venerdì 30 dicembre 2016

Schiera di parte.

            

Mio padre sul cantiere è sempre inflessibile. Io al contrario non faccio mai il duro con nessuno: sul lavoro ci vado quando posso, ed in genere mi faccio vedere giusto per controllare che tutto proceda secondo il progetto generale, e che le norme di massima siano rispettate dagli operai e dai vari subappaltatori. Lui no; lui si fa vedere spuntando fuori all’improvviso, ed è come se buttasse tonnellate d'acqua su tutto quanto, fino a riempire la grande vasca, per cui chi sa nuotare, oppure si arrangia in qualche modo, riesce alla fine a mantenersi a galla, ma tutti gli altri inevitabilmente precipitano sul fondo, con la pancia gonfia e gli occhi sgranati dal terrore.
Ho sempre paura quando sto con lui; paura che se la prenda anche con me in quelle occasioni, magari per come ho trattato alcune cose, o come ho gestito certe lavorazioni, o per come mi riferisco direttamente ai lavoranti; così quando c’è mio padre da queste parti, se posso io resto in ufficio, oppure me ne vado in giro per conto mio con qualche scusa generalmente più che plausibile. Perciò, quando gli operai mi vedono arrivare sono sempre un po’ rilassati: sanno che non sto arrivando insieme con mio padre, e quindi mi salutano, alzano la mano come per un gesto di pace, sorridono, mi trattano con confidenza. Non mi piace, potrei anche innervosirmi per questo, anche se poi non lo faccio, perché vorrei essere preso maggiormente in considerazione, anche se alla fine penso non si può avere proprio tutto, ed è così che poco per volta lascio correre, e se nessuno ha timore dei miei modi, alla fine vorrà dire che non ha poi molta importanza.
Poi un caposquadra mi ferma: ingegnere, mi dice, i ferraioli nelle armature di questi pilastri hanno tirato un po' via, ma tanto nel pomeriggio si faranno le gettate e così non si vedrà più un bel niente e tutto sarà a posto. Sorride, io sorrido a mia volta, mi viene subito la voglia prepotente che tutto sia finito, prima che arrivi mio padre, e che io possa andarmene da lì senza vederlo, perciò annuisco, mi fido di questo caposquadra, andrà tutto bene, sono sicuro non ci saranno dei problemi. Oggi mio padre penso non venga, gli dico, ma subito mi pento di avere detto cosi: si può fare quasi come si vuole, riprendo con ironia, ma oramai mi rendo conto di aver detto qualcosa di profondamente sbagliato. Difatti quello mi guarda con serietà, ma poi prende le mie parole proprio sul serio, perciò ride come senza motivo, e mi tocca anche il braccio, a dimostrazione che basta un gesto e una consapevolezza per sentirsi esattamente dalla stessa parte.
Vorrei non essermi fatto vedere sul cantiere, vorrei adesso avere l'autorità per controllare minuziosamente tutte le armature, vorrei che tutto scorresse come sull'olio, senza dare alcun problema, e forse alla fine mi piacerebbe anche che mio padre fosse qui, a preoccuparsi lui di tutte queste cose. Mi volto, mi pare di non aver compreso qualcosa, ma gli operai invece hanno capito perfettamente che oggi lui non verrà sul cantiere, e battono la fiacca, si muovono lentamente, fanno il minimo di ciò che dovrebbero combinare. Mi assento un minuto, giro sul retro, e poi alla fine telefono a mio padre. Quando arriva io me ne sto andando, gli operai mi guardano da lontano. Forse mi reputano un traditore, uno che fa il doppio gioco, e questo sinceramente mi dispiace. Però non potrei essere quello che sono, se non fossi parte di una squadra schierata.


Bruno Magnolfi

lunedì 26 dicembre 2016

Cena indispensabile.

            

Lei appare triste, specialmente in giornate come questa; lui invece no, ma forse soltanto perché riesce a fingere meglio. Le dice: dai, usciamo, si fa un giro a vedere chi c'è lungo la strada, e magari ci fermiamo a prendere un caffè. Così escono e trascorrono il pomeriggio in questo modo. Quando tornano indietro la casa è sempre la medesima, ed un certo grigiore, intorno alle lampade dell’ingresso che si accendono al loro rientro, sembra creato apposta per rendere tutto quasi insopportabile.
Qualche volta vorrei andarmene, fa lei quasi sottovoce; poi si mette a sistemare qualcosa di poco impegnativo, senza posare gli occhi su niente di particolare. Lui invece la guarda, sorride forzatamente, poi dice che non è il caso di esagerare se anche questo non sembra il periodo migliore della loro vita. Accende la radio, forse per riempire un vuoto colmo di silenzio, e infine si siede sulla sua poltrona, nell’attesa che lei lo raggiunga e gli dica ancora qualcosa intorno alle parole pronunciate poco prima.
Invece non avviene niente: lui prosegue a starsene seduto, lei gira per la cucina sistemando delle cose che probabilmente potrebbero preludere alla cena. Così lui si alza e la raggiunge, proprio nello stesso momento in cui lei esce dalla stanza per andare in bagno. Lui si accorge che sul tavolo non è stato predisposto niente, così apre il frigorifero e controlla cosa sia possibile mettere ai fornelli. Ma non fa niente, non ha nessuna idea particolare, e dopo qualche minuto torna di là, sedendosi nella stessa poltrona dove stava prima.
Apre una rivista, la sfoglia, ascolta una musichetta che gli ricorda piacevolmente qualche cosa, e intanto attende che lei si ripresenti, che lo abbracci da dietro, come fa sempre. Invece, quando lei torna, va diretta in camera da letto, e quando poi apre la porta mostra che si è cambiata d’abito, e indossando sopra tutto la sua giacca pesante, dice semplicemente: esco; ci vediamo più tardi. Lui si alza, la raggiunge lentamente nell’ingresso, e mentre sta per chiederle qualcosa su quella sua uscita improvvisa, lei apre la porta e sparisce in fretta, senza guardare indietro.
Lui torna a sedersi: qualcosa gli è sfuggito nella comprensione di quel comportamento, così ripensa alle parole che si sono scambiati loro due nelle ultime ore, ma gli pare che niente ci sia di sbagliato o di pesante da parte propria. Attende una mezz’ora, si sente agitato, infine si piazza alla finestra, da dove è possibile tenere d’occhio la strada prospiciente. Niente accade sopra ai marciapiedi là di fronte, se non le solite cose di ogni giorno. Lei torna più tardi, quando lui ormai si sente quasi disperato. Accende le lampade all’ingresso, lo guarda mentre si sfila la giacca dalle spalle: dovremo prendere un cane, gli dice con profonda serietà. Mi piace uscire per arrivare a piedi fino ai giardini, per poi starmene lì, a girare tra le aiuole fino a quando non mi sento stanca: non sarà il massimo della vita, però mi fa sentire libera, almeno per qualche minuto; lontana dal grigiore di sempre, da queste stanze senza più un briciolo d’aria fresca.
Lui la guarda, annuisce, infine va in cucina per evitare di appesantire ulteriormente il clima; si potrebbero cucinare degli spaghetti per stasera, le dice senza grande convinzione. Va bene, fa lei, lascia tutto sul tavolo, che ci penso io a preparare qualcosa per la nostra cena.


Bruno Magnolfi  

sabato 24 dicembre 2016

Aspirazioni.



Non so, forse non è niente. Però c’è questa mano, dico proprio mentre me la sto guardando, stendendola nell’aria. Mi fa male, tutto qua, non la posso muovere come vorrei, e perciò la tengo il più possibile in tasca; ma siccome provo una certa uggia dal polso fino alla punta delle dita, mentre cammino con il mio passo lento, non posso fare a meno di pensarci continuamente, di identificarmi nella mia mano destra, fino ad immaginare di calarmi tutto quanto per intero dentro alla tasca, proprio insieme alla mia mano, e stare lì fermo, raccolto, chiuso nel caldo, ad aspettare forse qualche buona novità, magari che all’improvviso riesca a passare semplicemente questo antipatico dolore.
Il punto è che non riesco a dimenticarmi mai di lei, della mia mano dico, e così convivo col dolore e con la sofferenza. Potresti andartene da un dottore, mi dice un tipo che conosco appena. Potresti fartela visitare da qualcuno che davvero se ne intende, mi fa. Io guardo dall'altra parte della strada, proprio per non dargli alcuna importanza, anzi per sminuire quelle sue parole che quasi non vorrei sentire. C'è la possibilità che qualcuno faccia la diagnosi di un male irreversibile, penso, o comunque qualcosa di grave che mi imponga scelte e cambiamenti, così è meglio lasciare tutto come sta, piuttosto che affrontare un crollo psicologico o qualcosa di quel genere.
La tengo ferma, dico a questo tizio, mi occupo di tutto con quest'altra, e le cose vanno bene nella stessa medesima maniera. Questo caldo della mia tasca poi, a qualcosa riuscirà ad essere utile, ed io penso proprio che poco per volta le cose si rimetteranno a posto, come se niente fosse stato, e tutto sarà di nuovo nella stessa esatta maniera di poco tempo fa. Come vuoi tu, fa questo tipo che inizia a starmi sulle scatole, però sentirsi sminuiti nei propri movimenti, secondo me non è una bella cosa. Lo lascio dire, pesco dalla tasca, quella della mano sinistra, una cicca che avevo messo da parte proprio per questo pomeriggio, e senza mai estrarre la mano malata dal suo nido, riesco ad accenderla ed a tirare qualche boccata di fumo. L’altro mi guarda, io continuo a camminare, la mia espressione è di tranquillità, se non fosse per questo maledetto sottile dolore che ancora avverto.
Quello però insiste, dice che le mani sono la parte principale di una persona, e che non è una bella cosa lasciare che un semplice dolore renda inservibile una parte del proprio corpo. Lo lascio dire, mi disinteresso delle sue parole, e intanto vedo qualcuno che conosco dalla parte opposta della strada, così decido di attraversare di colpo, senza preavviso, lasciando questo tizio alle sue farneticazioni. Quello mi segue per un attimo, dice che non va bene comportarsi in questo modo, ed anche altre cose di quel genere, ma io oramai non lo ascolto più, e mi rivolgo a quest’altro sopra al marciapiede salutandolo, mentre l’altro finalmente se ne va. Lui mi dà la mano ed io gli porgo la sinistra, scusandomi che ho l’arto impedito da un dolore forte e inusuale.
Si va avanti a camminare parlando per qualche attimo del più e del meno, ma quello subito mi dice che gli dispiace che io sia menomato, e che spera trovino presto una cura adeguata per rimettermi a posto. Sorvolo su queste parole, e gli dico subito che a me piace passeggiare lungo quella strada sempre affollata di gente. Lui fa cenno di si, ma poi riprende il discorso della mia mano, ed allora penso che sia diventata un’abitudine quella di parlare delle cose che non vanno. Invento subito una scusa, gli dico che ho da fare, e in questo modo me ne vo per conto mio. Giro ancora un po’ lungo la strada, ma ormai ho il terrore di incontrare altre persone che conosco, così mi copro la faccia con la mano sinistra, e appena posso volto per una via meno frequentata. Non si riesce mai a starsene tranquilli, penso; non ho bisogno di consigli o suggerimenti: convivo col mio male, vorrei che gli altri non gli dessero alcun peso, insomma che si disinteressassero del tutto delle mie pene.


Bruno Magnolfi

mercoledì 21 dicembre 2016

Incontro furtivo.

           
            Guardo avanti in questi giorni, dice Leo con serietà ma senza dare troppa enfasi alle sue parole pronunciate comunque a mezza voce. Prima o dopo dovrai fermarti, dice lei in un sussurro, dopo che ha accettato di incontrarlo, anche soltanto per una manciata di minuti, in quel locale tranquillo, fuori mano, dove nessuno evidentemente la conosce. E intanto sono già sulle tue tracce, dice ancora lei; prima o dopo dovrai mostrarti, non puoi stare sempre con la faccia coperta dagli occhiali scuri. Ti tradirai: basta solo una telefonata, qualche curioso che si pone una domanda di troppo su di te, o che magari fa controllare la tua vera identità, prende qualche informazione circa il tuo passato, concedendosi un’incursione veloce in qualcuno dei segreti che nascondi. Tutto sarà perduto in un momento, proprio mentre stai forse cercando quel briciolo di normalità che adesso ti manca, comprando qualcosa da mangiare, o camminando semplicemente in una strada.
            Va bene, fa lui, hai reso l’idea; però mi sembra adesso di dover fare ancora mille cose, di aver bisogno di sviluppare appieno i miei pensieri, soprattutto le mie idee; da quando mi trovo in questa situazione da braccato, pare che tutte le mie riflessioni girino molto più velocemente dentro la mia testa, e che tutto per me si faccia più a portata di mano, quasi facile, spesso almeno fattibile. Mi pare quasi di poter affrontare qualsiasi cosa, di riuscire ad esprimere con i miei semplici sotterfugi, un segnale forte per me e per tutti quanti, tanto da farmi sentire leale, battagliero, consapevole persino dei miei limiti. Certo Leo, dice la ragazza, ma è proprio questa tua sensazione di grandezza e di imprendibilità che probabilmente ti sarà fatale. E’ normale immaginarsi che le cose per te si faranno negative da un momento all’altro, perché sarà così, ed improvvisamente sarà anche tardi, e non potrai proprio farci più niente.
            Lo so, fa lui, ma in ogni caso, per quanto assurdo sia, mi sento bene in questa fase: è come se finalmente avessi trovato una dimensione particolarmente giusta per me, quella che sapevo esserci da qualche parte, ma che fino ad ora non avevo mai tentato; devo guardarmi attorno, questo è chiaro, stare sempre nascosto e sulla difensiva, cercare continuamente coi miei sensi dilatati delle vie di fuga; ma questo non essere esattamente calato nel sistema mi fa sentire a posto, finalmente io, come effettivamente sono sempre stato. Non può durare molto, lo capisco benissimo, ma in ogni caso devo andare avanti in questo modo, perché se non percorressi fino in fondo questa strada, rinnegherei una parte di me, che adesso grida per stare qui al mio passo.
Qualcuno lo guarda dall'altra parte del locale, lei furtivamente prende dei soldi che aveva preparato, e glieli passa rapidamente sopra al piano del tavolo, nascosti dentro un libro. Leo sorride, è una situazione che, per quanto assurda sia, quasi gli piace, come se finalmente avesse trovato la giusta lotta da portare avanti, contro un nemico diffuso e inafferrabile, che lo fa sentire solo ma importante. Scatta un meccanismo, da qualche parte, lei si volta indietro, avviene qualche cosa in fondo a quel locale, come un colpo d’aria che d’improvviso facesse volare le tovagliette via dai tavoli, e mettesse tutti quanti i presenti di fronte ad una realtà non calcolata. Leo è sparito; quando lei si volta verso di lui, lui non c’è più, volatilizzato insieme al libro, e sopra al tavolo è rimasta solamente un’ombra, un’orma di qualcosa che non sarà più nemmeno tanto facile incontrare.


Bruno Magnolfi

lunedì 19 dicembre 2016

Distanze apprezzabili.

          
            E’ proprio lei, dicono alcuni senza aggiungere altro. Dentro al supermercato, tra gli scaffali, in due o tre poi si voltano con curiosità al suo passaggio, ed uno dice subito a bassa voce, con espressione sincera ma con un tono vagamente canzonatorio, che si stenta perfino a crederci. La donna col suo carrello prosegue impassibile, anche se si è accorta benissimo di attrarre per qualche motivo l’interesse su di sé. Le attività del giorno proseguono per alcuni minuti senza troppe incertezze, fino a quando qualcuno, casualmente accanto a lei, sorride al suo indirizzo, anche in modo vagamente sforzato, come a mostrare in una certa evidenza che forse al suo posto ci sarebbe da sentirsi un po’ in imbarazzo. Lei si ferma, lo squadra, gli concede appena un secondo del suo tempo, forse due, poi riprende a camminare con piena normalità.
            Quando esce è da sola dentro al parcheggio subito di fronte; carica sulla sua auto le borse della spesa, e poi sistema il carrello nella rastrelliera, infine però chiude la macchina, e torna sui suoi passi, con andatura calma, fino alle porte scorrevoli del supermercato. Adesso le pare non ci sia più nessuno delle persone che la tenevano d’occhio poco prima, ma lei si accorge come al loro posto una signora, dall’interno delle vetrate, si sia voltata proprio per osservarla, come se già si aspettasse di vederla là fuori. Lei sostiene quello sguardo, ma quella subito mostra forzata indifferenza, pur iniziando a parlottare di qualcosa con le persone che le stanno vicino.
Lei rientra dentro, ed una cassiera sembra subito la guardi, così scorre lungo il corridoio nell'attesa di affrontare la prima persona che, esattamente come poco fa, mostri dipinta sopra il viso quell'espressione giudicante che ha notato in tutti gli altri. Un ragazzo ride mentre si muove rapidamente e quasi di fretta vicino a lei, e lei lo ferma, senza incertezze, prendendolo per un braccio con la mano, senza neanche stringere, ma con un gesto più che eloquente. Quello si ferma, subito si rannuvola, assume di colpo un'espressione seria, quasi preoccupata. Cosa sai di me, gli chiede lei, guardandolo negli occhi con estrema decisione. Non so, fa lui, però dicono tutti che sei una strega, o una donna senza morale, forse una persona completamente diversa da noi; ma a me non importa, lo giuro, mi diverto così, a dare retta a chi ha soltanto voglia di chiacchierare, e dopo basta, non so altro. Lei lo lascia, senza smettere di guardarlo attentamente. Però, dice ancora lui, forse non c’è niente di vero in quanto dicono, non saprei proprio giudicare. Comunque a me in fondo non interessa niente di tutta questa storia.
Lei si volta mentre il ragazzo se ne va, qualcuno la sta ancora osservando, ma non è possibile fare nulla, qualsiasi cosa avvalorerebbe probabilmente quelle dicerie, e poi lei si metterebbe in una luce ridicola dando peso a cose di quel genere. Così esce, mentre qualcuno continua ad osservarla con uno sguardo nascosto. Dovrei smettere di frequentare questo posto, e probabilmente sarebbe la cosa più sensata da fare, ma così sarei esattamente la persona che vogliono dipingere; perciò mi comporterò esattamente come sempre ho fatto, in modo da non dare alcun seguito a quanto viene millantato. E poi che cosa importa: chi vive appresso a cose del genere, con certezza è qualcuno estremamente distante da ogni mio pensiero.

Bruno Magnolfi 


giovedì 15 dicembre 2016

Genesi del muro.

           
            Ho visto scritto sopra al muro il mio destino. Per questo ho subito voltato lo sguardo verso gli alberi, lungo i giardinetti desolati, al margine di questa piazza, dove le persone spesso si ritrovano, e spesso parlano tra loro, come se soltanto questo fosse il compito fondamentale di tutti i cittadini. Quegli alberi sembrano patiti, i rami rinsecchiti, le foglie parzialmente smunte, e le persone che stanno sempre da queste parti, anche se fingono di non accorgersene mai, sono virtualmente colpevoli di quanto è già accaduto, come se adesso tutto l’attuale panorama che è possibile osservare, fosse oramai un elemento sostanzialmente invariabile, quello e basta. Sorrido: forse va bene, non c’è problema, anche se alla fine questa è soltanto la piazza del mio paese, un agglomerato di case a cui non sono neppure troppo attaccato sentimentalmente.
            Le pietre stanno ferme, la loro superficie è fredda e immobile, cammino rasentandole, e intanto penso che non ci sia altra possibilità se non ignorare il messaggio di chi ha voluto porre proprio qui la sua firma quasi indelebile. Mi avvicina un ragazzo, dice che le giornate sono corte, fa freddo, che si sta bene soltanto in posti riscaldati, a scambiarsi le opinioni davanti ad un bicchiere, se si toglie queste due o tre ore di sole, magari accanto al muro che chiude al vento e alla temperatura rigida di questo periodo. C’è una scritta, dico: qualcosa che  indica forse cosa ci sia da fare in questi giorni, dove ogni contrapposizione blocca la volontà, lasciando campo soltanto alle mediazioni. Poi seguo il ragazzo, entriamo insieme nel caffè che si apre sulla piazza, e tutto improvvisamente sembra allegro, le persone si salutano, pare si snodi come una ritrovata civiltà.
Mi trattengo poco, in fondo credo di non avere quasi niente da spartire con tutti questi personaggi, se non la voglia di nuovo, di cambiamento, commisurata con il bisogno profondo che tutto resti esattamente tale e quale. Torno al muro, da solo, ma quello non si abbassa a dire nient’altro, lascia che tutti gli argomenti trattati riescano ad equipararsi, in modo da lasciarli ad una propria soluzione, e tutti coloro che abbiano la voglia di passare proprio da queste parti, restino sostanzialmente indifferenti a quanto questi sassi paiono suggerire. 
Torno indietro, costeggio il muro quanto più possibile, proprio alla ricerca di sentire ancora la sua voce, poi attraverso la strada, e vado incontro alle mie cose di sempre, quasi senza pensieri. Incontro il ragazzo di prima, dice adesso che neanche lui si trova bene in questo pozzo di luoghi comuni, circondato spesso da mancanze, più che da proposte e affermazioni. Percorriamo assieme uno stesso pezzo di strada, poi ognuno volta per la propria direzione, e nel saluto frettoloso che adesso ci scambiamo c'è la tristezza di non riuscire ad incidere affatto sulla realtà che ci circonda, quella piccola, appena esterna alla nostra privata quotidianità. Rientro in casa pensando ancora al muro: in fondo lo odio, rifletto; e per questo credo che per nessun motivo tornerò a considerarlo come certe volte ho fatto: un simbolo silenzioso delle mie giornate.


Bruno Magnolfi

lunedì 12 dicembre 2016

Attesa estenuante.

            
            Sono a terra, dice lei. Edo resta fermo a guardarla appena per un secondo, giusto un attimo prima di cambiare canale, poi però gli suona il telefono. Niente di speciale, una raccomandazione per il lavoro di domani da un suo collega, così con una scusa riattacca abbastanza velocemente, sentendosi a disagio, e poi la segue con calma e gli occhi bassi fino in cucina. Mi pare di aver perso la bussola, gli spiega lei semplicemente, senza neppure voltarsi. Lui resta in silenzio, gli pare assolutamente egoistico abbracciarla adesso, o farla sentire in qualche modo protetta con dei gesti piuttosto scontati. Così si limita a continuare a guardarla, restando in silenzio, anche se con tutto se stesso e con sincerità vorrebbe essere altrove, magari a ridere con gli amici di stupide battute senza alcun impegno e che non fanno neanche troppo pensare. Invece sta lì, insieme a lei, ed adesso probabilmente deve inventarsi anche qualcosa, trovare una frase o la parola giusta che possa distogliere l’interesse della sua donna da quel tema penoso. 
            Va bene, le dice di slancio: stasera si esce, si va fuori a cena, poi anche al cinema, dove vuoi tu, possiamo invitare qualcuno dei tuoi amici, parlare di tutto quello che vuoi, e tornare a casa tardi come sempre, distrutti dalle risate e dall’esserci dimenticati di qualsiasi apprensione. No, Edo, non questa sera, fa lei. Lui vorrebbe annullare tutte quelle parole ed essere di nuovo lì, davanti alla sua televisione, a seguire un qualsiasi programma, anche senza grande interesse; ma non lo può fare, e per questo si sente a disagio, non riesce a pensare un bel niente, se non a quelle parole dette da lei, che gli provocano soltanto uno schifo naturale, tanto che non vorrebbe mai più sentirle.
            Esco, fa lei d’improvviso; devo camminare da sola e respirare un poco di aria fresca, nient’altro, non preoccuparti per me. Lui non dice niente, ne segue i movimenti ma senza riuscire a guardarla in modo diretto. Lascia che lei si metta il giubbotto, che apra la porta, gli getti un’occhiata e poi se la chiuda alle spalle, tornando dopo un attimo, una volta da solo, a riaccendere la fida televisione. Le passerà, riflette, la mia disponibilità naturalmente c'è tutta, si tratta di capire di cosa effettivamente abbia bisogno. Dopo mezz'ora lei torna, la medesima espressione di prima, va in bagno, forse a piangere un po', infine torna, Edo la segue in silenzio con gli occhi, seduto sopra al divano. Non è colpa tua, fa lei; ma io non sopporto più questo trascinarci da un giorno all'altro con i medesimi gesti, la stessa inutilità delle parole che usiamo. Lui vorrebbe spengere di nuovo la televisione, ma siccome gli parrebbe di dare troppa importanza a quegli argomenti, la lascia accesa, limitandosi ad abbassare il volume e a non guardarne lo schermo.
Devo andarmene, fa lei, almeno per un breve periodo. Ma come, pensa Edo, non dovevamo affrontare insieme le cose? Lui si alza, va in cucina e poi torna con una lattina di birra, quindi si siede sopra un bracciolo, dice soltanto che gli pare tutto vagamente assurdo. Lei lo guarda dritto dentro gli occhi: non siamo uguali, gli dice; viaggiamo con velocità differenti, forse dovremo studiare un metodo per compensarci. Edo abbassa lo sguardo, gli piacerebbe suonasse il telefono in questo momento, o almeno giungesse un messaggio, perché quel silenzio gli sembra estenuante. Come vuoi, le dice alla fine, con un groppo alla gola; tanto puoi sempre trovarmi qui, ad aspettarti.


Bruno Magnolfi 

giovedì 8 dicembre 2016

Valore intrinseco.

          

Sono qua, urlo contro la facciata posteriore del condominio, impiegando tutta la voce che riesco a trovare in fondo al mio respiro. Qualcuno subito si affaccia alla finestra, altri ancora ai terrazzini, ed in certi casi parecchi mi osservano scansando lentamente con la mano quei panni vistosi sistemati sui fili e sopra gli stendini ad asciugare. Li guardo a mia volta, immobile per alcuni lunghi momenti; quasi tutti sanno benissimo chi sono, e forse qualcuno di loro mi teme, penso, per questo è portato ad evitarmi per la maggior parte delle volte, specialmente quando passeggio per i fatti miei, lungo la strada del quartiere, scegliendo quasi sempre di tenermi inevitabilmente un po’ a distanza. Non ne sono addolorato, è evidente: per me questa gente può persino maledirmi, se proprio lo desidera, che tanto io non mi allontano facilmente da questo cortile dove tutti stanno alla finestra e possono spiarmi. Non mi conoscono, ecco il punto. Perché dovrebbero sapere che se voglio riesco a tenerli sotto scacco, nonostante tutto. Urlo in faccia a loro la verità, ecco, proprio quello che penso e anche quando ne ho voglia, e tutti in questo modo sono nel mio pugno, ed io posso fare di loro praticamente ciò che voglio.
Siete soltanto delle pecore, dico ancora ma con voce un po’ più bassa. Ormai in diversi sono già rientrati, anche se hanno ormai compreso perfettamente cosa intendo dire questa sera; e gli altri, proprio per questo, non mi concedono più molta importanza. Nel cortile sono solo, a quest’ora stanno tutti nei loro appartamenti, potrei far scoppiare una bomba, rifletto, mostrare di che pasta sono fatto, ma è già sufficiente che sappiano che sono qui, pronto, senza alcuna soggezione. Torno ad infilare le mani dentro le tasche, mi volto, c'è una ragazza che viene verso di me. Si ferma a due metri, dice: se vuoi possiamo parlare. Parlare, penso, e di che cosa? Non sono abituato, se devo dire qualcosa riesco solo a dirla urlando. Facciamo due passi insieme, mi fa: puoi spiegarmi perché c'è l'hai sempre con tutti.
Non saprei proprio cosa risponderle, penso, e tutta questa importanza mi mette soltanto un po’ a disagio. Alzo le spalle, mi volto, ma lei mi tocca un braccio, dice che è sicura che non farei mai del male ad anima viva. La lascio dire, cosa mi importa di quello che crede, sto da solo in questo cortile, anche se fosse pieno di gente. Sono qui, urlo di nuovo improvvisamente al condominio, ma adesso non si affaccia più quasi nessuno, ognuno di loro continua a mandare avanti le proprie solite sciocchezze, e alla fine si disinteressa di tutto quanto il resto. C'è un muretto lì accanto, la ragazza si siede e mi invita con un gesto a mettermi proprio li, accanto a lei. Dice subito che anche a lei non piace questo condominio, così ordinario, scontato, fatto di gente noiosa e anche un po' triste. Hai ragione, penso, ma io soprattutto li odio, perché sono tutti soltanto dei vigliacchi.
Lei dice che potremmo fissare un appuntamento, vedersi tutti i giorni proprio in quel punto, alla stessa ora, e così imparare poco per volta a conoscersi un po’ meglio. Va bene, penso, in fondo non mi costa niente, posso stare qui con lei, pensare quello che voglio, urlare se mi va, non c’è nessun problema. Allora mi saluta, dice che si chiama Silvia, abita in un appartamento al terzo piano: posso guardarti dalla mia finestra, qualche volta. Non penso sia una buona idea, rifletto, in ogni caso la lascio andare e resto fermo, sul muretto, senza idee. Poi mi alzo, le mani nelle tasche, mi volto verso il condominio: scoppierà una bomba, urlo forte scandendo bene le parole; e voi dovrete per forza fare i conti con tutto ciò che adesso fingete di ignorare. Tutto a quel punto sarà diverso, e voi dovrete accogliermi, non potrete farne a meno; ed io e Silvia saremo le persone migliori di tutto questo posto, e voi vi affaccerete alle finestre, e ci saluterete, riconoscendo il nostro valore e i nostri meriti.


Bruno Magnolfi 

sabato 3 dicembre 2016

Senza illusioni.

           
            La vedo passare praticamente ogni mezz’ora, dice lui. Così la guardo, ma non per struggimento, o per vedere una volta di più come sia fatta, oppure indagando come riesca a muoversi con i suoi abiti sempre impeccabili. L’osservo, naturalmente senza farmene accorgere, e lo faccio soltanto per cercare di comprendere, tramite quei suoi passi cadenzati lungo il nostro corridoio, che cosa mai possa pensare una come lei in quel preciso attimo in cui mi passa proprio davanti. Il mio ufficio ha grandi vetrate dalla parte del corridoio, molti impiegati vanno e vengono, hanno in mano delle carte, certe volte dei faldoni, si scambiano un saluto, una battuta, poi vanno nella stanza delle fotocopie, per poi tornare indietro. Anche lei generalmente si comporta nello stesso modo, ma il suo stile mi pare estremamente differente. E’ come se non fosse immersa veramente nel nostro luogo di lavoro, ed i suoi gesti comunque si mantenessero leggeri, quasi impalpabili, praticamente di gran lunga al di sopra di quelle pratiche polverose e noiosissime delle quali è costretta ad occuparsi.
            Subito dopo naturalmente me ne disinteresso, dice ancora lui agli amici della birreria dove si ritrovano la sera. Qualche volta la saluto, magari quando ci incontriamo lungo il corridoio, ma non sono mai stato capace di chiederle qualcosa o di intavolare un discorso in sua presenza. Mi limito a sorridere, quasi come un ebete, per poi distogliere lo sguardo e lasciarla scivolare verso i suoi impegni. Credo che i suoi pensieri siano sempre orientati un po' più avanti di quelli degli altri impiegati, come se già avesse elaborato completamente le sciocchezze quotidiane che a noi tengono impegnati, e la sua mente navigasse altrove, quasi in una diversa dimensione. So che non è particolarmente bella, ma il suo fascino, almeno ai miei occhi, è smisurato. Gli amici naturalmente lo ascoltano, e nessuno di loro si sogna di interromperlo, tanto sanno quanto conti per lui quella specie di punto di riferimento.
Forse è una donna qualsiasi, conclude lui, ma la dote principale che a me sembra di intravedere in lei ogni giorno è quella di essere, almeno durante l'orario di lavoro, un vero e proprio personaggio, un’individualità che spicca sopra tutte, a cominciare dalla sua espressione e dai suoi sguardi, sempre volti verso qualche cosa di diverso dalla quotidianità. C’è dell’assenza nei suoi modi, ed una capacità innata di essere comunque lì in quel momento, e anche di non esserci, contemporaneamente. Per questo ho fatto una scelta, dice lui agli amici; ed ho deciso di chiederle in maniera diretta e con semplicità come possa riuscire ad essere un tipo di persona di quel genere.
Così sono andato da lei, senza attendere neppure il suo passaggio nel corridoio: le ho fatto un cenno, lei mi ha osservato senza alcuna espressione, quindi si è alzata dalla sua scrivania e mi ha seguito per pochi metri, fino ad un angolo tranquillo. Sono affascinato, le ho detto; non vorrei neppure usare altre parole, che non sarebbero assolutamente appropriate. Però ho di fronte a me  senz’altro la donna più interessante che conosca. Lei allora mi ha guardato, ha sorriso leggermente, ma senza imbarazzo; poi ha abbassato gli occhi, come per spiegare che aveva qualcosa da dire, ed una pausa interminabile è trascorsa in questa maniera. Verrò trasferita, la prossima settimana, credo. Non penso in seguito ci rivedremo con facilità, però apprezzo queste parole, indicano forse qualcosa che in fondo ho sempre coltivato dentro di me: la mia non appartenenza a niente ed a nessuno. Per il resto, mi sento esattamente una donna qualsiasi, ed è inutile del resto farsi illusioni.


Bruno Magnolfi

mercoledì 30 novembre 2016

Nicchia segreta.

            

            Spesso vengo a rinchiudermi in questo stanzino dimenticato. Gli altri impiegati del palazzo vagano per i corridoi, spesso si incontrano tra loro e scambiano delle battute, così quasi sempre li trovi davanti alle macchinette del caffè posizionate ad ogni piano, a raccontarsi le loro sciocchezze di sempre, e anche a parlare dell’assurdità di essere costretti a passare l’intera mattinata prigionieri di un luogo proprio come questo, dove il lavoro fortunatamente è sempre l’ultima delle preoccupazioni di tutti. Lentamente, e senza provocare rumori, chiudo a chiave la porta quando sono già dentro, ed accendo questa lampadina fioca, in mancanza della finestra, rimanendo qui, con gli occhi mezzo chiusi, fermo, a riflettere su quanto continua a passarmi attraverso la mente.
            Sulla mia scrivania dell’ufficio ci sono rimaste anche oggi una decina di cartelle: posso mettere la firma di assenso ad ognuna in appena dieci minuti, e levarmi di torno una volta per tutte qualsiasi preoccupazione; ma questo è il lavoro di tutta la settimana, perciò devo parcellizzarlo, lasciare che decanti con calma, e che mostri ai miei superiori quanto sia difficile prendere delle vere decisioni. Certe volte sento i colleghi che parlano fuori da questa porta, mentre camminano lungo il corridoio, ma a nessuno di loro verrebbe mai in mente di cercarmi qua dentro. Generalmente rimango qua seduto per almeno un’oretta, a volte anche di più, ma che cosa importa, a me piace stare da solo, recuperare una dimensione in cui il lavoro si mantenga distante, almeno come ingrediente di una giornata come la mia, così monotona e indissolubile.
            In certi casi, una volta terminato il mio orario di lavoro, ho pensato che mi sarebbe piaciuto persino rientrare di nascosto dentro al palazzo, salire le scale fino al mio piano, e rinchiudermi di nuovo qua dentro. Ci sto bene, questo è il punto, anche se non ho fatto proprio niente per personalizzare questo luogo dimenticato da tutti. Non ne ho mai parlato con nessuno, ma fin da quando striscio il cartellino all’inizio del turno, non riesco oramai a pensare ad altro. Devo stare attento, è evidente, non posso assolutamente correre il rischio che qualcuno si accorga del mio rifugio. Ma so prendere ogni volta le mie dovute precauzioni. Quando esco, lascio sempre che mi cada qualche carta di mano, per mostrare a chi mi vede che sono impegnato in qualcosa, anche se in fondo a nessuno interessa, ed anche per evidenziare che quella porta che chiudo alle mie spalle nasconde come una tappa importante della mia giornata lavorativa.
            Stamani, come sempre, entro alla svelta là dentro, nel mio stanzino personale, e trovo subito qualcosa che non sta esattamente dove ricordavo che fosse. Mi guardo attorno, perlustro tutti gli oggetti presenti, ed un vago sentore di disagio mi prende la mente. Qualcuno ha scovato il mio rifugio, rifletto, e già solo il fatto di non essere più l'unico ad entrare in questo luogo mi provoca un'ansia notevole. Così mi trattengo là dentro anche più a lungo, e cerco di mettere in atto qualche strategia di sicurezza. Posiziono alcuni oggetti in modo da rendermi conto perfettamente se qualcuno sta usando al posto mio questo stanzino, ed alla fine stremato dall’agitazione mi decido ad uscire. Faccio appena dieci cauti passi nel corridoio, volto l'angolo, e subito un dubbio pregnante mi prende. Così torno indietro, ed appena in tempo riesco a vedere la porta del mio stanzino che si sta richiudendo. Qualcuno è entrato, non c'è alcun dubbio, attendeva proprio che io me ne andassi: è stato violato il segreto. In preda ad un capogiro mi trascino fino alla scrivania e quindi mi siedo. Dovrò prendere un lungo periodo di malattia, rifletto, non posso certo continuare così. Ed in seguito tutto sarà da ricostruire: chissà se in questo palazzo esiste un luogo simile al mio rifugio, penso; dovrò cercarlo, decido, fare dei tentativi, prendere informazioni, anche se forse l’equilibrio che ero riuscito ad ottenere in tutto questo tempo, ormai sarà perduto per sempre.


            Bruno Magnolfi

lunedì 28 novembre 2016

Perfetta comprensione.

            

            Il parrucchiere Marcello è gentile, dice Armando alla mamma; anche se la sua gentilezza in tutti questi anni da quando vado in quel suo negozio, a me non è mai rimasta troppo simpatica. Spesso lui regala intorno a sé battute di spirito, normalmente cose abbastanza scontate, a cui tutti i clienti del suo esercizio sembrano ridere quasi forzatamente, proprio per fargli piacere e nient’altro; e poi parla di continuo, non si ferma quasi mai, anche quando io e tutti gli  altri proviamo forte il desiderio di starcene un po’ più tranquilli, mentre come al solito ci ritroviamo purtroppo seduti con le nostre cose da leggere su quei sui scomodi e ordinari divanetti, ad aspettare pazientemente il nostro turno per tagliare i capelli o la barba.
            Vedi mamma, dice lui: a me già non piace il pensiero di quando Marcello inforca le forbici ed inizia a tagliarmi le ciocche; per questo sto per tutto il tempo in tensione: una parte di me, bene o male, se ne andrà a cadere per terra, continuo a riflettere, ed in seguito verrà spazzata via senza mezze misure dalla scopa di quell’aiutante di bottega, quel ragazzetto che ridendo come un ebete affronta qualunque cosa in maniera sbagliata e svogliata, senza metterci impegno. Devo, questo il punto, perché non posso lasciare che i miei capelli crescendo si riversino ancora quasi sopra le spalle, come già qualche volta è accaduto. Ma fosse per me, lo dico sul serio, lascerei che fosse soltanto la natura ad imporre la loro definitiva lunghezza. In ogni caso la giornata da me scelta per andare da Marcello è sempre una giornata oltremodo triste, un passaggio praticamente obbligato, e so perfettamente mentre percorro il tratto di strada che mi porta da lui, che non sarò affatto contento quando rifarò lo stesso percorso al contrario, qualsiasi possa essere il tipo di taglio che viene deciso.
Sto lì, quasi con rassegnazione, mamma, spiega Armando, e aspetto che le cose si compiano; e poi tocca a me, e Marcello ancora continua a parlare quasi non facesse differenza tra un cliente ed un altro. È tardi, dopo il mio turno è rimasto soltanto un anziano che pare stia lì con indifferenza, tenendo lo sguardo perso chissà verso dove, come non avesse, beato lui, alcuna preoccupazione. Io penso, dice ancora, che sarebbe bello per me potermi addormentare su questa poltrona girevole, proprio davanti allo specchio, e svegliarmi soltanto quando tutto sarà sostanzialmente finito. Ma lui invece fa: è un pezzo che non ci vediamo, mentre mi pettina la frangetta. Facciamo un taglio come quelli soliti?, mi chiede mentre già inizia a sforbiciare qualcosa. Annuisco, cerco il più possibile di stare rilassato, non vorrei mai dovergli spiegare qualcosa peraltro piuttosto difficile da dire, e in ogni caso mi sento ancora più nervoso, tanto da immobilizzarmi su questo sedile, pronto comunque a lasciarmi fare quello che a questo punto forse nessuno potrebbe limitare a quelle sue mani.
Naturalmente oggi, ad un tratto, senza che niente di particolare lo avesse annunciato, mi ha chiesto di te, sai mamma, dice ancora Armando; come fosse una domanda qualsiasi, la sfumatura di un argomento normale tra tutti quelli che affronta Marcello durante la sua intensa giornata di lavoro. Così mi sono paralizzato, come ogni volta succede, ed ho soltanto detto qualcosa senza alcuna importanza, nell’attesa che anche quel tema passasse. Lui ha continuato a tagliare, ha sforbiciato davanti e di dietro senza alcuna preoccupazione, piegandosi sulle ginocchia come fosse un artista di calibro. Poi ha tolto il telo, mi ha spazzolato fin sulle spalle, ha detto che aveva finito, ed io gli ho dato i suoi soldi, senza neppure guardarlo, fino a quando mi sono trovato con la mano sulla maniglia; e prima che lui mi dicesse come al solito di salutarti, l’ho prevenuto: ciao Marcello, gli ho detto duro, pensando intensamente che non sarei mai più tornato là dentro, in nessun caso. E lui stavolta, con ogni probabilità, ha compreso perfettamente.


Bruno Magnolfi 

venerdì 25 novembre 2016

Nessuna illusione.

          
            Sono vuoto, nonostante in apparenza tenti sempre di mostrarmi come una persona curiosa di qualunque situazione si presenti. In fondo non mi interessa proprio nulla di quanto viene spiegato da tutti continuamente; fingo regolarmente di apprezzare le novità, di starmene abbastanza aggiornato, ascoltando ogni individuo che mi parla con espressione attenta, ma in realtà vorrei soltanto sbadigliare e coricarmi sul divano di casa per non pensare più a niente. Qualcuno potrebbe appellarmi come egoista indifferente a tutto, ma dentro di me non c’è nessuna volontà precisa di tipo negativo, non provo rancore per niente e per nessuno, perché non ci sono reali scelte che abbia davvero fatto prima o dopo. Non ho passioni, tutto qua, vado avanti senza mettere impegno nelle mie azioni, scelgo sempre la via senz’altro più comoda anche per raggiungere qualche semplice obiettivo. E poi non cerco neanche le cose migliori per le mie esigenze, mi lascio galleggiare nella normalità, spesso senza muovere neppure un muscolo.
            Esco certe volte con un amico, e lui in certi casi riesce a trascinarmi persino in qualche locale, probabilmente proprio per avere il tempo di raccontarmi le sue giornate, i suoi interessi, la sua volontà. Io rido, lo ascolto, mi lascio guidare da lui nei luoghi e in mezzo ai suoi discorsi, poi quando torniamo lo ringrazio e rientro in casa esausto, riprendendo subito i miei comportamenti abituali. A che serve tutto questo, mi chiedo a volte. Forse dovrei starmene sempre nel mio appartamento, alla ricerca perenne della posizione più comoda magari per ascoltare semplicemente a basso volume qualche canzonetta che trasmette questa radio alla quale lascio riempire il silenzio. Lui invece mi telefona, dice: si potrebbe andare al cinema, o in una birreria che conosco, piena di ragazze carine. Va bene, come vuoi, gli dico. Ti aspetto qui, puoi passare a prendermi.
            Poi, in un posto dove mi sono lasciato portare, incontro questa ragazza silenziosa. Mi guarda per un attimo, e lascia con naturalezza che io le offra da bere. Le chiedo qualcosa, lei risponde, ma in seguito non mi guarda neanche più: dice soltanto le brevi frasi che servono al dialogo e poi basta. Mi rendo conto che se non proseguo a farle delle domande non riusciamo più neanche a parlare, così mi volto, guardo avanti a me, e tanto per riempire il vuoto, inizio a dirle che non ho interessi, e che di questo forse provo dispiacere. Mi sento privo di voglie, le spiego, mi sembra tutto quanto così difficile che preferisco non lottare, pur di evitare delle sconfitte impegnative. Non posso essere un esempio per nessuno, ne sono consapevole, però tutto questo è assolutamente il frutto della mia natura, che forse in certi casi mi fa anche vergognare, questo è vero, ma devo assecondarla, e così mi limito a nasconderla non parlandone mai con anima viva, e fingendo con tutti di essere come uno qualsiasi, impersonando quasi sempre ciò che gli altri desiderano vedere nella mia persona.
            Lei allora si volta, mi guarda, non sembra particolarmente impressionata dalle mie parole, però avverto che qualche cosa si è mosso dentro di lei. Beve un sorso, poi dice di andarcene da lì, che non abbiamo niente da fare in questo postaccio. Si parla, ma lei non dice quasi niente di sé, solo che è stufa di tutto, perché qualsiasi cosa abbia tentato, non è mai riuscita a farla diventare qualcosa di importante per il suo futuro. Ascolto: le dico riassumendo che siamo ambedue amareggiati da qualcosa, e ne sorrido, così facciamo un giro e poi senza enfasi alla fine ci salutiamo, che tanto appare evidente che non ci può essere un futuro per due come noi: è bene prenderne subito atto, penso, senza farci alcuna illusione.


Bruno Magnolfi

mercoledì 23 novembre 2016

Semplice antiquariato.

          
            Oltre lo schermo di questi miei poveri occhi, semplicemente protetti ma anche esaltati dalle lenti di vetro che porto sul naso, comprendo ogni giorno che c’è soltanto molta diffusa abitudine in ogni comportamento di tutti, dice Natan. Osservo i modi di fare di parecchie persone che conosco da tempo, magari mentre salutano gli altri, o quando passano davanti a questo piccolo negozio dove lavoro da sempre; e mi rendo conto ogni volta di quanto tutto l’insieme di queste piccole cose che compongono la mia giornata, sia dettato alla fine soltanto da elementi senza molta importanza, certe volte addirittura dallo stesso semplice sentire di ogni cliente che passa da qui, come se la sensazione di un individuo opportunamente immerso in un ambito, fosse il suo stesso recinto, la sua piccola oasi, spesso neanche riconoscendo lui stesso, persino in piena onestà, il proprio mostrare in questo modo l’appartenenza ad un gruppo.
            Guardo fuori dalla vetrina dei miei libri antichi, spiega Natan con calma a questo cliente. Ma non c’è nulla che riesca a trascinarmi oltre l’immagine che tento di assumere, sotto l’insegna indiscutibilmente in ebraico che mi sormonta. Entrano i soliti clienti, spesso mi dicono cose che conosco oramai alla perfezione, e che comunque mettono velocemente in sintonia le nostre conoscenze reciproche. Si sorride, si fanno cenni di assenso, poi ognuno di loro in piena libertà acquista qualcosa per la sacrosanta voglia di sentirsi più unito ai suoi simili, sullo stesso versante, fratelli anche oltre qualsiasi possibile supposizione.
            Il cliente resta freddo, non ha voglia neanche di annuire alle affermazioni del negoziante. Prosegue, pur ascoltando con attenzione, a prendere in mano i vecchi volumi ed a saggiarne la carta, l’integrità, la consistenza; alla fine farà un buon acquisto, pensa Natan, che ormai sa riconoscere a prima vista il personaggio giusto per la sua bottega di antiquariato della cultura. L’altro prende tempo, dice ad un tratto che i tempi sono molto diversi da quelli di una volta. Non c’è alcuna possibilità di sentirsi vicini, oramai, se non questo vecchio sentore di polvere, di carta ingiallita, di antico trascorso tra le mani di qualcuno a noi simile.
Natan allora gira su se stesso, fin oltre il suo vecchio scrittoio che funge da bancone di vendita, aspira l'aria quasi per incoraggiare il cliente, ma questi sembra come allontanarsi improvvisamente da quei libri, come desiderasse soltanto trattenersi in quell'ambito appena per qualche minuto, giusto per concludere la chiacchierata, e poi basta. Chissà se è stato giusto parlare proprio con questo cliente delle mie sensazioni, pensa lui con rassegnazione. Non ha alcuna importanza, riflette ancora Natan: va tutto bene se riesco ancora a comprendere quanto qualcuno sia capace di stare all'altezza di tutto questo. Che poi riesca a fargli fare un acquisto, è già un elemento superiore, e non sempre le cose vanno proprio per il verso che si desidera. Il cliente infine lo guarda, chiede di avere ancora tra le mani quel volume prezioso che ha osservato maggiormente, più di ogni altro. Decide l'acquisto, anche se il prezzo gli pare eccessivo, così tergiversa, prende ancora del tempo, chiede un pagamento da effettuare in più volte. Natan sorride, a questo punto, annuendo a tutte le richieste che vengono fatte: non c'è proprio niente di differente con tutti gli altri, pensa risoluto alla fine; siamo simili, inutile stare a negarlo.


Bruno Magnolfi

lunedì 21 novembre 2016

Potere inconsulto.

            
            Si, sto bene, dico subito a qualcuno che mi ha visto cadere così in malo modo. Mi aiutano, mi tirano su, io bofonchio qualcosa e poi mi riaggiusto la giubba sopra le spalle, dolorante ma quasi pronto persino ad affrontare qualche altro gradino scivoloso. Lentamente ma con orgoglio mi riavvio, e dopo un altro piccolo tratto di strada, entro senza indugi nel palazzo degli uffici dove mi dovevo recare stamani. Forse qualcuno tra quelli presenti alla mia caduta mi ha seguito fin qui, penso; forse vorranno chiedermi ancora se tutto vada bene davvero. Con determinazione, dal grande ingresso pieno di gente, vado risoluto a girare la maniglia di una porta qualsiasi, lungo il primo corridoio che incontro, ed entro dentro, come sapessi già perfettamente dove recarmi, ed in modo da eludere qualsiasi tentativo di coloro che sicuramente insistono ad inseguirmi.
            Una donna dietro la sua scrivania alza gli occhi dalle carte che ha di fronte, e mi chiede subito gentilmente che cosa desideri. Le faccio presente con accuratezza la mia situazione attuale, le relaziono i dettagli della mia caduta, le spiego la posizione assunta da alcuni curiosi, e tutto il resto che mentre parlo mi torna pronto alla mente, non dimenticandomi naturalmente di mostrarle un certo gonfiore sopra un ginocchio, risultato evidente della gran botta, ma lei sorride, come stessi dicendo quasi qualcosa di divertente. La guardo con una certa sorpresa, l’impiegata subito mi dice che proprio non può essermi utile, e che adesso per farle un favore dovrei proprio uscire da quell’ufficio. Assecondo perplesso la sua richiesta, ma quando apro la porta mi accorgo, anche se non riesco a riconoscere quegli individui tra gli altri, che c’è qualcuno che mi sta aspettando, come se in certi ambienti si volesse ancora sapere i dettagli del mio stato, e magari anche d’altro.
            Spiego alla donna che non posso uscire dalla sua stanza, devo obbligatoriamente restare confinato là dentro, e già che ci siamo le chiedo se può anche aiutarmi con le pratiche che devo mettere a posto. L’impiegata si alza dalla sua scrivania, mi si accosta con un’espressione incerta, osserva i miei incartamenti e infine, spingendomi leggermente ma quasi restando dietro di me, apre la porta e si guarda subito attorno, lungo quel corridoio che sto cercando di evitare. Venga con me, mi dice, l’accompagno io allo sportello dove potrà risolvere questi suoi problemi: se sta al mio fianco, nessuno le potrà dire niente. La seguo, mi fido, anche se a dire la verità avrei preferito restare almeno qualche altro minuto nella sua stanza, seduto da una parte magari, senza preoccupazioni, in un luogo così sicuro come sembra quello, assolutamente protetto.
Lei cammina veloce, io arranco cercando di starle attaccato. Lei infine si ferma, parla con qualcuno, indica qualcosa da una parte e dall'altra, lasciandomi infine comprendere, senza volerlo, che mi sta consegnando direttamente ai miei inseguitori. Perciò mi volto, noto quattro o cinque persone che vengono verso di me, mi sposto rapido da una parte, mi piego ad evitare di essere riconosciuto, ma il mio ginocchio non tiene, provo una fitta di dolore e così vado a terra. La donna ride con un’espressione da dura, mi indica come un individuo di cui farne oggetto di scherno, io sono confuso, vorrei fuggire in fretta da lì, ma lo ritengo impossibile, così resto immobile ad aspettare gli eventi. Qualcuno mi fa un’iniezione, mi portano via con una barella, mi ritrovo disteso nel letto ordinario di un vecchio ospedale, senza neppure sapere perché.

Bruno Magnolfi 


domenica 20 novembre 2016

Fuori dalla mischia.


La donna guarda avanti a sé mentre cammina lungo la grande galleria, e intanto spiega il suo punto di vista. L’altra ascolta per un po’, a tratti annuisce, e infine dice: sono d’accordo; non potevi proprio fare altro. E lei: è chiaro, non era possibile in nessuna maniera dargliela vinta senza dimostrare che il mio punto di vista era diverso, così ho finto completa indifferenza per quella sua stupida uscita. Il centro commerciale adesso è pieno di persone, fuori piove a tratti, la gente là dentro si sente come protetta e fortunata, e tutti vanno avanti e indietro senza sosta, forse nella ricerca di qualcosa, o magari per sentirsi semplicemente immersi in mezzo agli altri.
Lei si ferma, osserva con interesse un capo di abbigliamento esposto dentro la vetrina di un negozio, poi alla fine dice: mi piacerebbe però riuscire a fargliela pagare. L’altra sorride: certo, per questo non dovresti avere troppi problemi. E lei: è vero, ma non vorrei sbagliare gesto e fare soltanto la figura della vendicativa. D’accordo, fa l’altra, la sua superficialità però prevede che ti posizioni ben più in alto di quelle sue sciocchezze. In fondo io non gli chiedo molto, dice lei ricominciando a camminare. A me basta non essere trattata mai come una qualsiasi, e che si tenga conto in ogni caso della personalità che esprimo. E l’altra: sono d’accordo, un atteggiamento del genere da parte sua è ciò che di peggio possa capitare ad una come te.
La folla si muove quasi tutta in una certa direzione, e loro due si lasciano quasi sospingere dagli altri. Resta comunque una differenza di fondo tra di noi che non porterà mai niente di buono, dice lei. E l’altra: credo proprio tu debba dare una spinta a questo aspetto, in modo che se anche le cose sono destinate ad incrinarsi, almeno succeda subito, senza strascicare un rapporto indirizzato prima o poi verso la fine. Hai ragione, dice lei; siamo diversi, inutile girarci attorno, e questo almeno per me è un grosso problema. Lui non mi cerca, non mi fa sentire importante, non mi concede la fiducia che vorrei. Lascia che le scelte per noi due siano solo le mie, e poi si limita quasi sempre ad annuire, senza mostrare mai entusiasmi.
Devo lasciarlo, dice ancora lei. E l’altra: se ti senti di dover fare questa cosa, è meglio tu la faccia subito. Forse come vendetta magari è anche un po’ troppo, riprende lei. Però potrebbe darsi il caso che in seguito lui mi cercasse con maggiore impegno, e questo atteggiamento potrebbe far cambiare molte cose. Certo, dice l’altra; hai tutto da guadagnare nello smuovere le acque. Intanto loro due sono arrivate ad uno degli ingressi principali del centro commerciale, e la gente in questa zona pressa ancora di più, visto che fuori adesso piove forte. Scansiamoci, fa lei, evitiamo questa gente, basta spostarci al margine del corridoio. Poi riprendono come prima a camminare lentamente, evitando ogni poco qualcuno che viene loro incontro.
Ho deciso, dice lei alla fine. Aspetterò che lui dica qualcosa, mentre io cercherò di rimanere in silenzio il più possibile. Dovrà chiedere il mio parere prima o dopo, ed io a quel punto gli dirò quello che penso, senza falsità, senza costruzioni artificiali. Gli spiegherò che non sono il tipo di persona che si astiene dal combattere, e dargliela vinta sulle sue contraddizioni non può essere il mio stile. Brava, fa l’altra; è così che mi piace il tuo comportamento, quando tiri fuori del carattere, e riesci ad essere te stessa, senza compromessi. Già, fa lei; tutto vorrei salvo i compromessi: e in ogni caso intendo essere apprezzata per come sono veramente, e mai per come potrei essere.


Bruno Magnolfi

giovedì 17 novembre 2016

Casa mia.

           

            Senza mai preoccuparmi di niente, giro a caso per strada, quasi sempre nei dintorni della stazione degli autobus. Mi piace la gente in partenza, poi qua ci sono le pensiline, le vetture, i larghi marciapiedi disseminati di comode panche, ed io, adesso che è buio, immagino come per tutto il pomeriggio decine di persone siano transitate da queste parti, magari tutti di fretta, orologio alla mano, cercando la propria corriera con il biglietto bene in vista o dentro una tasca. Qualcuno magari ha perso per un soffio la sua coincidenza, altri si sono dimenticati qualcosa, l’intero bagaglio forse, appoggiato per un attimo a terra, mentre la testa era persa dietro altre cose. Ormai è tardi, a quest’ora poche macchine passano ancora da qui, e solo quelle a lunga percorrenza; si fermano con tutte le luci sguainate davanti, sotto questa tettoia, giusto per qualche minuto, e i passeggeri naturalmente sorridono, rassicurati da quella presenza, poi salgono su, parlano tra loro, occupano subito il posto migliore, infine si mettono comodi e rimangono fermi, tranquilli.
            Vorrei tagliare la strada ad una di queste corriere, farle scoppiare una gomma proprio mentre sta arrancando sulla salita che porta ad un paese qua attorno; oppure mettermi in mezzo, nel buio più profondo, fuoriuscito da un bosco del margine, per gridare all’autista che adesso deve fermarsi, deve lasciare almeno un momento che il motore respiri, e che tutti quanti all’interno si chiedano l’un l’altro il motivo di quella frenata, di questa sosta imprevista. Allora mi farei aprire la porta, mostrerei a tutti dei modi decisi, e infine salirei a bordo conservando con me, nonostante ogni apparenza, tutta la calma possibile; poi però mi farei sotto con il guidatore per mostrargli il mio ferro già bene in vista. Che possiamo fare, direbbero tutti, cosa mai significa questa faccenda, ma io direi con parole gentili a quell’autista, ma anche agli altri, di ingranare di nuovo la marcia, perché adesso dobbiamo andarcene assieme, navigare verso un luogo invitante, magari un posto bellissimo, un luogo che già avevo in mente da un pezzo, che sognavo ogni notte da tantissimo tempo.
            Un viaggio imprevisto, certamente, una trasferta verso qualche luogo lontano e inaspettato, dove si possa tirare un respiro con calma, dove forse vivono degli abitanti cordiali, e le case e le strade sono pulite, perché una certa tolleranza è diffusa persino nei confronti di gente identica a me. Probabilmente lascerei i passeggeri e l'autista, col loro mezzo vetrato, proprio all’imbocco di questo paese così piacevole, ma saluterei tutti, naturalmente, sorridendo a ciascuno di loro, e poi me ne andrei rasserenato per conto mio, a familiarizzare con questo bel luogo. Non c’è niente di male, penso; ho fatto fare a tutti una bel giro, ho regalato loro un imprevisto piacevole, una leggera paura subito sciolta, visto che poi alla fine, per questi viaggiatori, è ripreso tutto quanto come è sempre stato. Vorrei forse trattenere dentro di me qualcosa di questi casuali compagni di viaggio, del loro sentirsi così normali, ordinari, pronti ad essere ogni volta i medesimi, i soliti monotoni personaggi di questa divertente minuta commedia.
            Uno di questi però lo chiamerei col suo nome: amico, potrei dirgli, và pure avanti ancora per la tua strada, e fai pure le tue cose da ora in avanti come se fossero un po’ anche le mie. Ti sento vicino, è evidente, perché viaggiare rimane sempre la cosa più bella del mondo, e forse anche la più solidale, anche nel caso ci si trovi a percorrere sempre gli stessi tragitti. Anche io voglio fermarmi, prima o dopo, gli direi ancora, perché anche io provo in fondo a me stesso questa necessità; ed ho bisogno di un posto che in questo momento non so neppure dove si trovi, ma il cui nome completo però è indubbiamente quello di casa.


Bruno Magnolfi

lunedì 14 novembre 2016

Destino oscuro.

            

            Mi scusi capitano, ma sono sfinito: sarà per l’essere stato rannicchiato per tante ore in questo nido, o anche per il rumore di tutti i proiettili che con fatica forse mi è riuscito di mettere a segno, e pure per il mio dito che a furia di stare sempre premuto sopra il grilletto del mio emmegi, sembra adesso quasi diventato un pezzo di legno, proprio staccato dal resto del corpo. Va bene, sergente, adesso cerco di farti sostituire, ma spero almeno tu abbia tirato giù qualcuno di quei bastardi. Penso di sì, tre o quattro li ho visti infilare di corsa in mezzo a quelle macerie, forse li ho colpiti per davvero. Riposati un po’, non più di cinque minuti comunque: purtroppo un camion dei nostri, non molto lontano da qui, è saltato poco fa sopra una mina, e dal comando ci hanno chiesto di mettere su, proprio dove siamo noi, un avamposto per l’artiglieria. Ed io non so se ce la faremo, visto che su quel camion c’erano dei rinforzi destinati proprio a noi, che adesso non so nemmeno quale fine abbiano mai fatto.
            Ho bisogno di riposare, capitano, e anche di calma: se vado ancora avanti in questo modo, rischio di fare delle cose insulse. Lo so, lo so, ma se non proseguiamo col fuoco addosso a quei musi di scimmia, quelli tirano su la testa, riprendono fiato, si renderanno conto velocemente che siamo solo in pochi dietro queste case. Sergente, so che posso contare sul suo appoggio incondizionato, ed anche se lo sforzo che le chiedo risulta per lei notevole, ed io me ne rendo conto benissimo, l’ordine perentorio in queste condizioni è quello di tornare al più presto possibile alla sua postazione. Non posso, dice allora il sergente, non ce la faccio; piuttosto mi espongo al fuoco nemico, mi arrendo, fingo di essere stato colpito e mi sdraio in mezzo alla polvere. Non dica sciocchezze sergente, non siamo venuti qui per giocare, il nostro dovere viene ancora prima di tutto.
Va bene, però adesso mi metto qui, dice lui mentre si siede con la testa tra le mani; mi pare quasi impossibile essere arrivato fino a questo punto. Perché vede, capitano, a me quella gente che abbiamo di fronte, non ha fatto proprio nulla di male, e forse comprendo anche il loro punto di vista, considerato che siamo noi ad essere giunti fino qui a sparargli addosso e farli fuori. Non diciamo sciocchezze, sergente, la guerra non è qualcosa che decidiamo io e lei su delle basi così sciocche e superficiali, ci sono sicuramente interessi più alti e più importanti che hanno determinato queste azioni, noi dobbiamo solo obbedire e fare al meglio possibile il nostro dovere. Va bene, fa lui, ma adesso che ho visto da vicino che cosa significa tutto questo, mi sento quasi un obiettore di coscienza, tanto mi ripugna il sangue che devo far versare; e tutta quella gente che ho inquadrato nel mirino, mi ricorda parecchio molte delle persone del mio paese, gente uguale a me, insomma.
Sergente, non mi costringa a metterla agli arresti. Questi non sono discorsi degni di un soldato. Può darsi capitano, dice lui, però qualche dubbio può prendere a chiunque, non le pare possibile anche a lei? Senta sergente, non c'è più tempo per stare a tergiversare: o torna al suo posto, oppure disobbedisce ai miei ordini, prenda una decisione finale. Faccio poco volentieri quello che mi chiede, dice lui; tra due minuti andrò ad infilarmi di nuovo dentro il buco, dietro ai sacchi di sabbia e camuffato tra le pietre, ma oramai non sono più convinto di un bel niente, vorrei morire io al posto di qualcun altro a cui debbo sparare, mi pare tutto diventato così poco credibile. Ecco, sergente, le dò un po' d'acqua dalla mia borraccia, spero che bevendola assuma anche un po' del mio coraggio. Lo spero, capitano, ma può anche darsi che nella confusione riesca a versare tutta l’acqua nella polvere, tanto mi tremano le mani pensando a quei suoi ordini. E forse anche al suo destino.


Bruno Magnolfi

sabato 12 novembre 2016

Falso d'autore.

    

Ho sbagliato qualcosa, è evidente. Sono entrato dentro al negozio mentre già mi sentivo confuso, poi inspiegabilmente non c'era al momento proprio nessuno dietro a quel banco, e tra gli scaffali e le casse neanche un cliente. Così mi sono guardato attorno, ho atteso paziente che qualcuno giungesse, ed intanto ho messo la mano dentro la tasca, come per cercare quei due spiccioli che a volte riesco anche a spendere. Quando è arrivato il proprietario, un uomo di mezza età senza pretese, quasi per un automatismo avevo già steso il mio dito indice dentro la tasca, mettendolo per bene in vista anche, e proprio come fosse uno scherzo, ho detto con una voce ben camuffata, bassa e decisa: apri la cassa prima che ti procuri un foro in mezzo alla pancia. Lui mi ha guardato con gli occhi sbarrati, ha obbedito alla svelta, e sembrava tremare persino, come se tutta quella messinscena fosse una vera rapina, tanto che io stavo per mettermi a ridere e dirgli che era soltanto uno scherzo, ma lui mi ha messo davanti quel sacco di bigliettoni che mi hanno subito tolto ogni voglia di ridere.
Li ho presi, inutile giraci attorno, e sono uscito alla svelta da dentro quel tugurio da morti di fame, dimenticandomi persino di salutare quel tizio pauroso. Ho evitato da quel momento tutti i posti che conoscevo, sono andato a dormire in una baracca che era come una cuccia per cani, ed è trascorso in questo modo un tempo sicuramente sufficiente per farmi tirare un respiro di sollievo e tranquillizzarmi. In tutto questo periodo i soldi sono sempre stati con me, mi pare evidente, ed ho pure evitato di spendere anche uno soltanto di quei bei biglietti di banca.
Adesso, dopo tutte queste settimane, mi sento abbastanza tranquillo, giro per strada e chiedo un po' d'elemosina, come ho sempre fatto d'altronde, e soltanto qualche volta mi trovo di notte a graffiare una macchina, o a gettare in terra due o tre motorini parcheggiati per bene, giusto per mostrare il disprezzo che continuo a nutrire verso un po’tutti. È la mia maniera per sentirmi diverso, anche se alla fine, se ci penso per bene, non mi pare neanche di essere messo malissimo. Nessuno mi ha mai chiesto niente, almeno fino ad oggi, e dentro la fodera cucita della mia giacca, sento sempre con le mani la forma dei miei bigliettoni sparsi che dormono lì, nell'attesa di essere spesi.
Poi ieri sera mi viene la voglia di metterli tutti per bene, così apro la fodera mentre sono in un posto nascosto da solo, e faccio con calma dei mucchietti che metto insieme con degli elastici che mi sono procurato. Sistemo tutto quanto dentro una scatola, e lascio fuori soltanto tre o quattro banconote, pronte per essere spese. Così questa mattina, dopo aver sotterrato la scatola in un posto veramente sicuro, me ne vado un po’ in giro a testa alta e le mani affondate dentro le tasche, come fossi il più ricco di tutto il quartiere. Mi prendo ovviamente tutta la calma del mondo, cammino su e giù per un sacco di strade prima di mettere a fuoco il posto che più mi piace, e infine mi decido ad entrare in un bar ristorante, proprio per sedermi e farmi servire un pasto esattamente come si deve. Mi guardano subito male quei camerieri sospettosi, ma faccio vedere che in tasca c’ho i soldi, e quindi mi mettono davanti senza battere ciglio tutto quello che chiedo. Mangio ogni piatto con grande soddisfazione e alla fine loro mi portano il conto, senza che io mi sogni di fare neppure una smorfia; tiro fuori con grande scena i quattrini che servono, il tizio che sta lì ad aspettare lì prende, li guarda con calma, li saggia, e subito dopo mi dice, con severità: questi sono falsi, si vede benissimo.


Bruno Magnolfi

venerdì 11 novembre 2016

Vapore acqueo.

            

            Lui oggi si sente ombroso, taciturno; si è sistemato sulla sua poltrona preferita, con la lampada vicina, ed è rimasto lì per tutto il pomeriggio, a leggere qualcosa e prendere appunti. Lei ad un certo punto è rientrata, lo ha salutato come sempre, senza grande enfasi, osservandosi attorno quasi con un'ombra di sospetto; poi è andata a cambiarsi, ed infine è tornata per sedersi in silenzio, sistemandosi vicino al vecchio tavolo del salotto, proprio di fronte a lui. Mi fa bene ogni tanto starmene un giorno a casa lontano dal mio lavoro, ha detto lui. Lei ha annuito, ma secondo il suo parere non c’era molto da dire: è così per tutti, pensava, anche se non ha ritenuto di dover ribadire niente. Dobbiamo cambiare, ha spiegato invece lei sottovoce, dopo una pausa. Non si può tirare ancora avanti in questa maniera insopportabile. Lui l’ha guardata senza cambiare espressione, quasi si aspettasse un’uscita del genere, ed infine le ha steso una mano, senza spostarsi, come per invitarla verso il suo posto; in quel gesto evidentemente si rannidavano alcune speranze, ma lei si è alzata con indifferenza ed è subito andata verso la finestra, forse per sentirsi più libera, più indipendente da quel gesto di lui, anche se poi si è girata per guardarlo di nuovo e con maggiore attenzione.
            Fuori la giornata è più fredda, aveva pensato un attimo prima, trattenendo nella sua mente l’immagine di quel cielo grigio visto fuori dai vetri; ma è così che mi piace l’autunno, col vapore che fa già la nuvoletta quando ti esce di bocca. Resta evidente come lui non voglia affrontare quell’argomento, non adesso comunque, e così si comporta come ha fatto sempre, restando a lungo in silenzio, lo sguardo perso altrove, forse nella speranza di alleggerire magari in parte quel clima. Ho intenzione di andarmene, almeno per qualche tempo, dice lui alla fine, cercando probabilmente un rilancio un po' alla disperata, ritrovandosi, così come si sente, preso alle strette, ed anche nella convinzione che una cosa del genere possa in qualche modo rimetterlo in gioco. Certo, fa lei, puoi farlo, ma non cambierà di una virgola quanto resta qua dentro.
            Solamente adesso lei, riavvicinandosi al tavolo, nota appoggiata sul piano, la stampa di una singola prenotazione aerea per sola andata, che in fondo spiega quanto le sue parole siano assolutamente fondate. Va bene, dice sentendosi improvvisamente ancora più nervosa e meno accondiscendente nei confronti di lui; vedo che hai già portato le cose in avanti. In fondo è meglio per tutti se passiamo un periodo senza vederci, fa lui. Non lo so, dice lei; forse riesce soltanto ad allontanare momentaneamente i problemi. Lui allora si alza, affonda le mani dentro le tasche, gira su se stesso e va verso quella stessa finestra che si affaccia su un minuscolo giardino accanto alla strada. La giornata è più fredda, pensa di slancio, le persone camminano e rilasciano un sottile vapore visibile in aria, mentre respirano.
Ho voglia di caldo, dice alla fine, spingersi verso sud può essere una buona idea. Lei si sente come punta sul vivo, torna a dargli le spalle prendendo in mano quel biglietto per osservarlo con maggiore attenzione, poi: ormai posso soltanto prendere atto delle cose che hai intenzione di fare, dice con un certo sarcasmo. Può anche essere un semplice invito, quello che ti stai ritrovando sotto gli occhi, dice lui mentre continua a guardare la strada; non ci vuole poi molto a trasformare una fuga dai nostri problemi, in una vacanza per due di grande piacere. No, grazie, sentenzia lei, ho altri programmi. Come vuoi, dice lui, in ogni caso più riduci ogni mio spazio di manovra, più significa che hai già stabilito dentro di te il nostro futuro. Futuro, fa lei sorridendo con una certa amarezza; mi pare qualcosa di molto nebuloso, almeno in mezzo a tutti i pensieri che ho. Può darsi, fa lui, in ogni caso nessuno di noi due sembra convinto di come vada disegnato, tanto vale iniziare a prendere un foglio di carta e delle matite. Ci penserò, dice lei quasi con stizza. Poi lui gira la maniglia, forse per assaporare l'aria di fuori, e spalanca in silenzio quella finestra: entra dentro un bel freddo asciutto adesso, ciò che naturalmente si poteva già immaginare osservando il panorama dai vetri; e tutto il vapore di quella stanza pare improvvisamente andarsene via.


Bruno Magnolfi

martedì 8 novembre 2016

Ipoteca imprevista.

         

            Sento il rumore delle macchine che transitano lungo il viale; muovo lentamente una mano, prendo il cartone ancora quasi pieno che sta qui vicino, e butto giù un sorso di vino, tanto per sentire più caldo e meno rumore. Generalmente non dormo su una panchina, non è neppure il mio stile, voglio dire. Soltanto, ho avuto qualche problema ultimamente, e così ho pensato che è meglio se mi tolgo dai piedi almeno per un po’. Ho fatto qualche scherzetto a qualcuno giù al dormitorio, dove vado sempre in queste giornate così umide; niente di serio, roba quasi tra amici, però qualcuno di loro adesso penso proprio voglia farmela pagare. Ma passerà, come tutte le cose, e tra poco tempo nessuno avrà più voglia neppure di ricordarsene di questa faccenda.
La cosa che mi preoccupa di più nel passare la notte da solo in questi giardinetti, è data da quegli sbandati che vanno sempre a rompere le scatole alla gente proprio come me. Io sto qui bello tranquillo con la mia coperta pesante, e quelli ti vengono attorno e sghignazzano anche, e se qualcuno di loro è ubriaco finisce pure che cercano persino di arrostirti. Ma io so difendermi, e dormo sempre con il coltello sfoderato qui accanto, pronto per qualsiasi evenienza. Certo, mi piacerebbe poter tornare bello tranquillo giù al dormitorio, e forse sarebbe anche meglio, ma adesso non è proprio aria, mi devo tenere distante, non c'è niente da fare. Avevo trovato una tizia tutta stranita che comunque ci stava, e perciò me la sono subito portata nel dormitorio; e poi, per permettermi di farle un regalo, il minimo che potessi fare per lei, ho dovuto ripulire nel buio qualche tasca rigonfia di qualcuno che stava là dentro. Tra persone normali si potrebbe anche comprendere un gesto del genere, penso, ma in questo ambiente spesso non c’è niente da fare, ognuno è attaccato alle proprie cose quasi come un polpo allo scoglio.
Così, eccomi qua. E mentre cerco di prendere sonno avverto rumori sospetti un po' dappertutto, così butto giù un'altra sorsata dal mio bel cartone, e poi mi giro su un fianco per provare a chiudere gli occhi. C'è un fanale in fondo al vialetto, ed illumina abbastanza bene tutto questo spiazzo dove mi sono sistemato; la luce dà un certo fastidio, ma stare nel buio credo sarebbe anche peggio. Poi arrivano questi tre o quattro stronzi: li sento mentre fingono di avvicinarsi alla chetichella, ma ridono e fanno più casino loro di venti bambini in un parco giochi. Mi preparo, tiro giù intanto una gamba e impugno con forza il coltello: al primo che mi viene più a tiro, gli faccio subito un bel graffio da qualche parte, così gli altri se la fanno subito sotto e mi tolgono velocemente il disturbo. Non ha fegato la gente come questa, basta fare la faccia cattiva e si impauriscono subito.
Girano attorno, mi guardano, io fingo ancora di stare nel mondo dei sogni. Poi uno mi viene vicino e dice piano: è lui; così capisco che non è esattamente come pensavo. Apro gli occhi, mi tiro su, la coperta nasconde il coltello, loro non dicono niente, ma mi sembra che le cose non si mettano bene per me. Cosa volete, dico tanto per dire, ma quelli neppure rispondono. Dobbiamo farti uno sfregio, dice uno con indifferenza, così imparerai come ci si deve comportare. Così lo guardo, quello mi viene più vicino, ha un coltello esagerato dentro una mano, e me lo punta proprio sugli occhi. Quando sta a tiro gli pianto il mio temperino dentro una coscia e mi scanso per evitare il suo colpo, lui casca per terra e si rotola per il dolore. Due degli altri scappano subito, uno invece resta e mi dice che volevano soltanto farmi paura, nient’altro. Portalo via, gli dico con voce gracchiante, perciò quello lo alza e l’aiuta a rimettersi in piedi ed a camminare. Mentre li guardo andarsene strascicandosi nella maniera che possono, penso però che prima o poi torneranno, e a quel punto sarà proprio dura per me. Dovrò nascondermi per chissà quanto tempo, rifletto, forse cambiare addirittura città. Non è andata bene, dico tra me, il mio futuro ormai è ipotecato.


Bruno Magnolfi

lunedì 7 novembre 2016

Spazzatura elettronica.

            
            Adesso è giunto il momento in cui mi sento proprio stanca, dice lei parlando quasi in un soffio. Stanca delle tue maniere, del tuo monotono essere sempre uguale a te stesso. Hai fatto la scorza con quelle poche cose di cui ti interessi, nel muoverti per casa in una maniera sempre così prevedibile, senza mai alcuna variazione. Ho continuato per anni a farti notare come poco per volta ti andavi riducendo, ma tu hai sorriso ad ogni mio debole appunto, ed hai tirato dritto senza preoccuparti minimamente di quanto dicevo. Forse perché, con tutto il rispetto che ho costantemente avuto nei tuoi confronti, ho sempre cercato comunque di non farti affatto pesare le cose che spesso continuavo ad esplicarti, usando sempre parole dai toni morbidi, e ammettendo che quanto dicevo in fondo era soltanto un parere, una mia interpretazione.
            Certe volte non mi sono fatta trovare, dice ancora la donna, e ti ho lasciato uno stringato messaggio con cui ti comunicavo che forse sarei tornata più tardi, che avevo qualcosa di importante da fare, magari che ero in giro con qualche mia amica, e che la cena comunque era pronta, e potevi andare avanti con le tue cose anche senza di me. Poi ritornavo, e ti trovavo nella stessa maniera di sempre, indifferente a qualsiasi variazione, persino lontano da ogni pensiero dettato dalla curiosità. Quasi sdraiato, come ogni sera, perso davanti alla televisione, e senza un minimo di cura per te e per le cose intorno al tuo evidente egoismo.
            Poi ho cercato di stimolarti, dice lei abbassando ancora la voce; l’ho fatto cercando qualcosa che potesse in qualche modo coinvolgerti, che ti desse una spinta per uscire una buona volta da quel tuo solito bozzolo, e per molte delle cose che ho messo insieme, ho finto addirittura che ti arrivassero quasi per caso, per non farti pesare niente di me, neppure quelle piccole idee. Ho sorriso, in certi casi, quando al contrario ci sarebbe stato da piangere, ma ho sempre voluto trovare un'altra possibilità da concederti, anche se tu ogni volta hai sempre trovato il modo di neutralizzare tutto quanto. Ed ho smosso il più possibile almeno ciò che ho potuto, se non altro per darti l'impressione che il resto del mondo intorno non è fermo, come invece sei tu; ma senza alcun risultato.
            Il tuo unico sforzo è sempre stato soltanto quello compiuto per il tuo lavoro, spiega lei con ancora più calma; impegno peraltro portato avanti giusto in qualche maniera, e accompagnato perfino da continue lamentele nei confronti dei colleghi, del tuo capo, dell’organizzazione generale, e anche degli orari a cui ti sei spesso sentito costretto. La liberazione che hai sempre avvertito, giungendo alla fine del tuo turno lavorativo, non è però mai stata controbilanciata da una vera voglia di fare, di recuperare almeno qualcosa, come se il resto del tempo a tua disposizione potesse essere risolto in un niente completo, che peraltro in questa maniera non può neppure riuscire a darti lo slancio per impegnarti di più e più proficuamente proprio in quel tuo mestiere.
Infine, adesso appena sussurrando, la donna dice di nuovo ma con altre parole ciò che ha appena spiegato; non è facile, pensa subito dopo, aver trovato il momento adatto per dire a lui tutto quanto, anche se solamente in una registrazione di questo mio cellulare. Poi arresta la memoria elettronica, ed osserva a lungo quel file, un piccolo scarabocchio sopra lo schermo, così importante da contenere ormai quasi tutto di quei suoi pensieri, di ciò che ha sempre avuto presente, tutto quello che a lui avrebbe sempre voluto spiegargli. Poi però lo cestina, con un semplice clic.


Bruno Magnolfi