venerdì 29 novembre 2013

Consuetudini.

            

Con il responsabile tecnico dell'impresa ci siamo incontrati dentro al suo ufficio, come pattuito per telefono; poche parole di circostanza e siamo subito andati ad effettuare il sopralluogo per mettere a fuoco qualche dettaglio sulle operazioni che servono alla sua azienda. Più tardi, come proforma, abbiamo firmato un preliminare scarsamente impegnativo per ambedue, ma domani torneremo ad incontrarci in presenza del suo diretto superiore, di fatto per definire gli strumenti in base ai quali avrò il mandato nei prossimi giorni per redigere in esclusiva il preventivo di spesa riguardo ai lavori richiesti alla mia azienda.
La mia camera d'albergo, in questa zona quasi interamente industriale, è talmente anonima che mi sento fortemente a disagio, e vorrei subito scappare da questa periferia, almeno per farmene un giro per la città, anche se purtroppo questa sera devo sistemare i miei appunti frettolosi, e almeno definire un piano ed una relazione sul mio pc portatile, a cui probabilmente allegherò tutte le fotografie scattate durante il pomeriggio.
Dovrei telefonare a mia moglie, prima di cena, rassicurarla, magari scambiare con lei qualche frase usuale, ma all'improvviso, mentre ci penso, mi sembra tutto falso, e non sono più neppure sicuro di riuscire a tirar fuori le parole giuste. Domani mattina riceverò una chiamata dal mio capotecnico, mi chiederà qualche dettaglio sui preparativi, dovrò utilizzare tutta la mia arte diplomatica per fargli capire che me la sto cavando bene, che tutto è sotto controllo, e che la nostra impresa è in buone mani. Più tardi cenerò tristemente da solo nel ristorante dell'albergo, cercherò di convincermi ancora di più che in fondo tutto sta andando perfettamente bene, e che questo è il mio lavoro, che porto avanti la mia vita come sempre, e soprattutto non c'è proprio motivo per doversi preoccupare.
Forse però qualcosa non sta andando nella maniera che vorrei, penso con maggiore profondità; magari ho bisogno di svagarmi, di pensare ad altro che non siano queste solite cose usuali per risolvere i miei piccoli problemi. La verità è che ho voglia di fuggire, anche se ho paura persino di pensarlo, anche se so benissimo non farò mai una cosa così sciocca. Sto dentro al sistema, devo andare avanti senza scoraggiarmi, mi ripeto, essere contento di ciò che riesco a fare, trovare le ragioni migliori per proseguire ad essere me stesso.
Già, me stesso; chissà cosa potrei mai fare per tirare fuori veramente qualcosa di me: inventarmi una pazzia, far perdere a tutti le mie tracce, dare in escandescenze in un locale pubblico, oppure ridere in faccia al titolare dell'azienda. Mi convinco che le cose sono quelle che volevo, ciò che forse ho sempre sognato: faccio una doccia, mi cambio per la cena, controllo le annotazioni stese. La mia auto aziendale nel parcheggio dell'albergo aspetta solo me, ceno velocemente, poi scendo e ne avvio il motore. Andarmene, ecco quanto dovrei fare, continuo a ripetermi. Accendo la radio, ascolto una canzone, penso a quando ero bambino e all'improvviso non mi sembra più di provare alcun malessere. Spengo il motore, torno in camera: devo andarmene a dormire, penso, domani sarà una giornata lunga, tra un attimo sarà il fine settimana, dovrò essere contento di tutto ciò che son riuscito a fare. Spengo la luce: non ho telefonato a mia moglie; accidenti, penso, domani mattina sarà la prima cosa di cui dovrò occuparmi.


Bruno Magnolfi

giovedì 28 novembre 2013

Qualsiasi diversità (Bionda, naturalmente).

          In fondo alla strada, sulla destra, si vede soltanto un muro che circonda un giardino, ma dalla parte opposta c'è la piccola casa di July. Nessuno di noi è mai entrato là dentro, ci siamo sempre limitati ad osservare appena per un attimo la faccia arcigna e sfuggente di quella pazza di sua madre, quando si affaccia alla finestra proprio nel momento che l'accompagniamo fino lì, quasi abbia un sesto senso per individuare quell'attimo esatto e vedere chi sta assieme a lei; per il resto tutto quanto per noi è sempre stato solo vedere un portone scuro che si apre, per poi richiudersi velocemente dietro alle spalle di July. Lei spesso ci affascina, anche se comprendiamo perfettamente come possa essere difficile vivere in una situazione del genere, con una madre che non è come tutte le mamme; ma in ogni caso, quando l'ora delle serate estive diventa quella stabilita dai nostri genitori per rientrare nei nostri appartamenti, tutti assieme arriviamo fino davanti a casa sua, forse solo per una curiosità inconfessata, magari aspettandoci qualcosa di strano, o forse solo perché è quello l'ultimo attimo dei giochi di tutto il giorno, per noi adolescenti, senza che ne abbiamo mai avuto neppure propriamente coscienza. 
          Forse ci fa anche paura, quella donna, e nessuno di noi riesce a comprendere come possa essere davvero la mamma di July. Lei è dolce, dice un sacco di cose carine, certe volte sembra quasi che cresca da sola, seguendo un proprio progetto, quasi con indifferenza nei confronti di tutto il resto. Qualche volta le facciamo qualche domanda un po’ impertinente, perché ci pare impossibile che le cose possano scorrere per lei in modo così naturale, pur restando così diversa da noi, ma July generalmente pare sfuggirle, limitandosi a guardare qualcosa con serietà, qualcosa di invisibile che a tratti sembra vedere soltanto lei, e la maggior parte delle volte a cambiare discorso. Qualcuno dice addirittura che non sia la vera figlia di quella strega che le apre la porta di casa, in ogni modo la sua diversità a noi ci appare come qualcosa di estremamente importante, anche se non sappiamo bene perché. 
          Anche per questo però la cerchiamo continuamente, e sappiamo con certezza che prima o poi se ne andrà dal nostro quartiere, non perché July ci parli di questo, o perché sia questo il progetto della sua vita, quanto perché ci sembra che guardi sempre lontano, rispetto a noi, da qualche parte diversa, oltre le cose comuni di cui noi, che siamo i suoi pochi amici, generalmente ci accontentiamo, e che ci rassicura avere d’intorno. Certe volte ci siamo fermati a guardare la casa dove lei abita, una volta rientrata, e ci è parso di immaginare un interno oscuro, delle stanze fredde, quasi senza oggetti, prive delle cose familiari che abbiamo noi. 
          Quando lei e sua madre sono poi andate via veramente dal nostro quartiere, siamo quasi rimasti male, tutti quanti, anche se avevamo sempre saputo fin dall’inizio che era così che doveva finire, e che forse non avremo mai più sentito neppure parlare di July, persa lungo chissà quali contrade, dietro a problemi che non avremmo mai saputo neanche immaginare. Però abbiamo continuato ugualmente a cercarla, e soprattutto a parlare di lei, e di quanto in fondo sapevamo che c’era, dentro July, tutto ciò che noi non saremmo mai riusciti neppure ad immaginarci, nonostante tutto l’impegno che potevamo impiegare; e certe sere, quando ci siamo fatti già un po’ più grandi, l’abbiamo forse sognata ad occhi aperti, come qualcuno che si sogna perché sappiamo che non ritornerà mai più insieme a noi, forse perché non c’era neppure mai stato sul serio; e infine è proprio rimasta dentro ai nostri ricordi, insostituibile, come quelle cose importanti che purtroppo capita a volte di perdere, senza neppure sapere quanto in seguito potranno infinitamente mancarci. 

          Bruno Magnolfi

lunedì 25 novembre 2013

Fantasmi comuni.

            
            Per lungo tempo lei continuava a toccare le punte dei suoi stessi capelli, guardando nel vuoto che aveva in genere davanti a sé. Poi smetteva, si interessava di qualcosa, magari si muoveva sopra la sua sedia, e infine ricominciava, proprio come prima. L’inserviente spesso la guardava senza insistenza, però si vedeva che ne subiva la fascinazione, quasi fosse innamorato, anche se forse semplicemente continuava solo a chiedersi come fosse possibile che una ragazza bella come lei fosse finita là dentro, senza le capacità per godersi la vita, per sentirsi almeno come tutti, amare e lasciarsi amare come sarebbe stato giusto, almeno secondo lui.
            Ci teneva molto ai suoi lunghi capelli, se li curava e pettinava infinite volte con la spazzola che aveva sempre con sé durante tutta la giornata, ma ad un certo punto se li lasciava legare per andarsene a letto, proprio nello stesso momento in cui gli infermieri le davano anche la sua medicina per riuscire a dormire. Normalmente pareva quasi indifferente agli altri, ma secondo lui era soltanto un’apparenza: era sufficiente dirle che aveva dei magnifici capelli per vederla distogliere lo sguardo da quel niente da cui sembrava perennemente attratta, e notare sul suo viso una smorfia che era quasi un sorriso, come se a lei fosse sufficiente una semplice parola come quella per tirare avanti. Forse nella sua mente c'era davvero quel niente che dicevano i medici, ma lui sembrava proprio non crederci, e spesso tornava a guardarla di nascosto, mentre lei lasciava trascorrere le giornate restando seduta con indifferenza.
Un giorno non c'era: la visita dal medico, dallo specialista, oppure qualche problema di un altro ordine, aveva pensato l’inserviente: ed anche il giorno dopo la sua sedia nella saletta principale era rimasta vuota, e così per altro tempo, fino a quando però era ricomparsa, all'improvviso, l’espressione di sempre, la stessa aria, ma con i capelli ormai tagliati corti, a spazzola, prova evidente di un tracollo profondo che doveva sicuramente essere intervenuto. Lui l'aveva osservata a lungo, le si era anche avvicinato, forse per dirle qualcosa, magari per vedere se c'era stata una qualche reazione importante al nuovo stato di cose, ma lei era rimasta immobile, indifferente com'era sempre stata. Lui le aveva sfiorato i capelli, lei lo aveva lasciato fare, come fosse una cosa permessa in momenti del genere.
Quando l’inserviente si era allontanato per riprendere i suoi compiti lei era rimasta ancora lì, nella stessa maniera,  fino a quando però aveva voltato gli occhi, come a cercare qualcosa, quasi le mancasse un elemento importante: forse addirittura quella stessa carezza che lui le aveva lasciato su quel che restava dei suoi capelli. In seguito era tornato da lei, le aveva accarezzato di nuovo la nuca, lei aveva chiuso i suoi occhi, ma giusto un momento, senza fare alcuna altra mossa; lui aveva sorriso, lei forse si era sentita apprezzata.
Questo fu lo scambio che iniziarono a darsi quasi ogni giorno, tutte le volte che ce n’era la possibilità, fino a quando lei un giorno si volse, lo guardò per un attimo, socchiuse la bocca e infine sorrise, come un regalo quasi ineguagliabile, almeno per un inserviente.


Bruno Magnolfi

venerdì 22 novembre 2013

Mondo parallelo.



In fondo, a pensarci bene, in condizioni normali non me ne interesserebbe nulla di questa periferia squalificata, senza neppure un elemento di valore o qualche cosa in qualche modo da apprezzare. Però cerco delle volte di mettermi nei panni di chi vive qui, da queste parti, e vede ogni giorno i palazzoni insensati, i fazzoletti di terra lasciati a sé, le strade con le buche, e i margini pieni di rovi e di immondizia. Sono venuto a controllare questo cantiere abbandonato tra le case, a vedere cosa avrebbero potuto diventare queste armature rimaste affogate per metà dentro al cemento e il resto in aria, quasi per formare un monumento ai potenti e all'indifferenza di chi abita questo quartiere, e lascia che tutto vada avanti in qualche modo, senza neppure provare a ribellarsi: magari solo perché non ne ha neppure più la forza. Mi sono seduto su questa specie di gradino polveroso e sono rimasto qui, a riflettere qualcosa che continua però come a sfuggirmi, fino a quando qualcuno è arrivato alle mie spalle, si è soffermato ad osservarmi, mi ha guardato dritto per un momento o poco più, e poi è sparito.
            Forse c’è una baracca abitata là dietro, ho pensato; forse sono troppo ben vestito per non attirare l’attenzione di qualche poveraccio che frequenta questi luoghi. Ma non mi sono mosso, ho lasciato che si prendesse coscienza che forse c’è ancora in giro qualche cittadino che si interessa di luoghi come questo. Ed è trascorso in questo modo un po’ di tempo, fino a quando ho sentito bisbigliare intorno a me, da qualche parte, e poi sono saltati fuori due ragazzoni dai capelli neri, mani in tasca e sguardo fermo, che si sono avvicinati e mi hanno chiesto senza altre parole se ero io l’uomo del cantiere. Ho fatto cenno di si con la testa, senza neppure pensare troppo a quella frase o a ciò che avrebbe significato questa mia risposta, e quei due si sono subito allontanati di qualche passo. Poi sono tornati verso di me, ed uno dei due mi ha detto che c’era una persona poco lontano che forse voleva conoscermi, parlare con me, e insomma che dovevo seguirli, spiegando questa cosa come se praticamente non avessi alcuna scelta.
Mi sono sollevato dal gradino e sono andato con loro quasi con naturalezza, passando in silenzio tra delle attrezzature rugginose mescolate ai cespugli e a tanta erbaccia sudicia, costeggiando due o tre rimesse sventrate e ormai inservibili. La terra là dietro appariva violata, grigia, imbevuta di polveri e di minutaglie di legno e ferro. Alla fine c’era un uomo che mi ha guardato rimanendo fermo avanti a me, mentre gli altri sono subito scomparsi. Ho pensato che ci doveva essere un mondo parallelo da qualche parte, e mi sentivo improvvisamente quasi orgoglioso di poterne come assaporare un pezzettino. Prima di qualsiasi altra cosa ho detto a voce bassa ma ferma che mi dispiaceva essere entrato in una realtà di cui non avevo la minima idea, e che se recavo disturbo senz’altro me ne sarei potuto andare subito, senza alcun indugio. L'altro intanto si era acceso in silenzio una lunga sigaretta, poi mi aveva guardato ancora, e infine aveva detto: in questo cantiere deve riprendere il lavoro, le operazioni devono andare avanti, devono giungere ad una conclusione.
Ma io non sono la persona che può decidere una cosa come questa, avevo risposto. Non ha importanza, aveva insistito l’altro: adesso tu devi andare, e dire a chi può fare qualcosa che il cantiere deve ripartire, noi non possiamo più aspettare. Avevo annuito, incapace di rispondere ancora qualcosa, e infine l’altro aveva fatto cenno che con ciò potevo ritornare indietro. Mi ero voltato perciò, ma infine, fermandomi per un attimo, avevo solo detto: d’accordo, farò sicuramente del mio meglio.


Bruno Magnolfi

lunedì 18 novembre 2013

Tutti bravi.



Ci sono due grandi ascensori affiancati che servono i due piani interrati dei parcheggi auto del supermercato, e generalmente adopro quello di destra, anche se è naturale come tutto dipenda dalla posizione delle cabine quando giungo a premere il pulsante; che poi uno almeno dei due si trovi al mio stesso piano devo dire sinceramente che non succede mai. Nell'attesa mi posiziono comunque sulla sinistra delle porte scorrevoli, in modo da favorire la fuoriuscita dal vano delle persone munite di carrello, e nella fascia oraria in cui mi reco a far spese sono quasi sempre sicura di trovare un grande afflusso di clienti, che naturalmente fa variare di molto il mio comportamento finale. In via generale prendo il carrello vuoto direttamente dalla rastrelliera del parcheggio, anche se questo crea un ingombro non da poco per salire sull'ascensore, in speciale modo se si forma, come spesso capita, un piccolo assembramento di persone, anch'esse munite di carrello, che fanno la fila come me per usare gli ascensori alternativamente alle scale mobili e ai piani mobili inclinati, cosicché cerco di posizionarmi in quel caso sul lato dove c’è l’ascensore che appare meno congestionato.
Capita quindi molto raramente che mi ritrovi da sola nel vano della cabina, questo va detto subito, ma in quel caso mi dispongo a leggere la pubblicità delle offerte, in genere disposte sulla parete di fondo, o ad esaminare uno dei volantini come sempre consegnati all’entrata del grande edificio dagli operatori di qualche associazione. Per questo stamani, dopo aver premuto il pulsante ed essendomi concentrata sui vari prezzi e sulle relative percentuali di sconto, non mi sono accorta immediatamente che l'ascensore pur avendo chiuso le porte non era partito, o che forse si era addirittura spostato, ma in questo caso solo di qualche centimetro. Il pulsante che avevo premuto inizialmente, come mi ero subito premurata di controllare, continuava ad essere acceso, così mi sono appoggiata al mio carrello e con semplicità ho atteso gli eventi.
Per un bel pezzo niente è successo, ed io ho immaginato la fila dei carrelli in fondo al corridoio di fronte, e separato da me dallo spessore dell’acciaio, con le persone immediatamente spazientite per quel disservizio di cui però dovevo essere senz’altro la vittima maggiore. Infine ho sentito perfino delle voci concitate che giungevano da fuori, quasi a voler entrare per forza, ma non mi sono preoccupata per nulla ed ho proseguito nella mia immobilità, rifiutandomi addirittura di premere il pulsante di allarme o di fare e dire qualsiasi altra cosa.
È trascorsa così quasi un'ora, quando poi finalmente ho iniziato ad avvertire rumori di  ingranaggi e di utensili, segno evidente che i tecnici si stavano svegliando. A dire la verità mi  è parso che tutti quanti se la fossero presa più che comoda, considerato che due ore dopo ancora non era accaduto un granché, ma in ogni caso ho perseverato nella mia posizione neutrale nei confronti di quanto stava, o non stava, accadendo. E alla fine, con grande lentezza, come se stessero usando una semplice manovella per l'operazione,  le porte scorrevoli hanno iniziato ad aprirsi. Grande è stata la sorpresa dei due meccanici che mi hanno trovata là dentro, ma io non ho avuto niente da dire: in fondo il fatto che fossi rimasta senza fare alcunché là dentro nascosta, significava che avevo piena fiducia negli addetti del mio supermercato, e questo mi pareva l’attestato migliore che una semplice cliente come me avrebbe potuto consegnare agli intervenuti. Bravi, avrei probabilmente potuto dire, ma forse sarebbe parsa solamente  un'ironia, e così non ho detto niente.


Bruno Magnolfi

venerdì 15 novembre 2013

Tutto qua attorno.



Giro per strada come sempre, cercando con gli occhi qualcosa che non sono mai riuscito a mettere a fuoco, sapendo però perfettamente che si trova qui, da qualche parte, magari proprio davanti a me, forse semplicemente spalmato sulle facce delle persone che mi passano davanti. Mi soffermo davanti ad un locale dove entrano ed escono un bel numero di loro: gente comune, cittadini ordinari, niente di speciale, e qualcuno di questi parla a voce alta, altri ridono di qualche parola che scambiano con le conoscenze con cui si accompagnano. Vorrei essere così, penso, proprio come loro, divertito di queste giornate monotone e insignificanti che si susseguono nella completa indifferenza, piuttosto che sentirmi sempre inadeguato così come mi sento. Osservo tutti, so che ognuno di loro ha qualcosa da insegnare agli altri, ed io cerco  semplicemente di capire quale comportamento potrei tenere per farmi raccontare da qualcuno, tra tutti questi, ciò che più di altro gli preme di spiegare.
Sono convinto che dentro ciascuno ci siano delle parole mai pronunciate, pensieri mai esternati, piccoli elementi che ristagnano con normalità dentro a questi organismi costantemente in piena azione, perfettamente in efficienza, come si richiede oggi ad ognuno di loro, e che solo quando tutti quanti riescono a soffermarsi ed a prendersi un attimo di tempo, riescono ad uscire da quel chiuso in cui sono stati relegati.
Infine entro nel locale e mi siedo davanti ad un tavolo libero, il cameriere mi porta un caffè mentre sfoglio il quotidiano che ho trovato sopra al piano. Una donna mi chiede se abbia bisogno di un po' di compagnia, ed io la invito a prendersi un caffè al mio tavolo. Dice che non è soddisfatta della vita che fa, però sa accontentarsi, e poi al giorno d'oggi, aggiunge, non si può chiedere troppo. Annuisco, mi pare una ragazza come tutte, vuota di interessi, però sicuramente una che riesce a dire le cose effettivamente come stanno. La lascio parlare delle sue cose senza interromperla, e lei si lamenta di parecchi aspetti della sua giornata, anche se dice tutto in maniera un po’ annoiata, quasi come per seguire l’abitudine, fino a quando non resta per qualche attimo in silenzio.
Allora le faccio qualche domanda, ma lei sembra non gradirle, e ad un tratto, senza spiegazioni, dice grazie, si alza e si allontana, stufa forse di me e dei miei comportamenti. Vorrei fermarla, dire che in fondo mi dispiace, che non volevo apparirle inopportuno, insistente, ficcanaso, ma poi penso che non mi pare neppure lecito cercare di giustificarmi solo per essere stato un po' curioso, e così la lascio perdere, anzi le dico a voce alta, mentre esce da là dentro, che probabilmente dovrebbe vergognarsi, e che un'altra persona come me non la ritrova facilmente. Si avvicina il proprietario del locale e mi spiega come sia meglio che adesso me ne vada, perché là dentro, dice, ho già fatto sufficiente confusione, così torno sulla strada, riprendo ad osservare le facce e le espressioni che continuano a passare, poi decido improvvisamente di tornare a casa, percorrendo di fretta un lungo tratto di marciapiede senza neppure guardarmi attorno: tanto stasera, penso, non mi pare ci sia in giro molto di interessante di cui occuparsi.


Bruno Magnolfi

mercoledì 13 novembre 2013

Abitudini.

            

            Faceva suonare quel campanello sempre alla stessa ora il signor Piero, vedovo ormai da parecchi anni e pensionato comunale, e le due sorelle, quasi della sua medesima avanzata età, spesso gli aprivano il portone con un leggero attimo di ritardo, proprio per non mostrare con evidenza che lo stavano aspettando. Lui saliva le scale, salutava con cortesia, toglieva il soprabito, si sedeva sulla solita poltrona dopo il loro invito, e con calma si lasciava servire il tè dalle due donne, sorseggiandolo insieme a loro mentre tutti insieme tornavano ad affrontare, come facevano praticamente ogni giorno, delle grandi e inconcludenti chiacchierate intorno ai medesimi argomenti un po' ammuffiti, anche se con la scoperta finzione che fossero praticamente temi freschi, come quasi il confidarsi delle recenti novità. Il signor Piero non si tratteneva molto in quella casa, in genere un'ora al massimo, forse anche per non bruciare troppo in fretta tutto ciò di cui potevano ancora parlare in seguito, ma quel lasso di tempo era comunque più che sufficiente per mostrare a tutt'e tre quanto fosse importante non perdere mai certe abitudini.
Fu semplicemente un giorno come tutti che le cose cambiarono di colpo, di fatto quando il signor Piero smise del tutto di andare in quella casa, comportandosi da quel momento né più né meno come se non avesse mai conosciuto prima di allora quelle due gentili sorelle. Quel pomeriggio una di loro, la maggiore, al momento in cui lui, come sempre faceva, era tornato nell'ingresso per indossare il suo soprabito e quindi salutare le sue conoscenti sempre con grande rispetto, salvo accettare con piacere il loro immancabile invito all’appuntamento del giorno seguente, forse senza neppure rendersene conto, gli aveva appoggiato una mano sulla sua, guardandolo fisso in un attimo di probabile smarrimento, quasi a sottintendere però un'intesa pregressa, oppure addirittura un incoraggiamento. Lui aveva come provato un brivido che non si aspettava, tanto da sentirsi improvvisamente quasi un altro, e in quell’attimo si era convinto, dando seguito all’immediata necessità di stare all’altezza della situazione, ad attrarre con forza verso di sé la donna sbigottita, comportandosi con gesti risoluti, in modo assolutamente inequivocabile, proprio mentre l'altra sorella sopraggiungeva incredula dalla stanza adiacente, cogliendo in pieno quella situazione ampiamente ambigua, decisamente fuori luogo. Lui alla svelta aveva abbassato gli occhi scostandosi e recitando qualche parola senza grande significato, per poi velocemente eclissarsi, non trovando nei giorni seguenti neppure più il coraggio di tornare a presentarsi in quella casa; e tutto da quel momento in poi era praticamente rimasto senza alcuna spiegazione.
Dopo un certo tempo da quel fatto, il signor Piero si trovava casualmente a passare proprio da quelle parti, e per combinazione, percorrendo la strada che di fatto conosceva molto bene, aveva visto uscire dal portone di fronte a sé proprio le due sorelle, che con sorpresa si erano ritrovate davanti agli occhi la loro vecchia conoscenza. Buongiorno, avevano detto all’unisono quelle due, mentre lui con gesto elegante si toglieva il cappello; che piacere incontrarvi, aveva presto risposto il signor Piero anche se con una certa titubanza; poi erano rimasti immobili, tutt'e tre, in silenzio, nel tempo di un attimo che forse era parso vicino ad un’eternità, lasciando tutti senza la capacità di far altro che non fosse quel semplice guardarsi vicendevolmente, in pratica senza il coraggio per scambiarsi altre parole. Chissà chi fu di loro che iniziò a ridere; fatto sta che fu quasi coinvolgente, fino a trascinarli in uno scoppio generale di ilarità sincera, quasi come provare la certezza di riuscire a superare, mediante questo atto semplice, qualsiasi incomprensione, capace insomma di eliminare in un momento ogni trascorso negativo.


Bruno Magnolfi

mercoledì 6 novembre 2013

Occasione persa.

           

Stufo di tutto, stanco da morire, brancolo la sera tardi lungo una strada che neppure riconosco. Succede di dover ammettere un errore, ma adesso tutto quanto sembra inutile, persino la faticosa correzione di quello sbaglio. Se ci penso credo addirittura di potermi rallegrare dell’aver perso poco per volta i miei punti di riferimento, tanto da riflettere che tutto d'ora in avanti sarà semplicemente da ricostruire, come qualsiasi altra cosa da rifare, scartata ormai l'originale, come non rispondente alle attese.
Mi fermo davanti ad un cinema chiuso, osservo i manifesti del film in programmazione. Non conosco questa pellicola, non ho mai sentito parlare né del regista né degli attori. Mi chiedo come sia possibile che tutto giri in questa maniera, che io abbia perso poco per volta il contatto con la realtà minuta, e che le cose seguano un percorso così diverso dal mio. Si ferma un uomo, vede che sono attratto da questi cartelloni, mi chiede cosa ne pensi, ed io gli dico che c'è qualcosa che non capisco in quelle informazioni, che mi sembrano quasi di una natura diversa dalla mia. L'uomo dice ridendo che è tutto uguale,  che non c'è da preoccuparsi. Poi spiega la storia del film, lo ha visto sere fa, dice: tratta di un amore difficile tra un uomo ed una donna, un rapporto come ce ne sono in giro di infiniti. Lo lascio parlare, lui spiega che l'idea buona che porta avanti la trama sta nel fatto che le cose tra l'uomo e la donna scivolano via senza alcun impegno, come se ogni vicenda che si snoda non fosse neppure cercata, né dall’uno né dall’altra.
Forse è questa la differenza, penso: evitare di concentrarsi sugli accadimenti sotto agli occhi di chiunque è migliorativo, a differenza di ciò che ho sempre creduto. Così dico: forse mi piacerebbe vedere il film, ma non ho mai il tempo per dedicarmi a questo genere di cose. Lui annuisce con la testa, sorride come chi sa perfettamente dove andrà a cadere l’argomento, ed io improvvisamente vorrei quasi allontanarmi, ritrovare quella solitudine che mi pareva un elemento prezioso nella mia serata, ma lui all'improvviso dice che può narrarmi tutta la storia di questa pellicola, se voglio, tutta la vicenda descritta là dentro; certo, chiarisce, non sarà come assistere alla proiezione, però quasi. Gli dico che va bene, posso stare ad ascoltarlo senza alcun problema, ma poi ci ripenso: se mi capitasse in seguito di andare al cinema, magari con qualche amico, gli dico con una certa serietà, probabilmente dovrei andare a vedere un altro film, perché di questo ormai ne saprei già a sufficienza, tanto da sembrarmi una ripetizione starlo a vedere. Lui ci pensa, dice che forse ho ragione, e aggiunge che un film narrato è comunque un'altra cosa. Si, è vero, dico, comunque siamo d'accordo.
Quando vado via lui mi saluta con un gran sorriso: sono bravo a raccontare, dice. Ci credo, fo io, forse mi piacerebbe sentirtelo fare, se solo avessi tempo, se soltanto ci fosse la possibilità per me di stare ad ascoltarti. Lui dice che non ha importanza, la contemporaneità prevede tempi stretti per questo genere di cose: forse dovremmo prenderci tutti una pausa qualche volta, ma poi ride, proprio mentre si allontana.


Bruno Magnolfi

lunedì 4 novembre 2013

Senza storia.

            

Sto dietro con noncuranza a questo microfono gracchiante, come se da solo riuscisse a coprire la mia espressione vagamente divertita e potesse lasciarmi libero di pensare ciò che voglio. Fingo di leggere qualcosa di queste carte che ho tirato fuori dalla tasca e che adesso spiego tra le mani, ma prendo solamente tempo, infilo appena delle pause tra queste parole, quasi nell'attesa che mi sovvenga l'idea portante per tirare avanti questa specie di lettura, dentro ad un locale dove mi dicono avvengono quasi ogni sera cose come queste. Non ci sono molti curiosi ad ascoltarmi, anzi, decisamente sono pochi, ma che importa, l'importante è stare qui, proseguire a snocciolare queste sillabe, ad arrotondare le vocali, soffermarmi sopra delle espressioni vagamente musicali, attrarre in qualche modo l'attenzione. Sono abituati qua dentro, sanno perfettamente cosa avviene da questa parte del microfono, non staranno a preoccuparsi se non c’è una vera storia.
Ad essere sincero non avrei neppure niente da dire, spero soltanto che nessuno  tra coloro che proseguono a seguire i miei discorsi ne sia troppo cosciente. Vado avanti, tiro fuori le parole, in fondo non mi costano un bel nulla, e fingo impegno, sentimenti, ispirazione, anche se in realtà non avrei neppure troppa voglia di starmene qui ad improvvisare questa improbabile letteratura. Il punto è che tutto ormai è già stato detto, ne sono più che sicuro, e oramai non si riesce a trovare più niente di nuovo. Per rovescio, qualsiasi cosa possa dire, sono convinto che non cambierà la sorte di questa specie di lettura sgangherata.
Applaudirà, ne sono più che sicuro, questo manipolo di sciocchi, qualsiasi cosa io sia riuscito a dire durante questa mia improvvisazione, nonostante sicuramente quasi nessuno sia stato a cercare di riflettere sulle mie parole. Vado avanti, ormai non posso fare altro, continuo a liberarmi di qualcosa che non è neppure scritto sopra questi fogli. Il mio parlare nel microfono mi pare quasi un semplice rimando di due specchi dalle facce opposte, nei riflessi dei quali riesco facilmente a nascondermi da tutto: è addirittura divertente svelare qualcosa che riesco a fare falsificando tranquillamente ciò che sembra. I miei racconti durano poco, ho detto subito all’inizio: adesso non so se ho fatto bene o se al contrario qualcuno se ne è già risentito. Io fingo impegno, loro fingono attenzione, in fondo pare tutta una grande pagliacciata.
Poi mi fermo, vorrei non dover arrivare alla fine troppo in fretta, così giro i miei fogli, cerco qualcosa che non trovo, e qualcuno sembra spazientirsi, di fatto non so più che cosa dire e non vorrei proprio che qualcuno lo pensasse, così invento la storia di uno che scrive dei racconti e va a leggerli in ogni luogo dove persone ben disposte possano regalargli una minima attenzione. Qualcuno tossisce tra queste due o tre file di sedie; se almeno ci fosse un po’ di musica a fare da sottofondo sarebbe stato tutto più semplificato, penso. Il mio personaggio è credibile, leggo sopra le facce di tutta questa gente, forse questa storia appare addirittura autobiografica, e questo provoca probabilmente un minimo di interesse in più.
Infine mi interrompo, tutti hanno compreso cosa volevo dire, non ha importanza andare ancora avanti, così dico semplicemente che è finito, è quasi finito, non si devono affatto preoccupare, adesso smetto, non ci sono più parole sopra al foglio, ciò che c’era da leggere è volato, è passato tutto dal microfono, dalle loro orecchie, in mezzo ai pensieri e alle preoccupazioni. Ecco, è finito, ora ho proprio smesso; basta.

Bruno Magnolfi