venerdì 29 gennaio 2021

Lotta per la casa.

 

         

 

            “Vieni con noi, Carlo”, dice incoraggiante e sorridendo, Lucia, una del gruppo. Lui abbassa lo sguardo, la comitiva dei ragazzi è distante appena tre passi, ma Carlo certe volte mostra qualche leggera incertezza, fa parte del suo modo di essere, anche se infine si alza dalla panchina del giardinetto in mezzo alla piazza dove si trattiene spesso a quell’ora, e quasi svogliatamente, e con le mani sprofondate dentro le tasche, si muove verso di lei. Ci sono momenti in cui si fa quasi tutto quello che dicono gli altri pur di non prendere decisioni diverse. A lui non piace molto stare con questi ragazzi, non riesce proprio ad essere spiritoso e contento come sembrano sempre essere tutti, e generalmente si limita soltanto a rimanere in silenzio e sorridere di quelle sciocchezze che dicono i suoi coetanei, spesso con voce forte. Perché in fondo è la cosa più semplice quella di rinchiudersi nel proprio giubbotto e mostrare sempre intorno a sé un basso profilo. Però nutre un certo interesse quando qualcuno tratta argomenti di impegno sociale, perché Carlo si sente uno che prima o dopo vorrà attivarsi in quel campo, ed è suo desiderio un giorno di questi dare anche chiara dimostrazione delle sue idee, persino a quelli che per adesso non gli rivolgono neppure uno sguardo. Lui crede che si debba lottare per ottenere ciò a cui si tiene, e personalmente è disponibile a farlo anche da subito, però sa che prima deve schierarsi insieme a qualcuno che dimostri le medesime convinzioni.

"Andiamo a bere una birra", fa con semplicità la stessa ragazza di prima, che poi è l’unica che cerca sempre di fargli abbandonare la sua figura di ombroso solitario, e lui così si fa prendere sottobraccio da Lucia mentre si incamminano tutti verso un locale poco più avanti. Poi Carlo mentre attraversano la strada dice distrattamente che ha letto su un volantino, che conserva dentro una tasca, di un palazzo occupato vicino alla stazione ferroviaria della loro città, un posto dove si svolgono delle riunioni continue per prendere decisioni riguardo alla lotta di alcune famiglie per il diritto alla casa. Lucia lo guarda con una certa sorpresa, dice che non ne sa niente, ma qualcuno dei ragazzi che ha ascoltato le sue parole sembra interessato a quell’argomento. “E’ da lì che passa l’elemento essenziale di ogni rivolta”, fa allora lui a voce bassa, quasi prendendo coraggio dal silenzio in cui sono immersi tutti. “Ognuno, per essere pienamente cittadino, oltre al diritto ad avere un lavoro, che concede dignità, ha bisogno di una sua abitazione per sentirsi davvero persona”. Gli altri adesso guardano verso Carlo, forse nessuno immaginava che uno così, nel suo silenzio di ragazzo imbranato, fosse capace di coltivare degli ideali tanto importanti quanto impegnativi.

Si prendono le birre con calma, si dice qualcosa per alleggerire i pensieri, poi uno gli fa: “si potrebbe anche fare un salto da loro per vedere come sono riusciti ad organizzarsi”, senza mettere comunque nella sua frase dei soggetti precisi. Carlo però dice subito che lui ci sta, che gli va bene se viene creata anche una delegazione nel loro quartiere intorno a quei temi, qualcosa che si avvicini al coordinamento della lotta contro la casa negata, e che magari tenti di sensibilizzare il più possibile la gente di quel loro rione. Gli altri annuiscono, sembrano praticamente tutti d’accordo, così tra un sorso di birra ed uno sguardo di assenso, qualcuno compone il numero di telefono riportato in fondo a quel volantino, e si prendono subito accordi per andare tutti assieme alla prossima riunione che decideranno di indire attorno al problema degli sfratti annunciati. Poi si fa un brindisi, va festeggiata questa idea che sembra mettere tutti d’accordo, e Carlo per la prima volta sorride, sente finalmente di stare in mezzo a ragazzi fatti della sua stessa pasta, e all’improvviso immagina davvero qualcosa che riesca ad impegnare le sue energie, e a farlo sentire una persona.  

Quando più tardi si salutano, sente che una parte di sé sta definitivamente cambiando: rimanersene fermi ad osservare le cose è ben differente dal sentirsi protagonisti dell'attualità; perciò adesso gli sembra di vedere in una maniera diversa persino Lucia accanto a sé, anche se in apparenza tutto dovrebbe essere rimasto com'era. Ma forse anche lei vede Carlo con occhi diversi in questo momento, e probabilmente proprio per questo adesso gli fa: "potremmo ritrovarci domani,  subito dopo la scuola, sempre che ti vada; e magari iniziare a definire meglio tutto questo percorso".

 

Bruno Magnolfi

mercoledì 27 gennaio 2021

Fuori dal mondo.

 

         

 

            “Il mondo di fuori in questo momento non mi interessa”, fa lei voltando una pagina della rivista elettronica sulla quale prosegue ad indirizzare distrattamente la propria attenzione. La voce che le risponde dentro l’auricolare telefonico dice che forse non è il caso di tirare delle linee troppo marcate durante questo periodo, “più che altro per evitare di doverti ricredere in seguito rispetto a delle prese di posizione così forti”, dice ancora la voce ridendo. Lei ci pensa appena un attimo, poi spiega in fretta che la sua, almeno in questo frangente, non è un’opinione controcorrente che tira a farsi notare in giro da chi la segue sul suo profilo pubblico inserito nei siti sociali. “Ho perso interesse per certe cose”, dice; “tutto qua”. L'amica all'apparecchio così non sa più cosa dirle, le pare quasi impossibile che adesso sbandieri affermazioni del genere, proprio come se le sue caratteristiche fossero il contrario di quelle tipiche delle persone come lei, sempre piena di vitalità, pronta a confrontarsi con gli altri in qualsiasi momento, e sempre in giro a cercare qualcosa sulle espressioni della gente da incontrare fuori da casa, come peraltro è sempre apparsa fino ad oggi ai suoi occhi. "Va bene", le dice alla fine, "forse dovremo soltanto aspettare il ritorno alla normalità per decidere qualcosa in modo maggiormente neutrale". Lei non ribatte, aspetta in silenzio il termine naturale di quella conversazione, poi chiude con indifferenza la linea telefonica. In fondo non c'è niente di male, riflette adesso, nel cambiare delle opinioni, pur sotto al peso di qualche decisione obbligata. “La gente mi è ostile, il mondo che si muove fuori da qui mi è quasi estraneo”.

Così poi da sola prosegue nella lettura di qualche articolo tra quelli più vicini agli argomenti che le interessano maggiormente, sempre sulla stessa rivista elettronica, fino ad annotare qualche piccolo appunto sul proprio elaboratore perennemente in funzione. Dovrebbe mettere giù un articolo breve, composto da parole estremamente scelte, alcune espressioni da piazzare sul proprio profilo, una volta ottenuta dal suo assistente la conferma che serve: “qualcosa di semplice, caratterizzato da appena un paio di frasi scioccanti”, le ha spiegato lui; “parole che stiano ad indicare almeno qualcosa di te, forse di un elemento essenziale dei tuoi modi, della tua personalità, di qualche caratteristica comunque difficilmente riscontrabile su altre persone”. Questa in ogni caso è la linea generale che le ha sempre consigliato lui per posta elettronica: intervallare quelle immagini di sé, pubblicate regolarmente sul proprio profilo, con delle prese di posizione quasi scandalose su qualsiasi cosa le venga in mente di dire, o meglio affermare, come fossero elementi essenziali e decisi. Si tratta di creare un connubio anche casuale tra un autoscatto fotografico e qualche frase un po’ sconcertante, in modo da far parlare, più o meno tutti, di quanto sia scoordinata l’esistenza di alcune persone come può essere lei. Che poi si crei o meno un grande seguito a queste invenzioni, in fondo non è cosa che la riguardi troppo; ed ingaggiare una battaglia per sostenere l’importanza di tutto quello in cui finge di credere, fortunatamente è roba soltanto di breve periodo. 

Certe volte trova persino faticoso industriarsi in queste faccende, ma generalmente sapere di riferirsi ad una quantità così numerosa di persone che seguono in ogni momento tutte le sue sortite più strampalate, le sembra rassicurante, anche se sente in qualche caso di odiare profondamente chi nutre il desiderio di assomigliarle. Questa essenzialmente è comunque la sua ultima maturazione: il disprezzo quasi totale per tutti coloro che si fanno facilmente abbindolare. “Sono utili”, dice a volte da sola con voce gaudente. “Anche se sono scemi”. Suona il telefono, lei preme –rispondi- quasi sbuffando. “Potrei scrivere che non ho più alcuna intenzione di incontrare qualcuno, durante le mie vuote giornate; e starmene sola, cullata soltanto dalle mie tante abitudini”. “Dovrai pubblicizzare un marchio di automobili, prossimamente”, dice secco l’assistente al telefono. “Non puoi in questa fase permetterti il lusso di mostrarti isolata e asociale”.

 

Bruno Magnolfi     

martedì 26 gennaio 2021

Miglioramenti evidenti.

 

        

 

            Sono migliorato, di questo sono più che sicuro. Da qualche tempo a questa parte addirittura mi riesce, almeno per qualche momento, di fermarmi proprio dietro ai vetri della mia finestra, generalmente per osservare con tenue interesse ciò che accade lungo la strada, certe volte scansando le tendine e lasciando che qualcuno tra i più curiosi mi noti a sua volta, magari mentre sta transitando a piedi sul marciapiede. Immagino che subito dentro al riquadro di legno dell’infisso, ad un certo momento, quell’individuo possa sentirsi capace di osservare semplicemente una persona priva di qualsiasi espressione, con lo sguardo pressoché immobile, in grado comunque di indietreggiare anche immediatamente dentro casa propria, al minimo accenno di un qualche interesse verso di lui. Ad ogni buon conto credo si debba apprezzare l’evoluzione dei miei comportamenti, e soprattutto la capacità maturata, da un uomo come posso essere io, nel riuscire a farsi scorgere da soggetti che risultano a me del tutto sconosciuti, mentre si trovano a passare piuttosto casualmente da qui, cosa persino impensabile fino soltanto ad un paio di mesi più addietro.   

Anche il medico che viene una volta la settimana per visitarmi sembra soddisfatto dei miei risultati, anche se io ho cercato di fargli capire in ogni maniera di non essere affatto pronto ad abbandonare, anche soltanto per qualche minuto, queste mie stanze così familiari per incamminarmi dentro al mondo di fuori. Ne ho ancora paura, questo è il punto, e la protezione che mi offrono le mura di questa abitazione, mi sembra per adesso del tutto insostituibile. Lui dice che devo sforzarmi per ottenere qualcosa, ma a me pare che non ci sia alcuno scopo apprezzabile nell'affrontare uno sforzo del genere. Quando il dottore mi parla, lo ascolto, ed al momento in cui mi pone delle domande dirette gli rispondo spesso con le medesime parole, ponendogli di nuovo la stessa domanda, in modo da non potermi sbagliare. Lui dice che non devo ripetere, ed io gli ripeto che non deve ripetere, fino a quando lui non inizia a stufarsi, ed allora rimane in silenzio, nell’attesa che sia io a farmi avanti, magari con qualcosa che desidero sapere da lui.

Ma a me basta osservare i suoi occhi mentre mi guarda, per riuscire a vedere come io possa apparire davanti allo sguardo di tutti gli altri. La mia famiglia normalmente si tiene in disparte, lasciano tutti che sia la domestica a prendersi cura di me, a portarmi nelle mie stanze qualcosa da mangiare e ad aiutarmi nello stare in ordine e sempre pulito. Non chiedo di più. A me piace starmene solo, non sento particolarmente il bisogno degli altri, anche se il mio medico dice che dovrei avvertire la voglia almeno di starmene in compagnia di una o due persone tra quelle che conosco di più. Lui spiega che sarebbe sufficiente da parte mia un altro piccolo sforzo, ed io mentre lo dice mi tiro su in piedi e vado vicino alla finestra, a guardare fuori. Il dottore sembra interessato al mio comportamento, così mi chiede che cosa mi piaccia guardare di più tra quello che vedo, ed io gli rispondo subito ponendogli la stessa domanda. Allora mi viene vicino e mi guarda negli occhi, in silenzio, ed io so, improvvisamente, cos’è quell’interesse di cui sta parlando.

“Una donna”, gli dico; “una ragazza che abita qua, proprio di fronte”. Poi torno a sedermi e mi stringo nel mio atteggiamento di sempre, lo sguardo basso, le braccia appoggiate sul tavolo, le mani ferme e leggermente chiuse nel pugno. A lui interessa molto questo aspetto che ho messo fuori in questo momento, e forse vorrebbe subito saperne di più, ma io adesso non voglio rispondere alle sue domande incalzanti, e se proprio mi va di dire qualcosa, torno a ripetere semplicemente le stesse cose che mi dice lui. Poi perde la pazienza, riprende con poco garbo il cappotto e il cappello, e mi dice che tornerà la prossima settimana, dimenticandosi perfino di darmi le sue solite raccomandazioni. Ma mentre appare quasi furioso e già sulla porta della mia stanza, pronto ad andarsene, gli dico: “a me piace guardare le donne”, come se questo aspetto potesse modificare la cura per la mia malattia. Lui si ferma e mi guarda, ed io noto che dentro ai suoi occhi lui vede un uomo pieno di vitalità, uno che forse potrebbe fare chissà quante cose, se solo lo desiderasse.

 

Bruno Magnolfi  

lunedì 25 gennaio 2021

Arrivederci.

 

         

            “A chi vuoi che interessi adesso se ci mettiamo qua ad analizzare il momento storico per comprendere meglio come possa essere più adeguato muoversi”, fa lei. “Avremmo dovuto trovare un mestiere serio quando era il momento, diciamoci la verità, invece di tirare a campare come abbiamo sempre fatto fino ad oggi, collezionando tante piccole sciocchezze che abbiamo voluto chiamare esperienze, messe in fila una dietro l’altra, e che hanno avuto l’unico scopo di farci sopravvivere alla meglio, magari con l’illusione di poterci sentire più liberi, senza un vero padrone sopra di noi”. Poi abbassa lo sguardo, forse è un'ammissione un po' troppo dura, quella che ha appena fatto, ma prima o dopo doveva pur dirlo, era assolutamente inevitabile, anche se adesso appare un giudizio quasi definitivo almeno su tutta una parte della loro vita di coppia. Lui in questo momento non la guarda neppure, forse perché sa che lei ha pienamente ragione. Saltare da un lavoro provvisorio ad un altro, anche se in fondo loro due sono ancora piuttosto giovani, rischia di diventare, per persone come sono lui e lei, ormai uno stato quasi definitivo, e guardare al futuro in questa maniera non è semplice, specialmente se ad ogni fine mese non riesci mai a mettere da parte almeno qualcosa. “Certo”, fa lui dopo un po’. “Avremmo potuto fare altre scelte, ma non era da noi tentare strade molto diverse da quelle che abbiamo intrapreso. Poi adesso tutto si sta facendo più incerto, ed anche quelli che credono di poter contare su un futuro tranquillo, non si sono certo resi conto che presto cambieranno le cose per tutti, e anche per loro”.

Lei sistema qualcosa nella credenza della cucina, lui prosegue a starsene seduto con le braccia appoggiate sul piccolo tavolo dove loro due hanno finito di cenare da poco. Da qualche tempo le serate finiscono spesso con delle discussioni antipatiche, scambi di opinione che certe volte nascondono una certa insoddisfazione, con parole che mostrano un latente nervosismo accumulato nel tempo, spesso dato dall’essere coscienti di vivere alla meglio in due semplici stanze d’affitto, senza potersi mai permettere qualcosa di più, e senza una prospettiva molto diversa da quella che hanno sotto agli occhi ogni giorno. Di fatto non si sono mai posti davvero una prospettiva differente, senza pensare troppo seriamente ad intraprendere qualcosa di alternativo, forse perché fino ad ora è parso ad ambedue che fosse giusto così, almeno per tutto quel tempo in cui hanno finto di essere ancora dei ragazzi. Adesso però le cose hanno iniziato ad essere piuttosto diverse, ed anche le loro idee più marginali hanno iniziato a non collimare perfettamente.

Lei si sente una persona pratica, una che va al sodo delle questioni; lui al contrario sembra uno a cui piace mettere in mostra delle teorie, in maniera da rendere quasi scontate tutte quelle cose che sono già state previste nelle sue riflessioni. "Dobbiamo muoverci", fa lei, "oppure non avremo più tempo per farlo". Lui rimane ancora in silenzio, si alza, va verso l’acquaio, inizia con calma a lavare a mano le stoviglie che hanno utilizzato per il loro pasto. Esistono due fasi differenti secondo lui: una in cui si affrontano i gesti ordinari da compiere, ed una in cui si riflette su ciò che si è fatto. Ed il tempo per questi due aspetti viaggia a velocità differenti. "Ma no", fa lui alla fine; "non dobbiamo preoccuparci; la nostra situazione è in via di miglioramento, ne sono più che sicuro". Lei lo guarda con espressione dubbiosa, si siede, si versa ancora un dito di vino, poi cerca di scegliere le parole più adatte per fargli presente quello che sta pensando. “Me ne vado”, gli fa; “almeno per qualche tempo devo starmene per i fatti miei, e riflettere meglio su tutto quello che abbiamo diviso fino a questo momento. Tra qualche tempo magari potremo riparlare di tutto”.

Lui si interrompe nella sua attività, la guarda per un lungo momento, sorride, poi dice: “mi sembra proprio che ogni decisione ormai sia già presa, non sarò certo io ad ostacolarti in questi tuoi propositi”. Lei va da lui, lo stringe un momento da dietro contro di sé, mentre lui prosegue a tenere immobili le mani dentro l’acqua tiepida, poi gli dice: “ciao”, come fosse la parola finale; quindi si gira, prende il suo zaino ed infila rapidamente la porta di casa.

 

Bruno Magnolfi

venerdì 22 gennaio 2021

Evitiamo l'evitabile.

 

       

 

            Tino la guarda, Silvia sorride. Hanno sempre fatto così, specialmente quando, in altri momenti, si sono dati appuntamento per passeggiare tenendosi per mano e senza alcuna fretta, compiendo qualche camminata lungo il tranquillo fiume cittadino, oppure per le strade del centro del paese, durante parecchi dei loro pomeriggi liberi. Davanti allo schermo adesso Tino invece cerca di affermare con la sua voce calma e dolce, anche per un conforto, che illuminata da quella luce della lampada da tavolo, lui riesce a vederla anche più bella di allora, e lei si schernisce, perché sa che così va a finire che si fa rossa sopra le guance, e la sua timidezza in questo frangente non le pare un sentimento adeguato. Stanno andando avanti in questa maniera ormai da un bel pezzo, tanto sanno bene come non ci sia altro da fare, e si rivedono sugli schermi ad orari prefissati, come se ci fosse quasi un appuntamento di lavoro a cui tener fede, collegandosi tra loro per mezzo dei propri elaboratori, visto che nessuno dei due ha ancora maturato la voglia o la forza di lamentarsi troppo della situazione, almeno fino al punto da prendere altri provvedimenti. Ci sono dei giorni comunque in cui non riescono neppure a trovare più degli argomenti per conversare, e quindi hanno imparato a lasciare tra loro ogni tanto una lunga pausa silenziosa, magari intervallata da qualche sorriso, e rimanendo semplicemente davanti ai rispettivi tavoli di casa per lasciarsi riprendere dall’occhio elettronico, come se questo bastasse per arrivare a comprendersi e a nutrire ancora il loro affiatamento. Qualcosa stride, è evidente, ma fingono sempre di non accorgersene troppo.

Non abitano neppure molto distanti tra loro, però hanno la residenza in due comuni differenti, e proprio per questo soltanto vedersi di persona risulta per loro due oramai soltanto un problema. “Non importa”, fa Silvia sempre disposta ad accettare ogni situazione. “Va bene anche così”. Tino torna a guardarla e forse gli sembra soltanto uno spreco di tempo e di energie rimanere collegati soltanto per via elettronica, quando sa che i desideri di ognuno sarebbero parecchio diversi. Però ogni poco le fa un complimento, considerando di non riuscire a trovare molte altre cose importanti da dirle. In certi giorni le parla del suo lavoro di magazziniere, ridotto di parecchio con la crisi sanitaria sempre in atto, e lei lo ascolta, gli dice che passerà, che ci vuole pazienza, che le cose tra non molto si aggiusteranno, ed altre frasi del genere; però Tino si sente sempre più sfiduciato, ed anche quel rapporto tenuto in piedi soltanto con le telefonate e con quel sistema di videochiamata, gli pare che sfugga giorno per giorno ai loro desideri, come fosse sempre più carente di quella passione che un tempo provavano. Queste cose naturalmente lui non le dice mai, un po’ perché confida nel fatto che tutto in breve tempo possa tornare com’era, tanto da concedere a loro due la possibilità di una relazione decente; e poi anche perché, affrontando così frontalmente in questo momento il problema principale, gli parrebbe di non mostrare a lei troppa fiducia in quel futuro, e quindi di non credere troppo neppure al loro rapporto e a quanto possa mostrarsi duraturo.

Perciò intessono sempre una conversazione leggera, priva di temi importanti, spesso composta solo da molte sciocchezze che proseguono a confidarsi nel tentativo di scambiare l’uno con l’altra quel senso di intimità che sembra venire a mancare sempre di più. Già qualche volta Tino ha pensato di fingere una mancanza di collegamento dalla rete per non trascorrere le serate in questa maniera. Ma anche Silvia ha pensato qualcosa di simile, perché sente sempre di più che le cose alla lunga non possono riuscire a funzionare in questa maniera. Intanto comunque proseguono a fissare ogni giorno quei loro appuntamenti, anche se ritrovare ognuno la faccia dell’altro sopra lo schermo, produce in tutt’e due un senso poco incoraggiante di ordinaria abitudine. “Oggi mi sento piuttosto contento”, fa Tino per rinfrancarla; “mi fa davvero piacere”, risponde Silvia. Però ognuno di loro sa che le cose si romperanno ben presto, e che non ci potrà essere alcuna possibilità per evitarlo.

 

Bruno Magnolfi 

mercoledì 20 gennaio 2021

Sono fregato, penso.

 

            

            Certi giorni vorrei sparire penso, che tutto questo affanno per tirare avanti mi pare sempre di più una fatica sprecata, uno sforzo completamente inutile, che non ha neppure uno scopo preciso, se non quello di lasciarmi ancora galleggiare in qualche modo. E poi anche formarsi delle opinioni su quello che succede o meno, mi pare anche quello sia soltanto una fatica, un almanaccare privo di significato penso, insomma quasi una stupida perdita di tempo. Mi rannicchio in un angolo generalmente, e poi rifletto con calma sulla matassa di guai che prima o dopo dovrò decidermi ad affrontare, mentre intanto lascio le giornate scorrere come sempre, e cerco di tirarmi su pensando di aver ancora conservato la speranza che le cose possano riuscire a risolversi da sole. Se affrontassi davvero le mie preoccupazioni, dopo probabilmente mi sentirei decisamente meglio, anzi, questo è sicuro, però è tale anche la certezza che in un attimo tutto si faccia ancora più imbrogliato, che desisto sempre da ogni tentativo. Telefonare a Caio e fingere con voce mansueta di cadere dalle nuvole per il prestito da restituire. Inviare un messaggio a Sempronio con la richiesta di una dilazione per i soldi che gli devo. E poi dar fondo alle ultime riserve che mi ritrovo in tasca per pagare ogni mese l’affitto di casa e le bollette. Questo è il quadro generale. Chiedere sempre favori a questo e a quello, senza che le autorità si sognino di concedermi mai un aiuto concreto.

D'altra parte ritrovarsi costretti a lavorare a giornata come mi sta succedendo da un po' di tempo a questa parte, dopo che ho perso il mio piccolo posto di lavoro, che non era regolarizzato, però mi permetteva comunque di campare abbastanza bene, non è certo facile penso, ed in questo momento non posso neppure prendermela con qualcuno di preciso se nei momenti in cui potevo farlo non ho mai neppure tentato di mettere da parte qualche soldo. Ora posso soltanto tirare la cinghia su tutto quanto, ma più di quello che sto facendo realmente in questo momento mi pare impossibile. Ogni tanto, nei momenti peggiori, rubacchio anche qualcosa nei negozi degli alimentari, però sono soltanto delle sciocchezze, non posso certo contare su questi gesti penso. Potrei forse andare a mangiare qualche volta nelle mense sociali, ma ci sono sempre delle file enormi che portano via un sacco di tempo, e poi non mi piace mescolarmi in questa maniera con i veri disperati. Comunque questo senso di incertezza che mi attanaglia è qualcosa di superiore a qualsiasi immaginazione penso, e mi accorgo quasi ogni giorno come possa portare facilmente verso la pazzia, e farti provare la disperazione nella sua forma più insidiosa possibile.

Vivo in due stanzette fuori mano e la maggior parte del tempo lo passo tra queste mura. Qualche volta porto in giro i pieghevoli delle pubblicità, oppure aiuto un amico a fare dei traslochi, quando viene chiamato a farne qualcuno. Poi sono in contatto con dei ragazzi che si occupano di facchinaggio ai mercati generali, e qualche altra giornata di lavoro riesco a farla andando insieme a loro. Però addormentarsi ogni sera con l’angoscia del domani così insicuro non è facile penso, ed è questo il cruccio più grande che mi fa star male. Mi rigiro sempre nel mio angolo, e cerco ogni tanto di essere ottimista, perché riesco anche ad essere positivo penso, e tirarmi fuori dai problemi se mi si presenta l’occasione giusta per farlo. E’ la tranquillità che è venuta a mancare più del resto. Se adesso penso al futuro non vedo niente, se non andare avanti così in qualche maniera, fino a quando è possibile, nell’attesa che mi ammali seriamente, o che rimanga infortunato nei lavori pesanti che mi trovo a svolgere. E allora per me non ci sarà più niente penso, se non mollare tutto e andarmene per strada ad accattonare qualche soldo, e poi comprarmi un cartone di vino di pessima qualità, tanto per non sentire troppo il freddo della notte, e non ripensare più di tanto a questi maledetti guai.  

 

Bruno Magnolfi

lunedì 18 gennaio 2021

Collegamento ben definito.

 

        

            “Se tu dici qualcosa di vero, la verità verrà a galla”. Gionni ride quando dice così. Però è un suo cruccio quello di fare sempre in modo che le cose che vengono dette siano sincere, senza filtraggi di convenienza. I suoi amici ridono e scherzano insieme con lui, però il momento più bello è quando tutti stanno in silenzio, anche senza guardarsi, perché sono i pensieri in quel caso che paiono prendere forma. “Siamo esseri primitivi, non sappiamo tra qualche tempo quanto riusciremo ad essere differenti da quello che siamo appena adesso”, spiega qualcuno tra quelli nuovi, mentre stanno tutti attorno al loro ritrovo. Non importa presentarsi, confidare agli altri la propria storia, oppure dare delle motivazioni per essere lì. Ogni individuo è diverso, si capisce, non ha senso stabilire in che cosa. “Abbiamo poco tempo”, dice qualcuno. “Stupido sprecarlo”. Il collegamento in videoconferenza pare per tutti agli inizi una cosa poco adatta agli scopi prefissi. Eppure basta soltanto un momento e già le cose prendono senso, come se tutto fosse assolutamente naturale. Ma certo, in fondo ognuno è se stesso in qualsiasi caso, non serve a niente complicarsi la vita.

Si dice che neppure uno tra loro debba provare mai l'obbligo di giungere al punto: siamo proiettati verso il futuro, ciascuno può intenderlo come desidera. Eppure c'è ancora chi incarta la propria giornata cercando di spiegare cos'è che gli sta succedendo, gli affanni, i propri tormenti, i desideri inevasi che restano dentro di lui a procurargli amarezza. “Bisogna liberarsi di ogni preoccupazione”, dice qualcuno che sembra trovare grande giovamento da quegli incontri così scadenzati ed assolutamente non obbligatori. Nessuno tenta di correggere chi sta sbagliando, le cose devono apparire evidenti poco per volta, come se escludendo ogni altra ipotesi alla fine restasse in piedi soltanto quella più adatta. Una grande idea la socialità surrogata, quella che trova sempre la maniera migliore per dare la sensazione a tutti di essere impegnati verso un medesimo scopo, lasciando comunque a ciascuno la fondamentale libertà di farlo alla propria maniera.

“Quando ci colleghiamo è sempre un momento magico”. Nel caleidoscopio delle espressioni che appaiono sopra ogni schermo ognuno può trovare la propria faccia amica, quella che maggiormente lo aiuta a farlo sentire fra buoni conoscenti, tra persone che conservano un principio comune, qualcosa che difficilmente può essere negato. È questo più di tutto che funge da legame, il sentire una comunanza importante in qualcosa che resta poco spiegabile, però vero. C'è stato anche qualcuno, certe volte, pronto a chiarire ad alta voce che il comportamento degli abitudinari ai collegamenti era soltanto una grande sciocchezza, ma nessuno in quei casi ha voluto prendere sul serio quelle parole, ed è stato sufficiente non dare risposte a frasi di quel tipo per ottenere alla fine il risultato migliore. “C’è sempre chi è pronto a distruggere tutto”, dice Gionni qualche volta. “Noi dobbiamo ascoltarlo, certamente valutare dentro di noi ogni parola che esprime, ma lasciare che alla fine trovi lo sbaglio da solo, perché dentro allo sbaglio sta semplicemente il silenzio che giungerà senza alcun dubbio a sommergerlo”. Dietro ogni errore c’è il niente, ripetono tutti.

Quindi giunge inesorabilmente l’ora di chiudere il canale ed il collegamento, e ci sta sempre qualcuno che vorrebbe magari restare, ma ci sono delle regole già stabilite che non permettono possibilità differenti. Nessun diverso contatto tra ogni amico, nessun indirizzo o numero di telefono, pena l’estromissione, soltanto quel collegarsi di nuovo all’ora e nel giorno definito e immutabile, in modo che sia tutto il resto a doversi spostare in funzione di quell’appuntamento, e mai il contrario. Gionni lo ripete ancora per un’ultima volta: “saremo ancora qua tutti assieme ad imprimere dentro noi stessi il coraggio che serve e a rendere la nostra giornata assolutamente migliore. Però ricordiamoci sempre di regolare per tempo la quota prevista dall’abbonamento, altrimenti il contatto sopra lo schermo non sarà più disponibile”.

 

Bruno Magnolfi

domenica 17 gennaio 2021

Rimasto indietro.

 

           

            “Quella volta ritengo di aver avuto una grande fortuna”, incomincia a dire lui certe volte davanti ai suoi familiari, durante alcuni pranzi magari allargati anche a qualche altro parente, durante quelle rare domeniche di festa per una ricorrenza importante oppure per il compleanno di qualcuno di loro, quando si beve un bicchiere di più e la lingua d'incanto si scioglie. Naturalmente nessuno in quei casi lo incoraggia a riprendere ancora quell’argomento che tutti hanno già sentito in altre occasioni, ma risulta comunque impossibile fermarlo quando ha deciso ormai di parlare di quei suoi ricordi di gioventù. Così tutti ridono e dicono magari qualcosa di buffo, tanto per prenderlo in giro in maniera molto bonaria, sostenendo che quella storia ognuno di loro oramai la conosce benissimo, però lui ugualmente va avanti, come dovesse spiegare a tutti per l’ennesima volta qualcosa di fondamentale. “Si tratta di cose che tutti prima o dopo devono sapere”. E con questo preambolo la disamina dei fatti a quel punto si allunga come per un incanto, e tra un distinguo obbligatorio ed una spiegazione minuta ma importante, va a soppiantare qualsiasi altro argomento di conversazione davanti al lungo tavolo di vecchio legno nel salotto di casa.

            È quasi un sigillo per la sua personalità in fondo buona e altruista, quel suo raccontare la propria gioventù ormai lontana, spesso ripercorrendo con il pensiero quella mattina degli anni quaranta, quando stava nascosto con gli altri partigiani in un bosco, nel silenzio, ad aspettare notizie fresche su dal paese, per intervenire con una imboscata contro tedeschi e fascisti lungo la strada. Ed alla fine invece, dice lui adesso, arriva trafelata questa ragazza con la sua bicicletta, lasciando lo stradello fangoso e venendo ad infilarsi con una certa cautela tra le sterpaglie, proprio dove siamo noi, giusto per dire a tutti i ragazzi nascosti che "si stanno muovendo”, e che “stanno venendo in armi a perlustrare la zona". Ed allora non c'è tempo da perdere, e l'unica cosa da fare è quella di prendere il sentiero più impervio, verso il punto più alto di quella piccola montagna alle spalle, e tendere davvero un'imboscata a quei tedeschi che avranno l'ardire di giungere fino là in alto. Ma lui, proprio mentre decidono, si fa male stupidamente, si storce una caviglia, non può più camminare dal dolore, perciò convince gli altri a lasciarlo, restando indietro da solo, e poi sale su un albero con le mani nude, portando con sé il moschetto ed il suo coltellaccio, restando in attesa, su un grosso ramo. Ci resta per tutto il giorno, e quando fa buio torna a scendere, lentamente, con grande cautela per non provocare rumori. E' poco tempo che si è dato alla macchia, non conosce benissimo neppure quei suoi compagni, ed adesso non sa di preciso neanche dove potrebbero essere andati.

            Il giorno seguente, quando inizia ormai ad albeggiare, torna sull'albero dal quale non si è allontanato, ma il silenzio e la fame a un certo punto lo costringono a muoversi, anche perché la caviglia gli fa meno male, e tutto sommato può camminare, anche se zoppicando leggermente. Così torna indietro, scende giù nella parte più a valle del bosco, ma con lentezza e con grande attenzione, fermandosi ogni poco ad ascoltare qualsiasi rumore. Infine arriva al viottolo, quello che riporta alla strada verso il paese, però non si vede nessuno, sembra non ci sia proprio anima viva da quelle parti. Prende la strada deserta alla fine, deciso a spiegare a chiunque lo intenda fermare che è andato soltanto a caccia di qualche fagiano, ma senza fortuna, e con grande circospezione giunge ancora da solo in vista di quelle prime case di pietra. Gli viene incontro una donna, a piedi, lui la conosce, così la ferma per chiederle se ci sono notizie, e lei lo guarda fermandosi d’improvviso come fosse uno spettro: "li hanno fucilati tutti", gli dice tenendosi la testa con le due mani; "ma tu, com'è stato possibile, forse non eri con gli altri". “Così”, dice alla fine lui ai parenti, al termine di quel suo racconto. "Non ero con gli altri quel giorno. Si vede che ancora non era giunto il mio ultimo fiato. Perciò ringrazio ancora quel caso che mi ha fatto campare per tutto questo tempo, anche se ho sempre con me un pensiero costante, proprio per quei miei bravi compagni rimasti lassù”.

 

            Bruno Magnolfi 

giovedì 14 gennaio 2021

Declino umano.

 

        

            Confabula qualcosa tra sé, mentre rigira tra le mani certi suoi numerosi fogli di carta che tiene in una cartellina azzurra, presumibilmente attestati clinici di analisi o di altri esami effettuati in precedenza rispetto ad oggi. Nella sala d’attesa ci sono adesso circa una quindicina di persone, ben distanziate tra di loro e tutte sedute in silenzio su seggiole leggere di alluminio. Lui sta in piedi, ma si comporta là dentro come se fosse da solo, mostrando un’ansia, quasi una fretta nei modi e nelle espressioni, come per concludere rapidamente ogni attività, e sembra riflettere continuamente sui propri guai, forse cercando nella sua mente le soluzioni più appropriate, oppure imponendosi probabilmente delle scelte che non sembrano apparire affatto semplici. Esce l’infermiera dall’ambulatorio con il classico completo bianco ed un golfino sopra color blu notte, come fossero fredde quelle stanze surriscaldate dagli enormi caloriferi, e senza guardare nessuno in particolare dice un nome con voce sufficientemente alta per farsi sentire da chiunque sia presente, ma evitando di gridare. Si alza una signora col cappellino e la borsetta, ma lui interviene, e chiede subito qualcosa di confuso, mettendo sotto agli occhi dell’infermiera quelle sue scartoffie. “Un momento”, dice lei, mentre si annota il suo nome, ripreso dal primo dei fogli che ha avuto sotto al naso.

            Poi rientra dentro l’ambulatorio, facendo accomodare la signora e chiudendo adeguatamente la porta subito dietro le proprie spalle. Lui non pare del tutto soddisfatto, così gira per un po’ sopra le piastrelle chiare di quella grande sala d’attesa, imbambolandosi ad un tratto nel fissare qualcosa fuori da una di quelle quattro finestre enormi che lasciano vedere una triste fila di alberi in pieno assetto invernale, tutte lungo la medesima parete; ed infine si avvicina alla porta e senza alcun indugio bussa sul legno verniciato di grigio chiaro, con le proprie nocche della mano, ben ossute e dure. Riapre la stessa infermiera, socchiudendo appena l’uscio questa volta, forse già immaginando chi ritrovarsi in questo momento di fronte a sé. “La chiamiamo noi”, gli conferma con voce pacata, cercando di instillare in lui un minimo di pazienza, la stessa che pare utilizzare lei, cercando una scontata comprensione in quest’uomo di circa cinquant’anni, serio, quasi imbronciato, pronto probabilmente a sollevare una questione per qualsiasi sciocchezza gli possa capitare.   

Trascorrono i minuti, tra gli astanti qualcuno dice qualcosa sottovoce all'altro, spandendo in aria un'atmosfera di bisbiglio degna forse di un sacrario, o comunque di un luogo quasi religioso. Nessuno in fondo pare abbia voglia di preoccuparsi di fatti non strettamente personali, limitandosi a dire qualcosa soltanto sui propri guai, ed il senso forte di raccoglimento da parte di ciascuno nelle proprie preoccupazioni di salute, ne fa immediatamente come il luogo della solitudine non scelta. Ogni utente è soltanto una nave in mezzo alla tempesta, pensa forse qualche individuo là presente, ma tutti siamo come piccoli animali domestici, ci ritiriamo in un angolo casalingo, e ci lecchiamo lentamente e con garbo la parte dolorante, come se bastasse un  comportamento di questo genere a ritrovare la spensieratezza che avevamo un tempo. Siamo subito pronti naturalmente a dare addosso a chiunque si metta di mezzo per danneggiare anche di poco questo equilibrio fragilissimo.

Torna l’infermiera, adesso getta un’occhiata generale su tutti i presenti, come a farsi un’idea più precisa sulla situazione che si trova davanti, ed infine dice il nome dell’uomo ancora in piedi, adesso apparentemente più calmo, quasi rassegnato nella sua indubbia qualità di paziente. Gli altri hanno quasi un moto di stizza, ma nessuno solleva una vera controversia di precedenze. Lui si fa avanti, infila la porta davanti all’assistente, dice forte buongiorno ai medici presenti nell’ambulatorio, poi lascia che si chiuda la porta dietro di sé. “Sono affranto”, dice ai medici mentre è ancora in piedi. “Vorrei tanto riuscire a non pensare a queste mie disgrazie”, fa subito tirando fuori tutti i fogli che ha portato dentro la sua cartellina. “Ma è più forte di me, anche se sono pienamente cosciente che è solo la paura atavica del declino inesorabile di questo corpo”.

 

Bruno Magnolfi

martedì 12 gennaio 2021

Sarà sempre così.

 

    

            Vera prende il treno ogni mattina. Non ha alcuna possibilità di fare diversamente. Fuori dai finestrini il panorama di sempre, da sotto al vagone il rumore delle ruote d’acciaio sopra i binari, quasi un’ora fino a rallentare tra i casamenti degradati e sporchi della periferia cittadina. Nell'inverno è ancora buio durante quel viaggio, e nell'edificio dove giunge dopo dieci minuti a passo svelto sopra al marciapiede, le luci al neon sono tutte già completamente accese. Cinque piani e cinque addetti per le pulizie, per due ore filate di ognuno, senza neanche respirare. Poi di corsa verso la grande casa famiglia, fortunatamente poco distante, ed ancora cessi da pulire, letti da rifare, cucine da riassettare. Alla fine la clinica privata, dopo circa mezz’ora di autobus, ed in mezzo un panino rosicchiato in piedi, preparato già la sera avanti nella sua casa di paese, dalla mamma con l’espressione seria, che sempre più spesso ormai si limita a guardarla senza neanche parlare, e che comunque per fortuna si preoccupa di tutto, almeno alla sua maniera, con il genero che fa il bracciante e i ragazzini a scuola, senza che non manchi mai niente a nessuno. Vera rientra appena prima di cena, un'altra ora di treno e di voglia di dormire, però anche oggi è andata, e domenica è vicina, ancora un pochino di coraggio prima di tirare il fiato. Poi si mette a tavola, due parole con i figli, ed infine tutti a letto presto, non c'è più tempo per nient'altro.

Che vita è questa, si chiede Vera mentre la carrozza piena di gente ed arredata con appena l’essenziale si scuote tutta quando passa sugli scambi. Ma non c'è il modo per porsi delle domande di quel genere, tutto deve procedere ogni giorno come è stato già previsto, senza intoppi, senza incertezze, che persino quando quel treno di pendolari accumula qualche minuto di ritardo, si presentano subito i primi antipatici problemi. Sempre a dire scusate, o per favore, con l’espressione di chi si aggrappa a tutto pur di rimanere a galla in questo mare profondo, pronto come sembra ad inghiottirla senza tante spiegazioni. Non era così che doveva andare, le capita a Vera di riflettere, subito allontanando questo pensiero da dentro la sua mente, che sono soltanto cose insane queste, e non possono portare mai a niente di buono. Nessun rilassamento, tutto di corsa, senza respiro, ad iniziare dal suono sgradevolissimo di quella sua sveglia del mattino, fino al momento quando coricandosi lei predispone nuovamente e con un urto di malessere la stessa suoneria. Scappare da qui e condannare tutti gli altri a ripagare chissà per quanto tempo quel suo gesto. Oppure abbassare la testa e ridere ogni tanto, almeno quelle rare volte in cui è possibile.

“La conosco”, dice a Vera un uomo ben vestito, sopra al treno. “Non mi pare”, fa invece lei senza concedere niente, ma anche senza scortesia. Poi parlano, del più e del meno, ognuno delle proprie cose, come persone estranee, che tanto scendono in stazione centrale tutt’e due. Lei sorride leggermente, finge di vivere così quasi per scelta quando spiega a lui la propria giornata, però una certa amarezza sembra proprio attanagliarla dentro sé, ma lei scaccia questa sensazione, o almeno tenta, e lo fa con tutte le sue forze. “Potrei darle del lavoro”, le dice lui che ha compreso benissimo quella fatica di portare avanti delle giornate di quel genere. “Un ufficio, una scrivania, uno stipendio adeguato, in due o tre giorni posso farle spiegare tutto ciò che serve”. Lei lo guarda, non riesce neanche a formulare una risposta, ma fa un cenno affermativo con la testa, e lui prende i suoi dati, il numero di telefono, tutto quello che ci vuole. Infine scendono in stazione, si salutano cortesemente, quest’uomo potrebbe essere mio padre, pensa Vera, forse incarna quel piccolo colpo di fortuna che è necessario per riuscire ad andare ancora avanti. Quindi si affretta per raggiungere senza ritardi il suo primo posto dove svolgere le pulizie. In tutto il giorno ripensa due o tre volte a quell’incontro, si guarda attorno, le fa sempre più fatica tutto ciò di cui deve occuparsi, ma si rinfranca proprio attraverso quel pensiero positivo. La sera infine riprende il treno, si siede in un posto libero e guarda fuori le luci che corrono lungo i binari. Non importa, pensa poi alla fine: tanto sarà sempre così.

 

Bruno Magnolfi

domenica 10 gennaio 2021

Adeguatamente.

 

 

            Se qualcuno potesse osservarla mentre si muove con gesti calmi e misurati dentro al suo piccolo appartamento, oggi riuscirebbe solamente a vedere una semplice donna di mezza età che vive da sempre quasi per scelta  in una completa solitudine, muovendosi in casa propria con la complicità di mille abitudini ormai stratificate tra le sue tre stanze, aggravate dal lungo periodo in cui praticamente si è trovata costretta a portare avanti la sua attività lavorativa senza più riuscire a distinguere nettamente ciò che svolge davanti allo schermo del suo elaboratore, o anche con il suo telefono costantemente appoggiato all’orecchio destro, rispetto a quei piccoli impegni domestici che fino ad oggi hanno sempre attratto le sue fantasie casalinghe. Sembra una sciocchezza, eppure la strana commistione tra le cose personali e le attività di lavoro creatasi intorno a LEI in questi ultimi pochi mesi, è tale da non permetterle quasi più di portare ancora avanti, almeno con la stessa tranquillità di un tempo e con l’equilibrio necessario, le sue lunghe giornate. Si ritrova a parlare da sola a voce alta, anche se questo non sarebbe un indizio particolare ed esauriente del disagio che prova; ma da qualche tempo ha iniziato anche a porre a se stessa delle domande alle quali cerca poi con una certa difficoltà di rispondere, come se la sua personalità si fosse sdoppiata, e l’una tentasse in molti casi di sopraffare l’altra, magari con argomenti secchi e spesso intolleranti.

Tutte le telefonate in partenza o in arrivo dal suo apparecchio, naturalmente messo a sua disposizione dai dirigenti della multinazionale dalla quale è stipendiata, riguardano soltanto il suo lavoro, ed adesso purtroppo non le capita più, come succedeva alcune volte negli anni passati quando si recava ogni giorno in ufficio, di allungare qualche parola di argomento più personale a dei colleghi spesso loquaci e magari anche scherzosi: ogni rapporto negli ultimi tempi è diventato freddo e distante, e qualsiasi comunicazione sembra che mostri soltanto la disumanità data dallo scambio dei dati e dalle informazioni di tipo prettamente tecnocratico. Inizialmente a LEI era parso piacevole starsene comoda dentro la sua abitazione a svolgere la propria professione, ma con il trascorrere dei mesi le cose si sono dimostrate decisamente diverse. Si rende conto adesso certe volte, che non può durare ancora a lungo in questa maniera, e la mescolanza delle attività mediante le quali certe volte si trova per esempio a leggere un documento finanziario magari mentre spilluzzica qualcosa durante quella che dovrebbe essere la sua cena, e quindi oltre l’orario d’ufficio, è tale che le diventa sempre più complesso dividere una cosa da quell’altra. Peraltro le poche amicizie che aveva un tempo sembrano praticamente scomparse, anche perché l’andamento delle sue giornate si è fatto squilibrato, quasi paranoico, ed anche il suo atteggiamento nei confronti degli altri, come ad esempio gli stessi condomini vicini di casa, è diventato piuttosto intollerante.

Insomma un guaio, e forse è anche proprio per questo che LEI tiene costantemente le tende tirate davanti alle finestre, quasi per evitare che qualcuno, magari dai davanzali del palazzo dirimpetto a quello dove abita, oppure anche da chissà dove, con un’insopportabile forte curiosità possa osservarla proprio mentre porta avanti faticosamente le sue cose, il suo mestiere di sempre, l’attività che si è trovata da tanti anni a ricoprire, seduta come tutti i giorni davanti alla tastiera dell’elaboratore aziendale, intenta a rincorrere e a correggere quei dati, quei numeri, quelle informazioni, tutti quegli elementi così freddi ed anche indifferenti ad ogni suo disagio. Per tutto ciò in questo momento esatto decide di fermarsi: così va alla finestra, scosta la tenda, guarda fuori lo spicchio di mondo che riesce ad osservare da quel suo punto di vista, e decide che adesso deve smettere, interrompere ogni attività, almeno per i prossimi dieci o quindici minuti, magari anche per un’ora intera. Deve respirare, ritrovare se stessa, definire i suoi limiti; almeno fino a quando non sarà del tutto sicura di poter riprendere adeguatamente a lavorare.

 

Bruno Magnolfi 

giovedì 7 gennaio 2021

Dico solo per dire.

 

 

            “Facile ridere di gusto quando si è sicuri di ciò che si vuole”, dico io; “è quando ti coglie l’incertezza su ogni scelta da affrontare, che l’espressione sulla tua faccia non può che farsi seria, ed è proprio allora che non trovi niente attorno capace di divertirti. Tutto ciò che ti si para di fronte è composto da scelte”, dico io, “e se cominci a sbagliarne qualcuna di quelle importanti va a finire spesso che non ne prendi per giusta neanche metà. E’ quasi una regola”, concludo di fronte a tutti quegli altri. Vado ogni sera alla Casa del Popolo, mi piace parlare con quelli che trovo lì quando hanno voglia di ascoltare qualcuna delle mie riflessioni, ma certe volte me ne sto volentieri anche in silenzio e in disparte senza attaccare bottone con nessuno, che poi in fondo sono sempre le medesime cose quelle di cui discorriamo tra noi. “Non c’è niente di male”, dico a tutti in qualche occasione, “ripetere spesso gli stessi concetti è coerenza, convinzione, sicurezza di ciò in cui si crede”. Qualcuno sorride, però ascoltano quasi tutti con un certo interesse.

            Uno di questi giorni potrei anche smettere di frequentare questo locale, penso io; non c’è niente di positivo nel cercare dei facili argomenti su cui ridere e poi darsi delle pacche sopra le spalle, come spesso succede con la gente che trovo qua dentro. Però credo che serva a tutti riflettere su qualcosa che non è proprio evidente, e che mette in moto la testa qualche volta, senza obbligare nessuno a farlo per forza. Vengo qua e poi li stuzzico, penso io; metto sul tavolo qualche argomento che forse non avevano ancora affrontato, e così sera per sera si passa il tempo e si fanno ragionamenti in cui si mette un po’ di se stessi, tanto per sentirsi impegnati in qualcosa. “Il pensiero generale differisce sempre dal particolare”, dico io; qualcuno ne chiede il motivo, altri annuiscono senza commentare. Mi prendono in giro, penso io; hanno bisogno di un giullare con cui divertirsi, qualcuno proprio come son io, che riempie in qualche maniera questo tempo senza valore.

            Non ho più tanta voglia di andare alla Casa del Popolo ormai, ma quando qualche volta per combinazione passo da lì mi accorgo che ci sono quasi tutti, immobili e in silenzio, come se stessero tutti in attesa di me, così ne sono contento, penso io, e non mi faccio certo pregare quando qualcuno mi pone una domanda oppure imposta un argomento tanto per parlare. “La sicurezza di ciò in cui si crede è essenziale”, dico subito io; “però non si deve essere certi di alcune cose che riguardano tutti, e poi cambiare opinione se dobbiamo metterci in mezzo ognuno di noi”. Mi guardano gli altri, sono persino disposti ad essere d’accordo con me, purché non la smetta di venire a parlare delle cose che penso, e a pensare con convinzione tutte le cose che dico. “Dovete riflettere”, dico io, “se per voi è più importante immaginare qualcosa di meglio per tutti, o se è sufficiente migliorare soltanto la condizione di qualcuno”. Sorridono, però in tre o quattro hanno la faccia più seria degli altri, probabilmente per quei pochi stare seduti ai tavolini di questa saletta  non è più proprio un semplice passatempo. “Non verrò più alla Casa del Popolo”, dico io a tutti alla fine.

            Mi guardano mentre pago il mio caffè degustato da ultimo in piedi al bancone, mentre mi muovo verso l’uscita, quando apro la porta, ed accolgo sopra di me l’aria fresca anche di questa serata. Nessuno ha qualcosa da dire, penso io. Nessuno è necessario, figuriamoci io con le mie povere sciocchezze. Però quando alla fine mi trovo per strada da solo mi sembra che qualcosa venga a mancarmi. Mi volto indietro un momento e vedo che alcuni silenziosamente mi hanno seguito, e questo non può fare altro che piacere. “Siamo tutti immersi dentro la stessa insicurezza”, dico io ai due o tre che continuano ad avvicinarsi. “Chi non avverte questo disagio finge soltanto di avere fatto un salto in avanti, ma non gli è propria questa certezza, è soltanto un attributo fazioso che non porta a nessuno niente di buono, tantomeno a lui stesso”, dico io alla fine.

 

Bruno Magnolfi          

martedì 5 gennaio 2021

Immagine riflessa.

 

 

            “Vorrei cadere da una sedia, magari per sbaglio”, dice LUI al telefono cercando di farla almeno ridere. “Oppure ricevere in faccia uno schiaffo capace di svegliarmi in un attimo solo, per scrollarmi di dosso così questo torpore di cui ormai mi sento soltanto una preda”. All’altro ricevitore, LEI adesso lo ascolta senza interrompere, si limita a prestare ad ogni parola che sente quasi una certa professionale attenzione, anche se condivide soltanto una piccola parte di quanto le viene spiegato, come fosse incapace di comprendere appieno quello che LUI sembra si sforzi di farle capire. “Va bene”, gli dice alla fine; “ma forse devi soltanto trovare qualcosa che impegni maggiormente i tuoi pensieri in questo periodo”. Segue una piccola pausa, come se loro due non avessero molto altro da dirsi, infatti si scambiano qualche altra sciocchezza finale e poco dopo si salutano, promettendo di risentirsi più avanti, magari nella stessa serata. Non abitano molto distanti, però fino ad oggi hanno sempre rispettato le rispettive solitudini, limitandosi a scrivere dei messaggi, oppure a scambiare semplicemente qualche telefonata, come quella di adesso.

Ma da qualche tempo sembra tutto diverso tra loro, come se quella amicizia nata senza degli scopi precisi tra due colleghi di lavoro ed insegnanti scolastici dello stesso istituto, non avesse più senso per essere ancora trascinata  in avanti. Certo, il malessere di cui LUI si lamenta è il problema principale che li fa sentire maggiormente distanti, come se fosse maturata nella sua mente un’incapacità congenita per preoccuparsi anche d’altro, restando sul medesimo argomento ogni volta che si sentono. Per LEI invece è diverso, in quanto non intende prestare il fianco a nessuna depressione che peraltro sembra ormai serpeggiare tra molti colleghi, e così la sua forza ed il suo convincimento sta anche nel fatto di sentirsi assolutamente capace di indifferenza rispetto a quanto sembra dilagare. Le pare persino quasi soltanto una consuetudine quella di stare continuamente a lamentarsi, ed anche se comprende perfettamente che esistono personalità maggiormente deboli che sembrano cadere facilmente in questa voragine, la propria personale reazione è quella di mostrarne distanza, come fossero problemi da cui non si sente nemmeno del tutto sfiorata.

Certo è che affrontare i propri impegni di docenti nei confronti dei ragazzi di una classe che vuole imparare nuove cose e procedere didatticamente, pensa LEI adesso, e farlo soltanto per mezzo della videoconferenza, non è affatto facile, anche se pone problemi del tutto superabili in qualche maniera. Ma starsene da soli davanti ad una cattedra elettronica che già crea una grande distanza, senza il calore e l’umanità usuale dei propri alunni di fronte, è qualcosa che può portare facilmente verso lo sconforto e la depressione. E’ comprensibile, certamente, ma non è accettabile crearsi uno stallo da cui non sia poi possibile uscirne più fuori. Questo riflette LEI quando si sentono, e LUI che si barrica dietro una continua richiesta di aiuto intorno a sé, ai suoi occhi si profila soltanto come un perdente, una personalità oltremodo debole, che forse dovrebbe risolvere i propri problemi ancora prima di voler insegnare a degli studenti pieni di dubbi la propria materia. Ecco, questo è quello che pensa ogni volta che sente confessarsi delle debolezze del genere.

Poco dopo però le dispiace aver pensato davvero in questa maniera, o perlomeno di essere arrivata fino al punto di sbuffare quando registra con lo sguardo ogni sua chiamata in arrivo. Però vorrebbe tanto ritrovare quell’allegria e quella serenità che aveva conosciuto in LUI gli anni scorsi, quella capacità di affrontare senza grandi preoccupazioni i problemi che il loro mestiere scolastico pone continuamente, di qualsiasi genere essi siano. Adesso gira per casa, prepara le nuove lezioni da tenere con i suoi ragazzi, cerca di perdersi tra i problemi individuali che qualche alunno le ha posto; infine prende il telefono e compone quel numero, che tanto sa bene che in fondo è quello che vuole. “Sono ancora io”, gli fa adesso. “Vorrei invitarti a casa mia, ed incontrarci per parlare più a fondo dei tuoi problemi attuali, anche stasera, anche adesso se vuoi. Mi dispiace se fino ad ora sono stata un po’ latitante con te, ma si vede proprio che nella tua debolezza che forse non volevo vedere e affrontare, c’era anche qualcosa della mia personalità, una parte proprio di me stessa, come guardare un’immagine riflessa che risultava per me insopportabile”.

 

Bruno Magnolfi     

sabato 2 gennaio 2021

Come un cretino.

 

            

            Lo ammetto, sono un mediocre. Da qualche anno suono il basso con dei ragazzi che conosco, avevo preso delle lezioni da un maestro presso un circolo, e adesso con pazienza si mettono insieme dei brani nostri, delle composizioni autonome, soprattutto perché loro hanno sempre un sacco di idee, e quando facciamo le prove portano spesso, insieme agli strumenti, dei nuovi spunti, delle soluzioni diverse, e poi dicono che un passaggio si può suonare così, oppure anche in altro modo, e certe volte studiano con pazienza l'armonia dei pezzi che inventiamo, per inserirci dentro poi le frasi più adeguate, dei passaggi maggiormente efficaci, e provando ogni volta la maniera di rendere le cose migliori della volta precedente. Io invece, gli altri mi limito ad accompagnarli, seguo il tempo della batteria soprattutto con le note dominanti, ed apprezzo parecchio le registrazioni che vengono fuori dal nostro impegno, ma senza buttarmi mai in mezzo a fare cose nuove. Oggi l'ho detto anche a loro. "Non mi sento più alla vostra altezza: voi avete creatività, estro, sensibilità, doti che a me forse sono sempre mancate, e per essere onesto devo dirvi che magari è meglio se per il futuro trovate un nuovo bassista". Sono rimasti malissimo, si sono anche arrabbiati, hanno detto che non mi rendo assolutamente conto, che io per loro sono il perno attorno a cui gira tutta la musica che loro riescono con fatica a mettere insieme, e che forse sto soltanto passando un brutto periodo, uno di quelli in cui ci si sente un po’ giù, ma poi le cose cambiano e tutto alla fine trova la maniera per andare sicuramente molto meglio.

            Però quando sono uscito dalla sala prove con il mio basso dentro la custodia ho continuato a sentirmi come al di fuori dalla passione che loro mettono nei pezzi, a quell’entusiasmo che è assolutamente necessario se vuoi fare davvero della musica, quella che è sempre stata la più importante nei nostri desideri. Forse all’inizio ero anche io così, proprio come loro proseguono ad essere; ma in seguito qualcosa lentamente si è deteriorato dentro di me, e mi pare ormai di essere soltanto a rimorchio delle idee di tutti gli altri. Invidio la loro capacità, soprattutto l’impegno che mettono sia nel migliorare la tecnica con cui suonano ogni strumento, sia nel trovare sempre cose nuove da mettere assieme. La musica è una brutta bestia, penso certe volte; ti succhia l’anima se cerchi di starci dentro, e non ti dà quasi nessuna possibilità di pensare ad altro. Tante volte ci siamo detti che non avremmo mai voluto suonare pezzi composti da altri, perché così avremmo perso tutta la parte più creativa del suonare, e così è stato sempre, in tutti questi pochi anni da quando abbiamo fondato il nostro gruppo di blues. Siamo tutti liceali, non avevamo alcuna esperienza, specialmente agli inizi, però siamo riusciti dopo poco a farci invitare a qualche serata e a farci ascoltare dai nostri amici. E’ stato divertente, e tutti ci hanno sempre apprezzato, però alla lunga le cose si sono fatte pesanti secondo me, e ci deve essere qualcos’altro che ad un certo punto venga in soccorso per sostenere tutto il tuo impegno, altrimenti finisce che ti stufi senza rimedio. 

            Così è adesso per me, non mi sento più in linea con gli altri; mi presento alla sala prove come sempre, ma ormai più per abitudine che per vero entusiasmo. Eppoi gli altri sono diventati davvero bravi in questo piccolo percorso che abbiamo fatto insieme, mentre io sono rimasto il medesimo, e se qualcuno mi chiedesse quale musica mi piacerebbe fare non saprei neanche cosa rispondere. Forse è la personalità che mi manca, ma questo non posso dirlo agli altri ragazzi. Mi dispiace tanto essere arrivato proprio a questo punto, ma non posso essere disonesto con i miei amici: non me la sento più di suonare le solite cose che so fare, e non me la sento neppure di impararne di nuove; è una strada senza via d’uscita, devo soltanto riuscire a farlo capire anche agli altri. Così dico: “basta”, a voce alta, dentro al microfono; “non suono più”. Loro abbassano lo sguardo, forse comprendono adesso quale sia stato davvero il mio tormento, e lo rispettano; dicono: “va bene, non preoccuparti”. Poi usciamo dalla sala, ed io so solo piangere, come un cretino.

 

            Bruno Magnolfi