lunedì 31 maggio 2010

Sostituto degli ideali

            

            C’erano state delle volte in cui essersi detti la verità  non aveva portato niente di buono. Così all’incontro seguente ci eravamo guardati bene dal dirci qualcosa di personale e dal confidarci delle opinioni che non fossero meramente generiche. Soprattutto c’era sempre il sospetto di aver detto qualcosa di inadeguato, oppure di mostrare una sensibilità diversa da quella degli altri. La cosa migliore era annuire moderatamente, essere consenzienti quando tutti lo erano, e sorridere soltanto appena un attimo dopo gli altri.
Quelle riunioni però erano importanti, fortificare lo spirito di noi cittadini della vallata nei confronti del paese di fronte, appollaiato là sopra quella montagna che pareva in qualche modo sovrastare il nostro delizioso centro urbano, era importante, continuavamo a ripetercelo fino alla nausea. Da quando avevamo iniziato a vederci le cose erano progredite: si erano stabiliti sempre meno incontri tra noi della vallata e quegli altri della montagna, sempre di più ognuno aveva costituito una propria identità, persone da frequentare, locali dove ritrovarsi e cose del genere. Non c’era niente di male, se ognuno se ne stava a casa propria non si ponevano problemi.
Poi tutto d’improvviso franò quando il nostro presidente, un bel ragazzo di vent’anni valligiano come noi, colui che aveva costruito dal niente tutto quel nostro movimento, ci confidò che si era innamorato di una ragazza della montagna. Lo disse a tutti come la cosa più naturale del mondo: ci fu il silenzio in quell’attimo, il senso di una grave battuta d’arresto. A niente servirono le sue scuse e la sua profonda vergogna: fu cacciato in malo modo durante quella stessa riunione terribile e subito proposto un suo sostituto.


            Bruno Magnolfi     

domenica 30 maggio 2010

Un colpo impossibile.


Sullo spiazzo polveroso davanti al ristorante della Strada Statale, quel pomeriggio, c’erano rimaste soltanto due o tre macchine parcheggiate: sicuramente una era del proprietario, le altre dei lavoranti impegnati a riassettare la cucina e la sala del locale. La giornata appariva sonnacchiosa, gli autotreni passavano via tirandosi dietro i loro forti ruggiti, e la strada stessa sembrava disinteressarsi di tutto in quell’inizio d’estate in cui ogni attività sembrava stancare più che in altri periodi.
L’uomo con la camicia azzurra era da solo, aveva fermato la sua vettura ad una certa distanza, si era avvicinato all’entrata camminando svelto e passando da un lato. Poi aveva dato un ultimo sguardo alla strada, al piazzale, a quel silenzio ronzante di motori e di velocità. Quando era entrato non c’era nessuno, aveva dato un’occhiata alla sala del ristorante, poi si era avvicinato alla cassa per vedere se c’erano i soldi. Alle sue spalle era subito arrivata una donna, probabilmente la proprietaria, aveva appena finito di dire ad alta voce qualcosa ridendo con chi stava nella stanza sul retro, poi aveva guardato quella camicia azzurra, quella faccia, e il suo sorriso le si era spento dietro a un sospetto, formando sulla sua faccia un’espressione identica ad un punto interrogativo. Quella donna era alta, solare, aveva un vestito chiaro scollato, le braccia nude fino alle spalle, all’uomo con la camicia quasi dispiaceva mostrare quella sua vecchia pistola e chiederle i soldi con quel semplice gesto, senza parlare, con espressione immutata.
La donna aveva subito cercato di dire qualcosa guardando come per istinto la porta e paralizzando i suoi movimenti, ma l’uomo le aveva imposto il silenzio e lei si era avvicinata alla cassa rassegnata a fare quello che le stavano chiedendo. La sua mente in un attimo aveva disegnato la scena seguente: un gesto inconsulto, il proiettile che parte, forse per sbaglio, la colpisce in pieno, lei che si accascia mentre il suo sangue le sporca il vestito, quel suo bel vestito chiaro per il quale in tanti alla fine del pranzo le avevano fatto dei complimenti quel giorno, subito prima di pagare i loro pranzi, forse sperando in uno sconto, o chissà.
Le venne da piangere per l’alzarsi improvviso della tensione che adesso era forte, reale, superiore a ciò che si sarebbe aspettata. Pensò quasi di cercare consolazione dall’uomo che le stava di fronte, come se il nemico in quell’attimo fosse soltanto quella pistola, e che il resto fosse una sofferenza di cui tutti non avevano colpa, la subivano e basta. Spinse tremando le mani in avanti, senza pensare, fece un passo, sfiorò con la mano la canna di quella pistola, quasi aspettandosi il colpo mortale che doveva trafiggerla, ma il suo nemico arretrò, forse sorpreso o preoccupato per quel gesto.
L’uomo con la camicia azzurra adesso era fermo, le indicava la cassa, e la donna aveva iniziato ad eseguire quegli ordini, ma non riusciva a fare a meno di piangere, come se tutta la sua vita avesse caricato un insieme incontrollabile di emozioni che adesso si scatenavano insieme, lasciandola preda di sentimenti contrastanti. Non c’erano molti soldi dentro al cassetto, lei li prese con la mano, li porse, guardò l’uomo negli occhi così come si guarda una persona amata, con un’espressione piena di amore, e lui, con la sua camicia azzurra, pur combattendo dentro di sé, non riuscì in nessun modo a restare freddo e indifferente a ciò che stava accadendo. Abbracciò la donna in un gesto spontaneo e incredibile, rimase così il tempo di un attimo, poi prese la porta ed uscì, lasciandole i soldi sopra ad un tavolo.

Bruno Magnolfi


sabato 29 maggio 2010

Il valore di niente.



            Probabilmente sarebbe stato facile disinteressarsi del problema che si era manifestato quella mattina in ufficio. Una lavata di capo da parte del nostro dirigente ai danni di una collega, una ragazza giovane, con poca esperienza, un’impiegata come tante, quasi anonima. Lei aveva annuito, gli occhi bassi, in piedi davanti alla scrivania del suo superiore. L’ufficio del capo, in fondo a quel lungo corridoio, era aperto, gli altri colleghi non potevano fare a meno di rendersi conto di ciò che stava accadendo. La ragazza ne conveniva, sicuramente aveva commesso una sbaglio, ma era naturale, sarebbe potuto capitare a chiunque, si trattava di poco più di una cosa sciocca, ciò nonostante pareva si volesse infierire sulla sua debolezza in maniera superiore a ciò che sarebbe stato adeguato.
Qualcuno tra sé già pensava che i tempi erano proprio cambiati, non era più possibile sentirsi tranquilli, lavorare con calma e serenità senza ricordarsi ad ogni istante che quella multinazionale era in declino, i posti di lavoro erano a rischio, i dirigenti scattavano al minimo sentore di un imprevisto. Si prendeva un impiegato qualsiasi e con poco se ne faceva un caso negativo, a dimostrazione che là dentro c’era bisogno d’impegno, di attenzione, di dedizione completa al lavoro. Così si isolavano le persone, ognuno pensava allo stipendio, ai propri incarichi, a non danneggiare nessuno e a non mostrarsi inadeguato, lo capivano tutti.
La ragazza dopo un po’ aveva rialzato la testa, era uscita lentamente dall’ufficio del capo, forse pensando qualcosa, probabilmente era cosciente che nella prossima lista di mobilità sarebbe stata inserita anche lei. Lungo il corridoio però si era fermata, forse si era riscossa da quel forte senso di negativo che aveva appena ricevuto: si era voltata, era tornata dentro l’ufficio del dirigente, restando però sulla porta, e aveva detto a voce alta, in modo che tutti riuscissero a sentire le sue parole: “Siamo tutti fantocci di stoffa, signor capoufficio; ci facciamo la guerra cercando di metterci in buona luce gli uni contro gli altri. Crediamo che in tempi brevi questo ci dia la possibilità di mantenere quello che abbiamo, da buoni borghesi con un certo tenore di vita, e non sentiamo neppure più la vergogna nel far finta di niente o nel mostrare di non aver capito che le cose peggioreranno per tutti. Abbiamo perso il valore principale, la solidarietà che ci faceva sentire una squadra, un insieme, un gruppo di lavoro pronto a sacrificarsi per il bene di tutti. Adesso nessuno fa nulla più di quello che gli viene assegnato di fare, ognuno persegue i compiti della propria mansione, e questo è già un danno per le nostre attività di lavoro, ma così siamo isolati, ognuno da sé, siamo vulnerabili, divisi, nessuno mai sosterrà le ragioni di un altro, e questo conviene a chi ci dirige”.
Gli impiegati di tutto quel piano avevano smesso qualsiasi attività per riuscire ad ascoltare, ognuno sentiva lo schiaffo realistico di quelle parole, ma ancora era impossibile prendere qualsiasi posizione. “Non è colpa sua, signor capoufficio”, proseguiva così la ragazza; “Ma tutti insieme abbiamo lasciato che il nostro lavoro, le attività che svolgiamo ogni giorno, siano diventate oggetto di interesse solo per l’economia che sostengono. Non ci sono più le emozioni, il lavoro ormai è composto soltanto dalla materia nuda da cui è stato formato. Non c’è valore in questo, nessun valore, tutto è schiacciato ad aridi ruoli”. Qualcuno iniziò un debole applauso, poi qualcun altro si ricordò che ultimamente anche ai funerali ormai era in uso applaudire, così si ricompose il silenzio.


Bruno Magnolfi        

venerdì 28 maggio 2010

Nessuna attenuante.

            

            L’uomo di colore era rimasto fermo sul marciapiede, davanti alla porta a vetri di quel piccolo negozio, con le macchine che transitavano rumorosamente lungo la strada e le persone che si muovevano a piedi in quella zona tutta commerciale della città. Svolgeva da un anno una normale attività di rappresentante di commercio, ma quando c’era qualche trattativa difficile faceva intervenire un suo superiore che evidentemente aveva più esperienza di lui. Per questo era rimasto all’esterno, mentre l’altro, il suo superiore, era entrato, aveva subito iniziato a parlare col negoziante che restava di là dal bancone dell’esercizio, proprio di faccia alla strada, gli aveva stretto la mano come sempre si faceva con i clienti, ma subito aveva acceso una discussione, e la faccenda pareva avesse bisogno di un tempo maggiore di ciò che era stato immaginato.
Si trattava di farsi pagare dal negoziante una fornitura di materiale consegnata già molti mesi più indietro, e della quale era stato ottenuto fino ad allora soltanto un piccolo anticipo. L’uomo di colore era rimasto all’esterno per evitare che il negoziante si sentisse troppo aggredito, però osservava con interesse il procedere delle cose e continuava a seguire la trattativa giudicandola dai gesti, dallo scuotere delle teste e dai movimenti delle mani delle due persone all’interno, visto che le parole non poteva sentirle. Gli pareva, come era facile immaginarsi, che le cose non andassero bene, e che la situazione non portasse a niente di buono, ma ad un tratto vide il negoziante che si sporgeva da dietro al bancone, lo indicava col dito e diceva qualcosa. L’altro si voltava appena un momento, poi riprendeva con i suoi discorsi e le sue richieste. Forse gli avrà concesso la solita rateizzazione, pensava l’uomo di colore, e intanto osservava che il negoziante aveva cominciato a scrivere qualcosa sopra un foglietto.
Lui allora si era voltato di lato, come a cercare di allentare la tensione data anche da quegli sguardi, ma solo per dare un’occhiata alla strada; poi aveva spostato la sua cartella sull’altra mano, aveva mosso i piedi di qualche centimetro e infine era tornato a guardare dentro al negozio. L’altro, il suo superiore, aveva cominciato a gesticolare, e prima che qualsiasi altra cosa si mettesse di mezzo, aveva preso il negoziante alla gola e lo aveva colpito con dei pugni ravvicinati alla faccia. In un attimo quello era caduto, e l’uomo di colore osservando la scena era rimasto come paralizzato, incapace di fare o pensare qualsiasi altra cosa. Nessuno al momento aveva visto alcunché, la città proseguiva la sua attività come sempre, l’altro, il suo superiore, aveva preso la porta ed era uscito di fretta, senza guardarlo, passandogli praticamente sui piedi, prendendo quasi di corsa lungo il marciapiede e sparendo in fretta tra le tante persone.
L’uomo di colore allora era entrato dentro al negozio, era passato di là dal bancone per aiutare il negoziante, ma lo aveva trovato privo di sensi in una pozza di sangue: cadendo quello probabilmente aveva sbattuto la testa in uno spigolo, non c’era altro da fare che chiamare immediatamente il soccorso medico. Intanto dalla strada qualcuno aveva visto qualcosa di strano, aveva osservato dalla porta rimasta aperta la persona dentro al negozio, il suo comportamento, e aveva deciso di chiamare gli agenti. L’uomo di colore fu arrestato in un attimo, proprio mentre i soccorsi sopraggiunti in pochi minuti dichiaravano morto quel povero negoziante: a nulla valse dichiararsi innocente al processo, l’uomo di colore fu condannato senza alcuna attenuante.


            Bruno Magnolfi

giovedì 27 maggio 2010

La polvere sul campo di calcio.

            

            Il sole poco sopra alle case spariva ogni tanto dietro a dei grandi nuvolosi tutti bianchi e rigonfi. Un odore di terra era rimasto nell’aria, quasi a ricordare ancora le grida e gli schiamazzi che quel pomeriggio si erano rincorsi tra quei paletti raffiguranti le porte, retti alla meglio con dei piccoli cumuli di sassi che ogni tanto venivano risistemati. Il campetto da calcio era il solito, pieno di buche, ricavato al fianco di una fila di alberi mezzi secchi che delimitavano un fosso, ma adesso pareva come abbandonato da tutti, come se quei quattro fili d’erba sui lati e tutta quella polvere che al primo acquazzone sarebbe diventata fanghiglia non fossero niente, solo una porzione di terra e nient’altro.
Il pomeriggio era finito, tutti i ragazzi se n’erano andati, soltanto loro due erano ancora lì, seduti su una sasso, le ginocchia abbracciate, a guardare quel niente, ad aspettare il tramonto e a parlare sottovoce di qualcosa che altrimenti avrebbero dovuto ingoiare. Avevano perso quella partita a cui si erano preparati da giorni, uno scontro tra due gruppi rivali, sei contro sei, tutti più o meno della medesima età, anche se non era questo il motivo del loro sentirsi intristiti. Parlavano delle famiglie adesso, e di quanto fosse sempre più difficile accettare quelle cene con gli occhi nel piatto, quelle atmosfere pesanti, quei visi tirati, quella mancanza di serenità che la crisi economica aveva costituito. Non ne parlavano mai con nessuno, fare i finti e gli sbruffoni a scuola e con gli altri era la norma, ma loro due potevano scambiarsi tutta la sincerità che volevano, si conoscevano da sempre, abitavano in case vicine, i loro papà erano in cassa integrazione ambedue.
Avevano già imparato a non prendere a pedate una pietra per gioco, perché si sarebbero sciupate le scarpe, e non erano andati a giocare quella partita portandosi dietro lattine e bottiglie di coca e aranciata come gli altri, solo un po’ d’acqua di fonte. Ma neanche questo era quanto li opprimeva di più. Erano le espressioni dei loro genitori dentro casa l’elemento più forte, quella cappa pesante che regnava su tutto, quel sentirsi in balia di qualcosa che non potevano in nessun modo controllare, e che pregiudicava ogni giornata, ogni momento, ogni voglia di ridere. Probabilmente se avessero vinto la partita quel pomeriggio loro due non ne avrebbero neanche parlato con le rispettive famiglie, per pudore, perché non in linea col resto; ne parlavano adesso, con tutta la sincerità che trovavano, e i loro occhi svegli cercavano una forma che superasse quel momento che segnava pesantemente quella loro adolescenza. Perché loro si sentivano già grandi, si sentivano responsabili, immersi nel mondo più di tutti quegli altri che avevano giocato la partita di calcio quel giorno, e un orgoglio fortissimo ne trascinava la voglia di sentirsi migliori, forse anche perché più sfortunati.
Già quella solidarietà che sentivano era importante, poi quel loro parlare generava le idee: avevano deciso di sistemare quel campo di calcio durante i pomeriggi futuri, tenerlo il più possibile a posto, togliere i sassi, coprire le buche, renderlo più agevole. Avrebbero chiesto un contributo agli altri ad ogni partita, non c’era niente di male, sarebbe stato il loro modo per sentirsi più utili e mettere in tasca qualcosa. Ne parlavano, mettevano a punto i dettagli, era un inizio, ed erano contenti per questo, anche se le loro parole restavano sempre appena sussurrate, ad evitare di farsi sentire, tanto che il loro dialogo non è stato possibile riportarlo in questo racconto: troppo esili quelle voci, troppo lontano chi le avrebbe potute ascoltare.

            Bruno Magnolfi


mercoledì 26 maggio 2010

Immobile, senza alcun desiderio.

           

            Resto sdraiato sull’erba di questo giardino senza preoccuparmi di niente. Le mie braccia sono inerti, le mie gambe pare non abbiano peso. Sono sicuro che qualcuno mi abbia notato, forse si è chiesto che cosa stia facendo, fermo così sopra quest’erba un po’ umida. Ma a me non importa ciò che pensano gli altri, guardo il cielo, ascolto la terra, penso alle parti del mio corpo che restano ferme, senza alcun compito se non quello biologico. Se mi concentro riesco a sentire  i rumori di una città dall’altra parte del mondo. Tutti stanno correndo verso qualcosa o verso qualcuno, qualcuno sta sfruttando il desiderio di altri di correre verso qualcosa o verso qualcuno, alcuni immaginano di innalzarsi al di sopra di altri solo perché hanno capito quali siano i meccanismi che regolano quei desideri, quel correre continuo, e così tutto si mostra come un groviglio di elementi da cui sembra impossibile uscire. Ma al contrario io resto qui, senza interessi, immobile, come se niente riuscisse a scalfirmi. Non mi sento superiore, sono soltanto uno qualsiasi, eppure ritengo che non valga la pena di correre e industriarmi per riuscire ad essere alla fine così, come siamo tutti: uno qualsiasi, sdraiato sull’erba, senza possibilità di cambiare le cose.
            Infine mi alzo, raggiungo la mia macchina, percorro i viali alberati e rientro nella mia casa. Continuo a pensare, sono ancora convinto che niente valga la pena di cercare qualcosa che è già definito, potrei continuare per tempi lunghissimi a pensarci, eppure qualcosa mi percorre la mente e mi lascia perplesso. Forse ho perso la mia identità, dico davanti a uno specchio, forse con il mio atteggiamento passivo non faccio altro che rendere forte chi si diverte con la mia apparente perplessità. Accendo la televisione, mi sdraio sopra al divano e ritrovo quel senso di niente che avevo avvertito poco fa. Probabilmente è proprio così che devo essere, sprofondato in poche cose senza grandi significati, insulso, pronto a respingere gli altri solo perché mi assomigliano.


            Bruno Magnolfi

martedì 25 maggio 2010

Estraneo a tutto.

          

            Un uomo attraversa la strada. Cammina con calma, si guarda attorno diligentemente, osserva tutti gli elementi capaci di attrarre la propria attenzione. L’uomo sente il dovere di compiere ogni suo atto in maniera ponderata, che sia tenere le mani sprofondate nelle tasche dell’impermeabile, o decidere il tragitto migliore per tornarsene a casa. Sa benissimo dentro di sé che molte cose non sono affatto come lui le vorrebbe, ma si sente impotente, anche se questo non è il suo sentimento principale. Prosegue lungo la strada, vede altre persone che si muovono, parlano, vanno incontro alle attività di ogni giorno, e forse invidia qualcosa di loro, ma non saprebbe dire esattamente che cosa.
L’uomo avverte un malessere che non può definire solitudine: si sente bene da solo, può decidere e fare tutto quello che vuole, e questa gli pare una grande conquista. Il suo problema sta nel fatto che a furia di pensare e di scegliere ogni cosa per sé, ha paura di perdere il contatto con i modi di pensare degli altri, come se a un certo punto, le sue maniere, le sue abitudini, potessero divergere talmente tanto da quelle di tutti da lasciarlo isolato, un estraneo, un essere goffo impossibilitato ad avere comportamenti sociali.
E’ un pezzo che l’uomo riflette tutto questo, ma da pochissimo tempo ne prova anche paura, e quasi per consolarsi certe volte immagina che anche gli altri vivano la sua stessa sindrome, il suo medesimo terrore. Poi, ogni giorno, si cala in mezzo a tutte quelle persone e cerca di fare esattamente quello che fanno quegli altri, solo con lo sforzo aggiuntivo che ormai quei comportamenti deve pensarli, a lui non vengono più naturali.
Così prosegue camminando sul marciapiede, arriva vicino al condominio dove abita e rallenta, ha notato che sta rincasando un suo vicino di casa, non vuole incontrarlo, non ha voglia di scambiare nessuna frase fatta con lui, quindi si ferma, finge di osservare qualcosa di lato, infine si muove, arriva davanti al portone, ma il suo vicino è ancora lì, forse lo stava aspettando. Entrano assieme nel piccolo ingresso, l’altro dice qualcosa ma l’uomo non sente, non capisce neppure quelle parole che l’altro gli dice. Inizia a sudare, pensa che forse potrebbe anche ucciderlo per non sentire più quella voce; infine abbassa la testa e prosegue, sale le scale e arriva alla porta del suo appartamento.
Quando entra respira, non gli interessa alcunché di quello che penserà il suo vicino, sa solo che la prossima volta che esce di casa metterà un lungo coltello dentro alla tasca del suo impermeabile: è sempre meglio essere prudenti quando si esce, pensa tra sé.


            Bruno Magnolfi

lunedì 24 maggio 2010

L'ottimismo che trascina la volontà.

            

            “Davvero, non devi preoccuparti di ciò che dicono queste persone, sono soltanto invidiose,  in fondo non ne capiscono molto del tuo lavoro, devono solo scrivere qualcosa per rispettare il loro contratto, meglio se quel trafiletto che buttano giù sul giornale riesce a sciupare qualcosa, così sono ancora maggiormente apprezzati”, aveva detto lei con il suo modo sempre ottimistico di parlare anche delle cose più negative. “Lo so che non ci vuole poi molto per sentirsi senza certezze, completamente scarichi, privi di energia per guardare in avanti, ma tu non devi assolutamente sentirti così, il tuo modo di essere deve mostrarsi superiore a qualsiasi stupida battuta d’arresto”.
Di fatto il suo spettacolo non era stato apprezzato, la critica sui due o tre giornali locali che si erano occupati di quella serata, in rubriche generiche, neanche da addetti ai lavori, aveva parlato senza mezze misure di “lettura banale” di un testo classico ricco e importante, e questo era parso sufficiente per mandare quasi deserte di pubblico le repliche dei giorni seguenti. Quei commenti non venivano da esperti, non c’era una recensione precisa e puntuale del suo spettacolo da parte di una vera firma del settore, ciò nonostante tutto questo si era dimostrato come la batosta maggiore che il suo impegno in quel campo avesse raccolto, tale da lasciare a lui e alla sua attività di regista teatrale l’incapacità ad avere una qualsiasi reazione.
Si era chiuso in se stesso in quegli ultimi giorni, non sentiva più alcuna voglia di parlare con anima viva se non lei, e pur ripensando a quel suo lavoro non riusciva a trovarne i difetti che quei critici avevano dichiarato. Doveva ripartire da lì, era evidente, trovare la maniera migliore per ingollare quello che adesso gli era rimasto indigesto, e cominciare ad occuparsi di un nuovo lavoro, con slancio, con impegno, con rinnovata vitalità. Ma queste erano solo parole, di fatto non aveva più alcuna voglia di prendere in carico una nuova regia, di stare su un testo per mesi cercando i dettagli migliori da far emergere, sacrifici e fatica per poi magari lasciarsi ripagare in quel modo. No, basta, avrebbe smesso, era quasi deciso, però c’era lei che continuava con quei suoi modi a dargli speranza, a stuzzicare in modo positivo quel suo pur ridotto amor proprio, ed era lei, ancora, a concretizzare l’unica vera possibilità di riprendersi.
“Vorrei scrivere un articolo”, infine aveva detto, “con il quale rispondere alle accuse che mi sono state lanciate. Devo impegnarmi in questa risposta, devo analizzare tutte quante le cose da dire e dirle nella maniera e nella forma migliore. Si, lo farò, farò esattamente così, e cercherò di far pubblicare l’articolo sugli stessi giornali che oggi mi hanno stroncato, e devo farlo subito, adesso, il più presto possibile. Ma non posso farlo da solo, mi interromperei ad ogni parola, non ne sento la forza, per questo ho bisogno di te, di quel tuo ottimismo, di quella maniera che sa sempre trovare una realtà positiva. Perché è di questo che adesso ho bisogno, nient’altro che questo…”.


Bruno Magnolfi

domenica 23 maggio 2010

Il silenzio eloquente.

           

            Marco ha un amico con il quale va spesso in un bar. Tutt’e due stanno lì, certe sere, e lasciano che qualcuno scambi con loro un saluto, qualche battuta, la possibilità di pagar loro un caffè. Sono atteggiamenti normali, pensa Marco, comportamenti di tutti, basta riuscire in qualche maniera a passare la serata, a sentirsi bene, in compagnia con altre persone che manifestano la loro stessa sensibilità. A Marco non interessa minimamente frequentare quel bar, e se non fosse per quel suo amico e per tutti quegli altri che a volte incontrano lì, lui non si sognerebbe mai di andare a sedersi a quei tavolini a farsi pagare un caffè o scambiare delle chiacchiere insulse con gente che neppure conosce. Tanto più che il caffè non gli piace, lo ritiene soltanto un ingrediente di tutto quel gioco che si instaura davanti a quel bancone d’acciaio, a quello scintillare di bottiglie e di specchi, a quella manifestazione di personalità che si snoda soltanto in un luogo deputato all’effimero, un suolo pubblico, dove nessuno è padrone di niente, se non di quel tanto che riesce a conquistare parlando delle cose di tutti con voce migliore, con gesti maggiormente eloquenti. Non lo sa fare lui, lui si limita ad osservare gli altri, tutti coloro che restano lì, a parlare di ogni argomento e a dire qualcosa di cui si possa sentirsi d’accordo.
Marco perde coscienza di sé qualche volta, mentre ascolta il suo amico che parla di cose che magari conosce anche lui, con tutti gli altri che lo guardano e annuiscono con le facce attente e curiose, e non è mai tardi quando decidono di andarsene via loro due, lui lo sa, ma il suo amico conosce perfettamente quali siano i tempi giusti, quelli per cui le cose dette sono sempre un po’ troppe, e perfette sono solo quelle che rimangono in aria tanto da lasciare che ancora una sera ci voglia per completarne il racconto. Marco avverte tutto questo, lui vuol bene al suo amico, gli riconosce una grande capacità, ed ogni sera quando vengono via da quel bar lui vorrebbe parlargliene, ma per quanto ci provi non ci riesce, ma sa dentro di sé che non è affatto importante: il suo amico usa molte parole quando parla, per questo conosce perfettamente cosa vuol dire qualcuno quando rimane in silenzio.   


            Bruno Magnolfi

sabato 22 maggio 2010

Il significato di tutto.

            

            Certe volte, quando mi reco da un amico o da un conoscente per una visita di cortesia, capita che io mi sieda su di una poltrona, mi metta comodo, e senza alcuna fretta cominci a parlare di me, delle mie cose, dei miei ricordi lontani o vicini. I miei amici ascoltano, pazienti, lasciano che io snodi le mie ricostruzioni, che la mia capacità di dare un senso a tante cose del passato si sviluppi in una rete di piccole vicende che appaiono come dei raggi di luce improvvisi in degli angoli bui. Alle volte mi fermo, attendo che le parole stesse prendano tempo, che i pensieri riassumano ciò che intendevano dire, i discorsi abbiano uno svolgimento più calmo, più riflettuto. Riprendo da lì, da ciò che ancora non è minimamente evidente, da quegli aspetti del vivere che neanche a me risultano chiari, e così continuo comunque a parlare, ad esprimere al massimo tutto quello che so di quegli argomenti, lasciando che i miei amici ascoltino attenti ogni particolare, perché sono cosciente che solo loro potranno capire il significato di tutto.


            Bruno Magnolfi   

venerdì 21 maggio 2010

Le premesse per la serenità.

         

            Perché mai dovrei fare quello che dicono gli altri, pensava il signor Solmi. Sembrano tutti pronti a dirti quello che non li riguarda affatto, solo per il gusto di indicarti quale sia la maniera più adatta per spersonalizzarti. Proprio nel momento in cui tutti paiono convinti di qualcosa, io mi sento assolutamente persuaso del suo contrario. Certe volte sembra che lo facciano apposta, conoscendomi, per tendermi dei trabocchetti: mi dicono qualcosa e fanno finta che sia una cosa minore, non mi dicono niente e so già che mi hanno tenuto segreto un fatto importante. Così mi ritrovo a dover faticare non poco per capire cosa ci sia di meglio da fare, e rimango sempre lì a cercare di comprendere le cose più sfuggenti del mondo.
Esco di casa, mi salutano, qualcuno ride, e già non riesco a capire il perché. Qualcuno mi ferma, mi chiede se sono già andato a vedere i lavori alla stazione dei treni, e io rispondo subito che non mi interessa per nulla, perciò non ci sono andato e neppure penso di andarci. Insistono, forse per burla, ed io sono già vicino dal perdere del tutto la pazienza. Poi incontro un altro gruppetto di persone che non hanno niente da fare, e tutti insieme, come si fossero messi d’accordo con gli altri, mi dicono che hanno in mente di rinnovare completamente la vecchia stazione dei treni, e che il progetto va avanti, qualsiasi buon cittadino deve esserne conscio. Non dico niente, continuo per la mia strada e mi tengo distante il più possibile da quella stazione. Però una certa curiosità intanto mi è presa, soprattutto perché da queste parti non succede mai niente di nuovo: però per nessuna ragione mi lascerò convincere da quello che dicono, perciò mi tengo alla larga e vado per i fatti miei. Infine incontro altra gente, alcuni mi salutano, nessuno aggiunge altro sui lavori della stazione, e forse un po’ mi dispiace, vorrei saperne qualcosa.
Alla fine decido di uscire di sera, quando è buio, con un cappello che mi copra la faccia, e andarmene a vedere i lavori alla nuova stazione dei treni. Arrivo lì e scopro che non è quasi successo un bel niente, così penso che hanno cercato di prendermi in giro, ma poi incontro due uomini che conosco di vista; mi guardano, buonasera signor Solmi, mi dicono, anche lei è venuto a rendersi conto dei motivi che hanno fatto interrompere tutti i lavori? Niente affatto, rispondo, devo soltanto prendere un treno nei prossimi giorni, e volevo sincerarmi sull’orario della partenza. Mi guardano, si guardano tra loro, poi dicono, e dove andrebbe di bello, signor Solmi? Mi trovo spiazzato, così rispondo che ho solo voglia di andare in un'altra città, almeno per un giorno, dove forse non mi conosce nessuno.
Quelli mi salutano, e ognuno se ne va per la sua strada, ed io rientro nella mia casa. Perché dovrei andare in un’altra città, penso tra me. Spendere soldi e affrontare tutta la noia di un viaggio disagiato senza neppure un motivo plausibile. Così mi metto a letto e decido che il giorno seguente non uscirò neppure di casa. Così tutti saranno pronti a chiedersi dove mai io sia andato davvero e quale treno abbia preso: meglio, per sapere le cose dovranno venire a chiedermele a casa, suonare il mio campanello e pormi domande con cortesia, perché ho deciso che da ora in avanti non parlerò più con nessuno, se non con queste premesse.


            Bruno Magnolfi

giovedì 20 maggio 2010

Accadimenti irripetibili.

            

            Il piccolo ufficio d’angolo al primo piano di quel palazzo, era in disordine come sempre. Fuori dalla finestra che dava su una delle piazze più frequentate, la gente sui larghi marciapiedi circolava copiosa nell’ora di punta, come ogni giorno. Lui aveva socchiuso i vetri per far entrare un po’ d’aria, poi aveva dato un’occhiata alla posta e alle cose più urgenti da sbrigare. Si era acceso una delle sue sigarette con tutta la calma svogliata che gli procurava l’inizio di un’altra giornata di lavoro sicuramente pesante, poi aveva spalancato del tutto quell’unica finestra della stanza ed era rimasto lì immobile, accanto al davanzale assolato, ad osservare la città che nevroticamente svolgeva il suo ruolo.
Un uomo fermandosi aveva iniziato ad osservarlo dal marciapiede, poi si era affiancata un’altra persona che aveva sollevato il suo naso ed era rimasta lì, anche quella, ferma a guardare. Altri si erano aggiunti, come se qualcosa richiamasse magneticamente l’attenzione verso la finestra dove lui si era affacciato. Molti continuavano a fermarsi e a guardarlo, e lui in un primo momento era rimasto paralizzato per la stranezza di quello che stava accadendo, ma in seguito la situazione gli era apparsa così innaturale da renderlo persino incapace di pensare qualcosa. Restava lì, a quel davanzale, a farsi osservare da tutti, quasi con il fiato sospeso, impossibilitato a qualsiasi movimento, tanto che la sua sigaretta continuava a fumare da sola nel posacenere della sua scrivania, e intanto lui cercava di capire che cosa si fosse verificato per attrarre tutta quell’attenzione.
Le cose andavano avanti, le persone arrivavano, si accalcavano agli altri e si fermavano con lo sguardo rivolto all’insù, verso di lui. Il sole gli faceva scottare la faccia e lui con gli occhi ridotti a due fessure per via della luce non riusciva neanche a guardare qualcuno o qualcosa; infine si accorse che del sangue gli era colato dal naso, come altre volte era accaduto per una normale allergia di stagione, e lui non volendo e non accorgendosi di niente si era impiastricciato con la mano quasi tutta la faccia. Chiuse velocemente i vetri e si allontanò dalla finestra, ma ormai era tardi, tutti avevano preso a salire lungo le scale, a bussare alla porta del suo piccolo ufficio, ad assediarlo, curiosi, bramosi, con l’ansia di assistere di persona a ciò che stava accadendo là dentro. In seguito la giornata si svolse proprio come ogni altra.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 19 maggio 2010

Una lettera senza importanza.

            

            Accanto alla panchina nei giardinetti dove il signor Calamassi era solito andarsi a leggere il giornale per far trascorrere almeno un’ora della sua interminabile mattinata, un piccolo foglio di carta piegato in due era rimasto sull’erba, come smarrito o dimenticato da qualcuno che oramai sicuramente era lontano. Il signor Calamassi lo aveva notato, mentre raggiungeva il suo luogo di lettura, ma in un primo tempo non si era preoccupato affatto di raccoglierlo, non gli sembrava assolutamente un compito suo interessarsi dei fatti degli altri, ma in seguito una certa curiosità gli era iniziata a venire, non foss’altro perché nel lato interno del foglio, osservandolo meglio, si intravedeva una pagina scritta con inchiostro blu, il suo preferito, in modo fitto e ordinato.
Non gli piaceva certo al signor Calamassi, dall’alto della sua posizione di docente universitario in pensione, fare la figura di quello che non tiene sott’occhio la realtà, e non si accorge neppure di un elemento, magari importante, che gli resta vicino, a portata di mano, quasi come se tutti quegli anni trascorsi dietro una cattedra non gli avessero insegnato che è solo da piccoli e nascosti particolari, uno sguardo, un passaggio di appunti, un bisbiglio all’orecchio, che si arguisce il livello di comprensione degli studenti nei confronti della materia spiegata. Quindi, a seguito di queste considerazioni, stava per alzarsi dalla panchina, la sua preferita di tutto il giardino, e andare a raccogliere il foglio, quando da un lato arrivò una giovane donna camminando malferma sui tacchi per via della ghiaia, passò di lato alla panchina dove era seduto il signor Calamassi, e non mancando di guardarsi un po’ attorno proseguì in silenzio la sua passeggiata.
Forse era lei la proprietaria del foglio di carta, pensò il signor Calamassi, forse un abbozzo di lettera d’amore scritta proprio su quella panchina e poi dimenticata là sopra, tanto che un minimo colpo di vento l’aveva in seguito appoggiata sull’erba in una zona meno visibile. Ed era certo che la signorina, tornata indietro a cercarla, non l’aveva adesso potuta vedere, perché coperta proprio dalla sagoma del signor Calamassi, che a questo punto diventava quasi complice di una situazione, correo di avere impedito il felice ritrovamento di quelle parole.
Si imponevano due scelte, almeno alla sua sensibilità battagliera: se fosse passata di nuovo la signorina il signor Calamassi doveva chiederle direttamente se era di sua appartenenza la lettera, tanto più che trovandosi ancora sull’erba non era possibile che lui ne avesse sbirciato il contenuto, sfuggendo così a qualsiasi timidezza; oppure, se questo non fosse accaduto ma nel foglio, per fortunata eventualità, fosse stato indicato l’indirizzo del destinatario, lui l’avrebbe raccolta, piegata con cura e infilata dentro a una busta per spedirla senz’altro.
La giovane donna non tornò sui suoi passi, e in compenso una mamma con il suo passeggino era venuta poco dopo a sedersi proprio sul lato libero della panchina del signor Calamassi, tanto che lui aveva quasi pensato di andarsene e lasciar campo libero. Ma poi, si era chiesto, la lettera? Non poteva abbassarsi e prenderla adesso, davanti a dei testimoni, dopo che era rimasto seduto su quella panchina per metà della mattinata, indifferente a tutti i fogli di carta del mondo. E la signorina di prima sembrava svanita, persa anche lei nella ricerca di quanto aveva smarrito.
La tensione si era fatta elevata, il signor Calamassi osservò il suo orologio e si accorse che era arrivato il momento in cui ogni giorno passava dal forno, acquistava del pane, e con quello rientrava, soddisfatto di una piccola azione a cui teneva moltissimo. Un attimo, un pensiero improvviso, e la decisione pur dolorosa infine era presa, così il signor Calamassi si alzò da quella panchina, quasi con un moto di fretta improvvisa, piegò accuratamente il giornale, salutò di sfuggita la mamma con un debole sorriso, e se ne andò per i fatti suoi, lasciando la lettera ad altri.  


            Bruno Magnolfi

martedì 18 maggio 2010

L'enigma dell'evidenza.

           

            “Sono soltanto sciocchezze”, aveva detto lui con indifferenza e senza guardarla. Stava cercando di pensare a quale abbigliamento sistemare dentro alla valigia, ma, pur non dandole importanza, aveva anche appena finito di ascoltare una serie di sottili accuse di indifferenza da parte di sua moglie, da lei notate, così almeno aveva sostenuto, da diversi mesi a questa parte. Lui aveva cercato di decifrare al massimo quelle parole proprio per arrivare a capire se lei stesse covando anche un sospetto di adulterio oppure no, cercando così di essere subito pronto a difendersi, ma in questo modo, pur mostrandosi in apparenza quasi disinteressato, di fatto aveva già sbagliato diverse volte colore di calzini e di camicie.
Poi si era seduto, come per dare improvvisa importanza a tutto quello che era stato appena detto e forse anche a ciò che era stato solo supposto, e scrollando la testa come chi cerca la chiarezza dentro la nebbia, aveva ricominciato sorridendo: “Ma a che proposito avrei messo assieme questa piccola vacanza se non fosse proprio per ritrovare quell’intesa che tra me e te si è forse un po’ appannata? Vorrai almeno darmi atto del tentativo, visto che ancora non siamo neppure partiti…”. Lei sviluppò uno strano sorriso a queste parole, come aspettandosi una mossa tattica del genere, misurando l’atteggiamento di chi cerca di recuperare con una settimana di vacanza tutto ciò che è andato perso in mesi e mesi di comportamento sfuggente, quasi da estraneo. Parve riflettere tra sé mentre controllava qualcosa dentro al beauty case, poi con voce bassa, come di chi forse ha già capito ma non vuole ammettere la verità per non sentirsi delusa dal rapporto della sua vita, disse soltanto: “Va bene, hai ragione, godiamoci questa vacanza senza mettere altro in mezzo; sempre che tu sia d’accordo…”.
“Certo…”, disse lui con la sensazione di aver vinto la partita troppo facilmente; “Non vedo niente che possa ostacolare questo proposito”. In fondo, pensava, sono riuscito persino a chiudere questa valigia, non vedo perché non possa riuscire a fare il buon marito almeno per tutta questa intera settimana.


            Bruno Magnolfi

lunedì 17 maggio 2010

Un oggetto comune e prezioso.

            

            Un mozzicone di matita in un angolo, rimasto lì chissà quanto tempo. Angi si volta, vede il mozzicone, cerca di rammentarsi in quale occasione possa essergli caduto per andare ad infilarsi là dentro. Ma la memoria non sembra aiutarlo, e tra l’altro gli pare, guardandolo meglio, un tipo di matita che in genere non ha mai adoperato. Forse sarà caduta a qualcuno dei ragazzi l’ultima volta che sono venuti a fare i compiti da lui, pensa, ma gli pare un po’ strano che qualcuno di loro abbia perso qualcosa e non si sia preso la briga di tornare a cercarlo. Lo strano è anche che l’ultima volta quando i ragazzi sono stati nella stanza di Angi a fare i compiti, era non meno di due o tre settimane prima, e in tutto quel tempo a lui o alla sua mamma doveva essere saltata agli occhi per forza quella matita. Non è neanche nascosta, sta lì, quasi in bella mostra, proprio per farsi vedere.
Angi chiede notizie a sua mamma, ma quella non ne sa proprio niente e poi ricomincia con la solfa del disordine e cose del genere. Nella sua stanza il disordine c’è, è innegabile; però non ci possono essere strane matite che scappano fuori dal niente. Angi esce di casa, però si sente un po’ inquieto, è come se qualcuno avesse messo lì l’unico oggetto che stona col resto, e proprio per questo adesso non riesce a pensare a nient’altro. E’ quasi un affronto, lui non si è mai fatto carico di problemi del genere, ma adesso qualcuno si permette di far rotolare uno stupido mozzicone di matita in un angolo e poi resta lì, da qualche parte, a sogghignare nell’ombra.
Prende la sua bicicletta Angi, ed esce da solo sulla strada deserta per farsi un giretto, ma passa davanti alla casa di Leo, e subito pensa che forse è stato lui a gettare quella roba nell’angolo, giusto per fargli uno scherzo. Però è strano, Leo avrebbe messo lì uno scarafaggio, una lucertola morta, non certo una matita, e poi avrebbe dovuto restarsene da solo nella sua stanza per fare una cosa del genere, e questo non è proprio successo, ne è più che sicuro, perché di Leo non si è mai fidato. Così la giornata va avanti, arriva fino a casa di Bizio, scende dalla sua bicicletta e suona il campanello, tanto per fare qualcosa. Sua madre gli dice di entrare, Angi entra e raggiunge subito Bizio che sta studiando qualcosa nella sua stanza. Non dicono niente, solo stupidaggini, ma Angi guarda negli angoli, non riesce più a farne a meno: non ci sono matite là dentro, solo angoli vuoti, smorti come Bizio che non riesce a far altro che star lì a studiare e ad usare matite diverse da quel mozzicone, così anche lui resta escluso.
Tutto il quartiere adesso gli pare pieno di angoli che nascondono matite identiche a quella che lui ha trovato nella sua stanza, e forse anche ogni angolo di tutta la casa ne ha una, pensa, come se non potesse esistere alcun angolo senza la sua brava matita di appartenenza. Molla la bicicletta accostandola al marciapiede e rientra nella sua abitazione, guarda sul campanello se ancora ci sono riportati là sopra i nomi di suo padre e sua madre, poi va in cucina e beve dell’acqua. Si sente confuso, tutto gli sembra leggermente diverso, come se qualcosa si fosse spostato o avesse cambiato colore. In corridoio Angi incontra sua madre che sta per uscire, gli chiede di restarsene in casa almeno per quell’ora che lei si deve assentare, poi se ne va. Silenzio. Uno strano silenzio carico di tensione. Qualcosa scricchiola da qualche parte, e lui torna in camera sua, lentamente, seguendo un semplice sospiro dell’aria: non c’è più quel maledetto mozzicone di matita nell’angolo, non c’è più niente in quell’angolo vuoto, lo sapeva, lo aveva capito, la realtà è un caleidoscopio di cose che esistono, che restano lì attorno a noi, questo è certo, ma tutto è così solo se siamo consapevoli del fatto che anche noi almeno un po’ lo vogliamo.


            Bruno Magnolfi

domenica 16 maggio 2010

Non servirà.

            

            A chi interesserà poi tutto questo rumore, questa confusione nata solo dentro la testa, questo bisogno di dirsi qualcosa, ma tanto per dircela, perché altrimenti, scusa sai, non mi sentivo bene, a posto con gli altri, in pace con me stesso. A chi servirà questo aver fatto tanta barriera per frenare, per zavorrare il più possibile a terra ciò che magari avrebbe potuto anche volare, ma no, si era già detto, non ce la farà mai, che scherzi, sono tutte cose che non hanno alcun senso, per questo vale la pena scuotere la testa, o sorridere, che tanto a niente servirà questo impegno, questo stupido continuare a giocare con delle parole.


            Bruno Magnolfi

Lungo marciapiedi senza destinazione.

            

            Certe volte i segni intorno a me pare desiderino spiegare meglio qualcosa della realtà e indicare una nuova strada per riuscire a comprenderla, un diverso modo per intendere tutto, pensava tra sé la persona anziana mentre camminava lentamente lungo un marciapiede qualsiasi. Le porte delle case si aprono, il mondo si disvela attraverso gli occhi di persone comuni come me che non si sono mai perse dietro alle adulterazioni di questo apparire. Cammino, pensava ancora l’anziana persona, eppure niente si muove, solo i pensieri e i giudizi che fermano le immagini e interrompono qualsiasi dialogo. Si perseguono le cose di sempre migliorandone solo la tecnica e scambiandola per surrogato essenziale, e si cerca di essere convinti di qualcosa che inevitabilmente ci sfugge. La semplicità vince, pensava la persona anziana quasi saggia, i ragionamenti complessi sono destinati all’oblio dentro a mentalità sempre più periferiche. Era domenica anche l’ultima volta, quando camminando lungo un altro marciapiede come questo riflettevo qualcosa di simile, pensava l’anziana persona, eppure eccomi qua, non sono cambiato neanche di poco, ho conservato le mie caratteristiche nonostante avessi notato che i segni del mondo mi volevano da sempre diverso. Forse non ne sono mai stato realmente convinto, come non lo sono neanche oggi che è ancora domenica, come probabilmente sarà per tutte le domeniche che ancora verranno, e lascerò solo ai pensieri il compito di giungere in luoghi diversi proseguendo lungo questi marciapiedi, perché la realtà ha stabilito per me un ruolo che in nessuna maniera posso provare a disconoscere.

            Bruno Magnolfi


sabato 15 maggio 2010

Lo sciopero immorale.

            

            Gli uomini si erano raccolti tutti da una parte, in silenzio ma come confabulando tra di loro, seduti svogliatamente sulle grosse pietre al sole e al vento. Le donne invece erano rimaste in piedi, vicino alla scalinata della Chiesa, in attesa di qualcosa sulla piazza del loro minuscolo villaggio. Invece niente era accaduto, e per parecchio tempo, solo a un certo punto era arrivato di corsa un ragazzo con i calzoni corti. Si era fermato nella polvere in mezzo ai due gruppi, i capelli spettinati dal vento, la faccia seria. Aveva preso fiato, poi aveva detto a voce alta che al padrone non gli interessava niente del loro sciopero; invece di un giorno potevano restarsene a casa per tutta quella settimana intera, così aveva detto, a lui non interessava affatto, e che lui i soldi ce li aveva, erano loro ad essere pezzenti, e per questo avevano bisogno di lui e di lavorare. Se lo mettessero in testa, diceva ancora il ragazzo, sarete voi a rimetterci, e nessun’altro.


            Bruno Magnolfi

giovedì 13 maggio 2010

La sorgente miracolosa.

        

Il paese era sito ai piedi di una collina verdeggiante, ed ogni estate in tanti vi salivano seguendo i sentieri tra la vegetazione per goderne l’aria fresca. C’era un gruppo di rocce polverose ai piedi di quel monte, poco distante dalle ultime case del paese, e qualcuno a luglio notò che nonostante il sole e il secco di quei giorni, quelle pietre erano diventate sempre più umide. Passò un po’ di tempo e l’umidità continuava, tanto da incuriosire diverse persone, e quando arrivò la fine di quel mese e il giorno di Santa Marta, patrona del paese, dalla roccia improvvisa sgorgò l’acqua.
Metà della popolazione si recò subito nel luogo in un pellegrinaggio spontaneo inginocchiandosi e pregando, altri tolsero la grande statua di gesso dalla Chiesa e la portarono nei pressi della roccia, costruendo velocemente una base di cemento che la sostenesse. Nei giorni seguenti altri si industriarono a costruire una protezione di vetro che custodisse quella statua che in quel modo rimase lì, accanto alla sorgente, e si cominciò a venerare la Santa in ogni giorno della settimana, specialmente la domenica, tanto che numerosi gruppi di persone arrivarono anche da fuori fermandosi nei pressi della roccia e trascorrendoci spesso molte ore.
L’acqua continuava a sgorgare dalla roccia e aveva formato a terra un rigagnolo che serpeggiava tra le piante andando a gettarsi, cento metri dopo, in un fosso preesistente. Qualcuno, considerato il caldo torrido di quel mese di agosto, pensò bene di scavare una pozza di raccolta di quell’acqua, e una volta effettuata tutti iniziarono a bagnarsi le mani e i piedi in quel laghetto, sostenendo che fosse un’attività senz’altro curativa per l’artrite, i dolori muscolari e altre cose di quel genere. Tanti gridavano al miracolo, qualcuno restava in ginocchio sopra la radura di terra battuta per più ore, chiedendo il perdono, o altri miracoli, guarigioni varie e la fine di ogni avversità.
La sorgente continuava a gettare allegra la sua acqua, e anche la metà del paese che aveva alzato le spalle fin dall’inizio, mostrando disinteresse o incredulità sul coinvolgimento del soprannaturale per quanto era accaduto, dovette piegarsi alla situazione e andare a vedere coi propri occhi il luogo Santo. Intanto la pozza d’acqua era stata allargata, considerato l’afflusso di persone che desiderava immergere là dentro piedi e mani, e le autorità avevano iniziato a progettare un parcheggio attrezzato poco distante e l’asfaltatura di tutta la radura. Spuntarono furgoni che vendevano panini imbottiti e oggetti sacri, e nel mese di settembre l’afflusso di persone arrivò a punte estreme, fino a quando l’acqua d’improvviso calò di intensità, fino a smettere quasi del tutto di scaturire dalle rocce, e si dovette ricorrere velocemente a delle autobotti che si recavano sul fianco della collina poco sopra al luogo Santo, ben nascoste dalla vegetazione, per rilasciare l’acqua sufficiente a sopperire al fabbisogno della sorgente. Nessuno si lamentò di niente, gli affari giravano bene per tutti, e Santa Marta vegliava con le mani giunte su tutti quanti si recavano fin lì.
Accadde di notte, fortunatamente, quando non c’era nessuno nei pressi, forse per l’acqua eccessiva sversata dalle autobotti, che alcune rocce in alto si staccarono, precipitando sul luogo del miracolo e devastando tutto quanto era stato messo in piedi, compresa la statua di gesso e gli inginocchiatoi di pietra costruiti in fretta e furia. Dovettero smettere anche con le autobotti, naturalmente, e tanta fu la sorpresa e il dispiacere per quei nuovi eventi, che tutti dal paese andarono a vedere di persona, ma l’idea di qualcuno di gridare al miracolo per non aver fatto accadere una catastrofe di morti se la frana fosse successa di giorno fu vincente, e tutto in poco tempo ricominciò quasi come prima, appena ricostruita la statua di gesso della Santa che aveva vegliato sui suoi devoti, proprio nello stesso punto dov’era prima, e ricolmato d’acqua, non più alimentato, il laghetto lì vicino. Non c’era più la sorgente, ma alcuni sostenevano di averla vista, di averne notato una lucentezza straordinaria, quasi come di liquidi diamanti, costruendone velocemente una leggenda; e anche gli altri che erano sempre rimasti scettici, ora dicevano a tutti che era vero, e poi si sa, le cose a volte cambiano.


Bruno Magnolfi

mercoledì 12 maggio 2010

Il mondo insopportabile.

            

            Mi siedo, nel sole quasi estivo, su di una panca di legno davanti casa mia. Penso che niente valga quanto questa luce, quest’aria tiepida che mi scalda. I miei familiari mi controllano da casa, non vogliono che faccia qualche altra stupidaggine, ma io non ne ho alcuna intenzione. Sto seduto nel sole, mi sento bene, forse mi annoio, ma che importa. Mi guardano ogni tanto, non può accadere niente. Certe volte quando sono solo come adesso penso di essere soltanto un peso, e mi viene da piangere, ma dura poco, subito mi passa, e in poco tempo va via anche la tristezza. Sto bene qui, adesso, in questo sole, osservo il mio vicino di casa dall’altra parte della strada che sta tagliando l’erba del suo prato, e non penso niente. Lui mi vede, non mi saluta, lo sa che non rispondo. Però anche lui mi guarda, mi controlla, nessuno vuole che succedono cose sgradevoli, neppure il mio vicino. Sul marciapiede poi arriva una vecchia, guarda avanti a sé, non si interessa di niente e di nessuno. Mastico qualcosa di incomprensibile quando mi passa vicino, lei si ferma, si volta a guardarmi. Con un gesto le chiedo di avvicinarsi ancora, lei si è accorta che io non sono normale, così si accosta cauta: le lancio uno sputo, brutta vecchia stupida.


            Bruno Magnolfi

martedì 11 maggio 2010

Cambierà questa vita.

            

Cammino in mezzo agli altri e immagino sia evidente la mia solitudine. La pulizia e l’accuratezza dei miei vestiti e del mio corpo che fino a ieri per me erano un vanto, hanno lasciato spazio oggi ad una trascuratezza e ad una indifferenza per tutto ciò che riguarda elementi voluttuari del genere. Si tratta di cambiare, questo è l’imperativo che mi sono posto. Ho studiato a  fondo alcune cose fino a rendermi conto che nessuno cambia mai. Tutti stretti alle proprie abitudini, ai modi di essere scelti una volta per tutte, ad una maniera ormai definita e assodata di vivere.
Cammino con gli altri, ma so di avere con me un elemento nuovo, qualcosa che si rinnova ogni giorno, e ogni giorno mi fa sentire diverso. Incontro per strada sia chi mi conosce, sia chi non sa assolutamente chi io sono, e le due classi di persone appaiono identiche ai miei occhi. Io stesso, se riuscissi ad osservarmi, forse neppure mi riconoscerei. Sono un’altra persona ogni volta che penso me stesso, cambio in modo continuo, fino a spersonalizzarmi, ad assumere sembianze e identità che non avrei mai immaginato. Poi rido, in un modo liberatorio, rido di me stesso, del mondo che non mi capisce, di coloro che mi guardano e ridono di me, e rido del fatto che ancora non so proprio cosa sarò diventato fra un anno o fra un mese; non so neppure come mi sveglierò e chi sarò domattina. Sarò differente, questo è sicuro.


Bruno Magnolfi

lunedì 10 maggio 2010

Fantastiche probabilità.

            

            Il letto, in quella cameretta a due posti in fondo al corridoio della clinica, era comodo. Dalle sue sponde pareva che tutto cadesse a terra verticalmente, lenzuola, coperte, qualsiasi oggetto appoggiato là sopra, ma tutto l’insieme sembrava ancorato a dei robustissimi tiranti costituiti da cavi d’acciaio che ruotavano lentamente su delle pulegge, a seconda delle tante posizioni che gli infermieri volevano far assumere al malato di turno. L’altro letto momentaneamente era vuoto, però nella sua perfezione estetica (neanche l’ombra di una grinza formava quella coperta), pareva così in solerte attesa di un ospite da riuscire a parlare come tra sé di tutti coloro che erano stati sdraiati là sopra prima di allora.
            L’uomo avvertiva alcuni leggeri dolori non circoscritti, e il suo medico gli aveva consigliato una serie di esami specifici da effettuarsi in pochi giorni di ricovero ospedaliero. Così stava là, fermo e coricato, in un’attesa contornata da una finestra che dava sul niente del cielo, e delle pareti bianchissime che parevano il nulla in forma di muro. I primi stupidi pensieri sulla famiglia e il lavoro l’uomo li aveva sveltamente allontanati da sé, lasciando navigare la sua fantasia sulle cose che negli ultimi anni gli erano capitate.  
            Gli era tornata in mente, chissà per quale motivo, la faccia di un uomo più giovane di lui, che aveva conosciuto un paio d’anni prima in occasione di una piccola festa che sua moglie aveva organizzato nel giorno del proprio compleanno, un ricevimento all’aperto per un gruppo di non più di trenta persone. Naturalmente lui odiava quel tipo di cose, ma per far contenta sua moglie si era dato da fare per sistemare al meglio le cose. Gli invitati erano quasi tutti amici di vecchia data, meno una coppia, un uomo e una donna, di cui lui si era presentato come il nuovo collega di lavoro della sua moglie. Non ricordava altro adesso, se non quell’espressione strana, particolare, quel modo di sorridere quasi come per fare una smorfia.
            Avevano parlato del più e del meno in quell’occasione, e quel tipo aveva detto più volte di chiamarsi Fernando, senza aggiungere altro di sé. Poi, dopo quella giornata era sparito, sua moglie non lo aveva neanche più rammentato, e in seguito, quando lui aveva chiesto qualcosa di quei suoi colleghi, lei aveva chiarito che Fernando era stato trasferito ad un ufficio diverso, e praticamente lei non lo aveva più visto da allora. Così era finito nel dimenticatoio come sempre succede con le persone che non capita più di poter frequentare, ma adesso, senza un motivo apparente, ritornava quella faccia in mezzo ai ricordi, quella buffa maniera di sorridere, quasi una smorfia, come a chiedere di venire rammentata.
            L’uomo aveva chiuso gli occhi cercando di ricordare qualche ulteriore particolare, e aveva immaginato che nel posto lì accanto fosse arrivato proprio Fernando ad occupare quel letto e a parlare di sé, di quello che non aveva detto quel giorno. Si divertiva ad inseguire quella sua fantasia, così immaginava un tipo divertente assunto chissà come tra quei meandri della pubblica amministrazione, sballottato da una parte a quell’altra dai capoufficio privi di qualsiasi sensibilità e capaci solo di mostrare doti di polso e di durezza nei confronti dei loro subalterni.
            Fantasticava a lungo tra sé, immaginava tutte le più diverse possibilità di un uomo con la faccia che sembrava una smorfia, e perso dietro a quelle immagini leggere e quasi divertenti prese sonno, lasciandosi cullare forse dalla posizione perfetta del suo corpo coricato nel letto. Fu soltanto in fondo a quella mattina costituita da uno strano tempo sospeso che l’uomo, leggermente infastidito da piccoli rumori insignificanti nella stanza, ad un tratto si risvegliò, annusò l’aria, e girato lo sguardo verso l’altro letto della sua cameretta, si accorse che in quel lasso di tempo quel luogo perfetto ed intatto era stato occupato. Allora incuriosito guardò meglio, pensando subito di inviare un saluto all’altro ammalato, tanto per trovare un’intesa e una solidarietà necessarie in un luogo del genere, ma in quell’attimo rimase senza parole: era Fernando che occupava quel letto di fianco, proprio lui che adesso lo stava guardando con quel suo sorriso strano e indecifrabile, quella sua caratteristica smorfia, e mostrava di averlo senz’altro riconosciuto, anzi, lo salutava, e forse era pronto a proseguire il racconto della sua vita, proprio da lì, da dove le cose erano state interrotte.


            Bruno Magnolfi

domenica 9 maggio 2010

La lezione per diventare normali.



Il gruppo degli uomini, rimasti seduti al margine del ballo estivo all’aperto in fondo al paese, aveva continuato a ridere e a sorridere bevendo e guardando le coppie impegnate a danzare, ma alla fine sembrava che quelli lo facessero, anche se inconsapevolmente, più di loro stessi che di quanti si stavano impegnando a fondo sopra quella pista un po’ improvvisata, cercando peraltro di rendere la festa riuscita e piacevole. Laura e Lorenzo avevano iniziato a ballare sin da quando era partita la musica, come sempre facevano in occasioni del genere,  e continuavano a girare e a divertirsi davanti alla gente di tutto il paese, tanto che qualcuno, come sempre accadeva in quei casi, aveva già avuto modo di notarli e di dire qualcosa su loro. Ad alcune donne piaceva quella coppia, era evidente, era già stato chiesto in giro il motivo per cui loro due non stessero insieme a fare sul serio, come coppia vera e propria cioè, visto che apparivano così ben assortiti, belli, sempre pronti con quell’intesa che mostravano di avere. Forse c’era anche una punta di invidia da parte di più d’una persona, ma soprattutto faceva rabbia che quei due in certe occasioni quasi non avessero occhi e interessi che per loro stessi.
Si diceva sottovoce che Lorenzo non fosse del tutto attirato da rapporti più stretti con Laura, addirittura che non gli piacessero proprio le donne, e ciò nonostante fosse un suo grande amico, tanto che Laura con lui si sentisse più tranquilla che con altri, pur sapendo di non doversi aspettare da lui niente di più che quella amicizia. Stavano sempre insieme, si passavano a prendere a casa l’un l’altra, dicevano, e poi se ne andavano da tutte le parti, però tra loro mai un gesto d’affetto o qualcosa del genere. Qualcuno con cattiveria assicurava che era come se fossero due vere amiche. In ogni caso quelle, per altri, erano soltanto voci maligne, come sempre messe in piedi solo per dare discredito, indifferenti al fatto che ci fossero ragazzi che sapessero divertirsi alla faccia di tutti.
“Chissà cosa staranno dicendo di noi…”, diceva Laura continuando a volteggiare tra le braccia del suo Lorenzo. “Le solite cose…”, rispondeva Lorenzo; “Che io sono un effeminato e che ti sto solo facendo perdere tempo, quello che dicono sempre in questi casi. Poi nei prossimi giorni mi fermeranno per strada, come capita spesso: -Ma perché non fai un po’ sul serio con quella ragazza?, mi chiederanno; e poi giù con le loro risate, come a sentirsi più furbi di tutti”. “Per forza, nel loro mondo non esiste l’amicizia, soltanto l’aspirazione gretta al sesso scontato e alle sue regole rigide…”. “Chissà se sapessero che abbiamo già provato ad avere dei rapporti sessuali tra noi, ma che non ci hanno appagato in modo esauriente, e i nostri gusti sono diversi, sarebbe incredibile, non lo capirebbero mai…”. Poi si fermavano per prendere un po’ di respiro, andavano al chiosco delle bibite lì accanto e si lasciavano servire da bere, però sempre insieme, sempre ridendo, rispondendo bonariamente a tutti quanti dicevano loro qualcosa.
Avevano la medesima età loro due, e oltre che legati da amicizia sincera, la complicità che avevano trovato era lo straordinario elemento che li faceva sentire più avanti, oltre le dicerie del paese. Al mattino prendevano l’autobus per andare in città, a frequentare il liceo, e anche se non erano nella medesima classe, ugualmente si aiutavano con i compiti e soprattutto si spalleggiavano con le rispettive amicizie, in modo da mettersi sempre in buona luce l’un l’altra e riuscire a conoscere le persone che maggiormente interessavano lei oppure lui.
Fu quella stessa sera che qualcuno, forse ubriaco, volle mostrare che non era d’accordo con quel tipo di cose. Li aspettarono in cinque vicino casa di Laura, era ormai molto tardi, attesero il momento opportuno e poi uscirono dall’ombra con dei cappucci sul viso. Li bastonarono a sangue, li picchiarono in modo selvaggio, se ne andarono solo quando loro due erano ormai a terra, doloranti, con addosso tutti i segni di una lezione che non avrebbero dimenticato facilmente. Perché era così che dovevano andare le cose, essere diversi non era possibile, dovevano tutti metterselo in testa, almeno non lì, in quel loro paese.


Bruno Magnolfi

sabato 8 maggio 2010

Sostituzione di personale.

           

            Il Primo Affarista era in ritardo. L’altro aveva fatto riservare una saletta in albergo per il loro incontro, e adesso restava seduto continuando a prendere appunti, a lavorare ad un file sul suo portatile e a parlare al telefono sottovoce con certe persone degne della propria fiducia. E intanto attendeva. Il cameriere aveva servito un caffè e dell’acqua minerale gassata, aveva preso la mancia e chiesto gentilmente se serviva qualcos’altro; poi era uscito chiudendo con delicatezza la porta. Si trattava quella mattina di affrontare un argomento spinoso, una cosa che da tempo era stata rinviata nell’attesa di periodi migliori.
Negli ultimi tempi, in ambienti diversi, ci era convinti della convenienza di introdurre personalità di fiducia all’interno del mondo della grande distribuzione, in modo da controllare in maniera capillare certi meccanismi della formazione dei prezzi e della reperibilità dei prodotti. Nelle grandi città questo era in atto da sempre, ma nei piccoli centri della Provincia c’era ancora molto da fare. Quella mattina si trattava di scegliere i nomi giusti tra una rosa piuttosto corposa di persone più o meno adatte a ricoprire ruoli del genere. Naturalmente ognuno degli Affaristi locali conservava le proprie simpatie di tipo politico e addirittura umano, ma alla fine trovare gli accordi che non scontentassero nessuno era fondamentale. Anzi, poteva essere quella una buona occasione per mostrare il favore di cui godeva l’uno nei confronti dell’altro, quindi cercare di avallare qualsiasi richiesta fosse sortita si mostrava l’elemento principale attorno al quale girava molto del resto, considerando anche tutti gli altri campi nei quali la spartizione degli affari possibili era senz’altro materia per armonizzare i tanti poteri.  
L’uomo naturalmente aveva già elencato i suoi nomi: la maggior parte erano di pura facciata, ma alcuni li avrebbe conservati per un secondo momento, quando gli equilibri si sarebbero cominciati a costituire, lavorando su un effetto riserva che era sempre la tattica migliore per cercare di inserire la giusta persona senza dare importanza al suo nome. L’appoggio incondizionato di alcuni sindaci dei Comuni di quel comprensorio era naturalmente la forza su cui appoggiare le proprie richieste nei confronti del Primo Affarista, ma l’amicizia con il Sottosegretario al Ministro, che quest’ultimo poteva vantare, rimaneva sicuramente un elemento di grande importanza.
Il ritardo iniziava a farsi vistoso, e l’uomo chiuso in attesa dentro alla saletta insonorizzata a quel primo piano cominciava a sentirsi nervoso. Forse era una tattica per ammorbidirlo, aveva pensato, così cercava di non dare importanza alla cosa, nonostante avesse già iniziato a chiedersi se fosse il caso di indagare per avere qualche notizia precisa. Poi finalmente qualcuno bussò alla porta, ed il concierge dell’albergo introdusse nella stanza il Primo Affarista insieme ad una persona di sua assoluta fiducia, colui che lo assisteva sempre in qualsiasi questione, cioè il suo avvocato. Si salutarono, l’ultimo giunto si scusò del ritardo, si sedettero uno di fronte all’altro ed iniziarono subito a parlare delle cose che avevano a cuore.
Fu soltanto dopo dieci minuti che la bomba piazzata dentro l’armadio a muro della saletta, passata del tutto inosservata a chiunque, fu attivata a distanza con un radiocomando, esplodendo con forza e uccidendo all’istante le tre persone presenti e lasciando devastato il locale. Le registrazioni effettuate tramite microspie piazzate dentro la stanza prima della deflagrazione rivelarono, dai pochi dialoghi scambiati da quegli Affaristi, che la torta da spartire era corposa, così come da qualcuno era stato già immaginato: non c’era da perdere tempo, era inutile mandare avanti trattative ed accordi, si trattava di sostituire quelle persone che ormai erano state giudicate non adatte con altre migliori, tutto qua.

Bruno Magnolfi


venerdì 7 maggio 2010

La calma artificiale.



L’uomo camminava per strada insieme a tutti i pensieri che gli giravano nella testa, ed i suoi passi cercavano di scansare i piccoli accumuli d’acqua che si erano formati sui marciapiedi, dopo la pioggia insistente di quel pomeriggio. In giro si vedevano poche persone, la maggior parte dei negozi aveva già chiuso, le strade lucide portavano via le ultime auto. L’uomo teneva le mani sprofondate dentro alle tasche, il cappello antiquato calato sugli occhi, lo sguardo immobile, qualche metro davanti alle scarpe. La sua depressione negli ultimi tempi pareva non aver progredito, quella passeggiata che affrontava ogni giorno riusciva a fargli distendere i nervi, a renderlo tranquillo per quasi tutta la notte.
In fondo alla strada, oltre l’angolo, qualcuno aveva fatto un cenno con modi furtivi. L’uomo si era avvicinato proseguendo comunque il suo itinerario, e una vecchia, mezza nascosta dentro un portone, gli aveva chiesto qualcosa di incomprensibile. L’uomo immaginò che stesse chiedendo dei soldi, così soffermandosi appena un momento tirò fuori dalla tasca alcune monete, ma la vecchia con un gesto gli fece capire che non era quello che le interessava. Lo invitò a seguirla dentro al portone, gli indicò con un dito la scala di pietra che portava fino a quel primo piano, dove la porta di un appartamento era socchiusa. L’uomo seguiva quei gesti conservando, insieme ad una certa curiosità, la voglia profonda di tornarsene alla sua passeggiata ed ai suoi pensieri, ma la vecchia pareva dovergli mostrare qualcosa di importante, qualcosa che teneva lì, in quella casa, e che pareva in fondo a quel corridoio.
La luce era scarsa là dentro, il corridoio pareva più lungo di quello che si sarebbe pensato, lui scrutava quel muro pensando a cosa poteva trovare. Quell’ingresso poi girava ad angolo retto, e tutte le porte che si vedeva erano chiuse. Ad un tratto si accorse che era rimasto da solo, la vecchia sembrava sparita, forse si era infilata dietro una delle porte, pensò, e in un moto di razionalità tornò sui suoi passi, verso l’uscita. Ma con grande sorpresa, là dove si aspettava di trovare il portone, vide che non c’era più, e al posto dove avrebbe dovuto trovarsi adesso c’era il muro, come se la parete si fosse ricostituita alle sue spalle. Pensò che forse stava sbagliando, che forse aveva perso l’orientamento in quel corridoio, che quell’appartamento così grande e così stravagante poteva avergli giocato uno scherzo. Percorse avanti e indietro più di una volta tutto l’ingresso, scoprendolo sempre più contorto, più buio, più complicato ad ogni suo passo, fino a quando decise di aprire a caso una di quelle tante porte che c’erano.
La stanza in cui entrò era vuota, solo un letto disadorno vicino ad una parete, nient’altro. Osservò la finestra dai vetri opachi, si tolse il cappello, il soprabito, e appoggiò le sue cose sopra una sedia lì accanto. Si sentì improvvisamente stanchissimo e si sdraiò sopra quel materasso, assaporando il silenzio e la piacevole oscurità della stanza. Passò un po’ di tempo senza che niente accadesse, forse un’ora, forse anche due, poi, senza preavviso, arrivò l’infermiere della clinica insieme ad un’altra persona col camice bianco per fargli la solita iniezione calmante. “Eccomi”, disse il medico della clinica psichiatrica, mentre l’infermiere lo aiutava a tenere l’uomo fermo sul letto; “Con questa almeno stiamo buoni per quasi tutta la notte”.

Bruno Magnolfi

            

giovedì 6 maggio 2010

Una sfumatura dell'espressione.

            

            “Certe volte, Herbert, non ti riconosco…”, aveva detto la donna spegnendo nel posacenere la sua sigaretta fumata solo a metà. Sedeva, evitando di appoggiarsi allo schienale della sua sedia, ed evitava di guardarlo, come se cercasse di stare distaccata da tutto. Lui aveva detto qualcosa, senza spiegarsi, pronunciando sottovoce certe isolate parole che nel suo immaginario sembravano vagare dentro alla stanza come piccoli pesci dentro un acquario. Lei aveva salito da poco le scale di quel suo appartamento, perché era già da parecchio tempo che le cose non andavano bene tra loro due, ma non sembrava ci fosse un motivo, e quel pomeriggio si era spinta fino lì proprio per cercare di capire cosa stesse accadendo, per tentare di afferrare qualcosa di più. Herbert poi era rimasto in silenzio, aveva servito il caffè muovendo le mani lentamente, come ritardando le cose, infine aveva detto: “Mi sento come estraneo a tutto; fuori luogo…”.
            Lei allora si era alzata dalla sua sedia, era andata verso la finestra, attirata dalla voglia che aveva di luce, di esterno, di osservare nuovamente quella serie disordinata e affascinante di tetti intorno a quell’ultimo piano, e si era accesa con modi nervosi un’altra delle sue sigarette. “Così tutto quello che abbiamo cercato di costruire insieme in questi due anni, diventa una cosa da niente, uno sfizio da togliersi tanto per fare qualcosa…”. Poi si era voltata, come richiamata verso il tavolo da un elemento a cui fino allora non avesse pensato. “Tu stai pensando di andartene, Herbert, di tornartene in Francia, non è vero?”, disse con voce decisa e tagliente. Lui si sedette, fece ruotare per gioco la tazzina del suo caffè senza rispondere, anche se pensava che così la sua fosse quasi un’affermazione. Perciò, dopo una pausa infinita, disse soltanto: “No, questo credo di no…”. Lei, di fronte a quella ulteriore risposta indecisa, si sentì ribollire di rabbia, raccolse in un gesto la borsetta e il giubbotto, e si mosse verso la porta di casa. Lui seppe dire soltanto in modo poco convinto: “Aspetta…”, ma lei era già andata, chiudendo di colpo la porta dietro di sé.
            Lui osservava quel caffè rimasto nelle tazzine a freddarsi, poi si alzò dalla sua sedia in un lampo, per andare rapidamente alla finestra, ad affacciarsi, a chiamarla, a cercare di dirle che non era così, che doveva ancora spiegarsi, lei doveva comprendere, che c’erano molte altre cose che legavano in modo inscindibile le loro vite; ma lei non c’era, forse era sgattaiolata dal retro, e in fondo, era quasi meglio così. Chiuse la finestra, accostò le tendine, tornò al suo tavolo a sorseggiare quel caffè diventato ormai tiepido, poi attraversò il corridoio per raggiungere la camera, e vide di sfuggita la sua immagine dentro allo specchio appeso sul muro. Non era lui, non vedeva più la sua faccia. Qualcosa stava trasfigurando in quel suo viso, in quella espressione, in quei tratti a cui era da sempre abituato: una variazione profonda ma inesplicabile, un cambiamento incredibile, tanto da non riconoscersi quasi, da dubitare che fosse ancora lui stesso, Herbert, il medesimo che con grande entusiasmo era riuscito, negli anni appena trascorsi, a costruirsi una vita, a sentirsi persona, ad avere una sua propria indole, lui che una personalità vera, ad essere completamente sinceri, non l’aveva mai avuta.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 5 maggio 2010

Impossibilità quotidiane.

            

            La mattina dietro le tende appare livida, proprio come ieri. Ho trent’anni, mi sento già vecchia, senza entusiasmo, indosso qualcosa e giro per casa cercando gli oggetti che mi rassicurano. Il mio turno di lavoro al negozio è al pomeriggio, avrei tutta la mattina per me, ma non riesco a far niente. Inizio con fatica a riordinare la cucina, tanto per prendere tempo, poi decido di uscire. Fuori è anche peggio, mi gira la testa, sento in bocca il sapore del niente di ieri che mi attira verso di sé. Entro nel bar più vicino e prendo un caffè, un signore sfoglia un giornale sopra ad un tavolo. Mentre risalgo le scale del mio palazzo mi sembra che gli sforzi che faccio non servano a nulla: lascio passare le ore come se quella fosse l’unica cosa possibile.
Poi squilla il telefono, lo osservo per un attimo mentre continua a suonare e immagino le due o tre persone che potrebbero chiamarmi. Ho un attimo di incertezza, infine dico pronto, con una svogliatezza neutrale. Non mi sbagliavo, è la prima persona che avevo immaginato, e mi dice subito le cose che avevo creduto mi dicesse. Rispondo va bene, seguirò i tuoi consigli, non preoccuparti, adesso ho da fare un sacco di cose, sono quasi in ritardo. Riattacco.
In fondo lo so che ci sono persone che mi vogliono bene. Sono io che non voglio più bene a nessuno, neppure a me stessa. Oscillo tra le ore del giorno compiendo le operazioni di rito, senza entusiasmo, come un dovere, celebrando il normale processo del vivere, rinviando qualsiasi decisione. Alla fine mi trucco senza neppure guardarmi allo specchio, indosso lo stesso vestito di ieri, metto le scarpe col tacco e sono pronta: affronterò la giornata anche oggi, decido, forse sarà l’ultima volta in cui mi è apparso tutto così buio. Oppure no, ma che importa, non ci posso proprio far niente.


            Bruno Magnolfi

martedì 4 maggio 2010

La propria convinta solitudine.

           

            Il signor Bonelli dalla sua finestra osservava immobile e in silenzio il traffico lungo la strada cittadina davanti casa sua. Poteva passare per combinazione qualcuno che conosceva, e lui sarebbe stato pronto a salutarlo; altri avrebbero potuto fargli un cenno dalla strada per raggiungerli, per invitarlo a prendersi un caffè nel locale all’angolo, e lui li avrebbe seguiti volentieri. Ma al momento rimaneva lì, come spesso faceva, e non scorgeva nessuno che avesse visto almeno un’altra volta, solo poca gente che se ne andava tranquillamente per i fatti propri.
Non c’era niente che lo trattenesse in casa, al signor Bonelli, lui lo sapeva, ne era cosciente, ma non riusciva a trovare neppure un buon motivo per uscire; così restava dentro la sua stanza, ad osservare lo scorrere di persone ignote fuori dai vetri, covando il desiderio di essere con gli altri, lungo il marciapiede, incapace però di raggiungerli senza un motivo. Ed era inutile lo sprofondarsi dentro ai propri pensieri, certe volte lo faceva, ma era una posa, un mostrarsi occupato significativamente. In realtà si sentiva racchiuso in uno stallo tra due elementi contrapposti, come spesso gli era capitato: impossibilitato a decidersi ad uscire, però sofferente di non poterlo fare. Non riusciva neppure a spiegarlo a se stesso, ma quell’indecisione che spesso si manifestava, secondo lui, era un problema per tutti, il male maggiore del mondo.
Nel modo di pensare del signor Bonelli tutto restava sospeso alla ricerca di una scelta che non c’era, non era realistica, che torturava chi ne era soggetto, lasciando i più alla mercé di qualcosa che era addirittura peggiore del non avere alcuna possibilità. La realtà era strana, spesso se ne rendeva perfettamente conto. La scelta continua tra le cose, a suo parere, rendeva le popolazioni prive di forza, annientate da un combattimento interno che non si mostrava neanche come tale, e pur tuttavia riusciva a togliere ad ogni cittadino il vigore di affrontare in modo solerte e convinto la realtà.
Sua moglie, da quando il signor Bonelli era in pensione, spesso gli chiedeva dal di fuori della porta chiusa del suo studio, se andasse tutto bene, se sentiva il bisogno di qualcosa, ma lui rispondeva sempre che era tutto a posto. Qualche volta lei gli aveva suggerito di uscire, di andare a farsi quattro passi, tanto per prendere una boccata d’aria, ma a questa domanda lui restava ogni volta nel silenzio più profondo: non poteva rispondere perché non riusciva a prendere una decisione di quel genere, perché quella decisone necessitava di un motivo forte per essere presa, e lui non l’aveva, non aveva mai avuto un buon motivo per andarsene fuori a passeggiare. Così restava tutto il giorno da solo dietro alla finestra, accarezzato dalla tenda, e a nulla valeva cercare di sedersi per leggere un libro o un giornale: poco dopo tornava lì, ad aspettare come minimo che qualcuno lo invitasse fuori.
Infine, durante un giorno come gli altri, notò un uomo che si era soffermato ad osservare quella sua finestra. Lo guardò con espressione seria, ne studiò l’espressione, si rese conto che doveva avere più o meno la sua età. Si osservarono per lunghi minuti, quei due uomini simili, divisi soltanto tra un dentro e un fuori inconciliabile. Il signor Bonelli pensò subito che l’uomo sulla strada fosse felice di aver trovato un buon motivo per poter guardare lui che era dentro la sua casa, ma poi non trovò le ragioni per questa spiegazione. Rimase indeciso, anche in quel caso, e pur sperando con tutte le sue forze che quell’uomo lo invitasse a raggiungerlo, non fece niente per fargli capire quanto lo desiderasse, fino a che il traffico e la strada risucchiarono anche quell’unica persona che gli aveva fatto nascere quella disperata speranza. Così quell’uomo poco dopo se ne andò, lasciandolo dietro alla sua finestra, quasi senza speranza, in una solitudine terribile.


            Bruno Magnolfi

lunedì 3 maggio 2010

Certe fotografie in bianco e nero.

            

            La sera della festa erano in sei, Antonio ricordava tutto perfettamente. Per loro non era un’occasione precisa, avevano soltanto deciso che quel sabato era il giorno giusto, c’era gente in giro, potevano mescolarsi agli altri e senza cattiveria ridere di loro. Fulvio era giunto per primo a casa di Loris, e loro due avevano deciso che sarebbero andati in un certo locale, un caffè in centro, un posto elegante con musica ovattata e persone serie sedute nei tavoli. Carlo e Federico, gli eterni inseparabili, erano arrivati assieme, come sempre. Alessandro si era fatto vivo per ultimo. Una volta al completo erano usciti di casa, si erano stretti dentro una macchina, e in tre avevano preso una discussione semiseria sulle questioni fondamentali del calcio, mentre gli altri sbuffavano. Federico aveva chiesto di smetterla, e così Loris si era messo a raccontare delle storielle. Poi erano giunti al locale, erano entrati, avevano bevuto qualcosa, avevano fatto una gran confusione fingendo disaccordi improbabili, tanto da farsi riprendere dal cameriere. Infine Fulvio aveva dichiarato di essere stufo di star lì, e appoggiato da Alessandro avevano deciso che era meglio andarsene a fare un bel giro, senza una meta precisa.
            La serata era andata avanti così, con Antonio e Federico pronti a parlare a voce alta di tutto e a prendersi in giro; gli altri ridevano e a tratti dicevano di smetterla, senza volerlo davvero. Più tardi, quando la notte aveva iniziato ad imporre maggiore rispetto, avevano proseguito con argomenti più personali, seduti nelle panchine di un giardinetto, quasi cercando con la serietà ritrovata di farsi perdonare le leggerezze precedenti. Era stato allora che Carlo aveva detto a tutti che da pochi giorni gli era stato diagnosticato un tumore, e che forse quella era l’ultima volta in cui lo avrebbero visto così. In un primo tempo questa cosa aveva lasciato gli altri perplessi, quasi senza parole. Erano amici da sempre, una batosta del genere era pesante. Poi Alessandro, con timidezza, aveva detto che forse era il caso di farsi un bel brindisi, piuttosto che lasciarsi andare a una tristezza fuori luogo, e così avevano fatto, raggiungendo un posto poco distante aperto per tutta la notte.
            Antonio si era portato una vecchia fotocamera tascabile con la pellicola in bianco e nero ed il flash, e con quella si erano fatti delle istantanee con le facce più buffe che erano riusciti a inventare, e infine, mentre albeggiava, quando si erano lasciati per andarsene ognuno a dormire nella propria casa, si erano abbracciati quasi piangendo, come se ognuno di loro portasse sopra di sé quasi un peso per quel cancro che intanto devastava il corpo di Carlo. All’improvviso non si erano mai sentiti così vicini, così attaccati alla vita come a un filo sottile del quale non restava che ringraziare per momenti del genere. Si sentivano patetici, ed avrebbero forse voluto evitare di essere così, ma non c’era altro modo di sentirsi, e quella sensazione che avevano sempre avuto di potersi permettere tutto in qualsiasi momento, risultava inevitabilmente incrinata da quella sera in avanti.
            Negli anni seguenti la vita fece il suo corso: ognuno di loro andò avanti per la sua strada, si videro ancora, naturalmente, si scambiarono ancora informazioni e pensieri, seguirono tutti il percorso medico di Carlo, ma alla fine di quel lungo periodo che seguì rimase soltanto quel gruppo di fotografie in bianco e nero, testimoni di qualcosa che era stato perduto, e che se anche da sole, quelle istantanee, non dicevano molto, alla fine però erano il segno tangibile di qualcosa che c’era stato davvero, e come non ricordarlo, incarnavano perfettamente il senso di una serata qualsiasi, un po’ assurda, quale ne possiamo trascorrere mille, ma che solo quella volta è speciale, perché non ce ne saranno altre così.


            Bruno Magnolfi