domenica 28 febbraio 2021

Fuori di me.

 

Da un po’ di tempo non sono più me stesso, penso. Ho attraversato questi anni senza preoccuparmi quasi di nulla, ed adesso mi ritrovo a dover fare i conti con tutto ciò che spesso ho tralasciato. Non ero così, è chiaro, però quando mi sono reso conto che non interessavano nessuno le mie presunte doti, ho deciso di comportarmi in altro modo. Sono sempre stato da solo, forse perché cercare gli altri vuol dire anche accettare di mettersi spesso in discussione, e in ogni caso nessuno tra chi mi stava attorno ha mai chiesto di me, come se fosse già difficile ricordarsi la mia faccia ed il mio nome, o che comunque c’ero, oppure che in un modo o nell’altro, prima o dopo, c’ero stato. Insomma il trattamento nei miei confronti è sempre stato, direi, come di una sopraffina qualità della più leggera indifferenza, o se si vuole, di un grossolano fregarsene di me e di che cosa rappresentassi, in qualsiasi caso, comunque sia, in un modo assolutamente serio e ponderato. Ho riflettuto qualche volta intorno ai motivi scatenanti che possono aver generato una volta o l’altra tutto questo, però è stato molto più facile da un certo punto in poi voltare le spalle in fretta a tutti quelli che incontravo, in maniera tale da non soffrire neanche un briciolo di quel loro atteggiamento, almeno fino a quando non ho deciso del tutto di cambiare.

Non ci vuole molto a mettersi in mostra, ho iniziato a pensare ad un certo momento, così prendendo spunto, durante un giorno qualsiasi, da quello che notavo in tutti gli altri, ho semplicemente spalancato la finestra del mio appartamento al terzo piano, ed ho iniziato a gettare nella strada tutto quello di cui non avevo più necessità o che mi sembrava superfluo nelle mie stanze. Naturalmente prima mi ero barricato in casa chiudendo a chiave qualsiasi serratura, e a tutti quelli che dal marciapiede hanno iniziato a guardarmi e poi a gridarmi delle cose, non ho risposto affatto, proseguendo imperterrito a finestra spalancata con la mia semplice attività, nell’attesa certa che venissero chiamate, da un attimo all'altro mi immaginavo, le forze dell’ordine. Poi quando ho visto i lampeggianti ho fatto subito la faccia contrita e l’espressione di chi si pente realmente di essersi comportato in modo così poco cortese verso tutti. Ho aperto subito la porta di casa alle divise, e mi sono consegnato come fossi seriamente pentito di ciò che avevo fatto. Niente di particolare, nessuna delle guardie ha ravvisato nei miei comportamenti un vero attentato alle persone oppure ai loro beni, così tutto si è dissolto in fretta come una grande bolla di sapone. Anzi, qualcuno nella strada ha raccolto le mie cose e se l'è persino portate via.

Il vicinato così ha iniziato a parlare di me come di un tipo strano, un mezzo matto, da tenere sicuramente a distanza, e questo atteggiamento chiaro e scoperto ha subito provocato tra i miei pensieri delle reazioni assolutamente positive. Parlare da solo, ridere per strada senza motivo, gesticolare in maniera inconsueta, tutti atteggiamenti che mentre li adottavo mi hanno fatto immediatamente sentire libero di fare tutto quello che desideravo. Ho subito una trasformazione, penso adesso, ma se ci rifletto bene, molto di quello che sono oggi probabilmente era già dentro di me persino ieri. Un anziano vicino di casa mi ha chiesto poi con un debole sorriso sulla faccia, quale fosse lo scopo finale del mio gesto, cioè quello di scaraventare tutta quella roba dalla finestra del mio appartamento, ed io ho iniziato a ridere, senza rispondere, solo ridendo come per una storiella simpatica che avessi appena ascoltato. Alla fine sono salito per le scale e mi sono chiuso in casa. Che m'importa degli altri, ho pensato; cosa mi interessa delle opinioni di questo vicinato senza alcuna qualità. Voglio andare avanti con le mie cose senza più usare alcun riguardo per il prossimo, sia per chi in un modo o nell’altro mi conosce, magari anche soltanto di vista; sia per chi non si è mai interessato di un individuo anonimo come posso essere io. Basta, azzero tutto, non si troverà più traccia di me tra poco tempo.

 

Bruno Magnolfi

 


giovedì 25 febbraio 2021

Nemico predestinato.


 

"Assurdo”, fa Carlo, il primo attore, rivolto con sguardo incredulo verso la piccola platea; “quest'uomo dice delle cose che appaiono assolutamente prive di senso". La piccola rappresentazione si svolge in orario tardo pomeridiano dentro un cinema periferico, alla presenza solamente di qualche spettatore isolato seduto qua e là, e i due personaggi, in abiti ordinari, che si muovono sopra un palco improvvisato, di fatto poco più che una pedana, recitando un testo scritto ultimamente proprio per loro, un lavoro ideato da un giovanotto silenzioso, terribilmente solitario. “Non cerchi una facile solidarietà in chi la sta ascoltando”, interviene Piero, l’altro attore; “di fatto soltanto persone sensibili come me possono aver intuito al meglio quale possa essere il vero futuro”. Il testo lascia una pausa riflessiva in questo punto del dialogo, come se tutti i presenti dovessero pensare attentamente a ciò che possono aspettarsi dal loro domani. “Una sola parola può muoversi nell’aria per mostrarci quale sia la nuova strada, e noi dobbiamo poco per volta iniziare a farci i conti”. Carlo indietreggia a questa frase, e pare stagliarsi sul suo volto come un’espressione di scetticismo e di terrore, ma poi, riprendendo con un attimo di calma la propria migliore razionalità, torna a ribadire ciò che ha già spiegato in precedenza: “ma non può essere il cannibalismo la soluzione finale di tutti i nostri problemi”, dice adesso con voce quasi spaurita.

“Lo so che appare qualcosa di inaudito”, dice allora Piero; “però ci stiamo tutti avviando poco per volta lungo questa strada, anche se non ce ne siamo resi conto, e per certi versi appare già come la soluzione più facile per tanti problemi che per il momento restano irrisolti”. Qualcuno tra i presenti fa qualche colpo di tosse, e magari viene inteso dagli altri come un giustificato accenno di conati di vomito, forse in considerazione diretta del crudo argomento che fin qui è stato trattato. “Quindi le cose dovrebbero inderogabilmente e poco per volta peggiorare per tutti quanti; fino a giungere così a questi estremi”, riprende quindi Carlo con la voce adesso di chi cerca di prendere le cose con uno spirito più ironico, tutto sommato, tanto che quasi potrebbe d’improvviso scoppiare a ridere nervosamente delle scempiaggini che secondo lui ha già ascoltato. “Ormai siamo in molti votati al sacrificio”, dice poi qualcuno in platea, “tanto vale a un certo punto dividere l’umanità tra chi può effettivamente proseguire, e coloro che al contrario serviranno per i primi soltanto come proteine”. Lo stesso Piero resta colpito da questa frase, come se il senso stesso delle proprie battute recitate fino a questo momento, non portasse esattamente ad un’identica risoluzione. “Siamo già divisi, se ci pensiamo attentamente”, prosegue Piero con voce più incerta. “Non ci sarà neppure la necessità di inserire ulteriori differenze tra la gente. Verranno fuori da sé le cose, al momento in cui la violenza non sarà più giudicata come un elemento del tutto estraneo alla cultura”.

Si chiude il sipario, si accendono le luci generali della sala, e le persone dentro la scarna platea si alzano in piedi con una certa titubanza, forse anche perché nessuno si aspettava che il lavoro teatrale a cui tutti loro hanno assistito, terminasse in questa maniera così repentina, lasciando dietro di sé diversi punti interrogativi, come invece ha fatto. Due o tre persone applaudono, ma si capisce bene, in almeno tutti gli altri, come non ci sia proprio niente da festeggiare o da acclamare, se non essere giunti alla fine ad una inevitabile certezza, che condanna tutti loro alla conoscenza senza scampo di ciò che sarà. Piero e Carlo, ancora sopra al palco, una volta riaperta parzialmente la stoffa scura, si stringono la mano mentre ringraziano quasi senza sorridere, come a mostrare una solidarietà fasulla, una sceneggiata, questa stessa, all’interno dell’interpretazione fornita a tutti gli intervenuti di un testo difficile, dal sapore amaro tremendamente inesorabile. Infine ognuno se ne va, osservando con insistenza, ma senza farsi scorgere, chi ha avuto più vicino per tutto il tempo di questa strana commedia, come per cercare già in qualche altro spettatore il nemico più indicato.

 

Bruno Magnolfi


martedì 23 febbraio 2021

Seria proposta.

 


"Vorrei andarmene da qui", confessa l'uomo trentenne, cameriere disoccupato con un certa esperienza, davanti all'amico di sempre, mentre se ne stanno seduti ambedue al caffè del paese, proprio davanti alla strada principale, dove si apre di fianco una specie di piccolo chiostro dalla pianta rettangolare, appartato ed accogliente, con i tavolini all'aperto ma sotto qualche ombrellone di stoffa, e circondato da alte siepi, verdi e piacevoli, su tutti e tre i lati, lasciando dal quarto la vista aperta sopra al marciapiede e sulla via abbastanza transitata. "Basta con questo posto assurdo dove tutti si conoscono e dicono sempre le medesime cose. Basta con la logica del non fare mai niente pur di non sbagliare qualcosa e quindi mettersi in una luce discutibile da tutti. Voglio andarmene lontano, alla prima occasione, fuori da questi criteri che non sopporto più, raggiungere un  luogo dove nessuno mi conosce e quindi neppure può ricordarsi di me". L'amico sorride, tutti quanti prima o dopo si ritrovano a dire queste medesime cose, pensa, ma nessuno di loro ha poi veramente il coraggio di mettere in pratica quello che aveva sostenuto in precedenza. I due sorseggiano una birra ciascuno, seduti in maniera da guardare le persone che ogni tanto passano da lì davanti, ed ogni volta fanno un cenno o un saluto a qualcuno. Restano in silenzio per qualche minuto, come a ripensare a quegli argomenti, poi l'amico guarda l'orologio e dice che deve andare a ritirare qualcosa in un negozio vicino. "Vai pure", fa lui. "Io mi trattengo qui per un’altra mezz’ora, poi inizio a prepararmi con calma per la grande partenza", dice per scherzo. L'altro sbotta subito in una breve risata, poi si alza, lascia sul tavolo i soldi della bevuta, e quindi se ne va.

Difficile essere veramente così come a volte si cerca di mostrarsi con chi si conosce, e lui anche se effettivamente crede molto nelle cose di cui parla, di fatto sa benissimo che il salto da fare, così come sarebbe suo desiderio, è complesso e molto più coraggioso di quello che possa soltanto immaginare. Poi c'è il fatto di non avere nessuno che abbia la possibilità di spianargli la strada, ed anche se ha messo da parte qualche risparmio nel corso degli anni, lavorando nel miglior ristorante di quella zona adesso chiuso per ristrutturazione, ritrovarsi d’improvviso in un posto dove non conosci nessuno non è certo qualcosa di facile da affrontare. Gli piacerebbe tanto catapultarsi in un luogo nel meridione del mondo, dove magari le abitazioni e la vita quotidiana costano poco, e lì forse aprire un piccolo locale fatto di legno, magari davanti a una spiaggia oceanica, ed avere un sacco di amici in mezzo a clienti tranquilli e senza problemi. Ecco, trascorrere delle giornate serene senza neanche una delle sciocchezze che scorrono fluenti nel suo paese di nascita, e guadagnare quello che sia sufficiente giusto per tirare avanti in modo decoroso, nient’altro.

Finisce la birra in mezzo a questi pensieri, poi si alza e va verso il bancone del locale a pagare, ma il proprietario, che lui conosce da sempre, gli chiede se per caso non gli andrebbe di dargli una mano per tirare avanti la sua birreria. “Il mio socio vuole ritirarsi”, gli fa; “ed ha l’idea di occuparsi d’altro d’ora in avanti. Se tu volessi potresti prendere il suo posto, ed io prelevare la quota della nuova società che potresti formare con me poco per volta sul tuo stipendio; non te ne accorgeresti nemmeno” Lui resta senza parole, come se fosse fulminato dal corto circuito di ciò che ha appena sentito. “Non lo so”, dice dopo un momento; “sono imbarazzato, ci devo pensare; i miei programmi sinceramente erano diversi, ma un’opportunità di questo genere non me la sarei mai immaginata. Comunque tra un giorno o due ripasso da qui e ti darò una risposta”. Poi si salutano; lui sente di avere ancora la bocca socchiusa per la sorpresa, e all’improvviso tutto gli appare molto concreto e reale, tanto da allontanare come fosse stato uno scherzo tutto quello che aveva pensato nel suo sogno di andarsene via. “Un’occasione d’oro”, pensa poi camminando. “Irrifiutabile”.

 

Bruno Magnolfi   


lunedì 22 febbraio 2021

Parente stretta.

 

          

            “Giungono poi giornate in cui mi prende l’angoscia”, dico a questa mia cugina che non vedo quasi mai, e che oggi invece è venuta da me per farmi una visita di cortesia. “Anche se non trovo un vero motivo scatenante per questa sensazione, comunque è così che mi vanno le cose, e non riesco a farci un bel niente. In questo quadrato di palazzi poi ognuno sembra vivere per conto proprio, e non c’è verso di riferirsi a qualcuno per farsi dare una mano, un consiglio, o almeno parlarne. Così ogni volta che accade prendo la mia utilitaria scassata e dopo un giro in periferia da sola arrivo fino alla bassa collina più vicina, dove non ci sono intorno delle abitazioni, e così posso fermarmi da qualche parte tra gli alberi e la radura. Scendo dall’auto ed inizio ad urlare, con quanta voce mi trovo nella gola, anche stendendo il busto e muovendo le braccia, sfogandomi al massimo. L’ultima volta, saranno dieci giorni fa, dopo un po’ arriva un signore, forse un raccoglitore di funghi o che so io, e da una certa distanza mi chiede qualcosa che le mie orecchie non comprendono affatto. Tutto bene, gli fo con un vago sorriso, sto soltanto provando la voce, dico anche per darmi un contegno. Lui grattandosi la testa si allontana, ma rimane a guardarmi da dietro i tronchi degli alberi”. Mia cugina adesso mi guarda quasi con la stessa aria di sospetto manifestata da quell'uomo, cioè come fossi una donna completamente matta e senza rimedio. "Poi sto meglio", le fo.

            Preparo il caffè: mi chiedo, mentre sistemo le tazzine su di un vassoietto, per quale motivo mi sia messa a raccontare una cosa del genere proprio a lei. Ha soltanto due anni meno di me, ma è sempre stata una persona perfettina a cui non pende mai un capello, tanto è il bisogno per lei che tutto fili assolutamente per il verso giusto. Non comprenderà mai il mio disagio, rifletto pur non concedendo troppa importanza alla cosa. “Secondo me dovresti parlarne con il tuo medico”, fa mia cugina che tratta immediatamente quell’argomento come un qualsiasi raffreddore o mal di schiena che possa essere. “Sicuramente potrebbe darti una cura, oppure un farmaco da assumere al bisogno, tale che possa comunque regolare ogni tua indisposizione”. Sorrido, lo so, è colpa mia, e torno a pensare chissà mai perché ne ho parlato proprio con lei, con la persona maggiormente sbagliata con cui potessi fare una cosa del genere; in ogni caso adesso inizio subito a discorrere di un diverso argomento, e cerco così di smontare d’importanza tutto quello che le ho spifferato fino a questo momento, penso di colpo. Ma lei annusa la storia, butta giù il suo caffè, e poi inizia subito a dire che adesso deve proprio andarsene, e che era soltanto di passaggio, giusto per un salutino.

Capisco che non voglia rimanere impigliata in mezzo ai miei guai, e piuttosto sarebbe disposta a far finta di non aver neppure sentito quello che le ho detto finora. Perciò inizia a montarmi il nervoso, e d’improvviso le dico: “guarda che questa cosa non la sa proprio nessuno, l’ho detta giusto a te perché sentivo la necessità di dirla a qualcuno della mia famiglia, e forse difatti mi sento già meglio per aver condiviso con qualcuno un segreto, ma proprio per questo motivo, trattare adesso questa cosa in maniera superficiale, o peggio con indifferenza, mi getta ancora di più nello sconforto totale”. Ci misuriamo a fondo per un attimo, guardandoci in faccia per brevi momenti, ma forse a me sta tremando una palpebra, e mia cugina senz’altro si è accorta della mia agitazione. Sicuramente a lei sta esplodendo la preoccupazione: “questa può dare di matta da un attimo all’altro”, pensa di sicuro; “devo uscire al più presto da questa stamberga disordinata, e non farmi rivedere qua dentro da sola per nessuna ragione”. Resta seduta, ma con le ginocchia vicine tra loro e i muscoli tesi, pronta ad alzarsi e ad andarsene al minimo spiraglio di possibilità che le offra.

Perciò le dico che sono depressa, anche se non è proprio vero. In questo momento voglio giocare a trattenerla il più a lungo possibile, voglio mostrarle il lato più vero di un forte dolore, e voglio che lei faccia la sua parte fino alla fine; sono persino disposta a mettermi ad urlare se serve, e chiederle ad occhi spalancati di tenermi le mani, oppure obbligarmi in qualche maniera a restare seduta, magari bloccandomi da dietro. Poi però provo pena per lei, così mi alzo e con tutta la calma possibile, vado fino alla porta del mio appartamento e la apro, anche perché mi è passata del tutto la voglia di sopportarla ancora tra i piedi, con la sua faccia pulita da donna perbene.

 

Bruno Magnolfi

domenica 21 febbraio 2021

Attenzione alle mani.


Uno dice: "No, io non ci sto a questo stupido gioco ". E l’altro: "Tu fa come vuoi, però sappi che tutto sta semplicemente nel dire le cose, in certi casi anche con abbondanza di parole, ma senza farle mai comprendere del tutto". Lui lo guarda, attende che magari aggiunga qualcosa, infine volge lo sguardo a terra come per cercare soluzioni. "Si, lo avevo capito; è già chiaro, più che evidente”, dice in conclusione. “Però secondo me non si arriva da nessuna parte comportandosi in questa maniera, ed alla fine questo atteggiamento mentale può anche semplicemente diventare per qualcuno una tortura addirittura peggiore di una qualsiasi sofferenza fisica". L'uno si muove leggermente sulla sua sedia con braccioli vecchia ed in parte sgangherata, l'altro resta immobile sopra una delle panche, riflettendo meglio sulle parole che ha appena ascoltato. Poi il primo dice: "ho sempre pensato che la comunicazione fosse l'elemento fondante della civiltà, non posso certo cambiare idea adesso soltanto perché mi è più comodo". "Secondo me non vuoi renderti conto”, fa l’altro; “qui non si tratta di massimi sistemi, è soltanto una questione di sopravvivenza; nient'altro".

L’orologio a parete segna con il solito scatto meccanico un altro nuovo minuto, e i due si alzano in piedi nello spogliatoio, poi si incamminano svogliatamente verso il loro reparto di lavoro, all'interno dello stabilimento dove sono occupati con un contratto ordinario ma oramai in scadenza. "Vedi", prosegue quello mentre si avviano lungo il corridoio che porta alle officine; "non c'è più niente che possa mostrarsi limpido come lo vorresti tu. È proprio la gente stessa ad aver maturato una specie di autodifesa. In ogni settore si dice qualche cosa pensando contemporaneamente a qualcos'altro, che come minimo risulta leggermente diverso, se non del tutto un altro argomento; è normale, sta solo a chi ascolta il compito di decifrare al meglio quello che riesce a comprendere di tutta la faccenda". Poi i due si dividono di malavoglia, e subito riprendono la loro attività alle macchine come fanno ogni volta, dandosi appuntamento alla prossima pausa, due ore più tardi.

Le presse per gli stampi continuano a sfornare i pezzi appena sbozzati, e con i guanti termici gli operai li prendono e li posizionano sui banchi per le ulteriori lavorazioni. “La meccanica è un’attività di precisione”, riflette lui adesso ripensando a quanto gli è stato spiegato; “ogni elemento non ha alcuna possibilità per presentarsi in modo diverso da come è stato progettato”. Il rumore dei macchinari in azione là dentro è notevole in certi momenti, ma dopo poco non ci si fa neppure più caso. In fondo è persino poco interessante immaginare tutti gli altri divisi tra gruppi di persone che cercano costantemente di decifrare ognuno quello che viene proposto da un altro. Tanto più che la maggior parte delle volte si tratta di noti personaggi singoli che usano quasi dei crittogrammi, tramite i quali si dicono pronti a sostenere di stare sempre dalla parte dei più deboli, di coloro che più di qualsiasi altro avrebbero bisogno di comprendere appieno quali siano i capisaldi di tutta la realtà. "Si vive in una nebbia che si fa ogni giorno sempre più fitta", pensa lui mentre segue il ritmo costante del suo compito, adeguato naturalmente a quello della macchina.

In fondo alla postazione di lavoro un grande cartello di colore rosso, interamente scritto in inglese, avverte di qualche pericolo a cui ci si espone stando da quella parte, ed il senso di ciò che è riportato là sopra si comprende benissimo, tanto da apparire quasi superfluo, specialmente se si è piuttosto esperti delle attività che si svolgono in quella zona. In caso contrario comunque, ci sarà sempre in quella linea di produzione un capoturno lì accanto pronto a spiegare che cosa vogliono dire quelle parole di richiamo all’attenzione, usando sicuramente un buon italiano e delle frasi molto chiare, magari solo un po’ urlate per superare i rumori di fondo, sempre che alla fine non sia stufo di ripeterle, ed ammesso che chi deve ascoltarle non immagini già quello che dietro ai discorsi scontati, possa in qualche maniera nascondersi, forse addirittura anche in questa occasione.

 

Bruno Magnolfi



giovedì 18 febbraio 2021

Strega dentro.

         

            Si dice che lei parli col diavolo. Nessuna certezza, è naturale, però sembra proprio che il suo comportamento nasconda spesso un lato del tutto oscuro, qualcosa che non è quasi spiegabile in termini ordinari. Già le sue scarpe dai larghi tacchi, quando cammina sopra al marciapiede vicino casa sua, oppure lungo i freddi e tristi corridoi dell'azienda di magazzinaggio dove svolge il suo mestiere, emettono un ticchettio particolare, sordo e quasi metallico, un rumore riconoscibile tra mille, sempre lo stesso, come se già il suono evidenziasse un aspetto assolutamente insolito della sua presenza. Poi le rare volte in cui dice qualcosa, generalmente è solo un bisbiglio quello che emette dalla bocca, e sembra proprio non riferirsi direttamente mai a nessuno, come fosse immersa in una nebbia propria ed individuale; e difatti la caratteristica che maggiormente la contraddistingue è proprio il silenzio, quello stesso in cui riesce per lungo tempo a sprofondarsi, anche se tende a sopperire alle parole nei casi in cui la si nota osservare le persone attorno a sé con una certa anomala insistenza, tanto che pare quasi pronta ad incenerire tutti uno per uno, mirando chi ha vicino con occhi terribilmente oscuri, fissi, quasi pungenti, che non lasciano alcun dubbio sui suoi reconditi pensieri. In compenso si dice in giro che conversi da sola nelle situazioni più diverse, anche gesticolando con le mani, e certe volte persino mentre rimane ferma per esempio ad aspettare un mezzo pubblico, oppure mentre se ne torna a casa a piedi alla fine del suo turno di lavoro. Questa anzi sembra proprio la sua caratteristica più stringente, quella appunto di tenere un dialogo segreto soltanto coi fantasmi, senza preoccuparsi di nessun altro intorno a sé.

            Poi peraltro abita in completa solitudine, ed anche questo ormai lo sanno tutti, e pare proprio che all’interno delle sue due o tre stanze, anche se nessuno le ha mai viste, aleggi spesso un'aria stantia, poco solare, come se le tende tirate e le finestre chiuse non permettessero alcuno scambio con l’esterno. C’è addirittura chi ha maturato nel tempo una paura folle verso di lei, e cerca ovviamente qualsiasi scusa per sottrarsi alla sua presenza, anche se c’è sempre qualche persona che in certe occasioni si prova ad avvicinarsi a lei con ovvia cautela, proponendole qualche parola di abituale conversazione, che la maggior parte delle volte però, nonostante l’impegno, non si sviluppa affatto, se non in qualche risposta secca e dura, che non lascia ai presenti alcuna volontà di proseguire. Già qualche volta i ragazzi del quartiere le hanno gridato qualcosa dietro le spalle, magari mentre camminava con il solito passo lungo la via, e c’è anche chi ha immaginato sorridendo che prima o dopo qualcuno tenterà di farle qualche brutto scherzo, proprio per misurare fino a che punto può riuscire una persona come quella a tenersi fuori da tutto quanto, senza mai venire a compromessi. “Non si può essere così asociali”, dicono di lei con insistenza i suoi vicini di casa. Ed anche: “l’isolamento non porta mai niente di buono"; tanto che quando accade qualcosa di poco chiaro o di malvagio nel quartiere, la prima ad essere sospettata evidentemente è proprio lei.

Così le cose vanno avanti, ma c’è chi giura di aver visto balenare delle fiamme dietro le tende dell’appartamento dove abita, come se una certa presenza infernale passasse talvolta da casa sua ad intrattenerla. “Si sentono anche delle persone parlare a voce alta”, dice chi transita spesso sotto quelle sue finestre, “ma non si comprende nulla di ciò che viene detto, come se ci fosse qualcuno su da lei a parlare in una lingua sconosciuta”. Che poi sia costretta per il suo lavoro a seguire dei corsi di tedesco, a tutti pare qualcosa di poco rilevante, considerato come sia impossibile che ciò che si sente dalla strada assomigli ad un linguaggio conosciuto. E poi anche sul suo posto di lavoro, sembra non ci sia stata mai neanche una volta in cui lei abbia scambiato una conversazione con qualche autista di autocarro giunto magari dai confini sassoni. Il suo comportamento insomma, viene in qualche modo semplicemente sopportato da chi si trova ad averla più vicina; ma c’è già chi giura che le cose non potranno andare avanti in questo modo per molto tempo ancora.

 

Bruno Magnolfi 

  

 

mercoledì 17 febbraio 2021

Tagli sul corpo.


Il primo taglietto ad una mano me lo procurai quando ero ancora un ragazzo, distrattamente, tanti anni fa, proprio mentre stavo giocando da solo in fondo alla strada di casa, con un coltellino dal manico di legno che avevo comperato su una bancarella al mercato. Due gocce di sangue color rosso vivo e poi via, senza altre conseguenze. In seguito però iniziai spesso a punzecchiarmi la pelle con qualsiasi cosa tagliente mi trovassi tra le mani. Il gusto perverso del dolore per me ha sempre avuto un richiamo attraente, tanto da portarmi a procurare dei piccoli tagli su tutto il mio corpo, dove meglio mi capitava. Oggi poi mi infliggo quasi regolarmente delle piccole ferite alle mani, alle braccia, certe volte anche alle gambe, e provo sempre un certo piacere nel provare lo stesso piccolo sottile dolore, vedere le medesime gocce di sangue, riconoscere che dentro la mia scorza non c'è mai il vuoto, ma qualcosa che pulsa, qualcosa che al minimo graffio tracima e si mostra. Per me è come manifestare di me stesso qualcosa che sta dentro e che non so cosa sia, ma sono sicuro che scalpita per mostrarsi alla vista tramite quelle fessure che io stesso mi imprimo.

Trovo che non ci sia niente di male nel comportarsi in questa maniera, e neppure nel dichiarare ad altri questa cosa per me naturale: in fondo ognuno ha le sue debolezze, ed anche dei gusti diversi; per me poi è diventato una specie di gioco quello di scalfirmi la pelle con qualche piccolo taglio, ciò che davvero pensano gli altri alla fine non mi interessa. Naturalmente anche le lame che uso devono sempre essere all'altezza della situazione, e soprattutto ben affilate, ma ho anche delle preferenze in proposito che rispettano giorni, orari e anche condizioni diverse. Poi però arriva un tizio, mi chiede con curiosità che cosa siano quei segni che porto, quelle piccole cicatrici inusuali sulle braccia, e sembra molto interessato alla maniera di procurarmele. Lui asserisce di essere un fotografo, un appassionato di cose particolari in relazione al corpo umano: vorrebbe farmi delle istantanee, magari nel suo studio; sostiene di potermi addirittura pagare se gli lascio effettuare un servizio completo. Ci scambiamo i numeri e ci diamo comunque un appuntamento.

Quando ci vediamo lui sembra molto contento di poter catturare con l’obiettivo le mie piccole cicatrici, in tutte le angolazioni che desidera. Si perde in ogni piccolo dettaglio, riprende qualsiasi minuta ferita io mostri, e poi mi fa anche sfoderare un mio fedele coltello, e forse cerca persino trovare un senso preciso a tutto quello che vede davanti alla macchina. Infine tira fuori dei soldi, mi dice che ci dobbiamo incontrare di nuovo, che devo firmare delle carte per concedergli la possibilità di pubblicare il materiale che ha registrato. Ci accordiamo subito, e poi decidiamo di fare altre foto per una rivista che ha richiesto un esauriente servizio completo su tutto quanto. Le cose vanno benissimo, ogni volta lui mi riempie le tasche di quattrini, e l'unica cosa che mi chiede di fare è quella di tenere sempre fresche le mie cicatrici, costringendo me stesso a ferirmi ogni volta. Tutta la faccenda va avanti per diverse settimane, lui è sempre pieno d'entusiasmo, e poi sostiene che le mie fotografie stiano andando benissimo, piacciono tantissimo ad un numero crescente di estimatori, così mi riempie ancora di soldi, senza neppure bisogno che io chieda nulla.

Poi però qualcosa si rompe. All'improvviso mi sembra sgradevole che ci sia tutto un gran pubblico a curiosare sui miei comportamenti; mi scopro stufo di procurarmi quelle ferite perché qualcun altro possa gioirne, mi sembra persino immorale che ci sia chi manifesti il gusto di apprezzare cose del genere sugli altri; così smetto. Smetto di farmi i taglietti, di tormentarmi la pelle, di far scaturire continuamente le gocce del mio sangue. Il fotografo si mostra disperato, arriva a propormi altri soldi, altri scatti, altre riviste su cui apparire. Ma per me ormai è finita, le cicatrici si stanno assorbendo, non ho più intenzione di farmi graffiare ancora dalla mia lama. Mi sento cambiato, non provo più alcun piacere in quella vecchia abitudine, all’improvviso non voglio più vedere il mio sangue e sentire il dolore dei tagli; la gente si trovi pure una cavia diversa da me.

 

Bruno Magnolfi


 


lunedì 15 febbraio 2021

Tenersi distanti.

          

 

"Toglietevi dai piedi", grida qualcuno indirizzando la sua voce potente verso le luci dei riflettori già accesi, nonostante splenda nel cielo il sole pallido della tarda mattinata invernale, restando in mezzo al gruppo di gente che si è affollata sulla piazza giusto per curiosare attorno agli attori e gli operatori cinematografici, pronti per girare probabilmente alcune scene di una nuova pellicola tra i vicoli del loro paese. In molti si voltano un attimo per vedere chi mai può essere a prendersi una libertà di quel genere, però altrettanti ignorano completamente quelle parole riecheggianti nell’aria tra le pietre delle loro vecchie case, come se il forte interesse di vedere dal vivo delle facce già note, apprezzate altre volte sugli schermi da chissà quante persone oltre loro, non fosse assolutamente scalfito da qualche imbecille nascosto da spalle e da teste degli altri paesani, e che non ha niente di meglio da fare se non venire fin qui a urlare le sue stupidaggini.

Poi si fa avanti un tizio mai visto, con un cappellaccio calcato sopra la testa, e dice in maniera sprezzante, ma con voce adesso maggiormente pacata, che nessuno tra tutti coloro che assistono oggi a queste riprese, può dichiararsi soddisfatto di veder sbattere, in qualche semplice titolo di cinema, o sui manifesti che pubblicizzano una pellicola magari di tipo scadente, le magnifiche case e le storiche strade della propria cittadina, il suo passato, le sue stesse radici, con estrema facilità riaggiustate e trasformate nella maniera più adatta ad essere recepite da tutti, e quindi senz’altro falsificate del suo vero vissuto. “Si tratta di dignità”, dice alla fine con un guizzo di personalismo che impone a tutti un certo silenzio garbato e riflessivo. Poi va via, senza che venga fermato da nessuno tra tutti coloro che hanno ascoltato le sue parole, ma lasciando dietro di sé come un’aria sospesa, quasi una domanda oscillante subito sopra le teste di chi è ancora là. Gli operatori prendono tempo, sembrano adesso molto impegnati a sistemare le loro apparecchiature tecnologiche, ma i pochi attori rimasti al centro della scena immaginata, sembrano quasi scontenti di quella situazione, tanto da mostrarsi poco propensi ad andare avanti nel loro lavoro. 

Qualcuno tra la piccola folla di persone in cerchio si volta e va via, ed anche coloro che insistono a rimanere piantati su quel selciato, non sembrano attendersi ormai chissà cosa da quella situazione. Si è rotto l'incanto del primo momento, della iniziale curiosità, tanto vale adesso mostrarsi sempre più indifferenti a qualcosa che in fondo può accadere ogni giorno, perfino in un piccolo paese come il loro. L'uomo che ha mostrato così preponderante il proprio parere adesso sembra sparito, nessuno è riuscito neppure a riconoscerlo sotto al cappello che ne copriva la faccia, ma forse si dice già sottovoce che era soltanto un provocatore senza grandi pretese, oppure qualcuno pagato dallo stesso regista per far allontanare la calca, anche se quello che ha detto senza riferirsi a qualcuno in particolare non era parso ai presenti del tutto sbagliato. Si profila un debole momento di sospensione, quasi un lasciare prendere del tempo a chiunque, ma infine vanno via tutti quanti, di malavoglia, alla spicciolata, parlottando tra loro senza mostrare troppe opinioni, mentre tengono le mani dentro le tasche, e le spalle strette di chi in fondo non si interessa di nulla. Attori ed operatori sembrano quasi sconcertati, hanno l'abitudine di tenere a bada masse di persone festanti, e a quell'indifferenza improvvisa non sembrano per niente assuefatti.

“Non c’è niente da dire”, fa uno che resta fino all’ultimo con un leggero sorriso negli occhi; “il carattere di questi paesani emerge sempre da tante piccole cose, anche quando meno te lo aspetti, persino nella diffusa capacità indiscussa di mostrarsi tutti delle stupide pecore allo sguardo di chi si attenderebbe tutt’altro. Però è solo una finta, un tranello, un semplice tenersi a distanza”.

 

Bruno Magnolfi

           


venerdì 12 febbraio 2021

Indirizzo postale.

         

"Le cose non sono assolutamente perfette", pensa di nuovo Silvia mentre accende il suo elaboratore, proprio come fa ogni mattina feriale a quest'ora. Anche oggi dovrà naturalmente occuparsi di un sacco di cose, restando ovviamente concentrata il più possibile davanti allo schermo, perché le documentazioni su cui deve operare durante l’orario di lavoro previsto, sono giunte inesorabili poco per volta già nel corso del tardo pomeriggio di ieri, dentro una serie numerata di allegati, insieme alla sua posta elettronica, nella stessa maniera in cui oramai capita sempre, inviate come ogni giorno dal suo capoufficio, oppure da chissà chi al posto suo; e nonostante Silvia si fosse accorta subito della mole dei messaggi, ancora più corposi che nei giorni passati, fino adesso è riuscita a  resistere comunque alla curiosità, evitando persino di andare a spulciarli, forse anche per non trascorrere di nuovo anche quella serata con delle preoccupazioni ancora maggiori di quelle che già sente di avere costantemente sopra di sé. Il carico di lavoro per lei in pratica si è moltiplicato negli ultimi tempi, ma sembra proprio che a nessuno tra i suoi superiori interessi minimamente prendere in esame questo aspetto evidente, perché Silvia pare quasi diventata il ricettacolo di tutti i problemi aziendali che fioriscono come niente in quell’impresa, e lei da qualche giorno si trova molto spesso costretta a comportarsi in una maniera che odia, cioè con la fretta più estrema, e quindi superficialmente, tirando via in tutte le sue attività lavorative, per riuscire almeno a completare nella serata di ogni giorno tutti gli incarichi a lei assegnati, ed anche nel tentativo, certe volte fallito, di rientrare nei tempi che le vengono concessi per completare quelle incombenze, tanto da trattare le cose in maniera sempre più sbrigativa e sbadata, priva di quella giusta attenzione e precisione che lei, al contrario del comportamento che tiene adesso con quanto le sta capitando, vorrebbe costantemente utilizzare in tutto quello che fa.

“Proprio niente di tutto quanto è perfetto”, pensa anche in questo momento mentre sfoglia il materiale che si trova di nuovo stamani sotto ai suoi occhi; poi inizia ad incasellare come sempre tutti quei dati nei giusti moduli che dovrà restituire al più presto all’indirizzo generale di posta elettronica, ed è quasi sicura, con l’ansia tipica che produce la fretta, di inserire là in mezzo degli errori del tutto involontari. Sa perfettamente che da remoto qualcuno controlla passo per passo il suo lavoro, ed oramai, anche se proprio sforzasse al massimo tutta se stessa, non si potrebbe permettere di perdere neppure cinque minuti, pur lavorando comodamente dentro la sua abitazione, così come qualcuno certe volte quasi le rimprovera. In fondo anche questa non è certo stata una sua libera scelta, anche se ha subito cercato di adattarsi alle nuove condizioni di lavoro, portando avanti il suo ruolo al meglio possibile. Però qualcosa si è rotto. Quel rapporto di precisione che si verificava ogni giorno quando lei si recava in ufficio, naturalmente assieme a tutti i suoi colleghi di lavoro, in qualche maniera e poco per volta è venuto a mancare. Ad iniziare da quell'approccio sostanziale sulle responsabilità, che lei ha sempre gestito con quel senso di appartenenza alla squadra capace spesso di darle tutto il sostegno necessario, e soprattutto quella integrità sul lavoro che adesso sembra proprio un elemento persino inutile. Non si tratta più soltanto della mancanza di scelta per i migliori abbinamenti del suo vestiario prima di recarsi in ufficio, o di quei rapporti interpersonali coltivati nel tempo che si sono azzerati e che portavano a sbrigare la propria occupazione in maniera dolce e serena. È la relazione stessa tra le cose da fare ed il loro senso, che ora pare divenuta sfuggente, quasi inutile, forse sciocca. Va avanti, Silvia, è il suo mestiere, ma lo fa oramai per inerzia, senza più alcuna passione; e dovrà comunque affrontarlo questo problema, il più presto possibile, prima di ridursi soltanto ad un semplice indirizzo di posta elettronica.

 

Bruno Magnolfi

        

 


mercoledì 10 febbraio 2021

Lungo i fianchi delle colline.

       

Da qui alla fermata della corriera ci vogliono appena venti minuti camminando con un passo veloce, ma quando sono in ritardo questo tratto di strada mi ritrovo ad affrontarlo quasi interamente di corsa, nonostante sia tutto in leggera salita, anche se non mi piace per nulla entrare nel mezzo pubblico col fiato grosso e i muscoli delle gambe già indolenziti. Preferisco di gran lunga prendermela comoda, e farmi la strada con calma, anche se questo vuol dire alzarsi dal letto più presto al mattino, e chiudere alle spalle la porta della mia casa, ad un chilometro circa dalla fine dell’abitato, ancora col buio, molto prima che albeggi. Certe volte penso che il momento più bello di tutta la mia giornata sia proprio quando arrivo nella piazzetta esattamente all'ora giusta, senza essermi per nulla sforzato lungo il viottolo che da casa mia porta al paese, quando riesco così a salire con tutta calma quei piccoli gradini della corriera, ed anche a salutare l'autista mentre sta già fumando come sempre una delle sue prime sigarette del giorno, e dare un saluto cortese a quelle tre o quattro persone che stanno già dentro comodamente sedute in attesa della partenza.

La sera, quando infine rientro nello stesso cascinale che ho lasciato al mattino, dove con i miei genitori e la mia sorella minore abito da sempre, i momenti che ricordo con maggiore piacere di tutta la giornata lavorativa trascorsa, mentre proseguo a mangiare qualcosa seduto alla tavola della cucina, sono proprio quelli che ho provato sopra quel mezzo pubblico. “C’era il Pieri oggi a guidare”, dico a mia madre che mi guarda curiosa; oppure, “c’era parecchia gente sulla corriera, tutte le donne che  stamani stavano andando al mercato rionale del venerdì”; o anche, “mi ero quasi addormentato stamani sul mio sedile, a un certo punto”. Il paese dove abito è piccolo, non c’è quasi niente, di qualsiasi cosa possa avere bisogno la gente che abita qui, deve prendere per forza quella corriera e andarsene con pazienza fino in città. Io invece ci vado ogni mattina per lavorare: sono un commesso di un grosso negozio di ferramenta, e il mio padrone è un vecchio amico del babbo, uno che da ragazzo abitava anche lui nel nostro paese. Ma tra gli scaffali e il bancone non succede mai nulla di nuovo, e i tanti clienti che passano da lì alla fine sono sempre i medesimi, e pongono sempre le stesse domande. Non mi lamento, questo no, non ne avrei alcun motivo; soltanto dico che alla lunga questo è un lavoro indubbiamente noioso, ripetitivo, in cui comunque c’è da tenere a memoria una quantità innumerevole di articoli in vendita, e soprattutto la loro esatta collocazione sugli scaffali, oltre naturalmente a conoscere bene la quantità sterminata di problemi che tutti quegli oggetti hanno la capacità di risolvere, ognuno per proprio conto.

Il vecchio proprietario oramai dentro al negozio lo si vede soltanto per qualche ora al giorno, quando c’è l’afflusso maggiore di clientela; il resto lo portiamo avanti noi commessi, cercando di non sbagliare mai nulla con i nostri consigli ed in tutto quello che proponiamo alle persone quando ci viene chiesto un parere per risolvere un guaio. Mio padre ha voluto che andassi via dal paese, “qui non c’è niente da fare per te”, mi ha detto secco tanti anni fa mentre lui si occupava della stalla, accudendo gli animali nel campo dietro la casa. Ero un ragazzo, non ci sapevo fare con quelle cose che per lui tornavano così naturali, e quindi gli detti ragione, abbassai la testa e gli lasciai fare le scelte che reputava più giuste per me. Forse non pensava che sarei rimasto sempre e comunque fedele al paese, e che non avrei cercato di farmi troppe amicizie in città. Forse avrebbe voluto mandarmi via da questo posto, dalla campagna e da queste colline, per il mio bene sicuramente, anche se io fin da subito restai innamorato, proprio come lo sono anche adesso, del dondolamento insostituibile della corriera sul tratto di strada tutto curve che mi riporta dolcemente fin qui.  

 

Bruno Magnolfi

          


lunedì 8 febbraio 2021

Tramonto mistico.

 

          

            “Ogni giorno è diverso. Ed anche se sto qui senza fare niente, immaginando chissà cosa mentre guardo laggiù in fondo al deserto che si apre davanti a questa mia misera baracca, il tempo comunque riesce a far variare come vuole tutte le cose ed i pensieri della mia mente”. Lei si versa da bere, quindi esce dalla cucina e poi va a sedersi con calma sotto alla tettoia da dove lui resta ad osservare il profilo della bassa collina di fronte, mentre il sole, come fa sempre, si avvia verso il tramonto. I ragazzi, giunti fin lì anche quest’oggi, se ne sono appena andati, lasciando soltanto una nuvola di polvere dietro al loro furgone, ed il silenzio assolutamente naturale ha ripreso in un attimo il suo potere sul luogo. “Sogno di andarmene anch’io”, continua lui; “però non ci riesco. Preferisco fingere di aspettare il momento più adatto, invitando qualcuno, appena è possibile, a raggiungermi qui, falsificando un po’ sulle ragioni che mi spingono sempre a restare. Quando infine mi corico da solo durante la tarda serata, mi sembra sempre e comunque di essere riuscito a vincere qualcosa, come se aver resistito ancora per tutta la giornata, possa essere qualcosa di cui potersi vantare”.

            Lei sorride senza dire niente, sorseggia la birra lentamente e cerca di allineare il suo sguardo a quello di lui, anche se comprende che non è più così facile. Infine si appoggia interamente allo schienale della propria sedia a sdraio, ed inspira l’ineguagliabile odore di fresco del pomeriggio avanzato. Quando dice alla fine che tra qualche minuto anche lei dovrà andarsene, lo fa senza dare alle proprie parole alcuna enfasi, e lui annuisce, come fosse del tutto inevitabile. Ormai è abituato, ed ogni volta comunica sempre a ciascuno che si trovi a passare da lì, che il suo più forte desiderio rimane quello di trascorrere la notte in completa solitudine, proprio perché è una sua scelta, certo, ma anche perché è soltanto così, secondo il suo modesto parere, che si possono espiare davvero le proprie colpe. Infine il sole cala definitivamente sul profilo della terra netta e scura in lontananza, ed un'ultima occhiata all'orizzonte che ci si trova davanti è quello che ci vuole per darsi coraggio. Lei mette in moto svogliatamente la sua vettura sul retro della casa, e poi se ne va senza alcuna fretta, mentre lui conserva la stessa posizione, come se la sua solitudine in questo momento fosse la risultanza finale esatta e prevista di qualsiasi altro gesto, e ciò che resta nell’aria possa mostrare adesso soltanto una sospensione completa di tutte quante le attività.

            “Non si tratta di incaponirsi a perseguire una scelta fatta una volta e poi rimasta priva di qualsiasi dubbio”, dice a voce alta da solo mentre del sole resta soltanto una striscia rossastra di nuvole e cielo. “Si tratta di uscire, almeno in questa fase, da quello che tutti si aspettano dai tuoi comportamenti, ed immergersi appieno in una logica lontana da ciò che è possibile condividere ogni giorno, e che spesso appare agli occhi di molti persino incomprensibile”. Quindi rientra nella sua abitazione, quando ormai il sole è definitivamente scomparso, ed ecco che nel silenzio della sera che avanza, lui cerca di ripercorrere le abitudini di sempre, senza tentare alcuna autocritica, incapace come si trova nel sentirsi davvero lontano da tutto, ora che sa perfettamente quanto distante da quel suo luogo gli rimanga la vita degli altri, ma più per un tentativo personale che per una conseguenza effettiva. Però risulta impossibile invertire il percorso, almeno in questo momento, e l’unica cosa che si sente di fare davvero, è quella di provare ripugnanza verso il mondo di tutti, quello stesso che lo ha spinto con facilità fino ai confini del razionale.

La notte, con il suo oscuro incomprensibile, torna come ogni volta a sovrastare la sua resistenza. Lui si lascia prendere, condizionare, dirigere, perché è consapevole del fatto che tutto ciò rimanga soltanto una sua discutibile scelta, ed è su quella che si fa forza, e nient’altro.    

 

Bruno Magnolfi

venerdì 5 febbraio 2021

Semplice umidità.

 

          

            Osservo un angolo di strada davanti a me, un posto proprio di fronte alla mia finestra, dove una larga chiazza di umidità, sopra al muro d'una vecchia abitazione accanto al marciapiede, sembra seguire i contorni di una forma nota, familiare, come di qualcosa forse già visto, chissà poi quando può essere stato, e chissà anche in quale altra situazione. Accanto a questa immagine che appare, si apre un giardinetto dietro una recinzione arrugginita: uno spicchio di verde formato soprattutto da rami secchi e da un tappeto di foglie cadute a terra, completamente lasciato a sé, senza nessuna cura. Certe volte riempio il mio tempo immaginando qualcosa di falso davanti ai miei occhi, tanto da credere talvolta a delle cose irreali, inventate, del tutto impossibili. Il medico dice che non devo fantasticare troppo quando guardo qualcosa, perché la mia fantasia, secondo lui troppo spiccata, finisce sempre per portarmi fuori dai giusti binari, quando invece dovrei cercare di avere dei pensieri maggiormente realistici. Ho sempre pensato di avere la possibilità di disegnare tutto quello che vedo e mi colpisce, almeno in qualche occasione, piuttosto che descriverlo a voce alta ogni volta che il dottore torna per visitarmi e pormi le sue domande, ma non sono mai riuscito con la matita a riportare davvero sulla carta quanto mi ritrovo di fronte, forse anche perché non ho mai provato seriamente neppure a farlo. Gli dico qualcosa, dopo le sue lunghe, profonde insistenze, magari gesticolando addirittura con le mani per rendere meglio l’idea, ma infine non credo che lui comprenda perfettamente le mie descrizioni. Soprattutto secondo me non è capace di vedere le cose così come le vedo io, e di questo in fondo me ne dispiaccio, perché così dimostra di non riuscire ad essere mai davvero in sintonia con le mie affermazioni.

Quando il dottore se ne va io resto seduto mentre agito una mano per salutarlo, ed una volta rimasto da solo dopo poco tempo riprendo la mia minuziosa osservazione dalla finestra di quel giardinetto di fronte, soffermandomi su dei particolari che adesso mi pare di non aver mai neppure notato in precedenza. Ogni volta comunque trovo nell'immagine scura sul muro e nella chiazza di umidità persistente qualcosa di diverso. A me sembra persino sollevarsi direttamente dalle fondamenta, quella grossa macchia, scorticando in qualche piccola zona l'intonaco vecchio e cadente, e lasciando nella parte più bassa un sentore come di calcinacci sfarinati e senza più consistenza, quando invece nella zona più in alto la sua forma sembra mostrare una medusa gigante pronta a soffiare via l'acqua da dentro il suo ombrello, e sollevarsi in aria come se fosse immersa in un mare filtrato di sole, verde e trasparente, spingendosi con tutta la forza della sua voglia di essere, verso i piani più alti del caseggiato giallo e polveroso. Il medico ha detto che le cose che osservo sono soltanto quello che sono, e che non ci devo vedere nient’altro, ed io gli credo, questa è la sua medicina, anche se forse non è del tutto adeguata al mio caso.

Questo non gliel'ho mai detto comunque, e magari non l’ho fatto soltanto per una sorta di dispiacere che potrebbe provare nell’ascoltare da me qualcosa che contrasta direttamente con le sue idee fondanti. Mi limito quasi sempre ad annuire quando mi parla, e ad assicurargli che farò tutto ciò che lui mi dice di fare, tanto che osserverò, d'ora in poi, soltanto per quello che sono tutte le cose che mi restano davanti, anche se penso che forse mi potrà risultare quasi impossibile farlo davvero. La mia medusa purtroppo si innalza oltre il muro della casa di fronte e si incarna rapidamente in una bassa nuvola grigia di passaggio, mentre io resto imbambolato nel rendermi conto di quanto la realtà disveli le sue immagini così facilmente. "Può vederle anche lei", dico poi oggi al dottore. "Basta che osservi i contorni delle cose. Quella macchia d'umido ad esempio", ma lui si arrabbia, dice che sono testardo, che non voglio mai collaborare. “Non c’è niente sul muro, nient’altro che umido”, mi fa. Mi dispiace, non vorrei mai irritarlo, forse ho addirittura esagerato; però adesso non vedo l’ora che se ne vada da qui, proprio per restare da solo a guardare ancora da quella parte, e capire quale sarà lo scopo finale della medusa, mentre prosegue ad arrancare imperterrita verso le parti che le rimangono davvero più in alto.

 

Bruno Magnolfi

mercoledì 3 febbraio 2021

Auto da strada.

 

        

            “Anni fa ero diverso; mi bastava ben poco per sentirmi quasi a posto, soddisfatto persino delle piccole cose a cui badavo”, dice Oscar mentre resta seduto dentro al locale davanti ad una birra, dove una sua vecchia conoscenza dei bei tempi andati l’ha trascinato incontrandolo per caso. “Poi si sono alternate intorno a me parecchie faccende, ed io mi sono quasi smarrito per stare dietro a tutte le cose che mi prendevano, tanto che poco per volta quello che mi interessava di più ad un certo punto ha iniziato come a sfaldarsi, quasi non avesse avuto valore nei confronti di tutto il resto, ed io mi sono ritrovato ad essere un qualsiasi idealista, ma praticamente quasi a corto di speranze concrete”. L'altro lo guarda, annuisce, pensa però che a nessuno di loro in fondo sia andata troppo bene. Erano una decina a frequentarsi quando erano solo dei ragazzi, tutti dello stesso rione, e qualcuno tra loro aveva parecchie aspettative, al punto da essere pronto a scommettere tutto su quel futuro che pareva attendere ognuno, e sulle buone novità che gli anni a seguire avrebbero sicuramente riservato. “Non è questo”, fa Oscar adesso; “personalmente sono sempre stato uno di quelli pronti ad adattarsi a tutto con facilità, e quindi non ho mai avuto delle aspettative particolari. Però è sopravvenuto un momento in cui la spinta iniziale che avevo sempre provato dentro di me è cominciata a venire meno, e l’entusiasmo delle cose di cui mi occupavo a scemare, tanto che alla fine non ho più provato la voglia di spingermi oltre. Così ho iniziato a sentirmi già soddisfatto così, fino a ritrovarmi seduto, senza più alcuna idea da portare in avanti”.

            C’è un discrimine netto tra coloro che sognano chissà cosa, e chi invece fin dall’inizio intende accontentarsi, pensa l’altro mentre lo ascolta. “Forse non hai avuto troppa determinazione”, dice poi guardando Oscar, ma lui scuote la testa, sottintendendo che non è quello il problema secondo il suo parere. “Non importa comunque parlarne ancora”, dice alla fine buttando giù l’ultimo sorso della sua birra. Poi pagano ed escono da quel locale, e forse mentre stanno in piedi sul marciapiede le cose appaiono ad Oscar già in qualche modo differenti. "In fondo è soltanto una questione data dall'amarezza che si può ancora provare in certe occasioni. Basta imparare a conviverci poco per volta ed il gioco è già fatto", spiega all'altro. Questo sorride, annuisce, infine si incamminano con calma nella stessa direzione, anche se dopo pochi metri devono già salutarsi. L’amico sale sulla propria macchina parcheggiata e poi se ne va, Oscar invece deve rientrare al lavoro, una piccola officina di elettrauto che sta nel vicolo accanto, e che manda avanti assieme ad un socio. “Non mi sono semplicemente accontentato”, pensa adesso mentre ritorna alla sua bottega. “Forse potevo tentare molte altre cose, ma alla fine posso sentirmi soddisfatto anche così”.

            Rientra dentro al magazzino mentre il suo compagno di lavoro tiene le mani sotto al cofano motore di un’automobile. Non hanno neppure bisogno di scambiarsi un’occhiata, sanno perfettamente ambedue che cosa ci sia da fare e quale sia la lista delle priorità. Il socio prosegue nella sua occupazione, Oscar si mette a regolare la luce dei fari di un’altra macchina a cui ha già sostituito i due proiettori. “Qualche volta la sera quando chiudiamo, io mi sento soddisfatto del lavoro che abbiamo portato avanti durante la giornata”, fa all’altro senza preamboli. Il socio alza la testa e lo guarda un momento. Poi si pulisce le mani con uno straccio, appoggia un utensile sopra il bancone, dice: “questa è la nostra vita, e se non ci fossimo noi a portare avanti questo mestiere, probabilmente ci vorrebbe qualcun altro a farlo al posto nostro”. Restano in silenzio un momento, Oscar adesso sorride, in fondo tutto è spiegabile con poche parole, e lui adesso non ha niente da ribattere a quelle che ha appena ascoltato. “Va bene”, dice alla fine. “Certe volte mi passano per la testa delle idee strampalate; ma tu non farci caso, che nel pomeriggio dobbiamo consegnare queste macchine già riparate, pronte per andare di nuovo su strada.

 

            Bruno Magnolfi

 

lunedì 1 febbraio 2021

Reazione chimica.

 

       

            Mezzo sdraiato e con le braccia conserte, sull’ultimo sedile proprio in fondo alla corriera rumorosa, in questo esatto momento Leo cerca possibilmente di non pensare affatto all’espressione che potrà avere nell’attimo stesso in cui dovrà scendere da quel mezzo pubblico, una volta giunto alla fermata della piazza principale del paese dove è nato ed ha vissuto per quasi vent’anni, e dove, per tutto questo tempo trascorso in quel luogo, prima di andarsene in giro a ritagliarsi un’esistenza il più possibile diversa dalla vita di quelle persone che aveva visto ogni giorno camminare senza uno scopo preciso lungo la strada principale, salutandosi tra loro e arrotolandosi con consapevolezza attorno a delle ordinarie abitudini, adesso si vede costretto a tornare, con lo sguardo basso, senza un quattrino, cercando di riprendere in mano le cose così come le aveva lasciate, prima del suo strappo. Non sono rimasti molti passeggeri là sopra, ed a lui pare osservandoli di non conoscerne neppure qualcuno, ma in ogni caso è disposto senza problemi ad incontrare sia i vecchi amici che le tante conoscenze, senza alcuna vergogna di sé, perché Leo, anche se non ha avuto fortuna, anche se niente di quello che ha cercato di fare gli è poi andato bene, anche se sta tornando dai suoi parenti perché non ha più un posto diverso dove cercare rifugio, in ogni caso sa perfettamente di poter guardare tutti con la testa ben alta, perché almeno lui, al contrario di altri, ha provato a fuggire da lì.

            Nonostante possa rifletterci adesso con grande attenzione, forse in questo esatto momento non riesce più neppure a ricordarsi nel dettaglio quali fossero i veri motivi che a quell’epoca lo avevano spinto lontano: magari soltanto dover provare con forza il dovere di assomigliare a tutti gli altri per sentirsi davvero a suo agio, cosa che a lui non riusciva e che proprio non poteva volere; oppure la consapevolezza di essere dentro di sé almeno in parte diverso da tutti, nato e cresciuto forse per affrontare altri temi e per abbracciare altre scelte, tra differenti latitudini, in mezzo a facce con espressioni diverse, ed incontrare così delle persone di tutt’altro stampo, che non fossero soltanto quei paesani bonari ed innocui, individui adattati a mandare avanti le cose senza neppure pensarle davvero, secondo lui seduti intorno a comportamenti usuali, privi di migliori prospettive, ed infine quindi senza alcuna speranza. Non saprebbe dirne i veri motivi a nessuno, questo è vero, però Leo ha sempre saputo dentro di sé di avere coraggio, intraprendenza, ed uno spirito indomito. Questo bastava a vent’anni per voltare le spalle una volta per tutte alla sicurezza di un luogo come quello, dove adesso purtroppo sta ritornando, e che forse non avrebbe desiderato rivedere mai più.  

            Cosa importa, pensa adesso sballottato sulla strada poco frequentata e dall’asfalto sconnesso: la storia del mondo è piena di ritorni e di naufragi di sogni; si tratta di allargare le braccia al destino incontrato, e riuscire una volta per tutte a considerarsi un perdente; ecco, questo pensa di sé: uno di più tra tutti coloro che hanno dovuto pur retrocedere, quando il desiderio di qualcosa si è spinto un po’ troppo oltre rispetto alle speranze presto cadute. Non c’è niente di male nel tentativo portato avanti, se non è apparso in qualche occasione completamente sballato e campato per aria. E Leo ha resistito, con ogni suo sforzo, con tutto se stesso, fino a quando ha potuto. Di questo è giusto dargliene atto. Perciò adesso, proprio con questi pensieri, lui si è posto in attesa del momento fatidico, quello in cui tutto si compie, ma non con dolore né rassegnazione, bensì come uno che si è affannato per come ha potuto dietro un’idea, ad un sogno, o ad una speranza. Questo, comunque sia andata, era il suo compito, quello che si era proposto per scopo. Riuscire o meno poi è solo un dettaglio, un aspetto minore della realtà, una combinazione fortuita della formula chimica data, dove gli elementi per la trasformazione sperata sono tutti comunque presenti, ed i processi possibili tutti attivati, e quindi rimane soltanto questa come cosa essenziale, anche se alla fine la reazione principale di tutto l’esperimento non ha voluto saperne di funzionare.

 

            Bruno Magnolfi