martedì 29 marzo 2016

Ordinario tornaconto.

           

Da un po’ di tempo a questa parte,  tra gli amici e i conoscenti che si ritrovano abitualmente al Caffè Centrale, si prosegue a sostenere senza mezzi termini quanto quel certo Marco Lenzi, presente a tutti fino ad un po’ di tempo addietro come una grande personalità brillante, si stia di fatto sempre più dimostrando come un individuo sostanzialmente poco affidabile, tanto che l’impressione generale che se ne ricava semplicemente ad incontrarlo lungo le strette vie cittadine, cosa che avviene negli ultimi mesi anche piuttosto raramente, è quella di una persona oramai persino poco interessata all'opinione di tutti, e forse addirittura indifferente anche al doveroso difendersi da questo genere di accuse. Per di più in un’altra epoca è stato anche un consigliere eccelso nella giunta comunale del paese, sottolineano spesso quasi tutti nel locale, quindi peraltro anche una illustre personalità pubblica, e ben ci si ricorda che in quegli anni, fino a quando uscì volontariamente di scena smettendo di occuparsi attivamente di politica, pareva proprio, almeno ai suoi elettori, una tra le persone dimostratesi più oneste e disinteressate di ogni altra nel paese, praticamente uno di quelli che le cose le fa solo per una vera e sentita fede.
Adesso al contrario appare quasi latitante, uno che non si fa quasi più vedere in giro, al punto che quando qualcuno ha persino l’ardire di fermarlo per la strada con un saluto o anche con un semplice sorriso di circostanza, ecco che lui sembra come sfuggire subito a tutto, tanto più a qualsiasi pur semplice domanda gli venga posta, sollevando le spalle, sviando lo sguardo, mandando avanti con indifferenza il proprio passo, come se non avesse quasi più niente da spartire neppure con i suoi concittadini. In una situazione del genere le voci incontrollate attorno a Marco Lenzi sembrano quasi inseguirsi tra di loro, ed anche se spesso sembrano soltanto supposizioni negative sul suo conto, in altri casi paiono invece delle vere certezze che in qualche modo riescono a spiegare come lui sia ormai sommerso di debiti, e proprio per questo quasi alla disperazione. Naturalmente nelle ultime settimane nessuno lo ha più neppure visto, salvo il Marrini, che lo ha incontrato al buio una sera qualsiasi lungo un marciapiede, mentre quell’altro pareva quasi coprirsi la faccia con la sciarpa, forse però soltanto per il vento gelido, chissà.
Per questo al Caffè Centrale si è deciso d’improvviso che oramai è assolutamente il caso di vedere le cose con chiarezza, e non a caso si è dato subito incarico proprio al Marrini, peraltro suo grande amico anche se ormai di un’altra epoca, per indagare quanto più possibile sul suo conto, fino a consigliarlo di recarsi addirittura a casa sua, a fargli almeno una visita, tanto per comprendere le cose come stiano veramente. Investito ufficialmente così di tutta l’importanza che gli serve, il Marrini va direttamente un pomeriggio verso la sua residenza, provando contemporaneamente timore e curiosità, e suona il campanello di casa Lenzi senza neppure prepararsi troppo a quell’incontro, quasi come gli accadeva oramai tanto tempo prima, quando erano anche colleghi di partito. Scatta dopo poco l'apriporta, nessuno chiede niente, così lui sale, ed entra poi dall’uscio lasciato socchiuso, restando infine fermo in piedi nell'ingresso.
Ti hanno mandato loro, dice subito il Lenzi senza neppure salutarlo. Ho voluto uscire di scena, questo è il punto, e tu lo puoi tranquillamente confermare a tutti, senza che ci sia niente da nascondere. Ma no, dice il Marrini, vedrai che una soluzione si potrà trovare. Sei uno sciocco, fa lui, nessuno cambierà le mie convinzioni, e peraltro non mi interessa minimamente di cambiarle. Vai adesso, vai da loro, racconta a tutti che sto bene, e che non c’è da preoccuparsi per me: tutto si sistemerà, vedrete, e le chiacchiere al caffè troveranno alla fine un punto fermo. Tanto, se pur ne avessi la necessità, non ci potranno mai essere in paese degli amici che mi aiutano davvero, se non riusciranno a trovare nel farlo un vero e proprio tornaconto.


Bruno Magnolfi

domenica 20 marzo 2016

Fratelli per forza.

            

            Ho caldo, urlo a questo tizio che da tutto il giorno sta con me. Forse sarà che ho esagerato con la birra, ma in certe occasioni credo proprio che ci voglia. Era da un pezzo che volevo andarmene un po’ in giro, ma sembra che venga sempre a mancare l’occasione giusta per starsene bene in compagnia e magari ritrovarsi a ridere tra noi per sputare su qualcuno che ci gira attorno. Questa gente che sta qui non capisce assolutamente nulla, non si rendono nemmeno conto di non contare niente, e soprattutto non capiscono neppure che uno come me se vuole può fare esattamente quello che gli pare e piace.
            L’altro mi guarda, certe volte addirittura mi chiedo cosa stia pensando, o dove mai lo abbia conosciuto, però è un mio amico, certo, e per questo lui pensa esattamente tutto ciò che penso io, siamo fratelli, perdio, tutto quello che ci viene in mente dobbiamo assolutamente condividerlo. Cosa stai facendo?, mi chiede invece. Devo pisciare, gli dico, perché, ti pare che non possa? La mendicante è piegata davanti a me a chiedere elemosina, è evidente che è disposta a prendere di tutto, persino questo, se mi va, così le piscio addosso, non è neanche uno scherzo, è soltanto quello che si meritano tutti gli stronzi che se ne stanno in giro in un paese merdoso come questo.
            A me il biglietto per il treno lo hanno pagato per venire fino qui, altrimenti non ci starei di certo, ma mica mi hanno chiesto di fare tanto il bravo ragazzo e di trattare la situazione con i guanti. Dobbiamo scaricarla un po’ di questa adrenalina, fratello, è tutta qua la verità. Carichiamo dentro di noi un sacco di nervosismi per un gran mucchio di tempo, dobbiamo scaricarci, questo è il punto, oppure credi che mi sbaglio? L’altro mi guarda, ride, forse anche a lui gli va di pisciare su qualcuno. Ci sarà sempre qualche stronzo che ti ripiglia col telefonino, gli dico, così ti fai subito una tua reputazione e nessuno ti rompe più le palle. Anche perché se non vieni qui a fare un po' di casino, mi dici tu cosa ci vieni a fare?
L'altro adesso sta in silenzio, mi sa che vorrebbe dirmi qualcosa di stupido sul calcio, sul fatto che allo stadio non siamo neppure riusciti a fare tutto quel casino che ci andava. In questo caso gli risponderei che forse ha anche ragione, ma tirare fuori i bastoni e rompere qualche testa è un po' pericoloso quando ci sono in giro tutte quelle scimmie con i mitra e i giubbotti antiproiettile. Non conviene fratello, dammi retta. Piuttosto ce ne andiamo a zonzo una volta finita la partita e combiniamo qualcosa tanto per non farsi dire dietro che siamo venuti qui a non fare nulla.
Invece l'altro si ferma, si guarda in giro, pare abbia qualcosa in mente, e magari vorrei dirgli quualcos'altro che mi passa per la testa, ma adesso che ci penso non so neppure come si chiama, anche se è chiaro che è un mio amico, lo so, perdio, è assolutamente mio fratello. Lui prende qualcosa da terra con indifferenza e me la tira addosso, per gioco, senza troppa forza, tanto per dimostrarmi forse di qualcosa che lo convince più del resto; così prendo anch'io una bella pietra, più grande della sua, e la tiro subito con forza contro una stupida statua che hanno piazzato qui al bordo della strada, quasi ci dovesse far piacere questa sua stupida presenza di marmo bianco.
Non ci vuole molto, iniziamo tutti a tirare qualcosa a questa donna di pietra, fredda come tutte le donne che non ci piacciono per niente, e qualche scheggia viene via, qualcosa si rompe, finalmente. Alle sirene si scappa tutti verso qualche parte nascosta, ma io ritrovo subito il mio amico, tento di abbracciarlo tanto per dare importanza a questo attimo, ma quello mi sfugge, sembra pieno di ritrosia, perciò lo fermo per un braccio, lo costringo a guardarmi, a darmi qualche dritta per capire: che cosa c'è, gli chiedo, anche se non ricordo più neppure come diamine si chiami questo tizio che è da tutto il giorno che sta dietro di me; ma come sarebbe, perdio, gli fo, non dobbiamo più neppure considerarci quei fratelli che eravamo sempre stati?


Bruno Magnolfi

venerdì 18 marzo 2016

Scarpe dalla suola di gomma.

            

            Non mi interessa affatto che i miei familiari praticamente mi abbiano reclusa poco per volta in questa stanza; anzi, in qualche modo sono loro grata di avermi ridonato la ricchezza della solitudine. Sono vecchia, ho le mie idee, probabilmente davo noia con i miei modi lenti, e forse tiravo fuori la mia opinione proprio quando non dovevo. Adesso invece me ne sto qui per tutta la giornata, penso le mie cose, certe volte mi assopisco sulla sedia accanto alla finestra, mentre guardo qualcuno che scorrazza per la strada. Stasera poi mi hanno portato una minestra di semolino, del pane, e anche qualche altra cosa; ho detto grazie, è anche troppo per me, ho pensato. Ma non c’è niente di male in tutto questo, ognuno deve fare la sua vita, ed io non ci tengo davvero a girare senza meta per le altre stanze di questo appartamento, per poi rifinire insieme a tutti gli altri a guardare qualche programma strampalato che trasmette la televisione, tanto più che ciò di cui è composta questa mia stanzetta per me è già più che sufficiente.
            Posseggo anche diversi libri qui dentro, che naturalmente ho già letto ormai diverse volte, ma che adesso, come per gioco, mi diverto semplicemente ad aprire, prendendo qualche pagina un po’ a caso, ed a ripassarne così almeno una o due, come se fossero completamente scisse da tutto il resto. Scopro in questo modo che ci sono frasi e intere pagine che non dicono un bel niente, servono soltanto da riempimento, ed altre che ad essere del tutto generosi sono appena un po’ significative; ma poi ce ne sono alcune che invece spiccano su tutte le altre, e che in un attimo riescono meravigliosamente ad essere il semplice condensato di un intero libro, quasi vanificando così l’importanza pretenziosa di tutto il resto.
            Non ho molte cose di cui occuparmi, questo è evidente, così ogni tanto immagino che mi ammalerò di qualcosa, un giorno o l’altro, e che poi verrà un dottore, forse anche un’infermiera silenziosa con le scarpe dalla suola di gomma, ad occuparsi di me per un giorno, o per qualche tempo; ma forse, se la situazione sarà particolarmente grave, mi porteranno in fretta dentro un ospedale, da cui sono già preparata a non uscire facilmente con i miei stessi piedi. Toglierò definitivamente il disturbo, prima o dopo, come spesso si dice.
            Ma poi torno ad avvicinarmi alla mia finestra, mi piazzo lì seduta e guardo la vita che passa lungo questa strada. Ci sono state delle volte che qualcuno mi ha notato dietro ai vetri e mi ha fatto un timido cenno di saluto, così, forse tanto per fare. Un ragazzo invece mi ha guardato a lungo, chissà che cosa ha visto, forse una somiglianza con sua nonna; così gli ho sorriso, senza esagerare, ma lui è scappato subito. Però dopo è tornato, mi ha guardato ancora mentre io cercavo di ignorarlo, e poi mi ha fatto una fotografia con il suo telefonino. Così mi sono alzata dalla sedia, sono andata a prendere uno dei miei libri e poi l’ho aperto, ma subito ne ho cercato un altro, ed in seguito un altro ancora. Avrei voluto tanto improvvisamente che là dentro quelle pagine ci fosse stato spiegato con chiarezza qualcosa di questa fase così contemporanea, dove tutti vogliono guardare e vedere senza anche provare allo stesso tempo il bisogno di comprendere, però non ho trovato niente.
            Perciò ho lasciato perdere, anche se con una certa vanità ho cercato mentalmente di seguire il percorso che immagino possa aver fatto il mio ritratto di vecchia alla finestra. Non sono riuscita a pensarne niente di buono, a dire la verità, anche se vorrei essere sempre positiva. In ogni caso non ha alcuna importanza: tutto questo non cambierà un bel niente, ho pensato; e soprattutto non porterà mai alcun rumore nuovo in questa stanza, che oramai ogni giorno mi appare sempre più ovattata.

            Bruno Magnolfi


giovedì 17 marzo 2016

Due storie vere

           

            Una volta salutata la mamma che ancora non sa niente, lui corre a perdifiato giù per le scale del condominio dove abita, fino ad arrivare a spalancare in fretta quel portone, e poi via lungo la strada anonima, tanto che diverse persone anche solo sfiorate dal suo corpo adesso sudato sotto la camicia, si voltano ad osservare per curiosità cosa mai ci possa essere più avanti di così impellente. In seguito rallenta, infine si mette semplicemente a camminare a passo svelto, e quando è ormai abbastanza lontano da casa sua si ferma del tutto, proprio a riprendere fiato, e si piega su se stesso con le mani sulle cosce, ormai stremato per la tensione e la fatica.
            Devo fare qualcosa, pensa; devo assolutamente trovare una soluzione, ed è importante che immediatamente sia pronto a tutto. Si rimette a camminare, giunge nella piazzetta come fa ogni giorno, entra nella sala giochi dove lo aspettano. Non c’è niente di nuovo, si dice subito tra i ragazzi che lo guardano, sembra che tutto sia esattamente come ti abbiamo riferito per telefono, pare inutile persino parlarne ancora. Lui esce senza dire niente, si guarda in giro, poi lo raggiunge Daniele, si mette semplicemente accanto a lui, appoggiato al muro, come a mostrargli che vorrebbe tanto aiutarlo, e quando si avviano con esagerata lentezza, sembra quasi ci sia stato un accordo precedente per quel passo quasi da bulli navigati.
            Certo che se dovevi fare una stupidaggine sei andato a sceglierti proprio la più grossa. Dimmi ancora cosa dicevano nei corridoi della scuola, fa lui. Niente, dice Daniele, che verrai radiato, ad iniziare da subito, e che per uno come te la scuola deve porre un termine, lo faceva presente a voce alta il preside con tutti gli insegnanti a fine mattinata, ed oggi pomeriggio decideranno. Però, se vuoi sapere la mia opinione, sporgerti dalla finestra, calarti dal tubo della grondaia e poi andartene direttamente saltando la cancellata, è stata veramente una trovata senza senso. Cosa ci posso fare, fa lui sottovoce, se quella prof stamani era pedante, insopportabile, e continuava a fare le domande solo a me. Si, lo so, dice Daniele, ma a volte bisogna riuscire a reggerle certe situazioni.
Va bene, dice lui, adesso però vattene, che tanto non mi servi a niente. L’altro lo guarda, si allontana di un passo, poi chiede ancora: cosa pensi di fare adesso? Lui non dice niente, semplicemente se ne va, sembra che il suo sguardo sia già verso un altrove incomprensibile, forse potrebbe tornarsene a casa a piangere, dire alla mamma cosa gli è successo, provare a spiegarsi, o forse andarsene da qualche parte e farsi vivo soltanto dopo qualche giorno, o anche mai più. La sua testa gli brulica di pensieri divergenti, nessuna razionalità gli viene in soccorso. Accende una sigaretta, ma la getta subito via, non ha voglia di niente, non riesce neanche a comprendere come si sia messo in questa situazione.
Escono dal locale gli altri ragazzi che fino ad ora erano rimasti a parlottare tra di loro, vanno tutti verso di lui, ma lui si gira, compie qualche passo nella direzione opposta, poi ricomincia a correre, fino a sparire dalla vista. Gli viene a mente che qualcuno gli aveva anche detto che sarebbe stato soltanto lui a pagare, e forse in quel momento sarebbe stato il caso di ascoltarlo. Torna a fermarsi, forse non è del tutto una combinazione se si ritrova davanti alla sua scuola, anche se ora gli pare che il conto sia troppo salato per uno come lui; vorrebbe tanto tornare indietro, forse dire a tutti che c’è stato uno sbaglio, che adesso avrebbe soltanto bisogno di un’altra possibilità. Ma l’edificio in questo momento sembra chiuso, pare che dentro non ci sia proprio nessuno, ed è probabile che la riunione per decidere proprio su di lui, magari non la faranno neanche là dentro. O forse hanno già deciso della sua vita, ed adesso se ne sono andati tutti via.


Bruno Magnolfi 

lunedì 14 marzo 2016

Violenza morale.

          

            Credo proprio che tu non abbia considerato attentamente le cose, dice lei seccamente. Sul piccolo palco la luce è calda e la scenografia essenziale: un tavolo di legno e due sedie; il fondale invece è scuro e la superficie opaca e assorbente, come una notte quasi del tutto vera.  Lui sembra non abbia neppure voglia di parlare, eppure dice come tra sé che secondo il suo parere non è vero, e che la descrizione dei fatti semplicemente non è precisa, si possono inserire con facilità molti dubbi. Segue un silenzio cupo, che fa presagire qualcosa di poco positivo. Lei si muove, infine appoggia le mani sullo schienale della sedia libera. Lui non la guarda ma resta comunque attento ad ogni dettaglio. Va bene, fa lei, in ogni caso credo si debba cambiare, non si può continuare in questa maniera. Certo, fa lui, sono assolutamente d'accordo, anche se naturalmente non posso rinunciare alle mie abitudini. Quali abitudini?, dice lei con un tono già leggermente ironico.
            Lui si alza dalla sua sedia, muove un braccio verso la platea, quasi per un gesto da eroe, poi sorride, e dice: semplicemente quello che ho sempre fatto in questi ultimi tempi. Lei ha un moto di rabbia, le pare quasi impossibile dover affrontare delle sciocchezze del genere in mezzo ad argomenti assolutamente seri ed importanti come quelli che è riuscita finalmente a far scaturire. Va bene, dice alla fine guardando improvvisamente dalla parte opposta a dove lui si è piazzato; se adesso si tratta di trovare un penoso compromesso, dico soltanto che non sarei per niente d’accordo, ma in ogni caso, giusto a dimostrazione di quanto voglia essere oltremodo permissiva, intavoliamo pure anche questo argomento.
            Lui ride nervosamente, forse gli pare di avere già vinto qualcosa, chissà. Sul fondale si illumina debolmente una zona, una persona appare sullo sfondo, poi scompare velocemente. Si tratta soltanto di considerare che ognuno di noi con il tempo matura certi comportamenti ai quali in seguito diventa difficile rinunciare, dice lui. Per esempio per me tornare in questa casa senza trovarti sarebbe qualcosa di scioccante, non tanto perché mi sono abituato alla tua presenza, naturalmente, ma soltanto perché fai parte della mia giornata, dei miei pensieri, dei miei desideri.
            Lei torna a guardarlo con una vaga espressione di sfida: non crede affatto a quanto le viene riferito, con ogni evidenza, però al momento sarebbe anche disposta a fingere di esserne lusingata, magari per ottenere in questa maniera da lui un credito maggiore. D’accordo, dice alla fine: allora diciamo che potresti continuare a trovarmi a casa quando rientri, esattamente come sembra ti sia abituato, però nel frattempo ci sono stati dei cambiamenti che sono molto più impalpabili, e dei quali ti accorgeresti con più difficoltà e anche poco per volta; in questo caso quale potrebbe essere il tuo comportamento?
            Lui riflette, si alza dalla sedia, osserva il punto dove poco fa si è visto per un attimo una figura stagliarsi, poi si gira verso di lei e dice soltanto: non possono essere delle minacce vere e proprie quelle che porti avanti, altrimenti senza annunciare niente cambieresti e basta. E’ qui che fai confusione, fa lei: è naturale anche per me avere delle abitudini, magari proprio simili alle tue; però le variazioni che potrei apportare non sarebbero di un ordine così netto da far cambiare i comportamenti da un attimo all’altro, e in tutti i casi non ti farò mai presente in che cosa effettivamente consisterebbero.
            Lui si sente adesso molto indeciso riguardo cosa controbattere, ed infine resta in silenzio, gettando però un’altra occhiata sul fondale buio e vuoto: la sua solitudine improvvisamente si staglia, probabilmente l’avverte anche lui in modo profondo, perciò potrebbe tentare un recupero finale in quella piccola discussione. Invece si gira, sgarbatamente, ed alza un dito verso di lei, quasi come una vera violenza, senza neppure il coraggio di fare altro.


            Bruno Magnolfi

giovedì 10 marzo 2016

Guinzaglio corto.

            

Il mio capo è in gamba, non ci stanno dubbi. Certe volte, mentre mi è passato accanto, abbassando un po’ la voce, mi sono arrischiato a chiedergli come stia andando con il mio lavoro, e lui mi ha sempre sorriso proprio mentre sembrava interessarsi d’altro, e poi senza guardarmi ha fatto un cenno di assenso con la testa: non preoccuparti, va tutto bene, significa quel gesto, e ciò vuole dimostrare che sto riuscendo a mandare avanti opportunamente tutti i compiti che mi sono stati assegnati. Sono contento di questo, mi sento appagato, magari qualche volta vorrei addirittura fare qualcosa di più per la mia azienda, ma in fondo questo pensiero che mi prende non ha poi alcuna importanza, rifletto, perché la cosa fondamentale credo sia quella per cui sono sicuro che lo stipendio che percepisco a fine mese sia sempre meritato, ed è per questo che in ogni ora lavorativa di tutta la giornata mi impegno sempre al massimo.
Produciamo su larga scala dei piccoli mobili, qua dentro, ed anche se i moderni macchinari oramai fanno quasi tutto per conto proprio, va controllata però ogni fase della produzione, e certe volte non si può proprio guardare l’orologio o distrarsi anche solo per un attimo. Gli altri del turno spesso mi scansano, ma lo fanno per scherzare, dicono che un giorno qualcuno mi darà una medaglia al valore, oppure una bella lezione, ma io lascio correre per conto loro certi discorsi, sto alla mia macchina ben attento ad ogni fase e visiono che tutto quanto funzioni proprio a dovere. Il mio capo certe volte esce dal suo ufficio, gira in mezzo a noi, ci scruta, anche se lo fa senza guardarci mai direttamente. So che fa questo per la sicurezza di tutti, e quegli appunti che scrive continuamente sopra il suo schermo, sono sempre e soltanto volti a migliorare tutte le cose. Vorrei andare da lui, qualche volta, dirgli che sono contento della mia attività, e anche che ci sia lui, perché io in questa azienda mi sento come in una grande famiglia, e che quando non sono qui dentro a lavorare, mi sembra che la vita manchi addirittura di un suo senso.
Poi ieri, nel tardo pomeriggio, sto girando per la strada, ed entro dentro una rivendita per comperare qualcosa che mi manca, una volta terminato il mio turno nella fabbrica; e lui eccolo lì, con la sua cravatta, mentre sta parlando con qualcuno dei negozianti. E' girato di spalle, io mi piazzo dietro a lui e con pazienza attendo che si volti, però dentro di me sorrido, perché sono sicuro di fargli una sorpresa nel lasciarmi scoprire in questo modo. Sta parlando di qualcosa, il mio capo, è concentrato mi pare nella spiegazione di un oggetto al negoziante, e quando infine si scosta da quel banco mi guarda per un attimo senza riuscire però neppure a riconoscermi. Allora lo seguo mentre lui sta per uscire, gli vado quasi dietro, poi gli tocco un braccio, così per forza deve girarsi nuovamente, e lo fa in modo repentino, e subito mi chiede cosa mai desideri, come fossi soltanto un qualsiasi scocciatore, e poi subito altri gli chiedono qualcosa, e in più gli squilla anche il telefono portatile, per cui infine se ne va, forse senza avermi neppure riconosciuto. Resto male, certo, però capisco che sono cose che probabilmente possono succedere.
Vado a casa, un passo dietro l’altro, però continuo a pensarci, perché secondo me non va molto bene quanto è accaduto, e queste cose a mio parere vanno sistemate al più presto possibile. Continuo a pensarci per tutta la serata, metto a punto un piano secondo il quale, fermando la macchina presso la quale opero, posso velocemente precipitarmi nel suo ufficio, guardarlo in fondo agli occhi e chiedergli qualche spiegazione. Quando vado a letto sono ancora lì che penso come fare, cosa dire, e tutto quanto mi passa vorticosamente per la testa, ma poi infine mi addormento, pur trascorrendo una nottata colma di grande agitazione. Quando infine rientro nella fabbrica, per tutto il giorno non parlo con nessuno, tengo gli occhi bassi, anche se vedo il mio capo mentre passa con calma per un paio di volte tra i nastri della produzione. Non fa niente, penso, siamo i medesimi di sempre, non è successo nulla di particolare; e poi nel futuro ci sarà sempre del tempo sufficiente per riuscire a cambiare ogni opinione.


Bruno Magnolfi

martedì 8 marzo 2016

Soffice abitudine.

            
            In paese è stimato da tutti, Oreste Neri, e chi come Nello si è spinto sempre regolarmente fino al suo negozio sapendo di trovare oltre ad un’ottima qualità di frutta e di verdura anche qualche argomento intelligente per scambiare quattro chiacchiere proprio con lui, ora si rammarica nel sapere che la sua malattia ormai neanche gli permette di uscire da casa. Oreste, piazzandosi seduto nel suo salotto, si limita adesso a guardare dalla finestra i suoi concittadini, strascicando quella gamba dolorante ad ogni spostamento, impossibilitato come si trova persino a starsene in piedi, anche se con serenità lascia che gli vengano praticati tutti i massaggi e le iniezioni che servono, applicandosi con grande pazienza alle cure prescritte.
Intorno tutto in quegli ultimi tempi gli appare cambiato, ed ogni suo gesto di adesso assume nelle sue riflessioni quasi un differente significato rispetto a prima, tanto che con ogni occhiata che sporge fuori dai vetri, stenta certe volte a riconoscere nella strada stessa e nelle case di fronte la cittadina dove ha sempre abitato. Qualche cliente più affezionato è venuto all'inizio a fargli una visita, ma in seguito, a parte Nello, nessuno si è più fatto vedere, e lui ora pensa che presto tutti si dimenticheranno di Oreste, ed il suo negozio ora chiuso sarà velocemente ceduto, tanto che lui uscirà poco per volta e immancabilmente dalla stessa memoria del paese e dei suoi concittadini.
Sono finito, si ripete ogni giorno mentre l’infermiere lo aiuta, poi però basta che avverta un leggero miglioramento, ed allora immagina che tutto forse potrà ritornare com'era, e gli basta questa speranza per riacquistare un po’ di  ottimismo. Nello gli porta un giornale o anche qualche rivista, si siede vicino a lui con pazienza e gli racconta qualcosa di sé e del loro paese, giusto per distrazione. Ad Oreste non è mai stato neppure troppo simpatico, e forse questa amicizia che adesso l’altro manifesta gli pare persino un po’ esagerata. Certe volte vorrebbe addirittura che se ne andasse, anche se comprende benissimo che è l’unica compagnia che oramai gli rimane. Si trattiene perciò, perché non sa come fargli capire che queste sue visite sono anche troppo per lui.
Poi Nello gli dice che da domani non potrà più tornare: devo partire, gli spiega, ho davanti a me un lungo viaggio, perciò mi dispiace non poterti più fare neppure una visita per molti mesi da oggi. Oreste lo ascolta, fa cenno di si con la testa quando l’altro gli dice che gli scriverà qualche lettera, però comprende benissimo che Nello gli mancherà, sicuramente, forse anche più di quanto in questo momento può sospettare. Non si sente neppure di chiedergli alcuna spiegazione, soltanto lo abbraccia prima di lasciarlo andare, ed in quel gesto sente come sfuggirgli qualcosa, tanto da restare a lungo a guardarlo dalla finestra mentre Nello si allontana lungo la strada. E’ strano tutto quanto sta succedendo, pensa poi Oreste Neri con calma; fino ad oggi non avrei mai pensato di provare un sentimento del genere: eppure in questo momento vorrei proprio essere con te, Nello, seguendoti ovunque e cercando di non disturbarti mai nel tuo viaggio; e mi piacerebbe tanto improvvisamente riuscire ad esserti almeno utile, nel darti un supporto, nel sostenere almeno qualche tua scelta; forse perché è soltanto ora, in questo esatto momento, che mi rendo conto di quanto tu sia importante per me, forse anche più di quanto avrei mai immaginato.

Bruno Magnolfi



giovedì 3 marzo 2016

Nessuna parola.

           

            Improvvisamente tu muovi il piede in avanti, appoggi lentamente a terra la suola della scarpa sinistra, fletti leggermente la gamba, lasci avanzare il tuo corpo quel tanto che serve per riequilibrare l’insieme, però poi ti fermi, come colto d’un tratto da un forte indicibile dubbio. Lei ti osserva invece con una certa immobile serietà, ma dopo l’attimo in cui ha calcolato ogni estensione dei gesti che ormai tu hai compiuto, distoglie leggermente il suo sguardo, come se avesse già chiaro che probabilmente non avrai mai il coraggio di fare una mossa ulteriore. Forse intorno a voi due, nell’ampia sala in cui vi trovate, qualcuno vi sta guardando con curiosità, e questa componente in tutto l’insieme ti crea senza dubbio un disagio ulteriore, anche se non è in ogni caso l’elemento essenziale che determina ogni tua futura possibile azione.
            Sembra d’improvviso non ci sia alcuna necessità di parlare, ed il leggero brusio che riempie la sala d’attesa fa soltanto da colonna sonora ad un incontro che avviene in questo momento quasi per un puro caso. Lei vicino ha un'amica, che adesso le chiede qualcosa, le mette a disposizione una sponda, per esempio anche la possibilità di prendere e andarsene. Tu invece stai solo, ed adesso sei fermo, non riesci neppure a calcolare la mossa ulteriore da compiere, così ti limiti ad attendere che qualcosa succeda, magari soltanto per combinazione, oppure che l'intuito ti aiuti.
Ci saranno a malapena quattro metri e cinquanta tra voi, ed ogni tanto qualche sbadato passa in mezzo proprio tra te e lei. Tu allora ti volti su un fianco, osservi distratto il monitor alto sulla parete, fai perdere persino d'importanza almeno per un attimo la possibilità di un saluto come si deve. Lei prosegue a non osservarti, anche se rimani costantemente all’interno del suo campo visivo, ed è evidente come si aspetti qualcosa da te, qualcosa che facilmente forse lei saprebbe indicarti, ma che tu molto probabilmente non vorresti in nessun caso seguire.
Accade qualcosa, annunciano un aereo, ed anche se non è proprio il tuo, guardi comunque l’orologio da polso, fingi impazienza, controlli la borsa e pensi ai tuoi documenti, come se tutto stesse rovinosamente andando verso una conclusione al disopra di qualsiasi volontà. Lei ride, improvvisamente, parlando con la sua amica, forse cerca di assumere una maschera per mostrare che sta ormai da tutt’altra parte, ed è ben superiore a ciò che in questo momento si sta consumando. Allora tu muovi l’altro piede in avanti, tutto il tuo corpo si posiziona di conseguenza in un nuovo assetto, e quasi staresti per dire una qualche parola, una frase pur breve, forse il suo nome soltanto, ma la paura di rompere l’equilibrio incantato che gira attorno a voi due ti fa desistere.
Infine sorridi anche tu, quasi a mostrare a lei che hai capito perfettamente il suo gioco, e ne sei divertito, in fondo i luoghi pubblici hanno sempre qualcosa di magico quando riescono a contenere delle cose private e tanto contorte. Lei porta una mano alla bocca, tu riconosci quel gesto e all’improvviso la senti vicina, così alzi un braccio, indichi vagamente con la mano qualcosa, ma lei di scatto si è già voltata, è altrove, forse non vuole più seguire il tuo gioco. Non è più il momento di dire qualcosa, e neppure quello di avvicinarti ancora; finisce qui questo incontro, una nebulosa indistinta che sembra ad un tratto avvolgere qualsiasi emozione, lasciando semplicemente una lieve amarezza che forse si stemprerà soltanto durante il tuo volo.
Ti volti, stringi la borsa da viaggio, ti incammini lentamente verso il gate, fino a quando ti fermi, torni a girarti, la cerchi, e lei è lì, dietro di te, senza parole.


Bruno Magnolfi

martedì 1 marzo 2016

Fuga in avanti.

           

            Sto nel mio angolo, non voglio certo confondermi con questa massa di confusionari sempre pronti a parlar male di tutti gli altri, e spesso senza neanche avere un motivo valido per farlo. Mi piacerebbe ci fosse più calma, ecco, che si potessero valutare meglio i pensieri ed anche ogni parola, per comprendere più adeguatamente i significati delle cose. Rimango in silenzio certe volte anche per delle intere giornate, proprio perché credo che mettere a punto un pensiero completo nella propria testa sia comunque un’attività impegnativa ed importante, e non si possa prendere la riflessione attenta sulle cose in un modo improntato soltanto alla leggerezza. 
Qualche volta mi si accosta un tizio, lo conosco appena di vista devo dire, lui si avvicina lentamente e poi, senza neppure guardarmi in faccia, mi dice che è inutile farsi delle idee sbagliate, e che qua dentro praticamente sono tutti uguali, senza poi specificare altro. Così questa mattina, dopo essermi sorbito questa solfa svariate volte nei giorni scorsi, tanto per vedere se magari questo bel tipo, diversamente da sempre, oggi voglia mettere assieme qualcosa di più oltre il suo stringato ragionamento, gli rispondo subito convintamente che è proprio vero quello che dice, che sono assolutamente d'accordo con lui, e quindi riconosco come sia del tutto inutile perdere tempo con della gente di questo genere. Mi guarda sorpreso, si ferma perplesso, infine si allontana svogliato senza aggiungere altro.
Però dopo una mezz’ora torna indietro, mani in tasca si atteggia come se fosse ormai in confidenza con me, ed infine mi fa: siamo tutti bravi e svelti a giudicare, però bisogna vedere se si è partiti da un concetto iniziale di parte oppure no. Lo guardo, gli dico che chiunque giudichi è sempre di parte, e che non esiste una persona obiettiva ed equidistante in assoluto dalle cose. Forse, fa lui, però si dovrebbe almeno tentare di avere un’opinione senza pregiudizi, riuscire ad essere maggiormente logici e precisi di coloro che sparano sentenze sopra le cose delle quali magari non sanno quasi niente.
Indico qualcosa fuori dalla vetrata, vorrei cambiare argomento, questi discorsi mi sembrano assolutamente senza soluzione, e forse, ormai scambiate le opinioni, mi piacerebbe che lui adesso se ne andasse, e che i miei pensieri riprendessero tranquillamente il proprio corso. Invece quello sembra insistere, poi si guarda attorno sospettoso, e infine fa: ho deciso di fuggire, insieme a chi vorrà seguirmi, non si può rimanere qui per troppo tempo. Lo guardo con interesse, all'improvviso, mi pare sensata la conclusione a cui è giunto, potrei anche essere d'accordo e coraggiosamente aggiungermi a questo suo progetto, anche se non riesco a capire come pensi di fare e soprattutto dove rifugiarsi una volta fuori da qui. Lui pare come leggermi la mente, dice che ha un piano dettagliato, e che niente verrà lasciato al caso, si tratta soltanto di decidersi.
Va bene, gli fo senza aggiungere null’altro, ed uscendo dal mio angolo come per mostrare che adesso ho comunque altro da fare, me ne vado camminando lungo il corridoio principale. Lui forse vorrebbe seguirmi, dirmi ancora qualcosa su tutte queste idee che ha, ma io percepisco il suo tentennamento, così giro l’angolo velocemente e dopo mi dileguo. Lo rivedo con la coda dell’occhio all’ora della refezione, quando tutti hanno ancora più voglia di parlare a vanvera e di fare i divertenti, e così mi aspetto che mi chieda di stare con me durante l’ora del pasto, ma io mi giro subito verso la vetrata ed evito in questo modo qualsiasi incoraggiamento anche di tipo involontario.
Lui dopo si avvicina, io vorrei forse dirgli che va bene, che mi ha proprio convinto, e che non voglio neppure sapere altro, mi basta la sua determinazione per essere certo delle cose che dobbiamo fare, ma improvvisamente provo paura, mi vedo quasi in una nebulosa senza alcuna definizione, perso chissà in quali brutte situazioni, senza il mio angolo sicuro e silenzioso in cui naufragare da solo quando ne ho voglia. Sorrido, gli dico che è tutto a posto, posso aiutarlo se vuole, ma non sarò mai con lui in questa sua fuga: mi sono abituato a questa gente, gli spiego, e forse anche a questo luogo, a tutti questi orari ed ai comportamenti che teniamo. Scoprire soltanto in seguito che non ne posso fare a meno sarebbe per me un vero fallimento.


Bruno Magnolfi