, mentre poi me ne torno verso la casa di mia sorella, mi fermo dal fornaio quasi ogni volta a prendere un filone di pane. Soldi con me non ne ho, il negoziante però mi conosce e lo sa, e sa che in seguito passerà da lì mia sorella a regolare le cose, e per me va bene anche in questa maniera.
Qualcuno giù in piazza mi ha chiesto un giorno come mai mi lascio trattare in questa maniera, ma con me sono discorsi senza alcun seguito: sorrido, alzo le spalle, in certi casi fingo addirittura di non capire, così a nessuno viene in mente di insistere. Sono un timido, penso, qualsiasi cosa preferisco tenerla per me, così passo sempre per uno che non riesce neppure a parlare, ed in questo modo nessuno insiste nel darmi fastidio. Uno di questi giorni spiegherò davvero a qualcuno che me lo chiede tutto quello che penso; probabilmente muoverò attorno le braccia come fa mia sorella, dirò a tutti che in giro c’è sempre una gran confusione, che è ora di finirla, non si può ancora accettare passivamente delle cose del genere.
Dobbiamo cambiare, ecco quello che avrei tanta voglia di dire; cercare di essere migliori di come siamo: smetterla di accapigliarci per delle cose insignificanti. C’è una sostanza più importante di qualsiasi altro aspetto, che a volte ci sfugge, che sembra un elemento del tutto secondario, mentre non è affatto così. Quando torno verso casa di mia sorella, con il mio pane incartato sotto ad un braccio, so che qualcuno si sta preoccupando per me, e che anche stavolta mi piazzerò seduto alla tavola insieme a tutta la nostra grande famiglia, per apprezzare quella minestra che è stata preparata per tutti, sempre in silenzio, senza dare fastidio a nessuno. Sono ancora disposto ad essere sgridato, rifletto alla fine, forse lo merito; ma so per certo che cercherò di migliorare, di togliermi di torno questi difetti che so perfettamente di avere. E poi guarderò un’altra volta mia sorella, e apprezzerò nuovamente tutta quella pazienza che riesce ancora ad avere con me.

Bruno Magnolfi


venerdì 27 maggio 2016

Uniformità della critica.

           
            Dentro ognuno di noi, certe volte, c’è come un silenzio meraviglioso; si forma quasi fosse un vuoto improvviso, una mancanza apparentemente incomprensibile, ma che di colpo permette la nascita di pensieri liberi e puri. Non dura molto, dice lui di fronte alla sua piccola platea di persone comuni, eppure quello è un tempo già sufficiente a far nascere nuovi desideri, e ad infondere con naturalezza la semplice volontà di essere diversi da come effettivamente noi siamo. 
            Si muove leggermente, restando seduto da solo al tavolino sul palco, mentre abbassa gli occhi sulle sue carte. Lo conoscono tutti là dentro, ma questo non ha alcuna importanza. Lui riesce ad essere sempre diverso, ed a porre degli interrogativi che suonano sempre come del tutto nuovi. Beve un po' d'acqua, si schiarisce la voce, infine torna ad avvicinarsi al microfono. Dobbiamo cercare di andare tutti nella medesima direzione, dice, se vogliamo ottenere qualcosa, ma ciò non significa che ciascuno di noi nel corso di questa operazione debba perdere obbligatoriamente la propria personalità. Qualcuno applaude sommessamente ma con impegno dal fondo: il fatto che lui in questo modo dia ancora importanza all'individuo, è apprezzato come un grande elemento di generosità, ed anche di rispetto, proprio perché in quelle parole sostanzialmente si salvaguarda anche il singolo, il pensiero personale, ed è forse questo un punto centrale nelle sue conferenze.
Dalla terza fila però un tizio si alza, sistema con calma il soprabito sul braccio, poi si incammina per il corridoio, con l'evidente intento di andarsene. Lui si interrompe, lo guarda, forse non riesce a comprendere un gesto del genere proprio nell'attimo forse più pregnante della serata. Il silenzio che si crea porta quell’uomo a girarsi, a dare un’ultima occhiata verso quel tavolino illuminato, nello stesso esatto momento in cui lui gli chiede provocatoriamente dal palco se per caso lo avesse annoiato. Il tizio si ferma, guarda qualcosa tra le sue mani, poi dice sorridendo che non è questo il punto: mi aspettavo qualcosa di diverso, spiega con voce forte e abbastanza chiara. Qualcuno alle sue spalle subito mormora, e così gli viene chiesto che cosa di preciso doveva essere differente, secondo lui.
Non ha alcuna importanza il mio parere, dice tranquillo; tanto qua dentro, bene o male, stanno tutti dalla stessa parte. Il fatto è che mi pare oggigiorno si vada ad ondate: si inizia a dire e a comportarsi in un modo, e tutti paiono seguire come automi quello stesso esatto modello. In questo schema personalmente non credo affatto, e comunque è il contrario di ciò che si è detto, visto che il parere singolo non risulta abbia ancora qualche possibilità di emergere: dobbiamo uniformarci, questo è ciò che realmente viene richiesto, al contrario di ciò che subdolamente viene spiegato, e spesso si cerca il collante di tutto più nella critica che nell’apprezzamento.
Dal palco lui sostiene subito che questo non è vero, che si portino esempi per mostrare meglio una convinzione del genere, che si capisca, una buona volta, che la gente ha sempre ragione quando inizia ad avere la medesima idea. Ma il tizio con calma indossa il suo soprabito, fa un gesto tranquillo di saluto con una mano, e poi riprende a guadagnare l’uscita, in silenzio, anche se ormai nella sala regna soltanto un brusio alto e indistinto, che forse dovrebbe essere cavalcato da chi tiene ancora in mano il microfono. Ma in quel momento qualcun altro si alza, discute con voce più forte degli altri, e si perde in un attimo quell’attenzione religiosa che c’era fino a qualche attimo prima, fino a che in diversi, seguendo l’esempio, iniziano a spostarsi verso il fondo, per andarsene via.


Bruno Magnolfi  

mercoledì 25 maggio 2016

Proprio spettacolo.

          
            Non mi sento a posto, dico alla mia assistente con voce bassa e sofferta mentre siamo finalmente da sole nel camerino. Non sto troppo bene, tutto qui, anche se non capisco assolutamente cosa sia che non vada esattamente come dovrebbe. Mi guardo dentro lo specchio, ritorno a pulirmi un’occhiaia con del cotone imbevuto nel latte detergente, come se asciugassi la lacrima di un pianto che certamente non ho fatto. Lei intanto mi pettina con le mani i capelli, in silenzio, quasi per rassicurarmi, poi dice in un soffio che mancano ancora venti minuti prima di salire sul palco, e che c’è tutto il tempo che serve per riprendere appieno l’energia che ci vorrà, senza alcun dubbio.
            Qualcuno bussa alla porta, dei fiori, il direttore dice che siamo al completo, mette appena la testa dentro al pertugio, sorride, infine spiega a se stesso che tutto andrà bene, perfettamente, poi se ne va: le donne, pensa, sono strani animali; difficile comprenderle appieno. Ho voglia realmente di piangere, ma non per paura o per qualche difficoltà nel mostrarmi anche stasera al mio pubblico. Piuttosto, non mi sento a mio agio, qualcosa di me sta da qualche altra parte, è come se dovessi affrontare qualcosa mentre tutto non fa altro che spingermi altrove.
            Mi giro, ma soltanto per non dover guardare ancora la mia stupida espressione riflessa diventata ormai insopportabile: sorrido a denti stretti, poi dico che ho semplicemente bisogno di un buon caffè bello forte, anche se è soltanto uno stratagemma per rimanere qualche minuto da sola. La mia assistente capisce al volo la situazione, cosi chiama qualcuno al telefono, e mentre evita di guardarmi chiede sottovoce nella cornetta che mi si porti rapidamente quanto io chiedo. Va bene, le dico: non ricordo più niente di quello che dovrò fare, mi sento stralunata, credo proprio che stasera non riuscirò ad essere quella di sempre. Invece sarà perfettamente all'altezza della sua fama, dice lei immediatamente, anche se senza alcuna convinzione; ed anche se toccasse proprio a me cercare di convincerla di questa semplice verità, lei riuscirebbe alla fine, ed in qualsiasi caso, a fare come sempre la cosa migliore possibile, ed a farla senz’altro di testa propria.
Resto praticamente ferma, colpita da questa frase; arriva il caffè, lo lascio freddare sul tavolino mentre continuo a riflettere. Mai improvvisare nel mio lavoro, questa la regola principale, tutto è soltanto studio e applicazione, immedesimarsi, sentirsi qualcun altro, ripetere alla nausea la parte, ed io forse mi sento semplicemente stufa di tutto questo. Ripasso mentalmente qualcosa, quasi per abitudine, o giusto per tentare di riprendere in mano questa situazione che rischia di degenerare, ma infine mi alzo, prendo un sorso disgustoso del mio caffè, guardo col consueto terrore la porta che mi sta davanti. L'assistente sistema il vestito, io vado avanti di un passo, come un automa. Apro, sulla destra ci sono i gradini che portano verso le quinte, dalla parte opposta le uscite di sicurezza. Chiudo l’uscio alle mie spalle, per un attimo sono sola nel corridoio, potrei azzardare una pazzia, dare prova di me, della mia personalità, dei miei dubbi, rovesciando ogni cosa sul triste spettacolo della mia disfatta, ma non mi sento all’altezza neppure di un gesto del genere.
Arriva la mia assistente, giusto con quell’attimo di ritardo calcolato che riesce a concedere, poi mi tocca su un braccio, ha capito perfettamente il mio dramma, forse lei potrebbe stare addirittura dalla mia parte, penso, così mi volto, e la guardo, perciò lei mi sistema con calma una ciocca di capelli sopra la fronte: è il segnale, devo ormai andare avanti, non è questo il momento dei ripensamenti, così sorrido, mi muovo come sempre, metto un piede sul primo gradino; e poi vado.


Bruno Magnolfi

lunedì 23 maggio 2016

Alias.

            

            Respiro, forse un po’ troppo affannosamente, e difatti qualcuno che incontro per la strada mi osserva con una certa intensità, quasi immaginasse di vedere un ladro che ha appena messo a segno un colpo ai danni di qualche negoziante della zona. La giornata appare una semplice fotocopia di mille altre giornate, e anche l’aria sembra praticamente immobile e ricca come al solito di impurità, nella stessa esatta maniera delle persone che mi vedo intorno, mentre si preoccupano di dare l’impressione di essere come sempre le medesime. Spicco delle piccole corsette, ogni tanto, giusto per darmi qualche importanza, poi però mi fermo e infine cerco di respirare a fondo, ma solo  per riprendere appena un po’ di fiato. In certe occasioni, per camuffare la mia asma, fingo addirittura di avere dei problemi ad una gamba, e così mi metto a zoppicare, poi strascico un piede, mi abbraccio le ginocchia mostrando del dolore, e qualche volta non posso fare a meno anche di lamentarmi a voce alta. Non ci sono veri problemi, dico spesso tra me per confortarmi: tutto va avanti in qualche modo, e l’importante è la capacità di stabilire ciò che davvero abbia ancora un senso.
Poi mi volto, considerato che davanti a me in questo momento non c’è proprio più nessuno, e vedo un tizio che mi segue fingendo peraltro una certa indifferenza, così penso che forse le mie riflessioni per qualcuno risultano perfino più importanti di quanto mi sarei mai atteso. Perciò volto ad un angolo, riprendo a camminare rapidamente lungo la mia strada, e così facendo cerco di far perdere velocemente le mie tracce, anche se immagino subito e con certezza che non mi riuscirà molto facilmente. Corro, zoppico, mi fermo, guardo da ogni parte cercando la salvezza, e poi riprendo il mio passo regolare, ma chi mi sta seguendo è ancora lì, dietro di me, alla ricerca di qualcosa che forse non mi appare neanche chiaro, anche se oramai so quasi per certo che i miei pensieri sono già stati intercettati e decodificati.
Infine decido di affrontarlo una volta per tutte: mi giro verso di lui, lo fronteggio, aspetto con fermezza che mi arrivi più vicino, prima ancora di dirgli con voce calma e decisa che le cose stanno cambiando in modo rapido, e che non c’è da aspettarsi niente di buono da certi sconosciuti incontrati per la strada, ma le mie parole pronunciate a mezza bocca sembrano non portare proprio a niente. Quello sta zitto, però mi guarda, sembra quasi una persona senza alcuna caratteristica, uno come potrebbe essere chiunque, che magari soltanto per capriccio sarebbe capace di fare di me qualsiasi cosa. Così riprendo a camminare in balia dell’apprensione, con quest’individuo che adesso sembra starmi ancora più vicino, appena pochi metri dietro me, mentre prosegue imperterrito col suo evidente obiettivo di inseguirmi, usando una sempre più apparente indifferenza.
Entro in un bar, e di nuovo provo l’affanno di sempre, così mi guardo attorno per prendere del tempo, e per abitudine ordino un caffè al barista senza neppure averne voglia. L’altro mi viene dietro, si accosta al bancone dove io mi trovo, ma evita testardamente di guardarmi, anche se io so che sta ancora captando tutti i miei pensieri, lasciandomi in balia dei suoi voleri, preda di un meccanismo che in poco tempo annullerà ogni mia voglia e qualsiasi tipo di entusiasmo.
Addolcisco il mio caffè, mentre quello intanto chiede un'informazione al cameriere, forse per sviare in qualche maniera tutte le mie illazioni, e infine esce dal locale senza più guardare verso la mia parte. Ha già saputo con rapidità ciò che gli interessava maggiormente, rifletto, ed oramai i miei piccoli segreti non sono più neppure tali. Esco velocemente anche io da là dentro per ritornare sulla strada, ma del tizio intorno non c’è più nessuna traccia, ed allora subito riprendo come prima a zoppicare: devo trovarmi una nuova copertura, penso con una certa determinazione; qualcosa che provochi maggiori difficoltà a chiunque voglia sapere qualcosa su di me; non posso continuare a starmene in giro cosi stupidamente.


Bruno Magnolfi

mercoledì 18 maggio 2016

Davanti agli occhi

         

            La macchia sopra al muro tende ad espandersi, praticamente ne sono certo. Anzi, sono sicuro che  in questo momento è senz’altro molto più grande di qualche tempo fa, anche se adesso sembra costituita solamente da una leggera ombreggiatura, evidenziandosi come una chiazza leggermente scura ed omogenea, che però dimostra, almeno secondo me, quanto qualcosa di vivo e di vegeto stia lentamente lavorando appena sotto la superficie dell’intonaco, e lo faccia in maniera del tutto indisturbata. Mio genero, quando l’ho informato su quanto stava accadendo, ha detto solamente che secondo lui non c’era proprio nessuna parete della casa da dover rimbiancare, e la medesima cosa hanno immediatamente detto anche tutti gli altri componenti della mia famiglia, alzando perfino le spalle subito dietro ogni mia indicazione.
            In certi giorni poi a me pare addirittura che si muova quella macchia. Mi piazzo là seduto, nella stessa posizione di ogni volta, e vedo quei contorni che si aprono, lentamente si slabbrano, mandano in avanti piccole lingue come in avanscoperta, e infine richiudono con calma tutti gli spazi guadagnati, riprendendo in seguito la stessa forma rotondeggiante che quella chiazza in fondo ha sempre avuto. Adesso non dico più niente a nessuno, naturalmente, tanto non riesco ad ottenere dagli altri un bel niente, però proseguo a tenere quella macchia costantemente sotto controllo, ed è come se nella mia testa ogni giorno si formasse un’immagine precisa e pressoché duratura di ciò che si mostra sul muro, tale da essere confrontata per sovrammissione a quella che vedo nel momento che ritorno a guardarla.
            Confronto le immagini di quella macchia, ogni volta che posso, e mi accorgo subito con certezza che qualcosa è cambiato, e che mille sottili peduncoli hanno fatto lentamente la loro comparsa, variando le proporzioni, la forma, le sfumature, ed in certi casi anche il colore di tutto quell’insieme. La mia famiglia mi controlla mentre osservo ancora la parete, ed ho quasi l’impressione che tutti loro non riescano neppure a distinguere le differenze di pigmentazione che si sono prodotte nel tempo sopra quel muro: forse pensano che la mia sia soltanto un’invenzione per attirare il loro interesse, o che io riesca a vedere qualcosa che per loro è del tutto impossibile.
            Così ho immaginato di fingere un certo distacco da quell’impronta, e di lasciare che la vita di quell’intonaco proseguisse ad avere un suo corso, un’esistenza del tutto autonoma da qualsiasi attenzione le si possa prestare, e con tale intento mi sono perciò imposto di disinteressarmi del tutto di quella macchia, ed al centro della stessa parete piazzare con del nastro adesivo un cartoncino che avevo da parte, uno di quelli con un disegno qualsiasi stampato sopra. Per qualche giorno tutto è parso andare piuttosto bene, ma ad un tratto mi sono accorto che la carta magicamente aveva iniziato a cedere: da un lato si era un po' deformata, dall’altro le increspature parevano seguire ogni irregolarità della superficie del muro, e nell’insieme il quadretto stava lasciandosi modificare perfino nell’immagine che c’era disegnata.
            Allora ho compreso che non era più possibile andare avanti così; perciò, di nascosto a chiunque, sono uscito da casa, e in un negozio vicino ho acquistato con i miei pochi risparmi una densa vernice rossa, la tonalità più sgargiante che sono riuscito ad avere, e con un pennello sono subito andato a spalmare di colore tutta la zona della parete. Adesso secondo me va tutto molto meglio: la macchia è ricoperta da una macchia maggiore, molto più forte, più spessa ed anche estremamente evidente, e quindi mio genero, anche se inizialmente si è parecchio arrabbiato, in seguito ha alzato le spalle, disinteressandosi di tutto, ed io in quello stesso esatto momento ho compreso che non c’era da provare più alcuna paura; ho vinto, rifletto ancora adesso, non ci sono assolutamente dei dubbi.


            Bruno Magnolfi

lunedì 16 maggio 2016

Cattive attività.



Ci sono stati anche dei periodi peggiori di questo, fa lui, perciò non dobbiamo adesso lamentarci troppo se le cose vanno così. La ragazza lo guarda soltanto per un attimo: a dire la verità lei non li ha conosciuti mai quei periodi di cui stanno parlando adesso, è troppo poco tempo che lo frequenta, in ogni caso prende per buono quello che le viene detto, e così resta in silenzio. Lui sorride: vorrei tanto poterti portare via da questo posto, le dice addolcendo la voce; ma ci vuole pazienza, dobbiamo aspettare l’occasione propizia.
Lei allora si volta, guarda qualcosa fuori dalla finestra, forse si sente già da un’altra parte, lontano da quell’appartamentino all’ultimo piano, così non replica niente, anche perché ha già ascoltato altre volte quella frase, però sente in profondità che le loro strade giorno dopo giorno proseguono a divaricarsi, senza che neanche si possa trovare un motivo preciso per cui questo stia davvero accadendo. Forse ho conosciuto un altro tizio interessato ai tuoi quadri, gli dice lei alla fine per cambiare argomento, e come cercando di riaccendere qualcosa. Ho fatto vedere in giro le foto che avevo, e questo tipo ha detto subito che gli piacerebbe molto visionare le tele. Ho il numero di telefono, se vuoi possiamo chiamarlo, e poi che ne so, dargli magari un appuntamento.
Tutto è persino troppo banale, fa lui; ritrovarsi così ancora nelle mani di gente disposta a sborsare dei soldi per qualche brandello di creatività, e genuflettersi continuamente di fronte ad un mercato che sempre più spesso è soltanto commercio, senza nessuna vera competenza. L’arte deve uscire al più presto dalla storpiatura dei soldi. Chi si sente creativo deve avere un lavoro separato, non c’è altro da fare, qualcosa che gli dia il sostentamento, l’autonomia economica, e così riuscire a produrre in seguito ciò che gli va, operando magari la domenica e nelle proprie ore libere, ed anche con tutto l’impegno che riesce a trovare, ma separatamente da qualsiasi possibilità di divenire forse un giorno ricco e famoso. Devo iniziare a regalare tutti i miei quadri, aggiunge, fino all’ultimo, e trovarmi un semplice lavoro serale di lavapiatti in qualche ristorantino turistico.
Lei torna a guardarlo con simpatia: le piace quando parla così, vorrebbe tanto che lui fosse al di sopra di tutte queste attività materiali, e forse in qualche modo riesce anche ad esserlo qualche volta, anche se poi come gli altri deve scendere a dei compromessi che sicuramente gli pesano più che a chiunque. Purtroppo, lo sai già, gli dice per rimarcare un punto a cui tiene, non posso chiedere ancora dei soldi alla mia famiglia, bisogna trovare una maniera diversa per provare a tirare avanti. E poi so per certo che tu, dopo quanto è accaduto, non accetteresti più un aiuto da loro, neanche in certi casi estremi come forse può essere questo.
Hai ragione, dice lui, continuiamo a parlare senza che questa mia attività ci porti realmente da qualche parte. Ma non importa, viviamo anche questa giornata come fosse l'ultima, smettiamola di amareggiarci, tanto non può servire più a niente. D'accordo, fa lei, potremo andar fuori a vedere qualcosa, per esempio una piazza o magari una chiesa, quello che vuoi; oppure metterci ad un tavolino all'aperto in una delle nostre osterie, e starcene li come altre volte, giusto per salutare gli amici. Va bene, fa lui, per l’occasione ho anche una piccola tela che ho messo giù in questi ultimi giorni, potremo portarla con noi, tanto per farla almeno vedere. Si, fa lei più radiosa, io sono pronta, però se non riesci a vendere neppure questa, non ti arrabbiare come l’ultima volta: la gente a volte è cattiva, anche se non si rende neppure conto di esserlo davvero.


Bruno Magnolfi

mercoledì 11 maggio 2016

Posizione d'angolo.

            

            Sto nascosto, non posso fare altrimenti. Lo so che mi tengono d’occhio, che mi scrutano di continuo mentre con apparente indifferenza transitano lungo il corridoio, ma io spesso riesco a sfuggire ai loro controlli, e ad infilarmi nell’angolo tra il muro e l’armadio, dove non possono certo vedermi, per poi restarmene lì, anche per un tempo lungo, ed attendere con grande pazienza che tutto si calmi. Devono lasciarmi stare, penso mentre rimango nel riparo che mi sono inventato, perché io non cerco nessuno, non ho bisogno di alcuna persona per evitare di mettermi di nuovo nei guai, o di combinare qualcosa che loro, chissà mai perché, reputano subito di gravità enorme. Non ho più voglia di niente, ecco il punto, se non di questo starmene solo, a ripensare con calma alle mie piccole cose, e magari farmi venire qualche idea, nient'altro che questo.
            Mi chiamano per il solito colloquio settimanale. Rido, dico cose senza capo né coda, mi va semplicemente di fare lo spiritoso, così rovescio un contenitore con le penne e le matite sopra la scrivania del capo, proprio per vedere cosa mai possa accadere, ma lui subito si arrabbia, dice che lo faccio apposta e che devo stare buono con le mie mani, perché se lui vuole in cinque minuti mi può far perdere la voglia di fare tanto il divertente che credo di essere. In seguito chiede il motivo per cui dopo tutto questo tempo che sono là dentro continuo a nascondermi, ma io anche se ci penso non riesco proprio, di fronte a lui, a trovare una buona ragione per cui davvero mi comporto così. Però non posso certo negargli, quando lui me lo chiede, di non sopportare più che qui tutti controllino continuamente cosa mai io stia facendo, e che la mia giornata spesso risulti pesante con gli occhi di questa gente sempre sopra di me. Allora vorresti dagli altri una maggiore fiducia, fa subito il capo; che ti lasciassero fare quello che ti va senza alcuna sorveglianza, e magari batterti una mano sopra la spalla quando qualcuno di loro ti incontra nel corridoio.
Mi piacerebbe non essere qui, dico io con sincerità, per rispondere usando lo sprezzo che provo alla sua provocazione; ma soprattutto vorrei che mi lasciassero stare, ignorarmi del tutto anche quando mi metto soltanto a pensare qualcosa dietro l'armadio, che poi è il posto di gran lunga dove mi piace stare di più. Se me ne rimango in quell’angolo, dico, ho le mie buone ragioni per farlo, non infastidisco nessuno, non capisco perché devo rispondere alle domande che gli inservienti continuano a pormi. Che cosa dovrei fare, mi chiedo, magari lasciarmi vedere da tutti mentre vado in allegria insieme agli altri a perdere tempo nella sala comune? Il capo scuote la testa, lo so che non l’ho certo convinto, lo vedo persino dalla sua espressione scontenta, perché lui forse se lo immagina che quando io rimango da solo, sono capace di progettare degli attentati per stendere tutti e alla fine andarmene via senza voltarmi all’indietro. A nessuno però va bene che davvero io vada via, perché loro mi vogliono qui, anche questo capo di tutti, nonostante mi dica che se mi comporto come si deve ci posso facilmente riuscire; lui e tutti gli altri vogliono soltanto che io stia qua dentro, continuamente sotto controllo, come uno qualsiasi di quelli che girano in questo posto, e che non hanno dentro la testa alcuna capacità per capire che cosa ci sia veramente da fare.
Certe volte mi chiedo persino se tra tutti quelli che restano in questo luogo da infami, qualcuno abbia coscienza di essere soltanto la pedina di un meccanismo fatto apposta per mettere sotto sorveglianza la gente come siamo noi altri, perché i nostri pensieri forse preoccupano i capi, in quanto sfuggono ai disegni finali di tutti, ed allora la gente come me va tenuta ben ferma, immobile, guardata a vista, e soprattutto vanno scrutati continuamente i piccoli gesti che fa, in modo che non possa mai nuocere. Ma io torno a nascondermi dietro l’armadio ogni volta che posso, è forse una mia fissazione, ed una volta o quell’altra sono sicuro non riusciranno a trovarmi neppure là dietro: sarò andato via, qualche volta, da un’altra parte, lontano persino da quel mio angolo.


Bruno Magnolfi

lunedì 9 maggio 2016

Decisioni irrevocabili.

        
            Fra qualche giorno anche la nostra migliore operatrice dovrà ripartire, dice il dirigente dell’oennegi alla sua segretaria. Mi dispiace, prosegue, perché il suo lavoro anche qui, fino a questo momento, stava comunque dando degli ottimi frutti. Ma è una sua richiesta precisa quella di stare tra la gente medio orientale a definire ogni sua attività, senza alcuna variante. Ha coraggio, questo è il punto, e sa che lo scacchiere internazionale dei diritti dell’uomo si gioca proprio a quel tavolo. La segretaria sorride, sa bene di chi stanno parlando, così scrive qualcosa sul suo piccì, e poi chiede: in quanti andranno stavolta? Sono soltanto in quattro, dice lui, ma gli altri tre sostanzialmente sono soltanto degli accompagnatori, perché purtroppo non abbiamo i fondi per destinare più di una persona altamente qualificata in quella zona.
            Fuori dal piccolo ufficio qualcuno sta parcheggiando la proprio auto sullo spiazzo di fronte, e quando la donna scende con calma dalla vettura si capisce già ad una certa distanza che è lei, con un piccolo faldone di carte sotto ad un braccio, e la faccia di chi ha già definito tutte le sue decisioni. La porta vetrata è già aperta quando arriva fin lì, ed il dirigente le stringe immediatamente la mano, la invita ad entrare, poi ambedue vanno a sedersi ad un tavolo. Non ci sono particolari novità, le spiega subito: il lavoro da fare, una volta giunta sul luogo, è sostanzialmente sempre lo stesso. Il telefono satellitare resta l’anello di congiunzione tra loro, perciò deve essere sempre ben conservato, come fosse la sua unica possibilità di salvezza in caso di guai.
            Lei osserva qualche carta: ultimi dispacci d’agenzia, alcune notizie non confermate, informazioni varie di diverso genere che possono tornarle utili in qualche maniera, il tutto all’interno di quel mondo ostile che valuta il prezzo di una persona anche per ciò che può essere disposta a rischiare. Non c’è molto da dire, aggiunge lui: ogni cosa andrà aggiustata dal momento in cui sarà giunta sul luogo della sua attività, quando il confronto immediato con i suoi colleghi sul posto la metterà al corrente delle cose che ancora le restano non molto chiare. 
Da quando lei è stata da quelle parti l'ultima volta, le attività della oennegi sembrano avere avuto un'evoluzione sostanzialmente negativa, per questo ogni mossa adesso va maggiormente meditata, e le relazioni sul luogo pesate con grande destrezza. Il dirigente la guarda, forse prova anche un attimo di commozione per lei, sostanzialmente per i rischi a cui si sottopone partendo, e anche per le difficoltà della sua missione; poi però mette sul tavolo una busta con dentro i biglietti, i documenti, i soldi, l’elenco dei contatti da prendere subito, una volta giunta sul posto, ed ogni altra informazione utile a ciò che lei si troverà ad affrontare. La donna sorride, sembra già pronta, praticamente non c'è più niente da dirsi, almeno per il momento, e persino la segretaria distoglie gli occhi dal suo schermo per darle un’occhiata che equivale a un saluto.
Non preoccupatevi, dice lei sorridendo; so badare alla mia persona. E dal mio punto di vista credo sia assolutamente peggiore restarmene qui, piuttosto che andare; so quali siano i miei compiti, e ritengo di essere davvero me stessa soltanto assolvendoli. Per questo sono contenta di essere di nuovo pronta a partire: in fondo, questa che vado di nuovo ad affrontare, è semplicemente la vita che ho scelto, quella per cui mi sono preparata a lungo e con grande pazienza; non posso certo negarmi adesso alla prosecuzione di ciò in cui ho sempre creduto. Per questo alla fine devo proprio andarmene: in fondo forse è l’unica cosa a cui tengo davvero.


Bruno Magnolfi

venerdì 6 maggio 2016

Progetto sbagliato.

            
Potrei forse arrivare fino alla fine di tutta questa strada diritta e antipatica, se soltanto lo volessi: poi fermarmi davanti alla sua finestra e magari restarmene li, ad attendere gli eventi possibili. Lei, con ogni probabilità, ad un tratto si potrebbe affacciare, come per rendersi conto del tempo che fa, oppure se magari è più caldo o più freddo di quanto ha già immaginato. Senz’altro rimarrebbe stupita vedendomi, magari potrebbe abbozzare un sorriso, chissà. Invece io evito anche oggi di arrivare fino a quel punto, e mi fermo ad una distanza di almeno un buon centinaio di metri, restando lì un attimo appena, giusto il tempo che serve per immaginarmi qualcosa che probabilmente sa soltanto di consolatorio, anche se poi riflettendo mi lascia assaporare ancora una volta il gusto amaro del niente, perché alla fine, in questa maniera, non faccio altro nella realtà che allontanarmi da ogni mio vero proposito.
Rientro a casa, masticando qualcosa che adesso nella mia fantasia sembra almeno in parte compiuto, anche se non lo è; ma immaginare lei che magari in questo stesso momento resta ferma in casa sua ad attendere qualcosa che non sembra proprio arrivare, mi fa sentire comunque al di fuori dalla sintonia di questa giornata, come se soltanto per una mia colpa, niente fino ad ora fosse successo. Inizio così, come altre volte è capitato, a scrivere almeno una frase sopra un biglietto che in seguito quasi sicuramente potrei strappare, come tutti gli altri biglietti che ho cercato di mettere assieme nei giorni passati, per andare ad infilarli in qualche maniera tra la sua posta; messaggi che servono soltanto, almeno in parte, a scaricare il mio bisogno continuo di comunicazione con lei. Vorrei tanto vederti, le dico sul foglio; ma forse in fondo se ci penso non provo neppure tutto questo bisogno: mi basterebbe sapere, le scrivo, che certe volte ti affacci alla tua finestra, che scruti ogni tanto l’orizzonte che vedi da lì, per sincerarti se tra tutte le persone che stanno girando sul marciapiede di fronte, non ci possa per caso essere anch’io, perso in mezzo ad altre persone, proprio come uno qualsiasi, senza alcuna pretesa di essere notato da te per un qualche motivo.
Infine torno ad uscire di nuovo da casa, e ad incamminarmi verso la parte opposta da dove abiti tu: non posso lasciarti pensare che in tutti gli individui che incontro continuo a cercare di te. Perciò mi distraggo pensando che forse di persone come sei tu ne posso incrociare lungo le strade tante quante ne voglio. Due ragazze per esempio ridono tra loro mentre passo vicino a dove si trovano: forse qualcosa nel mio modo di camminare e di guardarmi attorno tradisce le mie aspettative, rifletto. Non ha alcuna importanza, penso dopo con calma; in fondo basterà soltanto far passare del tempo e tutto sarà presto dimenticato, come la tua finestra, sempre più piccola, lontana nei miei pensieri, fino a ridursi ad un piccolo punto in fondo alla città. Rientro, imbocco la strada che porta al mio appartamento, vicino al palazzo già tiro fuori le chiavi per aprire il portone, appallottolo in mano il biglietto che avevo preparato ben ripiegato dentro una tasca, e tu eccoti qui, che mi aspetti, come se ogni mio desiderio fosse diventato anche tuo, reciprocamente.

Bruno Magnolfi


mercoledì 4 maggio 2016

Al limite.

        

            Certe volte mi pare di non avere niente da dirti, fa lei; è come se ci fossimo già detti tutto, ed ogni parola adesso fosse soltanto una ripetizione scialba ed inutile di qualcos’altro. Poi sbuffa, muovendosi sopra i suoi tacchi dentro la stanza da ufficio spaziosa e ben illuminata, con i modi di chi ha solo voglia di andarsene in fretta da lì. Invece alla fine si siede, e con indifferenza apre a caso sopra le sue gambe accavallate la pagina di una rivista che trova su un piccolo tavolo. Lui non la guarda, forse è persino controproducente dirle qualcosa, perciò resta in silenzio, lasciando che l’aria ovattata là dentro sia quasi un rimedio per quei pensieri ingombranti. Così prosegue a consultare qualcosa sopra il piccolo schermo su di un lato della sua grande scrivania.
            Fuori da quello studio dell’agenzia di assicurazioni, ogni poco si sentono giungere in sottofondo delle telefonate alle quali due o tre impiegati cercano di far fronte, ed uno di loro ad un tratto bussa leggermente alla porta solo per avvertire da uno spiraglio che c’è in linea un certo dottor Sironi che chiede del direttore. Lui prende subito un incartamento, quindi alza il ricevitore, ascolta pazientemente alcune frasi gracchianti, poi risponde per cifre qualcosa di poco comprensibile, ed infine, una volta dettato un appuntamento per un giorno della settimana seguente, chiude formalmente la comunicazione. Forse si usano anche troppe parole, le dice adesso guardandola. Sono i nostri sentimenti che non riescono più ad emergere, né dai gesti né dai discorsi, e tutto in questo modo diviene ordinario, scontato, privo di qualsiasi interesse.
            Lei adesso si volta, lo guarda, sembra quasi punta sul vivo, come si sentisse improvvisamente prigioniera di un modo di comportarsi poco adeguato, ma poi gira nervosamente un’altra pagina di quel suo giornale forse insignificante, e prosegue a fingere attrazione per qualcosa scritto là sopra. Va bene, gli dice senza alzare lo sguardo; così hai già deciso, mi sembra. Poi lascia passare un solo secondo in cui forse attende una replica pronta, una parola immediata di chiarimento, magari un gesto veloce di semplice diniego, ma non arrivando da lui alcun segnale in quel breve lasso di tempo, si alza rapidamente con modo stizzito, sbatte quasi la rivista sul tavolo, e si gira decisa a raggiungere la porta ed andarsene.
Con perfetto tempismo a quel punto lui la chiama per nome, lei sui suoi tacchi si volta mostrando un’ espressione severa, e lui a bassa voce le dice soltanto: non è proprio tutto da gettare via; i periodi difficili si possono superare, se si tengono i nervi ben saldi. Lei si ferma, ha già una mano sulla maniglia, ma dall’altra parte dell'uscio sente bussare. Si affaccia appena un’impiegata, dice: scusate, ma ha ritelefonato Sironi e vuole un diverso appuntamento, perché per il giorno fissato ha già un impegno importante. Lui a quel punto si alza dalla sua scrivania, dice che tra cinque minuti lo richiamerà; poi, chiusa la porta accompagnandola con una mano, cerca di scusarsi con lei in qualche maniera: lo vedi anche tu, qui non si può proprio parlare, qualsiasi decisione così non può essere mai quella giusta.
Va bene, fa lei, abbassando lo sguardo: dentro ad un ingranaggio metallico qualsiasi cosa soffice rimane stritolata. Lui la guarda più da vicino restando colpito da quella frase. Forse vorrebbe quasi chiederle, per una semplice curiosità, se abbia letto qualcosa del genere sulla rivista che aveva fino ad ora tra le mani curate, ma si limita semplicemente ad annuire sorridendo. Lei pare intuire quel suo pensiero, cosi aggiunge subito: certe cose si trovano scritte proprio su quei giornali che voi uomini d'affari non sfogliereste neppure pagati. Eppure, tra quelle pagine spesso vuote di senso, certe volte si dicono anche cose sensate.


Bruno Magnolfi

lunedì 2 maggio 2016

Direttore d'infanzia.

          

Al piano terra, esattamente davanti alla strada e tra i pilastri di cemento armato del loro palazzo, giocano spesso alcuni bambini che abitano con le loro famiglie negli appartamenti dei piani superiori, ridendo e rincorrendosi tra loro in quello spazio tutto sommato aperto ma racchiuso da una ringhiera leggera, protetto con la copertura costituita semplicemente dalla costruzione medesima. Viene certe volte un signore ben vestito e con dei modi gentili, che pare comportarsi come se attendesse qualcuno, e pur restando fuori dal perimetro di quella ringhiera, guarda i bambini con un’espressione forse un po’ troppo fissa, senza mai dire niente. Uno di quei bambini avverte la mamma, che il giorno seguente scende da casa per rendersi conto con i propri occhi del personaggio descritto. Ma lui quel giorno non si fa vedere, e così quella madre, disturbata anche dall'inutile attesa, ne parla a tutti i vicini che riesce ad incontrare in termini già molto allarmistici, e bastano la sue poche parole per far precipitare tutto il palazzo e quelli adiacenti in una forte sensazione di paura e di estrema attesa, con i bambini, da quel momento in avanti, mai persi di vista sia dai loro genitori, che dai nonni, ed anche dagli zii e forse da tutti gli amici e i conoscenti di quelle famiglie. Torna lui, un pomeriggio qualsiasi, ed il bambino che ha dato l’allarme adesso gli si ferma davanti, ad una distanza forse di appena due o tre metri. Chi sei, gli chiede, con l’innocenza della sua età; e l'uomo naturalmente sorride, e dopo una pausa risponde semplicemente che è un normale passante a cui piacciono i giochi che loro sono capaci di mettere in piedi.
Qualcuno avverte tutta la tensione che pare sprigionarsi da quel normale dialogo, e certi genitori, tramite gli occhi e i resoconti dei figli, assorbono poco più tardi una sensazione di enorme pericolo imminente che sembra sprigionarsi da una situazione ormai al limite, al punto che vengono allertate le forze dell’ordine, dando per certa la presenza costante in quei paraggi di un molestatore di minori indifesi. Naturalmente nessun bambino viene quasi più fatto uscire dal proprio appartamento, e quello spazio neutrale di gioco, usato fino ad allora da quell’infanzia tranquilla e senza problemi, diventa da un giorno all’altro un completo deserto, scansato persino da quegli adulti che si ritrovano per ventura ad attraversarlo, tanto da riuscire quasi a far andare di corsa quei pochi coraggiosi che proprio vogliono o devono affrontare quel luogo.   
Il tizio ricercato naturalmente non si fa più vedere, anche perché due uomini in divisa al posto dei bambini di sempre, fanno adesso da sentinella per controllare tutto il quartiere, transitando per più volte al giorno anche da quel luogo innocente. La scuola non è molto distante, e subito viene ovviamente allertata, così che ogni spazio possibile sembra chiudersi su quel problema, fino a quando purtroppo tutto l’insieme delle misure attuate sembra proprio non riesca a produrre alcun risultato. Il bambino che per primo ha dato l’allarme viene continuamente abbracciato e protetto da tutti, quasi fosse la vittima vera di qualcosa di cui non si è ancora neppure parlato, e tutti i suoi coetanei per lo stesso motivo sembrano venire strappati continuamente da una selva di pericoli che incombe su loro e che non è neanche il caso di affrontare davvero.
Infine, proprio quel bambino che ha dato origine a tutto, adesso per mano alla mamma e anche alla zia, appena uscito dalla sua scuola che continua fortunatamente a poter frequentare, riconosce in un uomo che resta fermo sul marciapiede esattamente davanti ai suoi piedi, proprio quel tizio che gli ha parlato appena qualche giorno più addietro, e lo indica con un semplice dito: non dire sciocchezze, dice subito la mamma strattonandolo per usargli un rimprovero, e chiedi subito scusa a questo signore per aver pensato male di lui: quest’uomo è semplicemente il direttore della tua scuola, non lo riconosci? Per lui interessarsi di te e degli altri bambini è soltanto ciò che fa parte integrante del suo mestiere.


Bruno Magnolfi