sabato 28 luglio 2012

Senza perfezione.


            
            Quasi fuori di me, avevo urlato tutta la rabbia che potevo dopo aver saputo che la mia legittima richiesta di risarcimento era stata definitivamente archiviata. Avrei camminato zoppicando vistosamente per il resto dei miei giorni, e non potevo neanche sperare nella soddisfazione di vedermi riconoscere il danno da parte di chi me lo aveva procurato.
            Forse non ha alcuna importanza, pensavo già dopo qualche giorno, e intanto mi trascinavo dietro quella mia gamba offesa, abituandomi sempre di più a quel modo vistoso di muovermi. Poi mi mettevo seduto, nei pomeriggi svogliati e privi di cose da fare, in un caffè vicino casa, un locale senza pretese, dove rimanevo lì da solo a sorseggiare qualche birra e a masticare tra me un odio generico e insignificante per tutti quanti.
            La ragazza del bar a volte scherzava, riusciva spesso a trovare il senso divertente di ogni cosa, forse anche della mia gamba. Tirava sempre fuori una parolina maliziosa senza essere pesante, ed il suo modo particolare di osservare la realtà ne faceva una persona speciale, una figura a cui ci si affezionava facilmente. Io osservavo la gente, lasciavo che tutti scivolassero intorno senza preoccuparmi di niente e di nessuno. Poi pagavo la consumazione, salutavo la ragazza e me ne andavo per i fatti miei.
Una sera a casa mi avevano chiamato al telefono: diceva il chirurgo dell’ospedale, lo stesso che nei mesi precedenti era già intervenuto su di me, che avrei avuto bisogno di subire una nuova operazione alla mia gamba, le analisi e  il quadro clinico secondo lui lo dimostravano. Così mi ritrovai ancora più giù di morale, fino ad evitare per un bel po’ di tempo perfino di uscire da casa, salvo per le cose essenziali, e soprattutto smettendo di frequentare anche quel bar poco lontano. Quando tornai ad affacciarmi là dentro, due o tre mesi più tardi, camminavo già usando la stampella, mi muovevo più lentamente e con maggiore fatica di prima, e ormai sembrava non potessi più fare meglio di così.
La ragazza mi aveva salutato come sempre e non aveva aggiunto niente, semplicemente e con cortesia mi aveva aiutato a sedere ad un tavolo libero e a sistemare tutte le mie cose, poi mi aveva sorriso: ha un’aria migliore, aveva detto; sembra quasi che lei non ce l’abbia più con tutto il mondo come qualche tempo fa. Sorrisi anch’io, mi feci portare una birra, rimasi lì seduto almeno un’ora senza dire niente. Quando me ne andai lei mi accompagnò fino alla porta. Tutti abbiamo dei difetti, disse, fa parte della natura umana: chi non ne ha si deve preoccupare. Io la guardavo, per un attimo forse mi commuoveva quel suo essere così piena di vita, soprattutto paragonato al tentativo di infondermi coraggio, ma poi, da vicino in quel modo, vidi per la prima volta che sotto al colletto rialzato della sua camicia bianca, nascondeva un grosso neo bitorzoluto; mi venne da sorridere. Grazie, dissi, e con calma, con un’andatura dignitosamente zoppicante, presi la strada verso casa.

Bruno Magnolfi

martedì 24 luglio 2012

(Profilo n. 20). Compagni di giochi.


           

            C’eravamo velocemente rifugiati, insieme ad una ragazzona di nome Anna conosciuta soltanto pochi minuti prima, in una specie di rimessa abbandonata, con la porta completamente divelta, che rimaneva lungo la strada principale, e ci eravamo accucciati in un angolo all’interno cercando di riordinare tutte le nostre idee. Gli spari provenienti dalla vicina collina sembravano diretti soltanto verso il piccolo paese che ci eravamo lasciati alle spalle, io e Ettore, e la soluzione migliore, almeno per il momento, pareva proprio quella di rimanersene lì, nella semioscurità, ad attendere che l’attacco cessasse....

Questo racconto non è più fruibile su questo blog in quanto sotto contratto con Lillibook Edizioni.
            

            Bruno Magnolfi 

domenica 22 luglio 2012

Al varco della soglia.


          
            Adesso lui è solo, mentre sale i tre gradini che immettono al portoncino della sua abitazione, un modesto appartamento in una strada marginale della città di Elva. Ha la testa piena di pensieri e ripercorre frettolosamente ciò che ha cercato di spiegare quel pomeriggio a Renato, il suo più caro amico, davanti ad un paio di birre, seduti ad un tavolo del locale di Piero.
            Non è molto convinto, effettivamente, di ciò che ha cercato di spiegargli, ma l’altro ha lasciato che lui dicesse tutto ciò che aveva in testa, ed è come se lui avesse cercato, nei suoi gesti, negli accenni, dalle occhiate, se non proprio dalle parole che si sono scambiati, una conferma a tutti quei propositi che gli ha fatto presente. Voglio andarmene da qui, gli ha detto senza mezzi termini, in fondo ognuno di noi ha il diritto di sentirsi sconfitto alla fine di un percorso della propria vita, e ciò che gli resta più di tutto quanto, forse è soltanto la voglia di impegnarsi per ricominciare tutto dall’inizio, magari proprio in un altro posto, dove nessuno ti conosce. Renato ha sorseggiato la sua birra, in silenzio, mentre lui continuava a parlare.
            Ma adesso lui sale le scale, è sicuro di avere riferito tutto quanto al suo amico Renato, e questo lo fa sentire meglio, senza ombra di dubbio; ma non aver notato in lui neppure l’ombra della condivisione dei suoi propositi, ma aver ricevuto soltanto parole di conforto e di conferma per la sua situazione, gli ha fatto nascere in testa dei punti interrogativi che forse neppure aveva in precedenza. Forse è così, pensa; forse le proprie convinzioni e l’entusiasmo che spesso le sostiene, devono essere più forti di tutto, persino dei pensieri di chi ti conosce bene, di chi non ti direbbe mai qualcosa solo per il gusto di farti sentire strano, diverso, ancora più solo nelle tue scelte personali.
            Poi si ferma un attimo: quella scale e il portoncino della casa in affitto che potrebbe già lasciare libera da lì a pochi giorni, gli paiono improvvisamente il simbolo di qualcosa che adesso non si risolve a varcare, e allora aspetta, attende come un segnale, o qualcosa dentro di sé che gli conceda la forza di cui ha bisogno. Riflette, non trova un vero sostegno a cui attaccarsi, ma forse è sempre stato così per chiunque si sia trovato in una situazione analoga.
            Adesso lui è immobile, come impegnato a cercare qualcosa che non trova dentro alle sue tasche, così ripensa di nuovo al suo amico Renato, alle parole che si sono scambiati, e le sue idee appaiono ancora più torbide, prive completamente di quella chiarezza di cui avrebbe in questo momento la necessità. Infine il pensiero gli cade sulle due birre medie che si sono scolati al tavolino del locale di Piero: ha pagato lui la consumazione, perciò non sente alcun debito nei confronti di nessuno. Non è molto, pensa, ma forse è già qualcosa, e adesso gli basta almeno questo, sentirsi in qualche modo maggiormente a posto, e se non altro più libero di fare le sue scelte, persino già lontano dal sottile disaccordo del suo amico Renato.

            Bruno Magnolfi
        

giovedì 19 luglio 2012

Senza un'altra possibilità.



Senedin, aveva detto sottovoce Senedin di là dalla parete di plastica della baracca; ed io, dopo un po’, avevo tossito leggermente, giusto per fargli rendere conto che non era da solo, e soprattutto che non era bello parlare tra sé in quella maniera. Ma lui aveva continuato per qualche altra volta nello stesso modo, come fosse la cosa più normale del mondo, disinteressandosi di me e della mia tosse, proseguendo come a chiamare una persona accanto a lui con il suo stesso nome.
Non volevo pensare tra me qualcosa di sbagliato, così avevo aspettato con pazienza ancora qualche minuto, quindi avevo detto a voce alta che questo cantiere ci stava ammazzando: Senedin, avevo detto, dobbiamo cercare di farglielo capire al caposquadra, non possiamo continuare ancora molto con il caldo di luglio a lavorare tutti i giorni per dodici ore così come stiamo facendo. Ma lui non aveva risposto niente, come a dimostrare che non era il caso di stare troppo a rompere le scatole al caposquadra o al geometra in un momento come quello.
Certe volte non lo capisco proprio Senedin; ha un orgoglio da vendere, quando gli va, e poi, senza neanche un motivo preciso, ecco che abbassa la testa come un qualsiasi operaio appena arrivato, proprio lui, che posti come questo dove siamo adesso ne ha girati più di tutti.
Nella baracca non ti puoi muovere di un passo, il pavimento scricchiola in maniera esagerata, mostrando esattamente, anche a chi non va di guardare, dove sei e cosa stai facendo. Senedin invece sembra muoversi in silenzio, di là, quasi come un gatto, ma io so che cosa pensa, cosa immagina dentro di sé: neppure a lui va bene di lavorare tutte quelle ore anche se le pagano al nero e con i soldi veri, senza assegno. Non si può ammazzare di lavoro un uomo, gi dico certe volte. Cosa c’entriamo noi con i problemi dello stato di avanzamento dei lavori, della contabilità da presentare e tutte le altre storie che ci racconta il caposquadra? Ma Senedin cerca sempre di capire tutti, perciò non commenta e abbassa la testa, come facciamo anche noialtri in fondo.
Tutte pecore, a volte gli dico, ma soltanto per provocarlo un po’, però lui mi guarda ed annuisce, come a spiegarmi che il primo pecorone sono proprio io, che forse non capisco, semplicemente non capisco niente di tutta quella faccenda.
Senedin, dico ancora mentre mi sistemo sdraiato sopra la mia branda di qua dalla parete; ma mi rendo conto che lui non ha voglia di parlare, forse non è il momento, devo soltanto avere più pazienza, aspettare che lui dica qualcosa, che è tutto a posto, per esempio, o che non dobbiamo parlare troppo del cantiere, come a volte dice. Però dopo un’altra mezz’ora il silenzio regna ancora dentro la baracca: si sta male senza scambiarsi i pensieri, le opinioni; così dico: domani i ferraioli finiscono con l’armatura del pilone, dobbiamo iniziare ad allestire i pannelli delle casseforme, tanto per dire. Lui non risponde niente, e dopo un attimo ripete ancora: Senedin, come se fosse l’unica cosa rimasta da dire. Mi alzo, vado di là e vedo che si sta guardando dentro al suo piccolo specchio per la barba. Che stai facendo, dico, ti sei perso nella tua immagine? Lui mi guarda, come arrivasse da un altro pianeta, poi risponde: no, cerco solo di vedere un operaio che deve tirare avanti in questo modo, e che non ha proprio nessun’altra possibilità.

Bruno Magnolfi    

martedì 17 luglio 2012

Altrove (ritratto n. 6).


            
            Tutto è contro di me, di questo sono ormai certo. Osservo i gesti, le espressioni, i piccoli accenni di ogni persona che gira tra queste mura, e sono sempre più convinto che sia così, che le mie non siano soltanto stupide fantasie. Per questo da qualche giorno sperimento l’assenza del respiro, e sono già arrivato a stare un tempo piuttosto lungo senza aprire bocca ed inghiottire l’aria, però conto di riuscire a fare ancora dei progressi.
            Se non respiro non sono vivo, e se non sono vivo non sono qui, insieme agli altri. Mi guardo attorno e mi sembra tutto sempre più distante. Gli infermieri del padiglione parlano tra loro, certe volte, ma sempre sottovoce, per non farci capire quali siano i loro argomenti. A me importa poco, so per certo che cospirano, si sono messi in testa di tenerci qua dentro per tutto il tempo che vogliono, senza darci alcuna possibilità di comprendere le cose: ci tengono tranquilli, ci chiedono a volte qualcosa, ma sono tutte quante solamente finzioni.
            Nei miei confronti inscenano abitualmente una farsa; hanno capito che sono un osso duro, che non gliela darò vinta facilmente, così spesso evitano persino di rivolgermi le solite domande. Io sto seduto, il viso appoggiato nelle mani, gli occhi vigili, e intanto mi esercito. Sono attento a tutto ciò che accade, aspetto sempre il momento più opportuno, poi smetto di respirare. Posso cadere in catalessi, questo lo so perfettamente, ma ancora attendo prima di arrivare fino a quel punto, aspetto che sia il momento giusto, che le cose siano arrivate alla maturità.
            Il tempo si dilata, grandi cerchi rossi appaiono intorno a me, le orecchie si chiudono, non lasciano più arrivare alcun rumore, così le urla degli altri rimangono lontane, come non esistessero. Nessuno sospetta niente, sono sicuro, a volte fingo di muovermi con flessuosità per concedere l’impressione a tutti che io sia ancora qui, tra queste mura, anche se in realtà è solo la mia controfigura quella che riescono a vedere: l’immagine di un degente come gli altri che respira, mangia senza sporcarsi, prende tutte le medicine senza alcuna ribellione.
            Invece non ci sono; ormai la maggior parte del tempo la trascorro in assenza di respiro, nessuno lo sa, nessuno se ne accorge, ed io mi lascio accompagnare da questi cerchi rossi, fuori di qui, via da questi giorni inutili e dannosi. Non chiudo mai gli occhi, lascio che mi credano afflitto dai miei pensieri, dalle ordinarie preoccupazioni del malato, di chi perde un po’ per volta ogni speranza. Invece è tutto il contrario, potrei ridere, mostrarmi divertito delle giornate dietro a queste mura, anche se non farò mai un errore del genere: potrebbero nascere sospetti, ed io non ne ho bisogno, non adesso perlomeno.
            Entra luce dalle finestre; io percorro il corridoio, la mia bocca è chiusa, forse barcollo per un po’, e infine cado a terra, me ne rendo conto prima di perdere del tutto i sensi e lasciare che i miei occhi si chiudano per automatismo. Quando li riapro sento di essere contento: non ho ancora ripreso a respirare, tutti si affannano intorno alla mia controfigura; io non ci sono, non sono più qui con loro, il mio esperimento è riuscito perfettamente; così lascerò per un tempo indefinito che si prendano cura come vogliono di questo corpo, e intanto me ne andrò in giro dimenticandomi di questa compagnia, di queste mura: per vedere ancora i cerchi rossi, se voglio, e respirare l’aria vera.

            Bruno Magnolfi

venerdì 13 luglio 2012

Il dono.


            

            Il sogno fatto mostrava con evidenza qualcosa già supposto e studiato varie volte in precedenza. Si trattava semplicemente di uno strano viaggio in una terra sconosciuta, dove molti individui del luogo sembravano non aver mai visto nessun’altra persona che non fosse una di loro. Il Signor Landini si sentiva assolutamente felice nel trovarsi in quella condizione, e nel proseguo del sogno, con altrettanta grande gioia, insisteva nel dar seguito alla curiosità di quella gente, mostrando loro grandi gesti amichevoli, sorrisi ed espressioni distese e di pieno apprezzamento della situazione, non tanto volte ad ingraziarsi quelle persone tra le quali comunque si sentiva assolutamente in solitudine, quanto per rispondere adeguatamente ai messaggi di piacere che riceveva continuamente da tutti loro per la sua presenza.
            Da studioso di antropologia e docente di questa materia all’università, il Signor Landini varie volte aveva fantasticato di ritrovarsi in una situazione analoga, ma quel sogno superava qualsiasi fantasia, mostrandosi talmente ben concepito nella sua mente da dargli l’impressione che prima o dopo si sarebbe persino avverato qualcosa di simile, come se quella fosse una premonizione, un presentimento, un segno, una vera istigazione comunque alla ricerca e al duro lavoro sulle ipotesi che lui svolgeva all’università.
            In fondo era l’uomo che a lui interessava, cioè i fondamenti principali dell’essere umano, e tutti quegli studi che aveva affrontato e che ancora prendevano gran parte della sua esistenza, non erano mai del tutto riusciti a togliergli la curiosità principale da cui era partito. Quelle persone che aveva attorno nel suo sogno sembravano rispondere pienamente ai suoi desideri: apparivano socievoli, curiosi, ben disposti verso qualsiasi novità; forse era davvero questa la base fondamentale dell’essere umano, pensava osservandoli, la sua natura recondita, la sua essenza, se non storpiata da esperienze negative, da elementi estranei che ne potevano falsare la natura; questo era adesso il risultato della sua esperienza, questo era quanto continuava a riflettere nel sogno.
            Nel seguito, però, era avvenuto qualcosa, forse un improvviso scatto in avanti nel percorso di tutta quella fantasticheria. Il Signor Landini ad un tratto aveva come cercato ulteriormente di sorridere, senza peraltro riuscirci, non sapendo più di che cosa ancora rallegrarsi, e gli individui che aveva attorno lo avevano osservato con maggiore attenzione, scrutandone ogni dettaglio, osservandolo anche in fondo agli occhi, fino a cercare di spiegargli, anzi, a fargli proprio capire, in un idioma stranamente a lui comprensibile, che probabilmente non erano loro ciò che lui stava cercando. Non escludevano naturalmente che esistesse da qualche parte il fulcro di tutti quei suoi studi, l’epicentro di ciò a cui lui si era sempre interessato, questo no, ma loro al momento si sentivano assolutamente bene e a proprio agio senza alcun bisogno di divenire improvvisamente quella materia a cui quello strano esploratore che lui pareva incarnare così bene, piovuto lì chissà da dove, si era applicato per tutta la sua vita. 
            Chissà in quale luogo della terra si potevano mai trovare delle persone di quel genere, aveva pensato una volta completamente sveglio e a casa sua il Signor Landini; forse dalla parte diametralmente opposta del mondo, si era detto con semplicità; o forse no, aveva come replicato a se stesso: magari erano individui così vicini a lui da non farsi accorgere nemmeno del loro modo di essere e di pensare. In ogni caso tutto ciò era talmente interessante da fargli cercare immediatamente di riprendere a dormire, tanto da lasciare proseguire il sogno, e comprendere di più, capire alfine dov’era l’errore vero nella sua ricerca. Naturalmente nessuna nuova immagine venne in suo soccorso, ma pensando a tutto quanto nei giorni e negli anni a seguire, il Signor Landini, ripercorrendo tutto di quel sogno, vide sempre e comunque uomini felici, gente in pace con tutto, individui talmente saggi da accogliere chiunque senza ostacolarlo, ma soltanto a patto che l’ostacolo non fosse portato a loro come un dono.  

            Bruno Magnolfi

lunedì 9 luglio 2012

Il domani di un giorno qualunque.


            9
            Sarebbe stato un giorno indimenticabile il prossimo, uno di quelli che forse segnano un intero periodo dell’esistenza di un uomo, ma nonostante lui fosse perfettamente a conoscenza di questo, nonostante avesse maturato da tempo la consapevolezza precisa di ciò che appariva essere uno dei momenti fondamentali della sua vita, si sentiva adesso assolutamente tranquillo, nessun segnale di apprensione sembrava minimamente turbarlo. Negli ultimi tempi, questo era forse il segreto della sua serenità, si era mentalmente preparato, almeno negli aspetti più evidenti, e soprattutto aveva cercato di mettere a fuoco la migliore psicologia utile per affrontare adeguatamente la situazione, ed adesso che aveva perlustrato tutte le possibilità che si sarebbero potute verificare, gli pareva addirittura inutile, se non dannoso, continuare a riferire i propri pensieri a quell’argomento.
            Ciò che doveva succedere, anche se non era del tutto evidente, pareva comunque qualcosa di certo, almeno questo era quanto riusciva a supporre. In fondo, aveva spesso pensato, tutti viviamo in funzione del proprio futuro, che sia prossimo oppure remoto, e lui, che credeva di conoscere perfettamente il destino segnato in quel giorno a venire, all’improvviso sembrava però quasi disinteressarsene, come se nel cuor suo avesse già superato la prova di quel decisivo momento.
            Si sarebbe alzato dal letto, la mattina seguente, questo era sicuro, proprio come ogni giorno; avrebbe indossato i suoi vestiti di sempre, si sarebbe preparato per uscire di casa, come ogni mattina aveva fatto. Con indifferenza completa avrebbe affrontato quella giornata, e soltanto ad un tratto si sarebbe ricordato che quello era proprio quel giorno prestabilito, quello che aveva aspettato da sempre. Allora si sarebbe immobilizzato in mezzo agli altri, proprio al centro delle cose ordinarie in cui stavano tutti, e forse avrebbe sorriso tra sé, mostrando una soddisfazione ineguale del senso che stava prendendo, da quel momento in avanti, la sua stessa esistenza.

            Bruno Magnolfi

venerdì 6 luglio 2012

Meditazioni sul niente. 5.


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            Molte volte, all’epoca dei suoi venti anni, Ernesto Bandini aveva pensato che niente valesse la pena di vivere in attesa di tempi migliori, eppure soltanto dieci anni più tardi la sua idea si era completamente trasformata, lasciandolo spesso immobile, ancora colmo di buone speranze, ma come aspettando che la sua vita si sistemasse da sola come per un accomodamento spontaneo e del tutto naturale....


Questo racconto non è più fruibile in quanto sotto contratto con Lillibook Edizioni.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 4 luglio 2012

Verso il vuoto (ripresa cinematografica n. 14).


           
            Ho percorso a piedi un breve tratto di strada lungo il marciapiede deserto, poi mi sono fermato. Le case e le basse palazzine intorno sembrano osservarmi mediante le loro finestre, ma a me non interessa, conosco il mio percorso, non sono certo questi i motivi per desistere e lasciare che la paura si mostri come un ostacolo insormontabile ai miei passi. Vado avanti, lentamente, pensando con fermezza alla direzione che sto tenendo.
            Infine incontro un uomo, mi ferma e mi chiede qualcosa in una lingua che non conosco, ed io gli rispondo come posso, gesticolando, mostrando delle espressioni perplesse sul viso: non so, dico, non capisco, ma l’altro insiste. Ne nasce della confusione, quasi un piccolo alterco, poi immagino, con un guizzo di fantasia, che quell’uomo voglia soltanto sapere che ore siano, o qualcosa del genere, così guardo l’orologio, piego il braccio verso di lui, in modo da fargli vedere il quadrante, e che veda bene in quale posizione sono posizionate le lancette.
            Quello, con serietà, mi prende il braccio con la sua mano forte stringendo sopra al mio polso, guardandomi direttamente negli occhi: senor, dice in spagnolo, no esta bien, no esta bien. Che cosa, chiedo, che cosa vuol dire, non so altro, non so niente di ciò che lei vuol sapere.
            L’altro mi lascia, si tocca leggermente il viso con una mano, allunga un passo lontano da me, poi, senza più neanche guardarmi, si allontana, perplesso, se ne va. Rimango immobile, continuo per un attimo ad osservarlo mentre si allontana, infine mi volto verso la direzione che avevo preso, ma mi accorgo soltanto dopo pochi passi, che non c’è niente davanti a me, soltanto il vuoto, un terribile, pauroso vuoto di cui non mi ero accorto per niente.

            Bruno Magnolfi 

lunedì 2 luglio 2012

Soltanto qualcosa di diverso.


            
            Loro stavano insieme, e spesso tutto il resto appariva addirittura privo di qualsiasi importanza. Interno ed esterno, pensava lui certe volte, mentre cercava, con parole sempre diverse, di spiegare una volta di più la maniera in cui si sentiva indissolubilmente legato a lei, ai suoi modi di fare, a quelle sue espressioni appena accennate in cui certe volte se ne usciva con tutta la semplicità e la spontaneità che solo lei, a suo parere, riusciva ad avere....


Questo racconto non è più fruibile su questo blog in quanto sotto contratto con Lillibook Edizioni.

            Bruno Magnolfi