venerdì 30 aprile 2010

Il disegno per la copertina di un libro.

            

            La lampada illumina il piano dello scrittoio in modo implacabile, con la sua luce decisa, definita. Osservo i pochi oggetti là sopra, le carte disordinate, le matite, i piccoli abbozzi di disegno che ho già tentato più volte. Non so, non riesco a capire: è come se le idee per questo soggetto che vorrei disegnare fossero tutte fuggite, e niente di me fosse in grado di richiamarle, di renderle presenti davanti ai miei occhi.
Poi prendo tempo, mi muovo, spengo la lampada, torno a riaccenderla. Ecco che dietro al mio sguardo nasce qualcosa, come una nostalgia verso un evento che non ho mai vissuto, ma infine anche questo barlume si attenua e sparisce del tutto. Suona alla porta il ragazzo del bar sotto casa: mi ha portato due sandwich, una birra, le solite cose, prendo il sacchetto di carta, cerco i soldi che lui attende di avere. Prima di lasciarlo andar via gli rivolgo una domanda, così, senza avvisarlo. Lui risponde con un semplice sorriso, lo sa che sono uno strano, c’è da aspettarsele da uno come me delle uscite un po’ insolite.
Ma prima di andarsene giù per le scale, si ferma un momento, si volta, mi guarda, dice soltanto: “Il mare; si, il mare è la cosa più difficile da disegnare”, e poi se ne va. Ha ragione, penso, è questa la risposta più giusta. Il senso del mare è impossibile da cogliere in un solo disegno; si può fermarne un aspetto, un’onda, la riva, l’orizzonte, ma non l’idea complessiva del mare.
Torno alla mia lampada e al piano dello scrittoio: adesso lo so quale sarà il tema da disegnare stasera, qualcosa che non sarò mai capace di completare, e siccome non riuscirò ad esaurirlo, il mio disegno rimarrà aperto, da concludere, soggetto a variazioni infinite.


            Bruno Magnolfi 

giovedì 29 aprile 2010

Il mercato quotidiano.

            

Il signor Vannini e la sua consorte, come già era accaduto qualche altra volta anche se non di frequente, avevano invitato per quella sera i coniugi Rilotta a prendere un caffè in casa loro. Si erano accomodati nelle poltrone del salotto e dopo poco la signora Vannini era tornata con uno scintillante vassoio con il caffè e dei pasticcini. La signora Rilotta aveva detto con voce stridula e vagamente ridicola qualcosa di convenevole sul servito elegante appoggiato sul tavolo basso, e aveva aggiunto qualcosa sull’incomodo che si era andata a cercare la signora Vannini, con quegli splendidi centrini merlettati che fungevano da sottotazza, e comunque compiacendosi della finezza per quegli oggetti così aristocratici, anche se il marito dell’altra aveva smorzato le cose spiegando quanto sua moglie ci tenesse a quel tipo di cose.

Poi avevano subito iniziato a parlare del loro quartiere, visto che le loro abitazioni rimanevano poco distanti, e in fondo questo era anche il motivo della loro conoscenza. “Ormai è diventato uno schiamazzo continuo, e se fino a pochi anni fa queste strade erano caratterizzate da tranquillità e da calma, adesso è tutto il contrario”, diceva la signora Vannini. Il signor Rilotta continuava ad osservarla senza farsi notare, immaginando il suo modo di fare all’amore con suo marito, sempre con quella mascella leggermente tirata, come di chi non è mai d’accordo su niente, e forse gli veniva persino da sorridere pensando a un’immagine del genere; e così, tanto per mostrare il suo interesse per quell’argomento, disse subito: “Tutta colpa delle famiglie dei nuovi arrivati, con quella miriade di figli che rimangono tutto il santo giorno per strada; e poi non gli basta, si mettono pure a giocare e a fare gazzarra”. “Ha ragione”, colse al volo l’argomento il signor Vannini; “L’altro giorno una pallonata è arrivata direttamente sul cofano anteriore della mia auto mentre tornavo a casa, roba che dalla paura per poco non andavo a sbattere in un albero del vialetto, e a nulla è servito averli rimproverati, hanno continuato come se tutto fosse normale”.

A questo punto, mentre gli altri scuotevano la testa per mostrare la loro solidarietà su quanto l’altro aveva appena riferito, il signor Rilotta, forse eccitato da quell’argomento, fece una mossa un po’ brusca, rovesciando con malagrazia la sua tazzina di caffè che cadendo sul pavimento irrimediabilmente si ruppe. La faccia della signora Vannini naturalmente assunse espressioni indescrivibili, e in mezzo alle scuse immediatamente poste in essere con espressioni del tipo: “Non riesco proprio a capire come possa essere successa una cosa del genere”, tutti si dettero immediatamente da fare per cercare di pulire e sistemare le cose, compreso il marito della signora Vannini, preoccupato anche lui per le conseguenze.

Naturalmente la serata apparve subito senza rimedio, ma le cose precipitarono ancora quando la signora Rilotta, riferendosi soltanto al signor Vannini, che essendo più ragionevole forse era anche d’accordo, disse che probabilmente non sarebbe importato tirare fuori un servito prezioso del genere per una serata tra amici. La moglie comprese al volo la critica ai suoi comportamenti insita in un’affermazione del genere, e così si sentì subito in dovere di replicare che lei era abituata a fare le cose per bene, e a trattare anche gli ospiti non meritevoli con un certo riguardo, cosa che fece inalberare la Rilotta, in difesa del suo disattento marito, dicendo con un certo orgoglio: “Non si può sostenere che un incidente sia dato da mancanza di rispetto o cose del genere; comunque se ne ha proprio bisogno, le ricompriamo volentieri l’intero servito”.

Tutto precipitò, e le cose perdendo di qualsiasi razionalità si portarono in avanti con una polemica infinita intorno ai modi e ai sistemi migliori di comportamento, e siccome i signori Rilotta avevano intanto riavuto dal signor Vannini i soprabiti per andarsene via, la discussione si era spostata direttamente fuori dalla porta, lungo il breve vialetto che portava alla strada. Le loro voci adesso erano stridule e si accavallavano le une sopra le altre nel silenzio della serata, compresa quella della signora Rilotta che cercava di dare il meglio di sé difendendo a spada tratta il marito, e fu solo ad un certo momento, dopo essere andati avanti con voci alterate per parecchi minuti che si resero conto che qualcuno, in fondo alla strada, stava cercando di chiedere un po’ di silenzio, un minimo di calma; “Perché così””, diceva la voce, “Sembra proprio di essere dentro a un mercato”.


Bruno Magnolfi

mercoledì 28 aprile 2010

Il risultato migliore.


Le parole di Franco si erano immediatamente imbrogliate mentre cercava di dire qualcosa di carino. Aveva ripetuto come balbettando qualche sillaba, e Laura gli aveva sorriso, come se fosse disposta per una volta a perdonare un ragazzo un po’ pasticcione. Ma Franco non voleva che lei sopportasse la sua timidezza, e neppure che a lui fosse perdonato qualcosa per simpatia o per disinteresse. Non desiderava neppure essere duro o irato con se stesso, quindi prese tempo, distese il suo volto rimasto fino ad allora corrucciato, trovò meglio le parole con le quali voleva spiegarsi e le disse, con calma, con la maggiore semplicità che gli era possibile. Poi osservò Laura negli occhi per vedere quale risultato aveva ottenuto, e si accorse così che il suo impegno era stato premiato: Laura era felice della determinazione che Franco aveva dimostrato, e per lui non ci poteva essere un risultato migliore.

Bruno Magnolfi


martedì 27 aprile 2010

Il crollo del panorama.



Lei generalmente osservava il panorama fuori dall’abitacolo, intorno alla strada, quella porzione di strada che si snodava davanti al parabrezza dell’auto. In certi momenti pareva che i suoi pensieri seguissero le onde sinuose delle colline, evitando che gli oggetti di quelle sue immagini si scostassero mai troppo dai suoi preferiti. “Guarda la fila di quei cipressi, come disegna tutto il profilo…”, diceva certe volte con voce calma e sussurrata, e lui osservava quanto indicato continuando a guidare e annuendo, convinto della straordinaria capacità che lei aveva, di notare dei particolari che da solo non avrebbe mai visto. L’andatura che teneva con la sua macchina in quelle occasioni risultava addirittura leggermente più lenta di una velocità già prudenziale, ed a volte lui, senza mezze misure, uscendosene con un’espressione o un gesto di stizza, se la prendeva con coloro che volendo sorpassare la sua auto suonavano il clacson o lampeggiavano con i fari, quasi che la sua guida fosse solo un ostacolo al percorso nevrotico di quei pazzi che neppure guardavano le bellezze del panorama che avevano attorno.
Fondamentale, per loro due, restava viaggiare come alla scoperta di un mondo nuovo, spesso meraviglioso. C’erano momenti in cui la loro attenzione era interamente catturata da quella natura verdeggiante, e i loro discorsi pareva che solo distrattamente si andassero ad occupare di altre cose, come se l’argomento principale restasse sempre e comunque godersi il paesaggio. Così facendo pareva ad ambedue che tutti i loro problemi rimanessero chiusi alle spalle, ed evitassero così di venire a contatto con quel panorama. Certe volte però lui diceva qualcosa a proposito della loro situazione: si lamentava di quell’abitare troppo lontano, di quel vedersi di rado, e soprattutto dello scarso interesse che lei pareva dare alla loro relazione ogni volta che si erano salutati, quasi che, una volta tornati, dentro di lei si chiudesse invariabilmente qualcosa.
Era come se, una volta lontana, in lei venisse meno qualsiasi volontà per incontrarlo di nuovo, e così ecco che lui si metteva a studiare sulla carta stradale un percorso che si inerpicasse tra nuovi paesaggi e vedute, in modo da poterle proporre, almeno per il fine settimana seguente, un nuovo viaggio alla scoperta di qualcosa, qualcosa di cui poi ambedue, vivendo assieme e intensamente quel loro viaggiare, restavano assolutamente soddisfatti e felici, almeno per quel paio di giorni. Poi iniziavano per tutta la settimana quelle telefonate antipatiche in cui lei, abitando con i genitori ormai anziani, pareva rispondergli con un certo distacco, quasi che la sua vita vera e propria fosse tutta a contatto solo con quella realtà, quella della sua famiglia, in quel paese ad un’ora di treno, lanciando lungo quel filo del telefono quasi una malcelata indifferenza nei confronti di lui.
Lui al contrario viveva da solo in quel piccolo appartamento in città, e sapeva bene quanto quella sua solitudine certe volte fosse un pugno allo stomaco, e quanto purtroppo fosse qualcosa che lei non riusciva a comprendere e forse neppure ad immaginare, nonostante le sue spiegazioni su ciò che provava, e certe volte anche l’insistenza a cui era dovuto ricorrere per riuscire a trascinarla, quelle rarissime volte, fin nella sua casa. In certe occasioni, per piccola ma pura provocazione, lui aveva parlato di quei fine settimana, durante i quali spesso si fermavano a dormire in qualche pensione sperduta, come di una fuga dalla realtà, ma lei, pur non sentendosi assolutamente d’accordo con quella espressione, aveva sempre evitato di farne oggetto di qualsiasi polemica.
Però quel giorno era diverso, lei lo aveva raggiunto col treno pur sentendosi preoccupata per un malessere della sua mamma, lui si era mostrato attento e sensibile alla sua inquietudine, e in questa maniera, fermandosi ogni tanto per qualche telefonata, si erano messi in viaggio per raggiungere una zona che volevano visitare. Ma le cose parevano complicarsi a ogni metro, non c’era niente che sminuisse la preoccupazione di lei per quella sua madre ammalata, tutto pareva riportarle la mente verso quei suoi genitori, come non esistesse nient’altro, niente di cui lei si interessasse davvero, compresa la sua vicinanza. Così lui ad un tratto sbuffò, con gesto spontaneo e liberatorio, senza con questo voler essere scostante e offensivo, ma lei non riuscì a sopportare quel suo atteggiamento. Si fermarono, discussero, alzarono la voce, si scagliarono contro tutte le parole che forse in tanti mesi di incontri avevano soffocato; infine lei, rabbiosa, gli chiese di accompagnarla alla stazione ferroviaria più vicina. Per tutto il tragitto che seguì non si scambiarono più una sola parola, ognuno arroccato sulle proprie ragioni, poi, quando lei scese, si salutarono con affettazione, come si saluta una conoscenza casuale fatta ai giardini, ma sapendo perfettamente ambedue che non si sarebbero visti mai più.

Bruno Magnolfi

lunedì 26 aprile 2010

La scomparsa di Cicala.


“Lo so che non avrei mai dovuto avere un’opinione così netta e definita. Si tratta del fatto che normalmente tutti hanno parole leggere, interpretabili in un modo o nell’altro, in maniera che con un semplice sorriso le cose generalmente si mettono subito a posto. E’ sgradevole invece dire davvero quello che si è sempre pensato, ti fai il vuoto attorno e questo dimostra immediatamente che non avevi ragione. E poi, che stupido, cosa significa la coerenza. Si cambia, ci si trasforma, si pensano ogni giorno cose diverse, perché è il mondo che cambia, e quindi dobbiamo adeguarci, altrimenti siamo idioti immobili monoliti. Si resta da soli con comportamenti poco gradevoli, inutile affidarsi ai nuovi mezzi di comunicazione, anche quelli riflettono esattamente il nostro maniacale isolarsi. Così oggi sono qui a tirar sassi nell’acqua di questo laghetto, senza riuscire neppure a immaginare la mia prossima mossa. Forse perché non ci deve essere una prossima mossa, tutti mi hanno ignorato dopo che ho fatto capire quale era la mia vera opinione, ed adesso quelle stesse persone si aspettano che io sparisca, che abbia almeno il buon gusto di ficcarmi in un angolo e non farmi vedere mai più”.
Questi, più o meno, erano i pensieri di Cicala, come veniva normalmente chiamato di soprannome, prima che trovasse il coraggio di andarsene via. Però c’è da essere quasi invidiosi per chi sa togliere il disturbo al momento più adatto, chi sa dire basta in modo opportuno, e lasciare agli altri un silenzio così ricco di tanto frastuono. Poi le cose con il tempo si placano, la memoria plasma i concetti, gli spigoli inevitabilmente si smussano, ed anche i pensieri di Cicala si mostrano maggiormente accettabili. Anzi, se si riflette con un po’ d’attenzione, si scopre che in fondo non aveva poi torto. Forse era il modo in cui diceva le cose, l’uso di quel piglio insopportabilmente polemico, quella maniera antipatica di tirar fuori le cose che già sapevano tutti, ma che tutti, per semplice buon gusto, riuscivano facilmente a tenere celate.

Bruno Magnolfi


domenica 25 aprile 2010

Una coscienza di civiltà.


L’uomo passò buona parte del pomeriggio sprofondato nella sua comoda poltrona. Aveva sfogliato un giornale lasciandosi catturare da alcuni articoli sulla politica, e in seguito aveva letto qualche pagina di un libro che portava avanti da un mese ricordando purtroppo ben poco delle pagine precedenti. Infine si lasciò catturare dalla finissima polvere d’oro nell’aria illuminata da una porzione di raggi di sole filtranti dalla finestra che aveva davanti, godendo di quel senso di pace che emanava da tutto l’insieme di quella stanza tranquilla, addormentandosi pur senza sonno.
Immagini confuse di persone che discutevano tra loro senza averne un vero motivo, passarono davanti ai suoi occhi chiusi, dando il sapore di qualcosa che procede, segue un percorso, arranca cercando uno spiraglio di verità. C’erano alcuni suoi amici in quel tratto di strada, ma lui non conosceva il quartiere, anche se assieme a tutte le altre persone camminava con passo deciso per raggiungere qualcosa di importante, un edificio, una piazza, un punto preciso di quella parte di città di cui si sentiva curioso, dove forse era possibile scoprire qualcosa, raggiungere altre persone, visionare le certezze di cui il gruppo mostrava conoscenza.
L’uomo si riscosse avanti che il sogno gli rivelasse che cosa si nascondeva in fondo al tragitto, e al suo risveglio la stanza si mostrò identica, solo con i raggi del sole maggiormente inclinati e di un colore più caldo, quasi a mostrargli la fusione graduale del pomeriggio con la serata. Improvvisamente gli parve che il suo perdere tempo in quella poltrona fosse un elemento offensivo della sua dignità, del suo essere persona, e volle alzarsi da lì, fare qualcosa, occuparsi di quanto c’era da prendere in seria considerazione, ma siccome non gli venne a mente nessuna cosa precisa di cui occuparsi, decise di restare ancora un po’ lì, a riflettere meglio. Allora sentì dei rumori nella stanza vicina, qualcosa che disturbava in modo sconsiderato quei suoi pensieri fondamentali, quella sua ricerca affannosa del motivo principale di cui sentirsi uomo, persona, essere pensante per antonomasia, ma poi tutto parve calmarsi e la quiete tornò poco a poco ad ovattare la casa.
Decise che pur senza un motivo avrebbe dovuto alzarsi da lì, affrontare la realtà che dietro al silenzio covava nascosta in chissà quale anfratto, ma non seppe dove appoggiare il suo libro rimasto sulle sue gambe, così ne osservò la copertina, lesse il titolo e l’autore riconoscendo di non averne mai avuto notizia, e rimase a scorrere la nota stampata sul retro come la descrizione di qualcosa di cui non aveva mai sentito parlare. In fondo pensò che la realtà poteva pur aspettare ancora un momento, che importava quell’affannarsi dietro ad idee che probabilmente avrebbero lasciato tutto com’era, tanto valeva restarsene lì, attendere che qualcosa di serio risvegliasse la sua coscienza assopita; per il resto quella poltrona restava pur sempre un posto di gran privilegio, il punto migliore dove riflettere bene, il luogo più adatto dove disinteressarsi di tutto.

Bruno Magnolfi

sabato 24 aprile 2010

La ragionevolezza di quanto detto.


Certo che spesso tutto è confuso. Si tratta d’iniziare con il dire qualcosa pensando ad un soggetto differente. Ci si impappina, si tossisce, si prende tempo. A volte le domande di qualcuno o gli interrogativi propri ci incalzano, così, si cerca immediatamente di recuperare, e anche se non si sa rispondere adeguatamente si va avanti sulla linea di un pensiero che sia più largo, più aperto, più confuso, maggiormente vago e ambiguo tra tutti quelli che possiamo avere a disposizione. Si parla, insomma, e le parole fuoriescono indipendentemente dal significato che hanno, come una materia informe nella quale siano compresi e indistinti tutti i contenuti dei quali inizialmente forse volevamo dire, e che adesso diciamo, ma incomprensibilmente.
La solitudine è notevolmente più degna di studio ed attenzioni. Si tratta di raccontarsi qualcosa mediante immagini e pensieri scollegati, dei quali se ne capisce con evidenza il poco senso, ma andando ugualmente avanti se ne riesce spesso ad affermare, assieme alle pochissime certezze, almeno il valore di pensato, ed esso assume un peso evidentissimo tra ciò che siamo e ciò che vogliamo dimostrare, confondendo del tutto ogni elemento iniziale, ed è vero, ma restituendo a noi stessi una enorme determinazione. Siamo convinti, insomma, e questo è quanto di più fantastico si potesse mai desiderare.
Suonò il telefono, lui nella sua stanza scorrendo una rivista rispose. Un nuovo servizio, si disse, che non poteva non apparire interessante. Qualcosa che denotava un senso di modernità, di adeguatezza, di vita vera, lui disse dica. E il telefono con quasi cento frasi a tre o quattro soggetti cadauna esplicò un insieme di cose che portavano inesorabilmente verso l’accettazione passiva di quanto appena detto, se non altro a dimostrare quell’attenzione e quella comprensione del tutto necessarie in casi come quelli. Ma a lui non bastava e disse solo però, ma se ne guardò bene più avanti dal ripeterlo ad evitare le altre cento frasi a soggetti invertiti ancora più oscure e adesso dominate dalla fretta di evitare l’inutilità delle lungaggini. Soltanto la sovrapposizione delle parole di un dialogo monologante come quello era permessa, e al contrario quel silenzio di un solo secondo alla fine di una domanda arrivata repentina che dovette scomodamente essere ripetuta, fu giudicato il massimo del dimostrarsi poco attento, poco sveglio, quasi tonto. Dovette dire va bene, lui, non comprendendo cosa, ma apparendogli chiarissimo quanto quella voce nel telefono (forse di donna?) avesse senza alcun dubbio qualsiasi dimostratissima ragione.

Bruno Magnolfi


venerdì 23 aprile 2010

Apoteosi della signora Bertani.


Si sbaglia, disse la donna ad un’altra che le aveva appena detto, buongiorno signora Bertani; non mi chiamo così, mi dispiace. Mi scusi, disse quella, non sono molto fisionomista, ma adesso che la osservo un po’ meglio devo riconoscere che ha proprio ragione. Eppoi sarebbe stato ben strano, la signora Bertani abita oltre il viale e non ci viene mai a piedi da queste parti; difatti ne ero quasi stupita. Se è per quello anche io molto raramente passo da questo quartiere, disse lei, ma la cosa più buffa, adesso che ci penso, è che conosco la signora Bertani, perché sua mamma abita nel mio stesso palazzo e certe volte la incontro in ascensore o lungo le scale, quando viene a farle visita. Quanto è strano il mondo, disse quella, non c’è proprio mai da stupirsi di niente; ma se posso essere indiscreta perché allora oggi lei si trova in giro da queste parti? No, è solo per una combinazione di cose, stavo cercando un medico di cui mi hanno parlato, uno che cura con un metodo nuovo, e siccome ultimamente ho qualche disturbo, mi sono presa la briga di farmi dare l’appuntamento per una visita. Anzi, adesso che ci penso, me ne aveva parlato proprio la signora Bertani, una di quelle volte che ci eravamo incontrate lungo le scale, non perché lei ne avesse avuto bisogno, ma solo perché sua mamma sembra sia allergica ad un tipo di farmaco, e si sa con l’età. Si, è comprensibile, siamo sempre tutti alla ricerca di un qualcosa meno invasivo e che dia il minor numero possibile di effetti collaterali, poi la signora Bertani è sempre così attenta a tutte queste cose. Lo sa che mi sono perfino lasciata trascinare da lei a certe sedute psicologiche di gruppo che sembra aiutino ad essere maggiormente ottimisti, ci sono andata solo due volte, proprio io che in queste cose non ci ho mai creduto, però mi pare già di sentirmi un po’ meglio. Interessante, riprese lei, non ne avevo mai sentito parlare, forse non sono così in confidenza con la signora Bertani perché potesse aver avuto voglia di dirmi di una cosa del genere. Però è certo che appena la incontro le chiederò qualcosa di più. Si, certo, lo deve fare, disse l’altra, e sicuramente lei potrà parlarne in maniera più adeguata di me, perché svolge un ruolo, diciamo così, di coordinatrice tra tutte noi, e siamo già più di dieci ad aver preso l’abitudine di ritrovarci una volta ogni settimana. Ma certo, disse lei, e dove vi ritrovate, sempre in un medesimo posto, oppure in luoghi diversi? No, semplicemente abbiamo a disposizione una saletta nell’edificio della sede del quartiere, e comunque, almeno per il momento, è decisamente più che sufficiente per le nostre esigenze. C’è soltanto una piccola quota da pagare, giusto per coprire le spese, ma le saprà dire tutto, meglio di me, la signora Bertani, sicuramente. E’ vero, disse lei, adesso che mi ha messo questa curiosità non vedo proprio l’ora di incontrarla, peraltro mi fermo sempre così volentieri a parlare con lei. E’ come se le cose che dice siano sempre gli argomenti maggiormente adeguati al momento o alla situazione, ha come dentro di sé un sesto senso. Lo sa che ha proprio ragione, anche per me è così, riprese l’altra, quello che dice la signora Bertani è sempre appropriato, qualche volta mi sono fidata più di lei che di me stessa. Adesso però bisogna proprio che la saluti, sono già in ritardo, ma stia tranquilla, parlerò senz’altro di lei con la signora Bertani. La ringrazio, disse lei, anche io ormai non vedo proprio l’ora di incontrarla per poterle chiedere maggiori spiegazioni di tutte queste cose e spiegarle come sono riuscita ad averne notizia. Penso proprio che ne sarà più che contenta di questo nostro incontro la signora Bertani. Allora la saluto. Arrivederci.

Bruno Magnolfi


giovedì 22 aprile 2010

Il mondo senza gli occhiali.

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Sono dentro al marasma. Mi ci trovo proprio nel mezzo, lo sento, disse a bassa voce l’individuo con gli occhiali. L’altro era perplesso, annuiva, si lisciava la cravatta senza parlare ed osservava dei fogli sopra ad un tavolo. Fuori dalla finestra la giornata scivolava via come sempre, il traffico lungo la strada era indifferente di tutto, ognuno badava soltanto alle proprie cose. L’ultima telefonata era stata chiarissima: lo avevano incastrato per toglierselo dai piedi. Entrò nella stanza una ragazza dei servizi al cliente, chiese se avevano ancora bisogno della sala riunioni, poi rimase sulla porta ad aspettare che i due uscissero sul corridoio. Nessuna idea girava nella testa dell’individuo con gli occhiali, solo una gran confusione, un principio di angoscia, un senso vago di panico e una gran voglia di fuggire lontano. L’altro lo accompagnò all’ascensore, lo guardò mentre saliva, poi fece una specie di broncio come fosse un saluto.
L’auto si avviò insieme alla radio, ed un giornalista, da qualche parte dentro uno studio, lesse con voce chiara le ultime notizie. Niente è importante per me quanto quello che mi sta succedendo, pensò da solo l’individuo con gli occhiali inserendo la marcia ed uscendo da quel parcheggio. In tasca aveva parecchio contante e quattro carte di credito. Imboccò l’autostrada e dopo mezz’ora era già in aeroporto. Passò da uno sportello bancario, ritirò quanto bastava, poi all’ufficio prenotazioni si fece inserire in un volo diretto a Madrid, con partenza due ore più tardi. Poi si sedette su una poltroncina davanti alla sua uscita d’imbarco. Attorno c’erano soprattutto turisti. Non si era mai sentito così solo, la realtà lo stava schiacciando, il suo bisogno di stare al gioco rischiando parecchio per una qualità della vita migliore lo aveva disarcionato, non c’era altro da fare che ritirarsi in buon ordine togliendo il disturbo. Si fece venire in mente qualche immagine di quando in vita sua era stato felice, ma non furono molti ricordi. Quindi si guardò ancora attorno: osservò le sue mani, i calzoni, le scarpe. Infine tolse gli occhiali.
All’improvviso quel mondo sfocato che aveva intorno gli parve diverso da sempre. In fondo Madrid non era un esilio, anzi, avrebbe trascorso lì un po’ di tempo, si sarebbe fatto venire in mente qualche idea, poi sarebbe tornato, tra un anno, forse due. Poteva ritenersi quasi un turista, uno tra quelli che stavano proprio in quella sala, in attesa del loro aereo, in fondo non c’era una gran differenza. Pensò che forse aveva inseguito per un tempo infinito il senso del limite, senza cercare di gustare le piccole cose che poco alla volta era riuscito a raggiungere. Annunciarono l’aereo, si alzò dalla sua poltroncina e si avviò verso l’imbarco: adesso che si sentiva soltanto un individuo senza gli occhiali, riusciva probabilmente a vedere peggio di prima tutto ciò da cui era circondato, ma certamente aveva la possibilità di vedere maggiormente dentro di sé. Ci avrebbe pensato a quella sua conclusione, forse tutto quanto non doveva per forza essere un male.

Bruno Magnolfi
           

mercoledì 21 aprile 2010

La strada da fare.

            

            Lucia sentiva su di sé una responsabilità che non aveva mai provato. Una sensazione, la sua, come di sentirsi importante e contemporaneamente intimidita. Tra poche settimane avrebbe compiuto ventidue anni, ma in tutto quel tempo le poche cose che aveva fatto non le aveva mai prese troppo sul serio. Anche smettere di andare a scuola lo aveva deciso insieme con sua madre senza neanche pensarci troppo, quasi come un passaggio normale, e quel lavoro di cassiera al supermercato se lo era ritrovato così, più per combinazione che per premura.
Ma adesso era arrivato Giuliano, e le aveva detto delle cose precise, le aveva chiesto degli impegni a cui Lucia non si sentiva preparata. Già solo farsi vedere in giro con lui era un disastro: vent’anni di differenza, lui con il doppio della sua età, era una cosa vistosa, ma era più un problema per Giuliano che per lei. A Lucia non le importava se qualcuno nei bar o nei ristoranti pensava che fosse suo padre, non le importava degli altri, o di cosa pensassero. Il problema si era posto solo quando lui aveva detto di voler lasciare la moglie, di volersi separare da lei per stare con Lucia. Lucia stava volentieri con Giuliano, parlavano a lungo di tutto nei momenti in cui erano insieme, facevano tutto quello che avevano voglia di fare, e a lei piaceva quando certe volte lo trovava ad attenderla a fine turno all’uscita del supermercato, le piaceva sentirsi una ragazza normale, come tutte le altre. Però non voleva sentire sulla coscienza quella rottura del suo matrimonio, e anche se Giuliano continuava a ripeterle che comunque, anche senza di lei, sarebbe successo, lei non voleva provare quel tipo di  responsabilità, piuttosto era disposta a continuare così, a vedersi con lui solo quando era possibile.
Quel pomeriggio Lucia era uscita dal suo posto di lavoro sapendo che lui molto probabilmente sarebbe stato dentro al parcheggio ad aspettarla con la sua macchina. Aveva tardato, pensando alle cose da dirgli, poi si era decisa, ma quando era arrivata alle porte scorrevoli del supermercato, si era trovata vicino Francesco, un suo collega magazziniere più ragazzino di lei, anche lui all’uscita dal turno, così gli aveva sorriso, aveva scambiato con lui una battuta spiritosa, poi, quasi per gioco, ma guardandolo in faccia, gli aveva preso una mano e l’aveva stretta dentro alla sua. Così erano usciti dal supermercato, e Giuliano gli aveva visti così, sorridenti, giovani, spensierati, indifferenti di lui e di tutti coloro che avevano voglia di guardarli. Era evidente e preciso il messaggio che Lucia gli inviava, talmente chiaro che a lui non rimase altro che mettere in moto la sua auto ed andarsene il più presto possibile da lì, via da lei, ognuno per la sua strada.


            Bruno Magnolfi

martedì 20 aprile 2010

Una cosa qualsiasi in cui credere.

           

            Tra i miei pensieri tutte le cose si frantumano in sciocchezze. Ascolto qualcuno che parla, che spiega le proprie convinzioni, ed io vorrei scuotere la testa, mostrare che non credo affatto in quello che viene detto, ma non voglio apparire negativo, così resto in silenzio, lo sguardo basso, immobile, di chi almeno pensa qualcosa, riflette sopra la realtà.
Certe volte credo sarebbe meglio godersi tutto nel suo insieme, immergersi dentro ad un complesso di cose che non permetta alcuno spazio analitico, e così perdersi nella grandezza delle possibilità; in altre occasioni cerco di lasciarmi andare dietro a minuscoli particolari, a dettagli così esili che finisco per chiedermi quale senso abbia tutto il mio affanno. Ogni aspetto, pur quello più invitante, maggiormente appetibile tra quelli che mi possono venire in mente, mi provoca un inizio di entusiasmo che in genere dura lo spazio di un momento, e poi ricade, inesorabilmente, lasciandomi ancora più amareggiato che in precedenza.
Svolgo il mio lavoro, come sempre, mando avanti la mia vita come ho fatto ogni giorno da quando ho la ragione. Eppure tutto mi appare insulso e monotono, anche se non lo vorrei. Alla fine della giornata so che niente è stato come avrei voluto, così esco di casa per sentire il fresco della sera, giro a caso mentre mi accendo una sigaretta, l’ultima prima di dormire. Un richiamo lontano arriva fino lì, è un suono particolare, qualcosa che non mi è mai capitato di sentire. Vorrei seguirlo, capire da dove possa arrivare, mi concentro sulla percezione della sua qualità, sulla direzione di provenienza, sul suo significato, se mai uno ce ne possa essere. Decido di seguirlo, mi muovo lentamente all’inizio, quasi con titubanza, poi accelero i miei passi, sempre più in fretta. Percorro varie strade, sembrano tutte simili, qualcuno mi guarda forse con un moto di apprensione.
Infine giro un angolo ed il suono è lì, c’è già molta gente, tutti hanno raccolto quel richiamo, si intravede quella sorgente tra le teste, illuminata a giorno dalle fotoelettriche a mostrarne ogni particolarità. Qualcuno forse si chiede il senso di una cosa del genere, ma quello è l’aspetto meno importante: abbiamo risposto al richiamo, è questa la cosa fondamentale, ci riconosciamo tra quanti siamo lì, esiste un aspetto che ci lega, sentiamo dentro di noi una necessità impellente, forse siamo noi la necessità impellente, adesso lo sappiamo, ne abbiamo piena coscienza, ormai possiamo anche fumarci la prima sigaretta del giorno dopo, e poi andarcene tranquillamente a dormire.


Bruno Magnolfi

lunedì 19 aprile 2010

Sangue e dolore.

            

            Lui stava spesso seduto sulla sua solita sedia, nella medesima posizione, ma il forte ronzare di quel silenzio era impietoso, lo faceva quasi star male. Allora certe volte gli accendevano il televisore davanti, ma lui non lo vedeva neanche, sentiva soltanto un brusio inconcepibile in mezzo a delle macchie di colore luminoso. Quando se ne stava lì, dentro la casa, le sue mani spesso tremavano, non riuscivano a trovare una posizione per starsene ferme, a riposo, senza far niente. Negli ultimi tempi aveva preso perciò ad uscire per delle brevi passeggiate attorno al quartiere, senza allontanarsi mai troppo. Camminava molto, lungo i soliti itinerari, cercando di non avere pensieri, concentrandosi solo sui suoi passi, sui piedi, sui marciapiedi che aveva di fronte.
Il dottore aveva detto che i suoi pensieri facevano male, qualche volta lo portavano ad avere delle idee che non andavano bene, e se lui non riusciva ad essere più forte di loro, tutto prendeva una piega sbagliata, come quella volta quando aveva cercato di abbracciare per strada quella ragazza che neppure conosceva. Certe cose non si dovevano proprio pensare, aveva detto il dottore, lui doveva impegnarsi ad allontanare i pensieri, tenerli distanti da sé. Così camminava, non guardava nessuno, teneva le sue mani sprofondate dentro alle tasche e non faceva nient’altro, non si faceva venire neppure un pensiero. Qualcuno per strada forse lo osservava, altri lo conoscevano almeno di vista: c’era un uomo in un chiosco che qualche volta gli aveva regalato un panino e gli diceva sempre qualcosa di divertente, che lo faceva sorridere, ma lui non dava retta a nessuno, tirava diritto e si sentiva bene così.
Poi era arrivata chissà da dove una donna con dei seni grossi, per metà già fuori dalla scollatura del suo vestito. Gli aveva detto, senza vergogna, se mi dai cento lire ti faccio vedere le zinne. Lui non aveva neanche un soldo, e si era sentito confuso per quelle parole, forse non gli interessava neanche vedere com’era fatta quella donna sotto alla sua camicetta, ma lei aveva aggiunto qualcosa che lui non aveva neppure capito, e il giorno dopo lei era ancora lì, in quel giardinetto, e i pensieri nella sua testa avevano cominciato a girare. Per questo l’aveva evitata, e quasi di corsa era tornato subito indietro, sui suoi passi. Aveva visto davanti a sé quel chiosco con l’uomo che sempre lo salutava, ed era andato da lui, senza riuscire a capire di che cosa avesse veramente bisogno, ma come cercando un aiuto senza neppure saper bene cosa chiedere.
L’uomo aveva da fare, gli aveva detto qualcosa di divertente come ogni volta, senza quasi guardarlo, e aveva continuato ad occuparsi di altro, mentre lui intanto si era accorto che tutto il mondo aveva preso ad emanare un brusio insopportabile. Guardava intorno, sentiva il brusio, guardava quell’uomo del chiosco, i panini, le salse, i salumi, il bancone che era coperto di roba da mangiare, e in bella vista c’era lì quel coltello appuntito. Doveva far smettere tutto il frastuono, quel brusio inammissibile, aveva bisogno assolutamente che qualcuno lo guardasse, che si interessasse di lui, che gli desse un aiuto, così prese di scatto il coltello e se lo infilò dentro ad un fianco, spingendo, spingendo sempre più forte, fino a che il sangue e il dolore iniziarono a dimostrare che lui c’era, la sua presenza era vera, anche se adesso si sentiva confuso, e gli era impossibile dire che non avrebbe mai voluto esserci, e anche se non voleva del tutto annientarsi, ora bastava smettesse il rumore di tutti i pensieri, quei pensieri che adesso parevano pazzi. Restava lì a terra, nel suo dolore, nel sangue, contorcendosi ancora, e tutti correvano intorno al suo corpo, a curiosare su quello che stava accadendo, ma i suoi pensieri adesso volavano via da quella ferita, pur con tutto il dolore che lui sentiva dentro di sé, erano liberi loro, andavano dove volevano, non c’era più niente che poteva tenerli rinchiusi; lo avrebbe detto al dottore, si sarebbe spiegato, erano quei maledetti pensieri che sciupavano tutto nella sua vita.

Bruno Magnolfi

sabato 17 aprile 2010

Al ritmo di salsa.

            

            Dietro al sipario della mia scrivania, di questi fogli, delle cartelle, di tutti gli insopportabili incartamenti che si ammucchiano, e di quelle pratiche delle quali, da quando sono entrato qua dentro, vincitore come molti di un qualsiasi concorso per impiegato comunale, devo occuparmi per ruolo, per posizione lavorativa, per mestiere, non posso fare altro che abbassare lo sguardo su un punto qualsiasi e restarmene lì, senza più alcuna volontà di essere né una persona né un impiegato comunale. QqqqqqgghjklklQua dentro spesso si parla di gente che viene da fuori, che toglie ogni caratteristica a chi ha sempre vissuto in questi paesi, in queste campagne, nel territorio di qui; si parla sempre degli altri in termini strani, come di chi ha avuto la fortuna di essere arrivato, in qualche maniera, e di potersi godere questi paesaggi, questa economia superiore, questa cultura che sembra più millenaria di ogni altra. Chi non pensa così, almeno nei corridoi tra questi uffici, irrimediabilmente è fuori dalla mentalità più corrente.
Il mio capo certe volte viene da me, chiede qualcosa, parla con voce leggermente più alta di ciò che sarebbe normalmente necessario; parla della pratica numero qualcosa, dandosi importanza per tenere a memoria una filza di numeri, di nomi, di situazioni da prendere in esame, come se li avesse tutti con sé, sotto agli occhi, in mezzo alle dita. Poi, mentre torna nel corridoio, dice Batistini, senza guardarmi, ma a voce forte per farsi sentire da tutti, mettiamoci più grinta, più slancio, non addormentiamoci su queste sciocchezze. Io osservo la luce dalla finestra e mi sembra lontana. Sposto qualche carta, riprendo il lavoro, metto da parte le cose che trovo via via, quelle che appaiono strane, da chiarire, da approfondire. Quando torno ad osservare ancora la finestra la luce si è spostata, i colori sono cambiati. In fondo tutto subisce variazioni continue, penso, anche dentro ad un ufficio grigio e impietoso come quello.
Spesso i miei pensieri assumono una grande capacità di astrazione che mi porta lontano dal luogo dove mi trovo, ma questo è l’unico modo che mi fa sopravvivere in questa realtà che sento distante. Nessuno si spiega i miei modi, qualcuno forse pensa che io sia ritardato. Certe volte credo che non ci sia alcuna necessità di spiegare ad altri cosa io sia: sono così, nessuno deve preoccuparsi, semplicemente mi chiedo se i miei colleghi provano le mie stesse identiche sensazioni, pur non ammettendolo. Non ci vuole poi molto a sentirsi lontani, basta osservare qualcosa, incuriosirsi, immaginarsi piccole variazioni nella realtà, minuti cambiamenti inaspettati, e tutto il resto viene da sé.
Certe volte mi sento come un tizio dentro a un locale da ballo che resta per un’intera serata ad osservare una coppia ben affiatata che continua a danzare al ritmo di salsa, con grande impegno psicofisico, variando continuamente le figure e compiacendosi di essere guardata almeno da quello, da quel signore dall’espressione indecifrabile, visto che il locale praticamente è deserto. Trovo una bellezza straordinaria nell’intesa tra i due ballerini: fanno qualcosa che io non potrei mai sognare di fare, forse hanno una cultura diversa da me, forse sono proprio diversi, differenti dai miei modi di sentire la musica, accarezzare quel ritmo, muoversi inseguendo dei gesti difficili e profondamente calibrati. Mi affascina la loro cultura che neppure conosco, ma non vorrei mai danzare come riescono a fare: mi basta apprezzare quello che mostrano, seguire il loro accordo perfetto, e riconoscere la fortuna che ho di poterli almeno guardare, sentire la loro presenza vicina, quasi come se qualcosa del mondo fosse con me.

            Bruno Magnolfi

venerdì 16 aprile 2010

Briciole di pane.

            

            Praticamente, come tutta la casa, la cucina era piccola, il tavolo era addossato ad una parete, e il resto era lì, il gas con la bombola, il frigorifero che funzionava anche come piano d’appoggio, il lavello perennemente ingombro di qualcosa. Quello era l’appartamento che Carlo aveva trovato in affitto all’inizio dell’università, là dentro ci poteva abitare soltanto una persona,  tanto era minuscolo, ma lui non aveva mai desiderato cambiare. Certe volte, è vero, gli era pesato abitare da solo, ma ciò nonostante, e anche oltre al fatto che ai suoi genitori, quando qualche volta erano venuti fin lì dal paese, non fosse piaciuto per niente quel suo appartamento, ugualmente lui non aveva mai cercato nient’altro, era sempre rimasto ad abitare in quelle due stanze.
Gli piaceva mettersi seduto al suo tavolo, da solo, con la tovaglia ancora cosparsa di briciole di pane e l’unico piatto ormai ripulito spostato su un lato, prendere un libro ed appoggiarsi con la spalla a quella parete, con la finestra subito lì, che dava sul cortiletto, a leggere piano, con la radio in sottofondo che parlava, parlava per conto proprio. Certe volte si addormentava su quella sedia, ma per pochi minuti, con un dito tra le pagine a tenerne il segno, pronto a riprendere la sua lettura subito dopo. Erano trascorsi più di tre anni dalla sua laurea, e quel breve periodo era bastato per togliergli ogni entusiasmo, estirpare quel sogno di trovare un lavoro decente, di iniziare a vivere in modo un po’ meno approssimativo. Forse non aveva cercato abbastanza, a volte pensava, forse si era rilassato anche troppo; forse aveva immaginato qualcosa che non esisteva in realtà, e la sua delusione lo portava nella sua piccola cucina, con la luce del sole di quel primo pomeriggio che filtrava dalle tendine, ad assaporare quei rumori di vita lontana, a lasciarsi cullare nella proroga di ogni decisione.
Cosa poteva mai essere di diverso la vita, certe volte pensava, se non  quello starsene lì, senza dar noia a nessuno, accarezzato dal sole, da quelle parole del libro? Con qualche lavoretto che riusciva a trovare ce la faceva giusto a tirare avanti, ma che prospettiva poteva mai essere quella, passavano gli anni senza che nulla variasse, seppure di poco. Poi aveva conosciuto quella ragazza e un po’ aveva perso la testa, ma non era durata, e Carlo si era ritrovato più solo di prima. A volte ci ripensava a quelle poche volte che lei era salita fin lì, lui le aveva cucinato qualcosa, avevano parlato di tutto, lui l’aveva baciata abbracciandola in piedi, addossato a quella stessa parete in cucina o accanto al tavolo.
Che sciocchezze, pensava adesso, però belle da ricordare, anche se lei dopo un po’ non aveva più voluto saperne di quelle sue maniere trasognate e indecise. Chissà in quanti modi sarebbe potuta andare la loro storia, a volte pensava: con l’entusiasmo di quel periodo lui avrebbe bussato a tutte le porte, avrebbe trovato un lavoro, cercato una casa più grande, andato ad abitare con lei, e poi chissà, tutto sarebbe facilmente stato diverso. E invece ancora adesso lui era lì, con le sue cose di ogni giorno, con il suo libro da leggere, la finestra, la tovaglia cosparsa di briciole di pane. Però continuava a piacergli quel mondo minuto: a volte scostava la tendina, si sporgeva in avanti, riguardava il cortile con la luce del sole che riusciva a scaldarlo, e si sentiva felice, almeno per altri cinque minuti.

Bruno Magnolfi

mercoledì 14 aprile 2010

La casa in campagna.

            

            Tutto era stato già detto, sia in quella che nelle riunioni precedenti della grande società finanziaria. Inutile sforzarsi ulteriormente, pensava il sig. Ferri, non troveremo mai una strategia migliore di quella che è stata già messa a punto. Era stanco di quegli incontri, gli pareva che tutto quel mondo fosse ormai asettico, freddo, e i comportamenti sempre i medesimi, ingessati, senza alcun segno umano. Sciolta l’assemblea dei dirigenti era rientrato in ufficio, aveva controllato la posta ed osservato gli appuntamenti in agenda, poi era rimasto per un attimo fermo, in silenzio, come vuoto di tutto. In interfono aveva detto alla segretaria sto uscendo, per favore girami le telefonate al portatile, poi era entrato nell’ascensore d’acciaio ed era sceso direttamente al garage.
La sua auto aziendale si era avviata in un sibilo, il climatizzatore automatico proponeva lo stazionamento sui venti gradi, una musica soffice e appena percettibile circolava all’interno. Il sig. Ferri si era stretto al volante, un’occhiata al cruscotto, poi aveva innestato la marcia, senza assolutamente sapere dove fosse diretto. Il viali proponevano il solito caos farcito di fretta e di umanità varia, e il sig. Ferri aveva preso velocemente la strada delle colline, spegnendo il telefono per staccare da tutto e uscendo rapidamente dalla città. Erano molti anni che non passava da quella strada secondaria, e anche se fossero stati pochi, erano accadute così tante cose negli ultimi tempi che gli sembrava fosse persino di più.
Dopo una mezz’ora si fermò in uno slargo polveroso sotto a un albero pieno di rami e di fronde, c’era una casa poco distante, si vedeva un pozzo e la veranda davanti. Il luogo era bello, dietro alla casa c’erano dei campi e poi il bosco. Un cane abbaiava con poco interesse, lui arrivò alla casa e salutò un vecchio che faceva qualcosa, lì da una parte. Posso avere dell’acqua, chiese con voce garbata, e il vecchio gli fece cenno di entrare dentro alla casa.
C’era buio, per via dei mobili scuri e della piccola finestra che serviva una grande cucina, il sig. Ferri si sedette al tavolo col piano di legno e lasciò che quell’uomo appoggiasse due bicchieri sul piano. Le vuole sentire due dita di rosso prima dell’acqua?, disse con voce rauca. Va bene, sorrise il sig. Ferri, poi arrivò una ragazza, una donna a dire il vero, di circa trent’anni, non bella, ma con uno sguardo e i capelli lunghi e sciolti come una giovinetta. Salutò senza enfasi, mise a posto qualcosa, poi si volse di scatto dicendo, ma lei è quello della Provincia, per farci avere quel mutuo a fondo perduto, non è vero? Il sig. Ferri guardò il vino nella sua mano, ne bevve un sorso, lo trovò buono, poi disse certo, l’altra volta era venuto il collega.
La ragazza si sedette con un certo entusiasmo, poi disse sorridendo che se lui era lì la loro domanda doveva per forza essere stata approvata, non era forse vero?, guardandolo dritto. Beh, si, non ricordo più quanto avevate chiesto di preciso, disse lui, però… Soltanto ventimila euro, disse il vecchio, a me e a mia figlia ci servono solo per far ripartire le cose. Al sig. Ferri piaceva star lì con quella gente, improvvisamente si sentiva come in famiglia, e in casa c’era fresco, e ristagnava un piacevole odore di minestre e di carni cotte sopra la stufa; così finì il suo bicchiere di vino e poi disse, veramente ero anche venuto per rendermi meglio conto sia dei terreni che della casa, così prontamente la donna gli fece fare il giro di tutte le stanze, poi lo lasciò nelle mani di suo padre che gli fece vedere quei campi là attorno.
Alla fine della visita il sig. Ferri si mostrò soddisfatto, tutto era a posto, però disse ai due che dovevano portare pazienza, perché lui sarebbe tornato altre volte, ma giusto per visionare come andavano tutte le cose. Il vecchio e la ragazza dissero che ne sarebbero stati felici, aggiunsero che ci voleva solo un istante a richiamare i due lavoranti che guidavano il trattore e mandavano avanti le cose, di lì a poco tutto avrebbe ripreso a girare; poi rientrarono tutti nella grande cucina, e il sig. Ferri si sedette, prese un assegno dei suoi e lo compilò in tutte le parti, firmandolo senza alcuna esitazione. I due lo ringraziarono, sembrava loro quasi impossibile che la Provincia avesse facilitato e accorciato così le sue pratiche, poi strinsero la mano a quell’uomo senza neppure chiedergli il nome, ma solo per non apparire curiosi o scortesi, e quando infine andò via, per tutto quel tempo fino a quando non tornò a far loro visita, non riuscirono neppure a capire chi avrebbero veramente dovuto mai ringraziare.


            Bruno Magnolfi

martedì 13 aprile 2010

Soltanto dieci minuti.

            

            “Non sono nervoso; solo mi pare tu abbia messo sulle labbra un rossetto troppo vistoso, per esempio…”, aveva detto lui con parole tese, senza guardarmi. Io ero rimasta in silenzio, continuando a camminare al suo fianco e cercando come di mordere sulla mia bocca quel colore che a lui aveva dato tanto fastidio. Quasi arrancando per cercare di stare al suo fianco, cercavo di portarlo su argomenti leggeri, che lo predisponessero bene a quella serata. “Non è colpa mia se abbiamo dovuto parcheggiare la macchina un po’ troppo lontano…”, avevo detto sbagliando, ma con tono di voce dimesso. In realtà quei nostri amici si facevano grandi ad abitare un appartamento nel pieno centro storico della città, sicuramente invidiabile per certi versi, però scomodissimo per le cose più pratiche.
Continuavo a tacchettare con le mie scarpe alte su quel lastricato sconnesso scrutando il marciapiede a ogni passo per evitare incidenti, e intanto cercavo le parole  più adatte almeno per strappargli un sorriso: “Chissà se a questa festa ci saranno anche i Dallai?”, dissi quasi tra me, tanto per dire, allungando la frase come ad una coda divertita della mia voce, che stesse a significare che trovavo quei due così buffi da essere contenta se ci fossero stati. Lui aveva subito rallentato lievemente l’andatura come pensando qualcosa. Poi aveva detto: “Speriamo proprio di no: in genere lui inizia a parlare del suo lavoro e non la finisce per tutta la sera…”. A me di solito non interessava affatto in occasioni di quel tipo dover ascoltare anche degli argomenti triti e noiosi, anzi mi era sempre sembrato un conto inevitabile da dover in qualche modo pagare: erano altre, anche se normalmente pochissime, le cose di una certa importanza che venivano fuori, ma soltanto così, con quei contatti sociali e con quello scambio di idee potevano emergere elementi positivi, conoscere da informazioni di prima mano cosa succedeva, cosa facevano, come vivevano coppie del tutto simili alla nostra.
“Ma tu hai idea di quanti invitati saremo a questa serata?, avevo aggiunto, tanto per lasciarlo un po’ sciogliere. “Con le manie di grandezza che hanno in quella casa, sicuramente saremo in numero maggiore del necessario, immagino…”, aveva detto lui con tono polemico. “Però a me basta che non si siano messi in testa di farmi mangiare del sushi o altre schifezze alla moda del genere, e che soprattutto si possa venir via ad un’ora decente”, aveva aggiunto tutto di seguito, piazzando già i margini della sua soddisfazione per tutta la festa. Pensavo tra me, al contrario, che il periodo per quel ricevimento non poteva dimostrarsi maggiormente propizio per noi: avevamo prenotato i biglietti per una bella vacanza da lì a breve, e ne avrei sicuramente parlato con tutti; e poi la nostra decisione in un futuro a breve scadenza di avere un figlio, era per forza un altro argomento che mi metteva molto a mio agio. “Quindi non hai neanche intenzione di dire che ti hanno promosso in ufficio?”, avevo detto ben sapendo di lasciar scaturire il suo orgoglio. “Beh, si…”, aveva detto lui, come lasciando mostrare che non era sua intenzione avere segreti. “Sempre se viene fuori l’argomento, però…”.
Restammo in silenzio per qualche secondo, ambedue pensando alle ultime avvertenze di cui tener conto, poi io dissi con voce decisa: “Mi raccomando…”, parlando con la coscienza di renderlo felice; “se vedi che non riesco a tirarmi fuori dagli argomenti di qualcuno terribilmente noioso, interrompi pure le chiacchiere con una scusa qualunque, e tirami fuori forzando le cose. Naturalmente mi ricorderò anche io di usare lo stesso stratagemma con te…”.
Ma fu in quel punto di strada, quando i due ormai erano quasi arrivati, che qualcosa si mise nel mezzo. Lui inciampò in un piccolo ostacolo sul marciapiede, cercò il braccio di lei per sorreggersi ma non lo trovò in quanto lei era rimasta appena più indietro; fece due passi in modo scomposto ormai barcollando, cercò di mettere le mani in avanti, e infine andò a rovinare sul gradino di pietra di un palazzo settecentesco. Il polso cadendo fece un rumore sinistro e il dolore che lui disse di sopportare era fortissimo. L’ambulanza arrivò solo dopo dieci minuti.


            Bruno Magnolfi  

lunedì 12 aprile 2010

Ritrovarsi.

            

            Aveva camminato molto quel giorno, in certi tratti di strada anche più lentamente del solito, quasi svogliatamente. Aveva tempo, l’intera giornata a disposizione, e passeggiare in città senza una meta precisa era per lui un’attività che gli permetteva di ripensare agli ultimi tempi. Sapeva fin dall’inizio che nel suo girare da una strada a quell’altra sarebbe inevitabilmente passato, forse anche più di una volta, sotto l’appartamento dove lei abitava, ma quello era come un elemento aggiuntivo, un incidente dei suoi percorsi mentali ordinari. Sapeva che in quella casa lei non c’era durante molte ore del giorno, ma ugualmente soltanto vedere quelle finestre, immaginare le stanze illuminate dal sole, guardare quelle persiane manovrate ogni giorno dalle sue mani, erano tutti elementi che lo facevano star bene, gli parlavano di lei in qualche modo.
Si era fermato lungamente davanti alla vetrina di un negozio di decorazioni, e in mezzo a quegli oggetti curiosi si era visto specchiato nel vetro, da solo. Non riusciva a capire esattamente di che cosa avesse bisogno, in certi momenti gli pareva di non avere più niente, che la sua faccia stralunata dentro ad una cornice là dentro fosse davvero soltanto un effetto ottico, ma che stesse svanendo, come le piantine nei vasi che seccano quando non vengono annaffiate per lunghi periodi. Pensava alle cose che aveva da fare e gli parevano tutte sciocchezze, cose da niente. Si sentiva come se avesse smarrito il senso delle giornate, che tutto ormai andasse avanti come per forza di inerzia. Molte cose erano rimaste non dette, incompiute, non spiegate. Gli veniva quasi istintivo riflettere: “Devo ricordarmi di dire…, o di fare…”, e invece niente di questo era più necessario, e qualche sorriso un po’ amaro pareva adesso distorcere la sua espressione di sempre, anche dentro all’immagine di quella vetrina.
Forse provava un piccolo dolore da qualche parte dentro di sé, ma tutto doveva continuare come sempre, anzi, indifferentemente da qualsiasi stupido dolore. Si doveva esser uomini, retti, tutti d’un pezzo, si era detto quella mattina prima di uscire di casa: in fondo erano già ben due giorni che lei lo aveva lasciato. E invece si sentiva come un frullato di frutta versato per sbaglio sopra un vestito, roba che sporca, che quando cade non serve più a niente, solo un fastidio. Anche il suo continuare a camminare lungo le vie sperando di incontrare qualcosa o qualcuno che gli parlasse di lei era patetico, ma non riusciva proprio a fare qualcosa di meglio.
Intanto era arrivato a passare lungo la strada che conosceva da sempre, aveva rallentato ancora l’andatura, aveva aspettato il più possibile per assorbire dall’aria qualsiasi profumo potesse sapere ancora di lei, qualsiasi rumore di tacchi come i suoi gli facesse girare la testa, qualsiasi vicino di casa in precedenza mai salutato adesso gli avesse almeno sorriso per carità umana, come per accennare ad una speranza, ad un piccolo barlume di possibilità. Poi arrivò davanti al portone quasi senza respiro e lei da dentro lo aprì. Lui si fermò, si guardarono senza alcuna parola, e niente del resto di tutto quel giorno fu più minimamente importante.


            Bruno Magnolfi

domenica 11 aprile 2010

Per sempre al suo posto.

            

            Aveva chiuso la serranda da dentro, una volta terminato l’orario di lavoro del suo piccolo negozio di giornali, in modo che nessun cliente ritardatario avesse la possibilità di venire a cercare la Gazzetta dello Sport o chissà cos’altro, e lui potesse rimanersene da solo almeno per un’ora, per conto proprio. Doveva fare un piccolo inventario, era tutta la settimana che lo rimandava, così quella sera di sabato gli era parso il momento migliore. Ci passava tanto di quel tempo tutti i giorni dentro alla sua manciata di metri quadri di negozio, che oramai conosceva perfettamente ogni centimetro, tanto da poter prendere i giornali che i clienti gli chiedevano senza neanche guardare dove le sue mani andavano a pescarli.
Erano quasi trent’anni che se ne stava dietro a quel piccolo bancone con tutte quelle riviste e i quotidiani bene in ordine, sempre a dar seguito alle solite richieste, alle chiacchiere monotone, all’orario senza fine, ad iniziare dalla mattina presto quando ancora era notte, fino ad arrivare alla serata lenta e senza movimento. Era il suo lavoro, forse nella vita avrebbe anche potuto sceglierne un altro di mestiere, ma quello lo sentiva suo, come se fosse nato proprio per star lì, dietro a quella montagna di carta, di immagini e di parole. Era bello per lui sapere tutto di quell’editoria, conoscere perfettamente quanti numeri fossero usciti di una pubblicazione o di un’altra, avere l’idea precisa delle quantità che servivano per un quotidiano o per un altro: era preciso, e gli pareva doveroso nel suo lavoro essere così.
Mentre controllava i materiali compilando le sue schede, arrivò d’improvviso il primo attacco: tutti i giornali sui muri, sopra gli scaffali, iniziarono a girare da soli nella stanza, mescolando tra loro tutte quelle copertine di mensili e di settimanali dai tanti argomenti differenti. Si appoggiò al bancone, si riprese, pensò fosse la stanchezza: forse era il caso di rimandarlo ancora quel lavoro e per quella sera tornarsene a casa, pensare ad altro, godersi quel sabato come tutti gli altri. Ma le cose, dopo pochi minuti. velocemente peggiorarono. Si sedette sull’unico sgabello che aveva per evitare di cadere, ma gli mancava l’aria. Pensò che avrebbe dovuto avvicinarsi alla serranda, aprirla almeno un po’, uno spiraglio per respirare e farsi vedere da fuori, per chiedere un aiuto a qualche passante se proprio ce ne fosse stato bisogno. Ma si sentiva stanco, improvvisamente impossibilitato a fare qualsiasi cosa.
Si appoggiò con le mani al bancone dei quotidiani e delle riviste, e poi cercò di sdraiarsi là sopra, per vedere se una posizione completamente rilassata lo potesse aiutare a riprendere le forze. Si sistemò alla meglio su un fianco, ma in quel momento capì che non sarebbe più riuscito a muoversi. Rimase così, in quella posizione, e la morte gli arrivò addosso più velocemente di quanto avrebbe mai creduto, non lasciandogli il tempo di far nulla, di tentare qualche cosa. Si trovò paralizzato e senza forze, e appena un attimo prima di quel momento, ebbe soltanto il tempo di pensare a coloro che avrebbero trovato quel suo corpo, così, sopra ai giornali, come uno strano eroe dei nostri giorni, finito lì, al suo posto, come ogni mattina, e quella volta inevitabilmente proprio per sempre.


            Bruno Magnolfi

venerdì 9 aprile 2010

L'ultima università.

          

            I primi due si ritrovavano in una fotografia in bianco e nero, in cui si riconosceva una giornata quasi estiva, le loro espressioni rilassate ma non sorridenti, i corpi magri e immobili in una posizione qualsiasi, le braccia inerti, disoccupate. Difficile era stabilire l’ultima volta in cui erano effettivamente stati visti: il tempo passato e la memoria adesso erano in genere artifici poco usati. Gli altri, con un po’ di fortuna, si potevano ancora incontrare per strada, generalmente soli, con delle facce simili a quelle che avevano sempre avuto, gli occhi pronti a scrutare negli scaffali di una libreria o a leggere attentamente un volantino politico di poca importanza.
Farsi tornare alla memoria quegli scambi frettolosi di dispense o di informazioni su assistenti inafferrabili, lezioni saltate da recuperare chissà quando, o titoli di testo fondamentali, sussurrati lungo i corridoi sempre freddi della facoltà, era difficile e soprattutto doloroso: tutti sapevano che non sarebbe uscito niente di rilevante dal loro interessarsi peraltro incostante di categorie filosofiche, di smontaggio del pensiero, di correnti culturali essenziali per gli intellettuali europei di cinquant’anni prima. Ma la ferrea determinazione e l’entusiasmo avevano portato avanti tutto quanto per ciò che era stato possibile, fino ad accorgersi poco per volta delle etichette che venivano distribuite e si attaccavano per sempre. Tutti si erano defilati con poco rumore, senza stare neanche troppo a darsi giustificazioni, e forse in qualche serata tra amici avevano addirittura riso di se stessi, forse con un principio di pianto nascosto in fondo agli occhi.
In altre fotografie si intravedeva la ricerca di immortalare le sciocchezze del momento: gli interessi sulle culture marginali, le varie fusioni, le ibridazioni che dovevano sempre lasciar scaturire un’aderenza maggiore alla realtà, alla verità, alla scoperta di tutto ciò che il potere teneva celato, se non a chi sapeva saltare ben più in alto, fino a dare almeno un’occhiata furtiva di là da ogni muro, e farsi una coscienza esatta di ciò che aveva sbirciato. L’arte vera gravida di tutto, doveroso riconoscerla, portarne in giro il senso, l’effluvio, l’afflato principale. Il dibattito era costantemente aperto in riunioni furtive e casuali.
Marcello poi aveva iniziato a fare le supplenze, sempre più lunghe, sempre più lavoro. Aveva cercato di conservare i contatti, le amicizie, ma tutto si sfaldava, ogni elemento era riassorbito dall’ordinarietà. Anche gli altri non si riconoscevano più in niente, ma se quella era la strada, nessun isolato tra tutti poteva ormai opporsi a quel lento e costante divenire. Così ognuno si perse, o meglio cercò una strada propria, scavando in quel piccolo personalismo che poteva fruttare almeno la sopravvivenza. Siccome divenne doloroso ripensare tutto, si smise anche di farlo, nascendo una seconda volta, in una realtà più definita, dimenticando persino l’ultima volta in cui la comprensione delle cose era stata lì, assieme a loro. La costruzione del futuro passava sopra a tutto, un nuovo mattone era stato posato, l’effetto doveva per forza risultare positivo.

Bruno Magnolfi

giovedì 8 aprile 2010

Un dolore tra lo stomaco e il cuore.

            

            Cosa potevo pensare di me alla fine di un giorno qualsiasi praticamente sprecato alla ricerca di giustificazioni accettabili? Avevo lasciato scorrere gli ultimi anni quasi fossero materiale di altri, o senza importanza, come se il tempo fosse un involucro inerte lasciato in un angolo a lasciarsi riempire, senza criteri, senza scegliere niente. Al mattino avevo aperto gli occhi di scatto, giusto per rendermi conto che una serie di abitudini mi richiamavano all’ordine, ma le mie azioni riottose avevano subito iniziato a indicare che c’era qualcosa che era partito con un piede sbagliato. Non ero contento di me, in quel giorno qualsiasi; quasi come fosse la prima volta che pensavo una cosa del genere: davo seguito ai soliti gesti, alle faccende ordinarie, quelle di sempre, e qualcosa al mio interno, indipendentemente da tutto, pareva ribellarsi.
Osservavo la stanza in cui mi muovevo e continuavo a vedermi come allo specchio, diverso da sempre, immerso in una realtà non omogenea ai miei pensieri di ogni altro momento. Avevo caldo, in quel giorno qualsiasi, ridevo tra me, sistemavo qualcosa rimasto in disordine durante la sera. Cercavo rifugio nei vestiti da mettere, nei colori da abbinare,  nelle scarpe più adatte. Provavo un malessere, un infido sottile dolore in un punto imprecisato tra lo stomaco e il cuore, e una testa sempre più vuota, o meglio persa dietro ai pensieri diversi dal solito, critici, insofferenti a come lei proiettava con le sue analitiche possibilità, ciò che avrebbe dovuto essere il resto del corpo.
La mia decisione di uscire di casa fu velocemente archiviata: continuavo a girare dentro la stanza, in quel giorno qualsiasi, cercando un appiglio, un semplice stupido appiglio che mi facesse ritrovare la persona che ero. Ma non mi sentivo realmente diverso, semplicemente non mi sentivo lo stesso. Poi spuntò fuori qualcosa che mi fece riflettere. Che senso aveva il mio soffrire alla ricerca di un elemento sfuggente, difficile, con ogni probabilità indecifrabile? Superficialmente pensai: nessuno. Ma in seguito dovetti ricredermi: chi ero io nel seguire qualcosa che pur non appartenendomi mi dava tranquillità e sicurezza indipendentemente da qualsiasi altro elemento? Non sapevo rispondermi, perseguivo qualcosa che fosse il più possibile rassicurante, anche se non era quello lo scopo. Poi provai a concentrarmi su problemi di ordine più quotidiano. Ma era complicato all’inverosimile, in un giorno qualsiasi, pensare che tutto era rinviabile: il problema c’era adesso, in quel preciso momento, non era assolutamente possibile gettarlo alle spalle per andare ad occuparsene in un altro momento, quando il senso delle cose magari fosse apparso più chiaro.
Così pensai di nuovo che era terribile accettare ogni pensiero, ogni elemento di realtà definita, come fosse qualcosa elaborato in modalità libera, priva di qualsiasi condizionamento. Girai più volte a piedi nudi dentro la stanza, mi parve che tutto intorno cercasse di contrarre ogni inquietudine in un alveo di normalità. Mi ribellai, quindi, gettai nel disordine qualsiasi cosa troppo accurata, me la presi persino con gli oggetti e i pensieri più inerti, fino a rendermi conto di quanto ridicolo fosse il mio atteggiamento. Infine, l’ultimo conclusivo pensiero di quel giorno qualsiasi andò a riguardare quella ribellione che non portava da nessuna parte. Così mi ritrovai ad avere semplicemente sprecato il mio tempo alla ricerca di una stupida giustificazione.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 7 aprile 2010

Soprattutto abitudini.

           

            I due era già molti anni che non si rivolgevano più la parola, il loro atteggiamento tra gli abitanti del paese era ormai proverbiale, ma quel comportarsi per tutti era diventato con il tempo poco più di un’abitudine, e né l’uno né l’altro oramai ricordava il motivo per cui avevano iniziato a fare così. Naturalmente avevano sempre continuato a frequentare il medesimo bar, e trascorrevano spesso le serate monotone chiacchierando del più e del meno insieme alle stesse persone, ma uno da una parte e uno dall’altra, come se ognuno dei due non esistesse per l’altro. Gli amici erano a conoscenza del loro dissidio, ma pur apparendo a chiunque di loro un comportamento poco meno che grottesco, ognuno evitava con accuratezza di andare a mescolare, nei discorsi che qualche volta venivano fuori, i ragionamenti dell’uno con quelli dell’altro. Se qualche volta si verificava una gaffe da parte di qualcuno, questa veniva immediatamente ignorata, riprendendo subito l’atteggiamento ormai abituale.
Tutto trovò una sua conclusione in una sera d’estate, quando pare di non avere mai voglia di andarsene a letto, forse per godere di quel fresco serale così piacevole sulle sedie all’aperto, e i discorsi di tutti si dilungano su qualsiasi argomento, proprio per ritardare ogni cosa. Uno degli amici, il primo di tutta la comitiva, disse a un certo punto che doveva proprio rientrare, e si alzò dalla sedia, si sistemò la camicia, poi dichiarò buonanotte, incamminandosi svogliatamente. Fu allora, sul gradino di pietra al bordo di quel giardinetto del bar, che il suo piede andò ad inciampare. Cadde come uno sciocco, e urlò mentre cadeva, tanto da impressionare subito tutti quegli altri, così che i primi due a muoversi in suo soccorso, con un atteggiamento istintivo ma subito seguiti dal resto della comitiva, furono proprio quei due che non si parlavano, come per ironia della sorte, cercando di risollevarlo uno da una parte e uno dall’altra.
Il malcapitato aveva la faccia piena di sangue, e i due loro malgrado continuavano a sostenerlo mentre altri portavano stracci, dell’acqua e altre cose per il primo soccorso. Poi quello svenne, tanto per complicare le cose, e fu allora che i due, ormai imbrattati di sangue anche loro, se lo caricarono a mezzo sopra le braccia per farlo salire su un’auto e portarlo al più vicino ospedale. Ma erano impressionati, forse preoccupati per quel loro amico, e dimentichi di tutto si scambiarono qualche parola giusto per sistemare le cose nel migliore dei modi. Poi andarono tutti ad accompagnare il ferito al pronto soccorso, e fu allora forse che si sentirono stupidi. Il ferito fu prontamente operato da un’equipe medica per una frattura facciale a uno zigomo, e tutti rimasero lì, solidali nell’attesa di notizie tranquillizzanti.
Qualche giorno più tardi l’amico fu dimesso dall’ospedale, e quando finalmente tornò al solito bar a salutare e a ringraziare tutti, trovò ad aspettarlo quasi una festa, anche se i due che non si parlavano avevano intanto ripreso a comportarsi nello stesso identico modo di sempre. Li prese da parte, li ringraziò del loro aiuto, e dall’alto delle bende che ancora portava sul viso, chiese ad ambedue di smetterla con quel loro comportamento ormai assurdo. Nessuno promise un bel niente, però tutto in un primo momento parve terminare nella maniera migliore, quella che tutti si sarebbero attesi, ma non fu così. L’atteggiamento dei due riprese come quello che sempre era stato, e proseguirono a non rivolgersi mai la parola, e niente riuscì a cambiare quella loro abitudine, fino a che nessuno ci fece più caso.


Bruno Magnolfi  

martedì 6 aprile 2010

Sotto osservazione.

            

            Lui camminava, incontrava le persone lungo ai marciapiedi, si osservava attorno. Registrava dentro alla sua testa tutto quello che gli sembrava vagamente anomalo, gli aspetti non strettamente ordinari delle cose. Aveva voltato l’angolo di quella nota strada centrale, conservando modi distaccati e indifferenza. Poi aveva preso il suo taccuino ed aveva velocemente annotato il punto esatto in cui le telecamere dell’agenzia bancaria erano installate, con un’angolazione tale, a suo modo di vedere, da riprendere tutti i passanti lungo il marciapiede. Poi aveva continuato a camminare, era andato ancora avanti, secondo il suo programma, fino all’angolo opposto della strada, dove un altro occhio elettronico era puntato proprio sul passaggio pedonale.
Dopo diverse settimane di rilevamenti ormai gli appariva chiaro quasi tutto il quartiere: aveva annotato tutto di ogni visibile apparecchio fisso da ripresa sul suo taccuino, e poi, una volta a casa, aveva riportato ogni indicazione rilevata sopra ad una cartina dettagliata della zona. Non che ci tenesse particolarmente ad introdurre quei particolari sulla pianta, però voleva conoscere con precisione le aree dove i suoi passi non erano del tutto irrilevanti, dove c’era qualcuno che sondava ogni atteggiamento, qualsiasi gesto anomalo. Poco per volta aveva ormai memorizzato tutto quello che per anni si era sentito curioso di conoscere. Certe volte, passeggiando lungo alcune strade, gli era parso come di vedersi dentro ai monitor o negli schermi video: con il suo passo indifferente, la sua solita aria distaccata, le sue maniere identiche di chi si interessa di tutto e di nulla. Poco per volta si era reso conto che quasi non esisteva spazio pubblico esterno agli edifici dove, in tutto quel quartiere centrale, si era sicuri di non essere guardati da qualche telecamera.
Qualcuno ne aveva parlato sui giornali o in televisione, altri se ne dispiacevano, si sentivano osservati, controllati e forse poco liberi, ma non certo lui. Lui girava per le strade di tutta quella zona, camminava in lungo e in largo davanti alle sedi delle assicurazioni, al palazzo municipale, alle banche, e si sentiva bene, a proprio agio. Certe volte si fermava, per nessun motivo, sostava proprio sotto ad uno di quegli aggeggi forniti di obiettivo, ed era sicuro di essere osservato, che qualcuno in quel momento stesse lì ad interpretare quelle sue azioni, quei suoi movimenti. In fondo non aveva niente da nascondere, poteva anche permettersi di fare tutto quello che reputava giusto. Difatti si guardava attorno, scrutava tutti gli angoli, perlustrava chiunque per un qualsiasi motivo lo stesse fissando, come sentendo su di sé quello sguardo puntato pronto a registrarne i movimenti. Poi sorrideva, come chi sa di non avere alcun segreto, ed era contento che ci fosse chi annotava il suo sorriso, il suo abito grigio, la sua espressione anonima.
Si sentiva più importante, ogni volta che sapeva di essere ripreso, come se il suo camminare, la sua passeggiata ordinaria, i suoi modi di fare, assumessero un aspetto nuovo, un significato ulteriore, un’importanza che difficilmente avrebbero avuto in altro caso. Quando lui in seguito smise di andare a passeggiare in quel quartiere, un po’ se ne dispiacque, ma non poteva ormai fare altrimenti: le registrazioni di tutte quelle telecamere dovevano essere piene di ogni sua immagine. Si era fatto riprendere per mesi, vestito in tutte le maniere possibili, con le espressioni più diverse. Adesso aveva perso il gusto e il senso di quel suo farsi osservare, e forse, aveva pensato, la mancanza della sua persona sopra ai marciapiedi, da parte di chi era addetto al controllo, sarebbe senz’altro stata notata, forse addirittura più della presenza; e questo era l’aspetto formidabile, mancava lui a qualcuno, lui che non era niente, non si era mai sentito niente.


            Bruno Magnolfi

lunedì 5 aprile 2010

Il tramonto di tutti i pensieri (alla fine del giorno).

            

            Forse non sarebbe stato affatto necessario ritrovarsi proprio lì, con quel vento e quel freddo che spazzava la campagna umida e sgradevole, pensava qualcuno tra quelli che camminando lungo il sentiero erano rimasti più indietro. Ma il Presidente dell’Associazione aveva parlato in modo deciso: solo in caso di nuvole e di cielo coperto era possibile rinviare la data per la loro riunione, altrimenti era doveroso rispettare l’impegno che si erano assunti quando avevano aderito alla congrega “della fine del giorno”. Così camminavano tutti in silenzio, durante quel tardo pomeriggio, nella prospettiva di raggiungere quella radura accanto ai resti di una casa abbandonata da chissà quante decine di anni, e chi aveva fatto il sopralluogo sosteneva che fosse un luogo magnifico, incantato, assolutamente degno di un’ora di cammino dalla strada dove avevano lasciato le auto.
Ognuno si era portato il necessario per sé dentro a una borsa, uno zaino, una tracolla, e ci aveva stipato tutto quanto poteva servire: una coperta, qualcosa da mangiare o da bere, una lampada portatile. Si camminava in silenzio, con gli occhi bassi, immedesimati in quel momento che sarebbe sopraggiunto tra poco meno di un’ora. Nonostante la fatica tutti erano già concentrati su quell’occasione speciale: sapevano dell’estasi in cui sarebbero caduti, conoscevano il rituale a cui sottoporsi nel momento esatto in cui il sole avrebbe abbandonato il cielo visibile. Si trattava di lasciare completamente ogni pensiero, e di immedesimarsi in quella variazione importante, vivendola come un distacco, un abbandono che in genere lasciava tutti senza parole.
Naturalmente quel gruppo era costituito da membri di diverso livello, chi si sentiva un veterano di quelle riunioni, chi invece era soltanto le prime volte che vi partecipava. Tra questi c’era chi si mostrava soprattutto curioso di provare quei sentimenti che gli altri con tanta partecipazione sapevano descrivere, ma oltre a questo restava dubbioso circa la vera soddisfazione da trarre da quelle riunioni. Poi gli alberi lasciarono spazio ad una zona più aperta, al fondo della quale si vedevano davvero i resti di una casa di pietre per metà diroccata. Tutti si sedettero a terra nel punto migliore, qualcuno cercò di tenersi vicino a chi conosceva, altri si misero da parte in modo da stare maggiormente isolati.
Il sole era rosso, il Presidente disse poche parole per indurre allo stato d’animo giusto, poi il resto fu preda della natura. Era come pensare intensamente che quello era l’ultimo atto, il momento finale di tutte le cose, e invece di provarne paura, si decideva di viverlo assieme, come per un collettivo inchinarsi di fronte a un momento importante, il più importante di tutti, quello che definiva ciò che ognuno era stato, ciò che ognuno era riuscito a pensare. Il sole abbandonava quella porzione di cielo, era quello il momento supremo, come un’allegoria della fine del mondo, e il pensiero di ciascuno se ne andava con lui, lasciando i partecipanti vuoti, spossati, privi di tutto, forse persino della capacità di immaginare un giorno seguente simile a quello.

            Bruno Magnolfi

domenica 4 aprile 2010

Una pista che porta lontano.

            

I pomeriggi della domenica erano quelli che Francesco detestava di più. Mangiava gli zucchini ripieni, la pasta col sugo, una fetta o due di ciambella ancora tiepida del forno. Il babbo e la mamma parlavano, parlavano sempre, e gli dicevano di prenderne ancora se non voleva rimanere così mingherlino, ma lui masticava con calma, lasciava che loro finissero prima di lui. Quei loro discorsi non lo interessavano, piuttosto osservava i bicchieri, la tovaglia, le briciole di pane cadute.
Poi si metteva lì in piedi, una volta terminato anche lui, in fondo alla medesima stanza, a guardare con apparenza distratta fuori da quella finestra, imbambolato nella solita immagine di luce, di strada e di case oltre quei vetri, come proiettandosi fuori, immaginando qualcosa in quelle chiazze di cielo, di asfalto, di muro, che non avrebbe mai saputo descrivere, ma che erano lì, come una carezza sul viso.
La mamma, mentre sparecchiava la tavola, inevitabilmente gli chiedeva se avesse fatto già tutti i compiti di scuola, lui spesso rispondeva con un’affermazione sfuggente, annoiata, come se la sua solitudine, con quella domanda, fosse stata violata. Gli piaceva quel brusio di televisione che sfiorava la sua fantasia, gli piaceva sapere che era presto, che aveva a disposizione un sacco di tempo per decidere cosa inventarsi. Ma non riusciva a decidersi a niente: sapeva perfettamente dove ritrovarsi con i suoi amici, che cosa avrebbero fatto quando fossero stati assieme in due o in tre, ma c’era un gusto incredibile nel ritardare l’inizio vero di quel pomeriggio, lasciare che tutto sfumasse in qualcosa che non riusciva neppure a comprendere.
Poi Francesco chiedeva distrattamente se poteva uscire di casa, quasi cercando un impedimento, un qualsiasi problema, ma qualche volta lasciava che suo padre, mentre aiutava la mamma, gli chiedesse come mai non fosse già uscito. Era in quei pochi momenti che lui si sentiva già altrove, come se i suoi desideri si fossero già proiettati da qualche parte, e lui rallentasse quel tempo per gustarne ancora con calma le tante possibilità che ancora immaginava di avere. Prendeva la sua giacca, con modi svogliati, chiudeva la porta dietro di sé, si incamminava scendendo le scale così lentamente da riconoscere uno per uno i gradini di marmo, con le loro venature irrazionali e più scure, quasi seguendo ancora una pista che forse lo avrebbe portato lontano da tutto.
C’era un sottile filo di angoscia in quel suo incedere trasognato, come un andare a scontrarsi con qualcosa ormai inevitabile. Era un fatto nervoso, aveva detto il medico di famiglia, quel mal di stomaco che a volte sentiva Francesco in quei pomeriggi della domenica. Non era un vero problema. Infine socchiudeva il portone ed era già lì, su quel marciapiede. La strada periferica in quei pomeriggi era quasi sempre deserta, e Francesco qualche volta si sedeva sopra un gradino poco più avanti. Tra poco sarebbero arrivati i suoi amici, si sarebbero salutati, avrebbero parlato delle solite cose e poi in qualche modo avrebbero fatto passare anche quel pomeriggio, ma lui sapeva da subito che avrebbe perso qualcosa: sarebbe stato con gli altri, insieme agli altri, avrebbe fatto quello che facevano loro, tutto ciò che la loro età richiedeva, ma la sua solitudine sarebbe stata inevitabilmente tradita.

            Bruno Magnolfi

sabato 3 aprile 2010

Di là dal muro.

            

            La luce dell’alba filtra nella stanza spandendosi in un colore azzurrino innaturale. La notte è scivolata via come sempre, accompagnata nel suo viaggio ordinario dai tanti piccoli rumori lontani e incomprensibili fuori dalle finestre ferrate. Sono già sveglio nonostante la forte dose di sonnifero che il mio custode mi ha fatto ingollare ieri sera. Qua dentro tutto sembra fatto apposta affinché ogni notte scorra via senza tanti problemi. Tra poco comunque inizierà la confusione di ogni giorno, gli urli insensati di qualcuno, le sedie rovesciate, i richiami a voce alta dei custodi. A volte loro dicono che è meglio se i matti scaricano la loro agitazione durante la giornata. Io li chiamo così gli infermieri del reparto, come gli agenti di custodia delle galere, perché alla fine non ci trovo molta differenza.
Siamo tutti divisi a categorie: ci sono gli agitati e i tranquilli, a diversi gradi. Io sono considerato uno dei tranquilli, e generalmente vengo lasciato fare. Per questo sono riuscito sempre a girare in lungo e in largo per tutta la clinica, e nessuno mi ha mai troppo controllato. Davanti al reparto c’è un giardino dove i custodi piazzano tutti i matti a godersi il sole. Intorno al giardino c’è un muro alto: da diverso tempo mi sono messo in testa di vedere cosa c’è dall’altra parte, e negli ultimi giorni ho deciso che lo devo scavalcare.
Ho iniziato a pensarci per tempo, come tutte le cose che desidero far bene, ed ho predisposto le cose con tutta la calma necessaria. C’è un punto del muro che rimane dietro un albero, coperto alla vista. Ho piazzato proprio lì una sedia, una di quelle che stazionano sempre sparse nel giardino, e sopra conto di metterci all’ultimo momento qualche libro, per ottenere un piano ancora più alto. Con i piedi sopra la sedia riesco a toccare la cima del muro, ho fatto già la prova qualche giorno fa. Devo solo attendere il momento più opportuno, quando nessuno dei custodi si trova nel giardino, e magari nessuno degli idioti al sole sta lì ad osservarmi.
Non so cosa ci sia di là dal muro, però so che c’è vita, sento i rumori della strada, sono sicuro che riuscirò a scoprire qualcosa di importante. Non sono sicuro di voler davvero andare via da qui, però sento dentro di me una curiosità irresistibile. Per tanto tempo ho camminato lungo il muro, ne ho accarezzato la superficie, mi sono immedesimato nelle sue pietre intonacate e ormai screpolate dal tempo e dall’indifferenza. Adesso ho voglia di scavalcarlo questo muro, perché tutto qui è monotono: orari stabiliti, procedure collaudate, comportamenti standard. Però mi sono anche affezionato a lui, a questo muro, e in fondo non so neppure bene dove potrei andare una volta che starò con i piedi a terra dalla parte opposta, ma la cosa di cui avrò maggior piacere è vedere l’altra faccia del muro, quella della gente libera.
Potrei chiedere di vederlo ad uno dei custodi, l’esterno del muro della clinica, e forse il direttore darebbe il permesso per andare a farci un giro. Ma a me non piacerebbe: ho bisogno di presentarmi a quel muro e fargli capire che sono io, che sono libero, che lo sto guardando da persona, non da ammalato come gli idioti che rimangono qui dentro. Gli voglio bene a quel muro, lo sento come una parte di me. Il dottore una delle ultime volte ha detto che io sono freddo, non mi interesso di nessuno: però io non gli ho detto del muro e di quanto ci tenga, e lui non ha capito niente.
Poi, all’improvviso, alla fine della mattinata un matto dà fuori di testa, e i custodi corrono ad evitare guai grossi. Capisco che è quello il momento, tutti sono occupati, nessuno bada a me. Salgo su, mi sorreggo con la mano, una bella spinta e sono sopra al muro, coperto da quell’albero frondoso. Velocemente lascio scivolare i piedi dall’altra parte, e con un salto cado a terra. Ci sono, nessuno mi ha notato, ce l’ho fatta. Mi guardo attorno velocemente, e in un attimo, come dentro a un’istantanea sgradevole, mi appare tutto brutto. Sono sopra al marciapiede, davanti c’è la strada piena di veicoli, mi chiedo dove posso mai andare adesso che sono qui, in mezzo a questa confusione. Tutto è disgustoso, non riesco a immaginare neppure come muovermi, il traffico mi paralizza, mi sembrano tutti più pazzi di quelli che stanno nella clinica.
Poi, dopo un primo momento di apprensione, mi volto verso il muro: non è possibile, mi pare un incubo, all’improvviso mi sembra che tutto quello che ho fatto e in cui ho sperato sia stato un fallimento, come tutto quanto dentro alla mia vita. Cado a terra in preda al panico, non riuscirò mai a muovermi da qui, a risollevarmi da questa assurda situazione: il muro è uguale, è identico da questa parte, lo stesso intonaco screpolato, lo stesso colore, proprio lo stesso, il medesimo di quello che è all’interno. Piango, batto i pugni sulle pietre, spero solo che vengano a riprendermi, presto, per favore, e che mi facciano ingollare un po’ di quel loro sonnifero: voglio dormire, profondamente, dimenticare in una sola notte tutto questo.


            Bruno Magnolfi