giovedì 29 agosto 2013

Maschera d'uomo.

            

            Certe rare volte mi fermo a pensare. E’ come se mi sforzassi così facendo di essere qualcuno che so perfettamente di non essere, e in questo sforzo accarezzassi quasi l’idea di poter assomigliare a un uomo migliore. In seguito naturalmente sorrido di questi pensieri, ci passo sopra e mando avanti le mie attività di ogni giorno. I ragazzi che lavorano con me credo mi temano, o almeno abbassano immediatamente lo sguardo quando rimprovero loro qualcosa. Nel nostro mestiere non ci possono essere incertezze, ognuno deve sapere perfettamente cosa sta facendo, e soprattutto deve decidere in fretta se ogni cosa da fare sia quella giusta, la più adeguata, senza tirarsi mai indietro.
            Facciamo traslochi al nero, utilizzando per il trasporto soltanto un vecchio furgone scassato. La nostra pubblicità è il passaparola, ci chiamano soltanto le famiglie dei disgraziati che possono spendere poco, che vogliono risparmiare sulle tasse, molto spesso gente sfrattata che piange a lasciare le stanze dove ha abitato una vita, e certe volte capita che qualcuno di loro voglia pagare ancora meno di quanto chiediamo: una volta sistemate le cose non si fanno trovare, oppure cercano di darci degli assegni scoperti, dei soldi falsi, insomma tentano di tirarci una fregatura, ma quando intervengo personalmente tutto in genere si sistema abbastanza alla svelta.
            I ragazzi a volte credono che dentro di me io abbia una crudeltà innata, una capacità di risultare inflessibile anche di fronte a situazioni così strappalacrime, ma non è vero, perché in realtà io cerco soltanto di portare avanti il principio secondo cui i patti vanno sempre e comunque rispettati. Non scherzo quasi mai con i miei ragazzi, questo è vero, ma soltanto perché cerco di conservare una gerarchia tra di noi, la capacità di starsene ognuno al suo posto. Il primo di loro che sgarra, naturalmente, perde il lavoro. Anche chi si fa male viene mandato via, perché il tipo che non sta attento a quello che fa non va bene per questo mestiere. Siamo tutti iscritti nelle liste di disoccupazione, non facciamo un mestiere, siamo senza lavoro, stiamo solo in attesa che qualcuno ci trovi un posto, un lavoro qualsiasi, un’attività migliore di questa.
            Quando stiamo sistemando la mobilia e ci accorgiamo che in giro c’è qualche divisa, ad esempio, smettiamo immediatamente di andarcene su e giù per le scale, e ci disperdiamo il più in fretta possibile, ognuno per sé, per poi ritrovarci un’ora più tardi sul marciapiede di prima, controllando con attenzione che tutto adesso sia a posto. Ma anche se ci prendono tutti quanti con la roba sopra le braccia, siamo assolutamente pronti a dire che stiamo dando semplicemente una mano a un amico. Non c’è niente di male, ci aiutiamo tra noi, questo diciamo.
            Poi un giorno arriva un tizio, dice che in questo quartiere si deve pagare per fare traslochi. Lo guardo, i miei muscoli sono allenati, non credo di avere paura di nessuno. Mi fa vedere un coltello nel corridoio del condominio e allora abbasso la testa, i ragazzi stanno dietro di me, quando quello va via dicono che non avrei potuto fare nient’altro. Allora mi fermo ancora a pensare, forse domani non lavoriamo, dico agli altri, ci vuole una pausa ogni tanto. Prendo il furgone e me ne vado. Arrivo a casa alla svelta, da solo, ma non me la sento di salire le scale. Qualcosa inizia a incrinarsi, penso; lo sapevo che prima o poi doveva succedere. Nella mia testa ci sono tutte le facce di quei disgraziati che devono andarsene dalla loro casa. Sono fortunato, rifletto, nessuno per adesso mi manda via da queste due stanze. Ma non può durare, lo sento, qualcosa deve cambiare: sono stufo di fare il cattivo con tutti; sono stanco di pretendere soldi e di odiare la gente; ci deve pur essere, penso da solo, la possibilità anche per me di mostrare come sono davvero.


            Bruno Magnolfi  

venerdì 23 agosto 2013

Al centro del vuoto (ritratto n. 13).

            
            Uno dei ragazzi le dice qualcosa a voce alta ridendo, Argenta senza fretta si volta all’indietro come sostenendo una parte, lascia in aria un’impercettibile pausa, poi fa segno di no con la testa, e riprende a camminare guardando avanti a sé in piena tranquillità, allontanandosi. Al pomeriggio generalmente arriva per ultima ed è sempre la prima ad andarsene via, qualcuno ogni tanto lo fa notare a voce alta, ma a lei non importa, i suoi orari quasi sempre sono quelli, e poi ha spesso qualcos’altro da fare, e a lei non dispiace allontanarsi quando tutto il gruppo è ancora lì, a far niente, senza neppure un motivo buono per tirare a far tardi in quel modo.
            Certe volte dicono di lei che è la più strana tra tutti, e forse lei ne è consapevole, ma quello ormai è il suo personaggio, quello che ha deciso da sempre di interpretare, e ci sono dei giorni in cui farebbe di tutto pur di non uscire neanche per un attimo da quella sua parte. Non cerca di nascondere alcun lato di sé, ma è consapevole come il suo tormento più forte alla fine sia proprio la noia, ed è per questo motivo che sta sempre a cercare di prevenire il momento in cui potrebbe iniziare a provarla. Qualcuno del gruppo evita persino di rivolgersi direttamente ad Argenta, forse soltanto per evitare le sue sparate taglienti ed il suo gusto polemico. Lei sorride, cerca di far pesare la sua presenza, anche se non le piace quasi mai essere al centro dell’attenzione.
            Gli altri, quando non c’è, dicono che la sua famiglia sia piena di soldi, e lei non nega mai questa notizia quando ne parlano, anche se sa perfettamente che non c’è niente di vero in quelle parole. Le piace la solitudine, forse ancora di più che starsene in mezzo a quella comitiva di sfaccendati, ed il resto del gruppo questo non riesce del tutto a comprenderlo. Certe volte a lei piace anche non farsi vedere per niente all’ora in cui si radunano tutti quanti davanti al solito chiosco di bibite dei giardinetti. Magari passa da lì lungo la strada adiacente con il suo motorino, saluta qualcuno con un cenno della mano, e tira diritto, consapevole di non avere una meta, ma fiduciosa di trovare in fretta un luogo interessante verso dove dirigersi. Spesso pensa che non le porterà mai niente di buono un comportamento del genere, ma non riesce ad agire in maniera diversa, e con tutta sincerità neppure lo vuole.
            Poi un giorno arriva, si siede in silenzio ad uno dei tavolinetti sopra la ghiaia, qualcuno dei ragazzi la saluta senza troppa enfasi. Lei prende una lattina di aranciata dal chiosco, torna a sedersi vicino agli altri, in silenzio, ma in due o tre si alzano, dicono che devono andare, ed altri affermano che vogliono accompagnarli, e in un attimo Argenta si ritrova da sola, senza che sia riuscita neppure a finire di bere quella sua lattina. Allora si alza, si sente stizzita anche se non vorrebbe, per la prima volta è da sola in un posto generalmente sempre pieno di gente. Getta la lattina con ancora un po’ d’aranciata dentro al cestone, si muove con incertezza, perplessa, infine torna lentamente verso il suo motorino, lo avvia, e senza alcuna convinzione riparte: forse non tornerà mai più in quel ritrovo di amici, pensa;  o almeno lascerà trascorrere un bel po’ di tempo prima di farsi vedere ancora da quelle parti. In ogni caso rifletterà molto a fondo su tutto quanto, di questo ne è più che sicura.


            Bruno Magnolfi

sabato 17 agosto 2013

Sensibilità premiata.

            
            In questo momento non c’è nessuno nel piccolo locale, e da sola la ragazza del bar riordina tazze e bicchieri dietro al suo bancone. Poco movimento in questa stagione, pensa, e con quei pochi clienti che circolano là dentro bisogna essere particolarmente cortesi, incoraggianti, capaci di rendere un qualsiasi caffè, una birra, oppure un bicchierino, qualcosa di più di una semplice pausa. Lei ogni tanto osserva la strada oltre la vetrina, e le pare quasi che tutto il mondo là fuori sia da qualche tempo più distante di sempre, come se un diaframma inamovibile separasse l’interno dall’esterno di quella bettola dove lavora ormai da quattro anni. E’ soltanto una sensazione, pensa cercando di sorridere tra sé di quelle sue sciocchezze, ma se il suo futuro sembra ormai così delineato, se è ben consapevole che se anche tra qualche tempo non lavorasse più in quel locale sarebbe semplicemente per occuparsi in un posto del tutto simile, quel sentimento che prova adesso è cosciente che probabilmente non l’abbandonerà mai più.
Entra un uomo che non ha mai visto, dice buongiorno, e lei, e asciugandosi le mani al grembiulino, chiede subito con garbo cosa possa servirgli. Una birra, dice il tizio senza aggiungere altro, poi si siede ad un tavolino voltando quasi le spalle al bancone, probabilmente per osservare meglio la strada dalla vetrata che gli rimane accanto. La ragazza versa la birra con accuratezza, in modo che si formi poca schiuma, mette il calice sopra un piccolo vassoio e lo porta fino al tavolo. Poi, dopo un sorriso, riprende la sua posizione dietro al bancone, ma il suo interesse adesso è attratto esattamente da ciò che è intento ad osservare l’uomo, quasi a voler anticipare quel che sembra attendere lui, forse una donna, pensa, forse un amico.
            Trascorrono i minuti, ma niente accade, l’uomo ha quasi finito la sua birra, sembra nervoso, ma prosegue ad osservare la strada squadrando le persone che passano lungo il marciapiede. Infine si alza, paga la sua birra, saluta la ragazza e fa per uscire, ma qualcuno lo ferma proprio sulla porta, quindi rientra insieme a lui, lo lascia sedere allo stesso tavolino di poc’anzi, e mentre sembra quasi trattarlo con severità, si sistema comunque a sedere di fronte a lui, in attesa di essere servito. La ragazza si avvicina, sorride ai due invitandoli ad ordinare, il nuovo arrivato chiede soltanto un caffè, e l’uomo di prima semplicemente un bicchiere d’acqua.
            Hanno ambedue uno strano comportamento, lei non capisce neppure come sia meglio comportarsi, ma cerca semplicemente di essere gentile e sorridente. Loro parlano, ma estremamente sottovoce, come a scambiarsi quasi dei segreti. Alla fine vanno via, fanno un semplice gesto di saluto, lei vede da dietro al bancone che hanno lasciato i soldi sopra al tavolino, ma continua a seguire con lo sguardo i due mentre escono dal suo locale e si allontanano. Poi va a liberare il tavolino, e si accorge solo allora che sotto al posacenere le è stata lasciata una grossa mancia, perfino esagerata, quasi quanto lei riesca a guadagnare in una intera giornata di lavoro. Allora si precipita a guardare meglio i due uomini mentre si stanno allontanando, loro si voltano dalla strada quasi intuendo di essere osservati, dicono qualcosa tra di loro, forse le fanno un ulteriore cenno, quasi alla ricerca di un saluto speciale da lasciarle, poi alla fine però spariscono alla vista.

            Bruno Magnolfi

            

sabato 10 agosto 2013

Senza capo né coda.

            
            Lui scende le scale quasi di corsa, entra in auto, attraversa il quartiere e imbocca il casello autostradale, direzione nord. Si ferma dopo mezz’ora in un’area di ristoro, ordina un caffè, si siede ad un tavolino e ripensa all’espressione dolce di lei mentre stava dormendo. Lei, svogliatamente, senza alcuna preoccupazione, si alza dal letto dopo un po’, accende la radio, si fa una doccia, poi va a sedersi e lascia che i suoi pensieri scorrano nella sua mente senza neppure provare a interromperli. Dopo giorni di caldo e tempo immobile, adesso si è alzato il vento, ed a lei questo sembra proprio il segno che andava aspettando, senza neppure aver saputo fino ad allora che attendeva qualcosa.
            Lui si sente come in mezzo ad un guado, non ha più alcuna voglia di spingersi avanti, ma non prova neppure una vera necessità di tornarsene indietro. Alla fine aspetta semplicemente la prossima persona che entrerà dentro al locale: se è un uomo, pensa, farà una cosa; se invece è una donna, farà l’altra. Infine si alza, paga la consumazione, rientra nella sua macchina, percorre il tratto autostradale fino al primo casello, e poi torna indietro.
            Lei lo aspetta, sa perfettamente di vederselo arrivare addirittura in quella stessa mattina, e anche se ancora non ha deciso come farsi trovare, sa che resterà in silenzio, per permettergli di dire tutto ciò che ha pensato di loro due. Non ha alcuna importanza essersi visti o meno per tutto quel periodo, a suo parere; ciò che conta davvero è adesso, ciò che può avvenire in questa giornata qualsiasi, e non perché debba succedere qualcosa di particolare, ma soltanto perché le pare che qualcosa nell’aria abbia deciso così per loro due.
            Poi si trucca leggermente davanti allo specchio, indossa un vestito elegante con indifferenza, cerca una borsa adatta alle scarpe, e infine esce, senza nessuna preoccupazione se non dove andare, senza riflettere sui veri motivi che la portano fuori di casa. Comunque ha il telefono con sé, e questo le pare già sufficiente.
            Lui parcheggia lungo la strada, riflette per un attimo restando seduto nell’auto, infine si muove, cammina lungo il marciapiede e raggiunge il portone del condominio dove abita lei. Suona il campanello, attende diversi secondi, torna a premere con decisione il piccolo pulsante, ma al citofono non risponde nessuno. Si volta, torna perplesso verso la sua macchina, ma si ferma, poi attraversa la strada, osserva con calma i clienti dentro i negozi e i caffè della zona. Immagina di incontrarla per caso, magari riuscire ad osservarla attraverso una vetrina mentre lei non lo vede, ma per quanto continui a cercarla, di lei non sembra ci sia alcuna traccia.
            La giornata scorre, lui torna indietro, sale sulla sua auto, fa il giro completo delle strade di quell’isolato; poi se ne va. Lei sopra l’autobus osserva più volte il suo telefono portatile, senza trovarvi alcun mutamento. Quando decide che è l’ora di tornarsene a casa, si sforza di rimanere in giro ancora per qualche decina di minuti, camminando a caso senza una meta. Qualcosa non gira perfettamente nella loro relazione, pensano separatamente ambedue. Non importa, riflettono: ci saranno altre occasioni, altre giornate, altre possibilità, ed anche se probabilmente non sarà mai più la medesima cosa, avranno altro tempo da dedicare con grande impegno a tutte queste sciocchezze.


            Bruno Magnolfi

martedì 6 agosto 2013

Conferma di ogni dubbio. (Pausa n. 4).

            

            Montemerani era rimasto in silenzio mentre lo specialista di malattie neurologiche scorreva con attenzione quei venti o trenta fogli in cui erano state vergate da altri suoi colleghi le caratteristiche della sua poco comprensibile patologia. Provava una leggera tensione restando seduto davanti a quella scrivania, ma i suoi familiari, che tanto avevano insistito per quell’ennesimo consulto, erano riusciti a spingerlo fin lì nonostante il forte sospetto che anche in questo caso si sarebbe fatto un altro buco nell’acqua, e nulla di buono, con molta probabilità, anche stavolta ne sarebbe uscito fuori.
            Lei, signor Montemerani, come si classificherebbe, gli aveva chiesto di punto in bianco, dopo parecchi minuti, il luminare, dandogli una veloce occhiata e ritornando, in attesa di risposta, a ripassare di nuovo quelle carte che continuava ad avere tra le mani. Dopo, era trascorsa una pesante pausa di silenzio, forse quasi più lunga di quello che appariva necessario, e in quella fase lui come ammalato aveva cercato di raccogliere quasi tutte le proprie idee, concentrandosi sulla risposta che era meglio fornire a quest’altro rompiscatole blasonato, pur sfuggendogli, e con un certo dispiacere, il senso proprio di una domanda di quel genere.
            Non aveva mai pensato prima di allora di doversi ascrivere ad una qualche categoria di persone o addirittura di ammalati, di ritrovarsi ad etichettare se stesso come facente parte di una certa schiera, individui probabilmente tutti simili tra loro, come immaginava, riconoscibili magari per certe caratteristiche o per evidenti particolarità, quasi una serie di oscure figure magari a lui semplicemente estranee, ma che all’improvviso, nella sua fantasia, parevano voltare la faccia tutti assieme, e lui con loro, per mostrare un’espressione praticamente identica, o addirittura evidenziando quasi una sottile maschera sul volto, ognuna uguale all’altra.
            Continuava ancora a pensare, il Montemerani, quando l’altro alzava lo sguardo indagatore su di lui, quasi a rendersi conto effettivamente di quanto tempo avesse necessità quel paziente antipatico a rispondere. Allora lui, praticamente per reazione, affondava d’improvviso il suo sguardo solitamente sfuggente, fino oltre quegli occhiali insulsi cerchiati d’oro che aveva di fronte, e biascicava sottovoce quanto in genere si sentisse semplicemente estraneo a tutto quanto. Il medico proseguiva a guardarlo senza assumere un’espressione definibile, forse addirittura cercando di mostrare la sua incredulità a quelle parole, e infine insisteva: estraneo, in quale senso? Faccia un esempio della sua giornata tipo, Montemerani, cerchi di farmi comprendere meglio il suo pensiero.
            Lui si prendeva così ancora del tempo, ma adesso si sentiva persino alleggerito, avendo con questa uscita già detto molto di se stesso, secondo i suoi parametri. All’improvviso si sentiva soddisfatto di essere riuscito ad aggirare l’ostacolo in quel modo, tanto da ritrovarsi una piccola dose di coraggio aggiuntivo, e mormorare con semplicità: per me essere qui o in un altro luogo, praticamente, è la medesima cosa. L’altro faceva scricchiolare le carte, quasi a cercare di comprendere se quel paziente avesse veramente voglia di guarire o no dalle sue piccole manie, ma proprio in quell’attimo Montemerani, ormai a suo agio, si alzava dalla sedia, accomodava sopra la sua faccia un debolissimo sorriso, e in un attimo si voltava per raggiungere la porta dello studio e quindi andarsene.
            Dove va, gli aveva chiesto quasi incredulo ai propri occhi, pur dietro i suoi occhiali, il professore; ma Montemerani a quel punto non si degnava neppure di rispondergli, e ormai raggiunta la porta e scivolato dentro al corridoio di quella clinica, semplicemente alzava un po’ di più le spalle, lasciando dietro a sé l’interezza di quei dubbi che aveva sparso anche sopra la scrivania del luminare, sollevato per essere riuscito perfettamente, anche in questo caso, a confermarli tutti.


            Bruno Magnolfi

domenica 4 agosto 2013

Le cose da vivere.

            



            La mamma era morta al mattino. O meglio, l’avevo trovata così, quando mi ero svegliata, già rigida e immobile dentro al suo letto. Non le avevo detto niente, mi ero limitata ad accarezzarle la faccia, senza aver voglia di piangere, poi avevo cominciato a vegliarla, per tutto quel giorno, muovendo avanti e indietro la testa come sempre facevo quando  mi sentivo nervosa. Non avevo chiamato nessuno, e nessuno era venuto a cercarci, per tutto quel giorno e per chissà quanti altri giorni, pensavo. In genere al mattino lei mi diceva di prendere i soldi dal suo borsello, scendere giù in quel negozio a comprare del pane, le uova, insalata, due fettine di carne, ma quel giorno la mamma non aveva detto più nulla, ed io non ero scesa da casa, ero rimasta lì, assieme a lei, tanto non avevamo bisogno di niente. Era già sera, vedevo il buio in mezzo alle stecche delle persiane, le finestre per tutto quel giorno erano rimaste sprangate, come se il giorno non fosse ancora arrivato; ed io non sentivo la fame; non sentivo i rumori, non sentivo il silenzio, non sentivo più niente, non avevo voglia di niente, mi sentivo senza più alcuna possibilità di sentire le cose. La mamma era lì, con i suoi occhi chiusi, e l’unica cosa che io continuavo a volere era rimanere con lei, lì vicino, sentire la sua presenza accanto alla mia, pur senza guardarla, perché il suo pallore mi faceva paura. Solo di stare lì avevo voglia, sopra la sedia, a muovere leggermente la testa, la mia testa vuota, senza più alcun pensiero. Poi avevo iniziato a cantare una nenia, una nenia che conoscevo quando ero piccola, tanti, tanti anni fa. L’avevo ripetuta più di una volta, mentre cercavo di ricordarne le poche parole, poi non avevo più smesso, pur continuando a ripeterne solo una strofa, l’unica che ero riuscita a ritrovare dentro alla testa. Avevo voglia stringermi i ginocchi al mio corpo, di farmi più piccola, di rannicchiarmi, pur con quei miei capelli ormai tutti bianchi che mi erano nati da chissà quanto tempo, a sostituire quei riccioli biondi delle fotografie che spesso mi faceva vedere la mamma. E mi sembrava di essere tornata a quel tempo, quando la mamma cercava di insegnarmi le cose, e mi portava sempre dai medici e mi diceva che erano amici, che facevano tutto solo per me, e loro coi camici bianchi e lo sguardo fissato sorridevano e mi chiedevano quello e quell’altro, ed io però mi sentivo nervosa e mi rinchiudevo sempre di più. Il sonno poi, era calato improvviso, e a me dispiaceva di non aver pianto per niente, ma non ne trovavo neppure ragione: la mamma era lì, dentro al suo letto, io mi sarei sdraiata con lei, non l’avrei mai abbandonata. Il giorno dopo tutto era uguale, ma io avevo cominciato a tremare, forse avevo la febbre, e mi ero sporcata, la mamma mi avrebbe sgridato, pensavo, ma stavolta era successo senza che neanche me ne accorgessi, e adesso l’odore era forte ed io sentivo vergogna, ma non potevo far niente, pensavo, e dovevo restarmene lì, assieme a lei, e aspettare quando la mamma diceva di scendere per prendere il pane e altre cose, e forse avrei voluto tornare ad un tempo diverso, quando tutto era bello, e le cose erano ancora tutte da fare, da scegliere; forse da vivere.


            Bruno Magnolfi

venerdì 2 agosto 2013

Eroe contemporaneo (ritratto n. 12).

            

            Certe volte lui sembrava mostrare una leggera indifferenza verso gli altri, ma era solo una posa; in ogni caso si lasciava salutare, così come lui stesso salutava tutti coloro che conosceva almeno di vista, sia incontrandoli per strada che trovandoli al caffè dove spesso si recava per trascorrere mezz’ora dopo il termine del suo orario di lavoro. In qualche caso poi, gli poteva capitare di intrattenersi a parlare con coloro che conosceva meglio, spiegando il proprio punto di vista sugli argomenti di attualità riportati generalmente dai notiziari delle emittente televisive nazionali, o anche dal giornale quotidiano che trovava direttamente lì, sopra quei tavoli.
            Alcune volte si sentiva perfettamente a proprio agio nel padroneggiare certe notizie che magari aveva approfondito, mentre in altre occasioni si limitava ad annuire ciò che gli altri dicevano a gran voce. C’era bisogno di condivisione, si diceva in quei periodi, e lui si trovava spesso d’accordo su tutto ciò che normalmente veniva affermato dalle persone che conosceva meglio. Era comunque facile dare ragione a qualcuno che evidenziava con calore ed interesse le proprie ragioni, e lui su questo si mostrava sempre generoso. Ma infine non si tratteneva mai in quel locale troppo a lungo: era sua abitudine non attardarsi a quell’ora, più per tradizione però, che per altri motivi.
            Rincasava in ogni caso senza troppa fretta, allentando perfino il passo una volta giunto in vista della sua modesta abitazione. In fondo non c’era niente di male, pensava spesso, nel cercare di portare avanti una sua vita sociale, avere relazioni coi conoscenti, soffermarsi, come a lui piaceva fare, nelle circostanze o anche direttamente davanti al portone del condominio dove abitava, a parlare con qualche vicino degli ultimi pettegolezzi del quartiere, o di qualche altro argomento divertente. In seguito comunque, provava sempre un profondo piacere nel rinchiudersi da solo nel suo piccolo appartamento, e ritrovare là dentro le cose a lui più familiari, per trascorrere delle serate calme e totalmente prive di preoccupazioni.
            Altre volte, al mattino dei giorni festivi, era solito farsi una passeggiata fino ad arrivare nella piazza principale della sua piccola città, acquistare all’edicola lungo la strada un quotidiano, e mettersi seduto su una panchina al sole, proprio per scorrere sopra il giornale le notizie più importanti. Si sentiva addirittura generoso in quel suo starsene beatamente rilassato in un luogo di tutti, mostrando il suo miglior vestito e la sua faccia ben sbarbata. Qualche volta poi si lasciava anche  convincere, da un amico, un conoscente, un collega di lavoro incontrato in quella zona, ad andare a pranzo in qualche trattoria poco distante. Da solo, è evidente, non lo avrebbe mai fatto, ma in compagnia di qualcuno riusciva a sentirsi perfettamente a proprio agio.
            Perché alla fine gli piaceva intrattenersi al tavolo, una volta seduto nel locale pubblico, quasi come fosse un abitudinario di qualche posto alla moda, studiando con garbo e attenzione tutto il menu del ristorante, oppure sbirciando i clienti presenti anche se senza insistenza, cercando semplicemente con curiosità di notare gesti buffi o goffi di qualcuno, oppure rilevando divertito somiglianze di alcuni con altri di sua conoscenza. Terminato il pasto gli pareva sempre presto per andarsene, ed anche se nella sala da pranzo non c’era quasi più nessuno, lui trovava spesso la maniera per trastullarsi con qualcosa: un discorso da concludere, un ultimo goccio di quel vino da terminare, un secondo caffè da farsi servire dal cameriere. Non si faceva mai vedere nervoso o addirittura arrabbiato: era il suo modo naturale di mandare avanti le cose; d’altra parte non avrebbe certo potuto cambiare da un momento all’altro il suo carattere.


            Bruno Magnolfi