venerdì 29 marzo 2013

Pensieri consueti.


           

Lui muove la testa per seguire con gli occhi qualcosa fuori dalla finestra, lei lo osserva senza interesse ma come replicando una volta di più una propria abitudine. Il giardino davanti alla casa è soltanto una striscia di cemento recintata da una ringhiera di ferro, al cui interno vivacchiano alcune piante dalle foglie polverose in vasi scuri di diverse forme. Non ci trovo niente di male, fa lei, quasi con ironia. Domani potremmo partire presto, e dopo il viaggio goderci tutto il resto della giornata passeggiando sulla spiaggia senza pensieri. Lui si volta, la guarda, pensa a cosa tirar fuori per toglierle o almeno indebolirle quell’idea dalla mente; poi, quasi senza una vera e propria espressione, dice soltanto: certo, sarebbe proprio quello che ci vuole.
Lei prosegue a fumare seduta allo scrittorio, sfoglia senza interesse una rivista illustrata e intanto continua a pensare al suo delizioso fine settimana da trascorrere senza preoccupazioni in quel paesino di mare, che le piace, certo, ma dove soprattutto avrà modo di capire a che punto siano i suoi sentimenti per lui. Lui a sua volta si rende conto perfettamente che una volta arrivati in quel luogo così meraviglioso nei pensieri e nei discorsi di lei, lei inizierebbe inevitabilmente a lamentarsi che la temperatura dell’aria non è quella che si immaginava, che in giro non c’è quasi nessuno, che l’albergo non va bene, il cibo del ristorante non le piace e tante altre cose del genere; fino ad affermare che forse muoversi da casa è stato un deprecabile errore.
Lui all’improvviso si muove come ricordandosi qualcosa di urgente, lei gli chiede subito cosa c’è che non vada. Ho lasciato l`agenda in ufficio, spiega lui con disappunto; ma in fondo forse non è neppure cosi importante, posso fare un salto a prenderla più tardi. Certo, potresti passarci dopo cena, fa lei, magari vengo con te e ci fermiamo in un locale a bere qualcosa, tanto per passare la serata. No, insiste lui, ho detto che non è molto importante, in fondo posso rimandare anche a domani mattina. Lei lo osserva con attenzione per capire se quella sia soltanto una classica tattica per uscire di casa più tardi da solo, magari per telefonare a chissà chi senza essere ascoltato, oppure se gli va soltanto di stare per un po’ senza di lei; ma poi si sente attratta da un pensiero in cui è prevista soltanto se stessa, e così dice: va bene, hai ragione, stasera c’è appunto un programma in televisione che non mi va proprio di perdere.
Lei trova sul giornale che ha di fronte le previsioni meteorologiche per quei giorni e sbotta subito: vedi, domani forse ci sarà pure qualche nuvola in cielo, ma è quasi sicuro che non pioverà, mi pare questa senza dubbio un’ottima notizia. Lui torna ad osservare qualcosa fuori dalla finestra chiusa, e intanto riprende a riflettere su che cosa mettere in mezzo per distoglierla da quell’idea poco felice. Se mi telefonasse il Mariotti per quel progetto, dice quasi sottovoce ma scandendo bene le parole, sarebbe bene fossi pronto ad incontrarlo, in qualsiasi momento gli venisse alla mente di vedermi. Purtroppo la cosa migliore per tutto questo sarebbe che non mi allontanassi troppo da qui e dall’ufficio. Lei non dice niente, mostrando forse di non credere neppure ad una parola di quello che è appena stato detto, ma evita qualsiasi commento.
Lui la osserva per un attimo, vagamente perplesso per quell’improvvisa assenza di opinioni, poi annuncia, tanto per cambiare argomento, che stasera si diletterà di cucina, impegnandosi in verdure al vapore e involtini di vitello cotti nel forno. Lei non si scuote, osserva per un attimo la televisione spenta per cercare di immaginarsi a che cosa avrebbe davvero voglia di assistere, e infine allunga un braccio per raccogliere il telecomando, senza premere però alcun pulsante. Suona il telefono, lui esce dalla stanza, poi torna dopo appena un minuto: era il Mariotti, dice; domani mi vuole vedere, mi dispiace per i tuoi programmi. Adesso vado in cucina, più tardi passerò dall’ufficio.

Bruno Magnolfi 

martedì 26 marzo 2013

Persecuzione semplice.


            
Di lei in fondo non posso dire molto, se non che i suoi percorsi in questi ultimi tempi, come d’altronde anche in precedenza, sono stati praticamente ordinari, senza elementi particolari degni di nota. Seguirla in fondo non mi è stato difficile, si è mossa senza  fretta da un luogo all`altro, come prolungando il piacere di trovarsi lungo la strada a farsi ammirare da chiunque, anche se magari i più non la notavano nemmeno mentre camminava ancheggiando e specchiandosi nelle vetrine dei negozi. Ma in fondo quando si è preso l`abitudine a qualcosa, non si riesce ad essere diversi, ho pensato, e quel qualcosa anche se appare irrilevante è come se facesse parte ormai di noi.
Non so dire di più, naturalmente mi sono appuntato con esattezza tutti i luoghi in cui si è recata con tanto di orari e tempi di sosta, ed ho evidentemente cercato di creare delle descrizioni precise dei suoi comportamenti e della maniera in cui mi è apparso il suo abbigliamento a seconda dei vari giorni e delle circostanze, il tutto corredato da svariate fotografie prese di nascosto che purtroppo ho potuto soltanto scattare da dietro o al massimo dal fianco, mai di fronte, anche se la maggior parte delle volte dei grandi occhiali scuri ne coprivano il viso e le espressioni.
Ora conosco cosa faccia, dove si reca, quali sono i luoghi principali che frequenta; ma i suoi comportamenti mi appaiono adesso ancora più sfuggenti di quanto avrei immaginato in un primo tempo, tanto che non so decidermi a niente, ed il mio intervento diretto su di lei mi pare qualcosa di sempre più difficile da mettere insieme. Penso qualche volta che sarebbe stato molto meglio per me aver agito subito d’impulso, essermi dedicato ad immobilizzare la donna in un portone, per esempio, o in un luogo isolato, oppure averla fatta salire con una scusa sopra la mia auto, ed essere riuscito a sentire all’improvviso tutta l’ebbrezza del fatto di averla finalmente in pugno, ai miei comandi, in mio potere.
Ma non mi sento del tutto quel tipo di persona, così ho proseguito semplicemente durante questo tempo ad osservare i dettagli e i comportamenti della donna in tutti quei luoghi pubblici dove mi è stato possibile studiarla, ricevendo comunque dal mio agire una certa soddisfazione. Due o tre volte ho avuto l`impressione che lei mi avesse visto, e di questo almeno inizialmente non mi sono neppure troppo preoccupato; anzi, in fondo era proprio il correre questo rischio a darmi la carica che serviva, anche se in seguito tutto mi è sembrato diminuire d`importanza. Ho pensato più di una volta che a lei non interessasse affatto essere seguita, controllata, spiata in ogni momento, così come stavo facendo. A lei interessava essere se stessa, ho riflettuto, ed incrociare gli altri per strada non come dei singoli, ma come un gruppo, un indifferenziato gruppo di avvistatori buoni solo per sciogliersi al suo passaggio. Lei se ne infischiava di tutti, ecco il punto, e la sua indifferenza sostanziale verso gli altri a me appariva quanto di più eccitante potessi immaginare. 
Infine tutto quanto è andato come perdendo di valore, non saprei neppure dire il perché: da tre o quattro giorni ho smesso di seguirla, mi sono praticamente disinteressato di lei e di tutto ciò che fa; in questo momento non mi sento più lo spirito adatto a proseguire, ecco tutto. Ciò non toglie, naturalmente, che posso riprendere la mia attività in qualsiasi momento.

Bruno Magnolfi

lunedì 25 marzo 2013

Raggiungimento della solitudine.


            
            Abito al terzo piano di un grande caseggiato piuttosto anonimo, e da un po’ di tempo mi ritrovo certe volte a pensare che dovrei andarmene da qui, anche se non saprei esattamente dove. Non so neppure perché mi sia venuta in mente all’inizio quest’idea, a dire tutta la verità e considerato che in questo appartamento ci abito da sempre, ma in ogni caso in questi ultimi tempi mi sono spesso ritrovato ad osservare tutte le case degli altri quartieri della città con occhi differenti. Certe volte ho pensato addirittura che in fondo potrei tranquillamente trasferirmi in una città differente da questa, dove non conosco nulla, dove probabilmente potrei ricominciare tutto da capo. Ma in ogni caso vorrei andarmene da qui, è soltanto questo il punto principale, anche se non riesco neppure a comprendere appieno la motivazione che mi porta a questa riflessione.
            Così ogni giorno, quando ho finito con il mio lavoro e torno ad attraversare con il mezzo pubblico tutti questi agglomerati di case del mio vasto quartiere, mi scopro spesso ad osservare le finestre di qualche appartamento che si apre sulla strada, e subito mi proietto all’interno di quelle abitazioni, come potessi già essere lì, ad affacciarmi da quei davanzali e a guardare con indifferenza l’autobus che transita. Un collega di lavoro mi ha detto che la mia è soltanto voglia di novità, desiderio momentaneo di respirare un poco di aria nuova, ma io non gli ho dato retta, so che c’è dell’altro: c’è qualcosa che lui forse non potrebbe neppure  immaginare. Vorrei sparire in un attimo, ecco qual’é il punto, senza neppure assistere al finale, come se potessi diventare soltanto uno spettatore neutro dell’ultima fase della mia vita, anche se lunga.
            Arrivare in qualche luogo dove nessuno mi conosce, ecco qual’é il mio desiderio; dove non ci sia bisogno di salutare sempre tutti e di fermarsi ogni volta a fare due parole con quello o con quell’altro. Ecco semplicemente la mia necessità più forte. Non perché vorrei vivere in completa solitudine, quanto perché ho bisogno di prendermi del tempo per riflettere, senza che sia continuamente ossessionato dalla presenza dei vicini, o delle persone che conosco anche solo di vista, oppure della gente con cui scambio in certi casi un semplice saluto, ma che studiano continuamente i miei comportamenti, e forse addirittura il mio modo di vestire, tutto per giungere probabilmente a farsi un’idea precisa della mia maniera di essere e di tirare avanti.
            Infine giungo alla fermata più vicina a casa mia, scendo dal tram, costeggio il marciapiede, arrivo al condominio in cui proseguo ad abitare, e salgo le scale come sempre, senza fretta. Non c’è nessuno, penso, con cui non possa fermarmi a parlare del tempo o del più e del meno, e questo in fondo è tutto il problema principale. Sono arrivato a immaginare qualche volta che ci sia chi conosce perfettamente i miei orari, e certe volte se ne rimane lì ad attendermi, giusto per raccontarmi con semplicità le medesime cose di ogni giorno. Ci sono addirittura dei conoscenti che in pratica non aspettano altro che questo, forse pensando che a me faccia piacere, senza rendersi minimamente conto del danno che invece mi arrecano.
            Che esistenza può mai essere questa, mi chiedo. Sparire, questo è l’unico rimedio. Così torno a sognare piccole dimore lontane il più possibile da qui, assolutamente prive di contatto con l’esterno, dove la caratteristica principale sia l’assenza di scambio di ogni genere con gli altri, e che siano distanti chissà quanto da questo mondo così asfittico, ma dove io possa pienamente sentirmi bene, a mio agio, assolutamente a posto; e finalmente solo.

            Bruno Magnolfi

domenica 24 marzo 2013

Nell'immagine del gatto.


            
            Consultando con attenzione la pianta, apparentemente le cose sembrano tutte al loro giusto posto. Eugenio immagina le persone che passeggiano lungo le strade, le famiglie rannicchiate nei propri alloggi, i capannoni industriali dove macchinari rumorosi vengono seguiti dall’occhio attento degli addetti ai lavori. Le automobili scorrono lungo l’asfalto, i treni muovono dalla stazione come nei giochi dei ragazzi degli anni sessanta. Eppure Eugenio pensa che sia tutto inutile, anzi assurdo, come se quello fosse soltanto un mondo immobile, privo ormai della spinta iniziale, dell’abbrivio che fa girare il mondo costantemente.
            Le zone della città sono riconoscibili e caratterizzate da qualcosa di evidente, ma alla fine tutto appare omogeneo: uguali aspirazioni, medesimi pensieri, discorsi di sempre fatti e rifatti inserendo ogni volta qualsiasi variante possibile. L’immagine è quella di un gatto che lentamente attraversa una strada deserta dell’agglomerato di case dove non succederà nulla.
            Poi Eugenio piega la carta, si alza, esce di casa, proprio per andare a rendersi conto di quello che è rimasto là fuori, se ci siano ancora i discorsi, i sorrisi, le idee: la volontà. Lungo la strada si avverte una presenza di polvere, le auto si muovono, le persone passeggiano. Entra in un negozio per comprare qualcosa, ma si sente del tutto fuori posto, come essersi spinto già troppo oltre quella quotidianità che fa da collante dei gesti e degli atteggiamenti degli altri. La donna dietro al banco gli chiede che cosa desideri, lui osserva in giro alcuni scaffali con sopra i prodotti, indica qualcosa ma senza alcun convincimento. Lei esce da dietro la sua postazione, gli dice qualcosa con evidente gentilezza, Eugenio cerca di seguirne tutti i gesti e le parole di spiegazione.  
            Accetta il flacone che la donna gli porge, si fa dire ancora qualcosa, infine tira fuori dei soldi e paga il prezzo che la negoziante gli chiede. Vorrebbe uscire da lì, ma crede di non avere del tutto compreso alcune motivazioni, osserva ancora la confezione del prodotto che ha tra le mani, chiede con ingenuità se può cambiarlo nel caso non sia esattamente ciò che si aspetti. La donna lo guarda, finisce di comprendere che c’è qualcosa che non è a posto nella persona di fronte a lei, così con grande amabilità dice soltanto: è semplicemente una schiuma da barba, Eugenio; al momento che l’hai usata non puoi più sostituirla, e d’altra parte le altre marche non sono molto differenti, il principio con cui sono state confezionate è sempre il medesimo.
            Eugenio annuisce, sa che la donna ha ragione, che lui cerca soltanto di inserire il dubbio all’interno di cose che appaiono scontate, nient’altro. Infine muove per uscire da dentro al negozio, saluta la donna, apre la porta vetrata, ma sulla soglia si ferma, si gira, dice in fretta che c’è qualcosa di cui non è affatto convinto, ma al momento non sa cosa sia. Poi si ritrova da solo sul marciapiede, ha adempiuto completamente ai suoi compiti principali, pensa, può tornarsene tranquillamente alla sua abitazione, e forse sentirsi bene, proprio come tutti.

            Bruno Magnolfi

giovedì 21 marzo 2013

Meditazioni sul niente. 6.


            
            Ancora prima di giungere a destinazione immagino già tutti pronti ad accogliermi con le loro critiche, i loro finti sorrisi, la loro maniera di non condividere niente dei miei comportamenti. Normalmente penso molto a ciò che cerco di fare, e mi interrogo in modo intenso su tutto ciò che viene fuori dalla mia testa, fino a convincermi che quello che decido spesso è la cosa migliore da fare per me, ma immancabilmente trovo sempre qualcuno disposto a spiegarmi che al contrario da ciò in cui ripongo la mia fiducia, decisamente ho ancora sbagliato.
            Così salgo sui mezzi pubblici guardandomi attorno alla ricerca di qualcuno almeno vagamente accondiscendente, magari con una faccia aperta, con un’espressione disposta ad accogliere se non altro una parte dei miei pensieri. Scusi, chiedo a volte a qualcuno; non riesco a capire su quali scelte posso ancora fare forza, lei non potrebbe aiutarmi, darmi un parere? Lei fa domande troppo difficili, rispondono alcuni; altri iniziano a spiegarmi che i miei errori sono evidenti, ed è del tutto inutile insistere.
            Eppure cerco soltanto di spingere avanti le cose in cui credo, lottare per quelle medesime cose, perseverare, ed è questo che tutti mi hanno sempre insegnato, non capisco dove stia il grave problema. Torno a lasciarmi trasportare dai mezzi pubblici, incontro persone che sembrano distanti da me, dalla mia maniera di porre le cose. Chiedo ad una signora se ci possa mai essere un’intesa tra le nostre differenti maniere di essere; mi viene risposto che io non so stare al mio posto, che c’è necessità di usare un’accortezza che purtroppo è probabile non abbia mai appreso.
            Qualcuno mi urla da dietro che il mio è soltanto il comportamento del perfetto egoista, colui che pensa soltanto a se stesso, senza preoccuparsi di altro. Non so che cosa pensare, così mi concentro soltanto per tornare il più presto possibile a casa, dove forse mi aspettano i miei familiari. Sembra che niente sia destinato a cambiare, penso; pur con il mio desiderio profondo di porre in primo piano le questioni che dominano la mia giornata, so già per certo che tutto si presenterà nella stessa maniera di sempre, e le mie aspettative decadono, o almeno si mostrano sempre più deboli.
            L’autista del tram mi dice che il suo percorso è preciso, con tanto di orari e fermate ben definite, io annuisco, forse lo invidio. Lascio che il mezzo mi trasporti esattamente dove vuole, penso di perdere sempre di più l’idea di una meta precisa verso cui dirigermi, ma torno a riflettere sulla volontà di rientrare come ogni giorno nella mia casa, ritrovare un luogo che in qualche maniera mi assomiglia, dove posso addirittura pensare di stare a mio agio, perfettamente. L’autista scuote la testa e non replica niente, anche se è evidente che non è d’accordo con me.
            Lascio che il silenzio mi avvolga, anche se il brusio dei miei pensieri è palese: tra poco sarò a destinazione, penso, mi sento colmo di fiducia, tra un attimo saprò se le mie aspettative saranno state giustificate, se qualcuno dei miei familiari sarà adesso disposto a stare dalla mia parte. Scendo dal mezzo, salgo le scale del condominio, inserisco la chiave nella serratura, apro e immediatamente mi accorgo che niente è cambiato, tutto è esattamente com’era, e i miei familiari hanno scelto di nuovo di non condividere niente con me: è tutto inutile, penso, tanto vale mi faccia paladino di questo mio isolamento.      

            Bruno Magnolfi

lunedì 18 marzo 2013

Dentro alla tela del ragno. 2.


            
            Immagino un ragno che si muova lentamente sopra questo davanzale, oltre i vetri della mia finestra, e che tremi appena sulla sua tela, sotto la brezza leggera che spira da oltre la fila di alberi in fondo. Il viottolo di fronte costeggia una siepe ed affianca un fossato poco più avanti, alcune persone passeggiano in quei pressi, senza alcuna fretta, quasi che il tempo insieme a quelle persone tendesse a fermarsi.
            Vorrei raggiungerli, dire a tutti con voce concitata e gesti espressivi che mi piacerebbe tanto essere esattamente come sono loro, parlare camminando lungo il viottolo, e sentirmi sereno, in pace con tutto, uguale agli altri, ma invece proseguo ad immaginarmi il ragno sulla finestra, ad intuirne il debole movimento, la sua stupida attività, ed un gusto profondamente sgradevole mi assale sempre di più, fino a farmi chiudere gli occhi, e a spingermi di nuovo nella mia solitudine.
            Decido che ne ho abbastanza di questa osservazione inutile della realtà, ed esco di casa. Tira vento, mi stringo addosso la giacca, le mani sprofondate dentro le tasche, il comportamento incuriosito da quel senso di instabile che mi circonda. Non trovo niente di incoraggiante, comunque proseguo con i miei passi incerti alla ricerca di qualcosa che non so definire. Incontro qualcuno per strada, vorrei salutare quelle persone, fermarmi con loro, scambiare un segno, un gesto, una semplice parola, ma percepisco indifferenza e così proseguo senza neppure voltarmi.
            Poi rientro a casa, insoddisfatto di tutto, torno alla finestra ed il ragno è ancora lì sul davanzale, che prosegue con i suoi lavori su quell’orribile tela finissima e trasparente. Con fatica apro la finestra, i cardini rumoreggiano e qualcuno dal viottolo si gira per osservarmi. Non c’è niente di male, penso, nel rimanermene qui ad osservare qualcosa che mi scorre sotto gli occhi, quasi per indolenza, senza che neppure ne abbia la minima voglia.
            Mi soffermo un momento come sovrappensiero, lascio che il vento mi smuova i capelli, che mi accarezzi la faccia, poi a mano aperta schiaccio quel ragno schifoso.

            Bruno Magnolfi
           

sabato 16 marzo 2013

Coscienza sociale.


            
            I termosifoni sono appena tiepidi, rifletto, eppure fuori il freddo è pungente, ci sarebbe bisogno di una temperatura più alta per stare bene in queste mie stanze d’affitto. Giro per casa con un grosso maglione sopra le spalle, mi sposto con difficoltà perdendomi in nulla, ho i brividi, avrei voglia di sdraiarmi nel letto vestito come sono, raggomitolandomi sotto alle coperte alla ricerca di quel caldo e quella concentrazione che adesso mi mancano.
            Potrei uscire, andarmi a rinchiudere in un cinema e distrarmi. Poi penso che il mio dovere sia quello di starmene qui a cercare almeno di mettere insieme un programma per il mio futuro. Certe volte immagino di essere arrivato al culmine di tutto, più avanti di così non posso spingermi, ci vorrebbe un’occasione, un piccolo aiuto del caso o della fortuna, per uscire da questa fase.
            Sento bussare alla porta, è la signora che abita nell’altro appartamento sul pianerottolo, mi viene a chiedere come stia, se abbia bisogno di qualcosa. No, è tutto a posto, non deve preoccuparsi, le dico. Forse dovrei partire, proseguo; andarmene da qui, imbarcarmi per un lungo viaggio che serva a dimenticare tutto questo. Ha sempre voglia di scherzare, fa lei, dove vuole andare con la sua salute cagionevole, alla sua età.
            Forse ha ragione, sussurro, ma che cosa vuole che importi tutto questo: voglio andarmene, questo è ciò che conta più di ogni altra cosa. Va bene, va bene, fa la signora, vuole intanto che le porti un po’ di minestra calda? Faccio segno di si con la testa, lei mi sistema la tavola, io intanto mi siedo. Se non fosse per questo freddo che sento, rifletto tra me, sarebbe tutto più semplice, le cose apparirebbero sotto una luce senz’altro differente.
            La signora esce, ed io all’improvviso mi sento un pezzente ridotto ai minimi termini. Quando torna sento di aver preso una decisione importante dentro di me: tra un mese da oggi le cose dovranno andare in un’altra maniera, dovrò impegnarmi per un cambiamento radicale delle mie giornate. La signora mi spiega che fuori è in corso un assembramento non so in quale piazza, dicono tutti che le cose cambieranno tra breve.
            Ingoio lentamente un cucchiaio di minestra, la gola scaldata mi rinfranca, penso che anche io vorrei far parte di quella spinta verso un grande cambiamento, perciò mi spingerò fuori, con gli altri, prenderò parte alla vita sociale di questa città, fino a dimenticarmi dei miei piccoli guai, di questo freddo che continua ad attanagliarmi: fingerò di non sentirlo, forse, semplicemente, come se il clima fosse cambiato davvero, ancora prima che sia giunta la bella stagione e che si sia fuori davvero da questo inverno terribile.
            Mi sento la testa pesante, la signora prende il piatto ormai vuoto, dice che se ne va, se ho bisogno di qualcosa le devo bussare alla porta. Va bene, dico, la ringrazio. Poi mi alzo da tavola, vado a guardare dalla finestra lo spicchio di strada qua sotto: non c’è nessuno, chissà dove sono tutte le persone. Voglio uscire, penso ancora, andare a cercare la gente. Infine entro nella mia piccola camera, scosto le coperte del letto e mi corico: mi basta mezz’ora, penso, un’ora al massimo; poi sarò pronto, mi unirò agli altri, farò la mia parte, nessuno avrà niente da dire.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 13 marzo 2013

Dietro ai sogni (cortometraggio n. 3).


                  

Non vedo niente qua attorno, pensava Vittorio, se non i miei soliti passi di sempre sull’erba. La campagna primaverile pareva immobile, lui camminava lungo il viottolo verso la cima della bassa collina sopra al paese. Il piccolo aereo all’improvviso era arrivato da dietro, poco sopra le cime degli alberi, aveva ronzato abbassandosi ancora, lasciando immaginare qualche evidente difficoltà, e infine aveva lasciato toccare le ruote sull’erba circa cinque o seicento metri più avanti, sparendo alla vista subito dietro la cima del poggio. Lui aveva aumentato il suo passo, fino quasi a correre, e anche se non era abituato a quell’ansia che d’improvviso provava, sentiva adesso la convinzione di poter dare un aiuto nel caso l’impatto del velivolo col suolo fosse stato maggiormente traumatico di quanto era riuscito ad immaginare.
            Era giunto sulla cima tonda della collina dopo circa dieci minuti, ormai senza fiato, e aveva visto che l’aereo era già fermo, ancora più avanti, il motore spento, ma senza alcun danno almeno apparente. Vittorio aveva raggiunto il velivolo, ma alla guida non c’era già più nessuno, l’elica era ferma, la persona che lo aveva pilotato fin lì forse era andata da qualche parte, forse verso una delle case poco lontane, una di quelle che rimanevano mezze nascoste dal fitto degli alberi. Osservava quell’aereo, non ne aveva mai visto uno del genere così da vicino, poi, poco per volta, aveva ripreso fiato, decidendo di rimanere là attorno a curiosare e a capire qualcosa di più.
            Ehi, sentì dire da dietro; così si era voltato, doveva essere senz’altro il pilota dell’aereo. Si sentiva come colto nel vivo, quasi entusiasta di quanto stava accadendo. Un ragazzone di circa trent’anni si era avvicinato a lui quasi correndo, gli aveva spiegato che a bordo si era soltanto guastato uno strumento minore, niente di particolarmente importante, aveva bisogno però degli utensili giusti, tipo qualche cacciavite e una pinza, poi avrebbe cercato di effettuare la riparazione da solo. Si erano fermati vicini, in piedi sull’erba e nel silenzio del prato, per presentarsi e parlare con una calma maggiore di tutto ciò di cui c’era bisogno. Vittorio aveva detto subito quale fosse il paese più vicino e verso quale direzione, ma all’altro non interessava per niente quell’argomento: gli aveva chiesto di andare lui a prendere gli utensili che gli servivano, ma subito, perché avrebbe dovuto ripartire al più presto. Lui era confuso, forse avrebbe dovuto terminare la sua passeggiata, voleva quasi pensare, ma l’altro insisteva, doveva andare immediatamente, diceva, per favore, di corsa, era un gesto estremamente importante, lo avrebbe ripagato in qualche maniera.
            Vittorio alla fine non riusciva a far altro che assentire a quelle richieste: è importante, pensava all’improvviso anche lui; così si era staccato dall’altro e dalla cima della collina assolata, e in un attimo era sparito lungo il viottolo tra quel fitto di alberi, quasi senza sapere cosa stava veramente facendo. Di corsa aveva fatto quasi tutta la strada fino al paese, e poi di nuovo al contrario aveva affrontato quella salita con la pesante borsa di utensili che aveva trovato nella rimessa della sua casa, insieme a tutti i soldi che aveva, ed era già trascorsa però una buona mezz’ora, e lui aveva sempre più fretta adesso, una fretta incredibile.
            Posso andarmene con lui, su quell’aereo, pensava correndo, via dal paese, da questa gente, da questi campi senza futuro. Non poteva essere soltanto un caso quell’opportunità che pareva offrirsi in maniera così inaspettata, lui non poteva certo rifiutarla proprio ora. C’era quasi qualcosa che gli indicava come tutto fino a quel giorno si fosse proteso verso quel semplice epilogo, fino a quel momento in cui avrebbe potuto incredibilmente spiccare il volo su quel piccolo aereo, oltre qualsiasi immaginazione. Vittorio, senza più fiato, quasi con le lacrime agli occhi per lo sforzo e l’emozione, era pronto, si sentiva benissimo, come mai si era sentito.
            Corse, senza pensare a nient’altro, fino quasi alla cima di quella collina, un solo pensiero dentro la mente, le parole già pronte per spiegare le cose a quel ragazzone, ciò di cui lui aveva bisogno, ed era come se conoscesse già la risposta, come se tutto fosse già sistemato in maniera perfetta. Ma quando tirò su lo sguardo, ormai sopra al poggio, l’aereo non c’era già più, e la sua speranza parve sfumare in un attimo, per lasciare soltanto due solchi nell’erba.

            Bruno Magnolfi  

lunedì 11 marzo 2013

Cattiva sorte.


            
            Avevo sentito giungere, dall’appartamento di fianco a dove abitavo, direttamente attraverso le pareti, diversi rumori forti e antipatici, come di trascinamento di mobili sui pavimenti, e la cosa mi aveva disturbato parecchio, in considerazione soprattutto dell’interruzione che ne era immediatamente derivata delle mie ordinarie meditazioni, tanto che quasi subito mi ero ritrovato quasi inconsapevolmente ad urlare qualcosa, e per più di una volta, verso qualcuno che non sapevo neppure chi fosse, non ottenendo peraltro nessun risultato, almeno in tempi brevi o ragionevoli. In seguito però si era fatto silenzio, e quel silenzio si era protratto praticamente per una parte della giornata, ma tutto in fondo era parso trovare soltanto una momentanea situazione di stallo, che io immaginavo avrebbe potuto tranquillamente degenerare da un attimo all’altro. Così era stato, difatti, e l’agitazione che aveva prodotto in me questa ripresa di incomprensibile confusione era stata tale da spingermi in fretta ad indossare la giacca e ad uscire da casa.
            Naturalmente ero rientrato molto più tardi, e purtroppo soltanto per rendermi conto che se anche l’appartamento era adesso immerso in un momentaneo e completo silenzio, i rumori di cui avevo subito l’attacco erano rimasti là dentro come nell’aria, pronti a scatenarsi di nuovo da un attimo all’altro. Il giorno seguente difatti, come peraltro avevo già immaginato ampiamente, i rumori d’improvviso avevano ripreso la loro consistenza, spandendosi in ogni stanza del mio appartamento senza che neppure fossi riuscito a stabilire da dove precisamente giungessero. Arrivai a mettermi disperatamente le mani sopra le orecchie, nel tentativo che il mio gesto servisse ad attutire il dolore profondo che provavo dentro di me. Già, perché quel disturbo pazzesco stava poco per volta diventando un vero e proprio dolore, quasi una malattia, praticamente uno squarcio sanguinolento nel mezzo del mio organismo. Ma con ogni evidenza a niente serviva ogni mio tentativo. Impossibile per me era suonare il campanello di qualche condomino nel tentativo di trovare la fonte dei miei disturbi, e così, dopo profonda riflessione, decisi che il mio compito sarebbe stato nient’altro che quello di sopportare la cattiva sorte a me capitata.
            Si susseguivano momenti di silenzio ad altri di insopportabile confusione, ma io, seduto nella mia poltrona di raccoglimento, cercavo in tutti i casi di fingere una quasi completa indifferenza. Infine tutto quanto parve trovare termine, lasciando purtroppo una nuova tregua armata dentro di me che pareva farmi ugualmente soffrire. Tanto che quel silenzio poco per volta mi parve quasi un’ironia, sicuramente un’assenza importante, laddove sentivo all’improvviso dentro di me quasi la necessità di quel pieno orchestrale che in varie riprese avevo precedentemente avvertito, forse anche per mostrare a me stesso la mia capacità di sopportazione. Appoggiavo adesso l’orecchio alle pareti e al portoncino del mio appartamento, arrivando perfino a sdraiarmi sui pavimenti per ascoltare le vibrazioni leggere che parevano giungere da quei solai. Ma niente, tutto si era come dissolto. L’agitazione che mi prese fu forte, mi pareva impossibile poter vivere adesso in quella maniera; così, quasi senza pensarci, tornai a prendere la giacca, nonostante l’ora di notte, e ad indossarla per uscire da casa: ero cosciente che non era più possibile per me restarmene ancora in quel vuoto completo, tanto che mi pareva di vivere adesso soltanto una perfetta astrazione.

            Bruno Magnolfi

             

sabato 9 marzo 2013

Autoritratto n. 2.


            

            Ultimamente aveva avuto l’impressione che molte persone lo evitassero. Non in maniera scoperta, tipo conoscenti che si giravano dalla parte opposta per non salutarlo o cose del genere. Però gli era parso più di una volta che camminando per strada, per esempio, la gente si scansasse leggermente al suo passaggio; oppure, quando certe volte era entrato in un bar, spesso gli era successo di ritrovarsi da solo con i gomiti appoggiati al bancone.
            Non c’è niente di male, aveva pensato forse in modo vagamente consolatorio: ognuno deve avere la possibilità di fare le proprie scelte, ed anche se queste sono in apparenza a mio sfavore, ciò non significa che non vadano pienamente accolte e rispettate. Difficile era stabilire quali fossero le cause di un comportamento del genere nei suoi confronti da parte degli altri. Si era lavato e cambiato d’abito con maggiore frequenza, aveva usato una maggiore cura nel radersi la barba e nel pettinarsi i capelli, ma le cose, pur insistendo alla ricerca di un motivo valido, non erano affatto cambiate, anzi, erano addirittura sembrate poco per volta intensificarsi.
            Così, con imbarazzo, ne aveva chiesto il parere a qualcuno con cui intratteneva conoscenza profonda e una certa intimità, ma non ne era venuto fuori niente di particolare. Perciò aveva iniziato ogni giorno da solo a guardarsi a fondo nel suo specchio di casa, quasi alla ricerca di qualcosa sulla sua faccia che contribuisse al comportamento di tutti nei suoi confronti. Con una forte luce che illuminava i dettagli, aveva visto le piccole rughe che solcano il collo e le guance, le occhiaie di stanchezza attorno agli occhi, i piccoli capillari rossi che si facevano vedere sotto la pelle, qua e là.
            Intensificando l’analisi attenta di ogni dettaglio, alla ricerca di chissà che cosa, poco alla volta gli era parso che la sua faccia e l’espressione completa di tutto il suo viso, fosse qualcosa su cui non aveva mai prestato molta attenzione, tanto da apparirgli in certi casi un po’ estranea, quasi appartenente ad altra persona. Il colore dei suoi occhi, per esempio, osservandolo con attenzione, era senz’altro diverso da quello che aveva sempre creduto, e le forme del suo naso e della sua bocca, presi come dettagli, erano differenti rispetto ad una considerazione superficiale e d’insieme.
            Si decise a riportare su un foglio tutti i dettagli che riusciva a cavare dalle sue esplorazioni, ed usando una matita per il disegno, nel giro di alcuni giorni era riuscito a cavare un’immagine piuttosto somigliante a quella che vedeva dentro lo specchio. Fu soltanto dopo un’altra settimana che confrontando di nuovo il disegno con la sua faccia, sia accorse che alcune cose, in quel poco tempo, erano come cambiate, così dovette impegnarsi in un nuovo bozzetto, fino a scoprire che il primo era senz’altro diverso dal secondo. In seguito quindi si era impegnato in altri disegni particolareggiati, giungendo a risultati sempre diversi, fino a quando, stufo di quei prodotti, cessò ogni tipo di attività, coprì lo specchio con un foglio di carta, e smise di passare le ore a guardare il suo viso.
            Fu esattamente nello stesso periodo che si ritrovò ad entrare dentro un negozio, essere salutato da una persona che non conosceva o di cui non aveva ricordo, e di aver dovuto scambiare con quella molti sorrisi di apprezzamento, fino a chiedere a voce alta, ad un certo punto, il motivo di questo comportamento: be’, aveva detto l’altro con espressione sincera; una faccia come la sua non la si scorda con facilità.

            Bruno Magnolfi
             

giovedì 7 marzo 2013

Incomprensibile.


            
            Non so dire di preciso neppure come abbia fatto a cadere per terra sopra quel marciapiede. Si, certo, forse sono inciampato in un piccolo ostacolo, magari ho proprio messo un piede contro l’altro mentre continuavo a camminare, insomma è semplicemente accaduto qualcosa che mi ha fatto perdere del tutto l’equilibrio, ma il punto fondamentale è che quella caduta era come se ci dovesse essere, come se me la fossi proprio andata a cercare, indipendentemente dall’opportunità del caso o dalla combinazione delle cose. Non mi ero fatto male cadendo, anche questa è un’altra piccola ma importante verità, eppure quando prontamente mi sono rialzato, ho capito immediatamente, anche se non so per quale motivo, che non ero più la stessa persona di un momento prima.
            Mi sono guardato attorno, una volta in piedi, ho stretto le mani l’una nell’altra, strofinandole, e forse ho sorriso in maniera vagamente ebete, tanto mi sentivo diverso da com’ero sempre stato. In fondo, ho subito cercato di riflettere, può capitare a chiunque una cosa del genere, inutile stare troppo a meditarci sopra. Ma quando mi sono mosso per proseguire la mia camminata, mi è parso assurdo andare in quella direzione, anche se non avrei saputo dirne il motivo.
            Alla fine, ho iniziato a pensare quasi per automatismi, non c’era proprio nessuna necessità di andare da alcuna parte: il luogo migliore dove stare era quello dove mi stavo trovando, non foss’altro perché mi metteva nella bella condizione di non scegliere niente, e così mi sono seduto sopra un gradino di marmo di un portone lì accanto, compiacendomi per la fortuna di aver trovato facilmente un sedile del genere. Non è passato molto tempo però, che qualcuno, forse notandomi dalla finestra, si è precipitato nello scendere le scale del condominio, ha aperto il portone dove mi trovavo seduto, e con parole decise mi ha spiegato che dovevo andarmene al più presto da quel luogo, non potevo assolutamente restarmene lì.
            Ero perplesso, com’era possibile, pensavo, essere trattato in quella maniera, senza che peraltro avessi fatto niente di male? In tutti i casi mi sono alzato dal gradino, e senza replicare alcunché mi sono mosso da quella posizione spostandomi qualche metro più avanti, fermandomi poco dopo sul marciapiede accanto ad un segnale stradale, senza sentire neppure alcuna necessità di rimanermene lì oppure no. E’ stato allora che qualcuno ha detto a bassa voce che avrei dovuto ribellarmi. Non dovevo soggiacere ad una cosa del genere, diceva, c’erano tutti gli estremi per prendere una posizione decisa e contraria a quella violenza che stavo subendo.
            L’uomo del condominio intanto si era fermato a guardare quanto di fatto mi allontanassi dal suo portone, l’altro fingeva ancora di non vederlo anche se era evidente che aveva parlato del tutto contro di lui. Io sentivo la testa confusa, non capivo più che cosa era meglio per me, così avevo stretto con ambedue le mie mani il palo che sorreggeva il segnale, quasi per fortificare la mia posizione. Infine avevo finto uno svenimento, andando ad accasciarmi sopra le pietre del lastricato. I due non erano intervenuti, ma avevano iniziato a battibeccare tra di loro dicendosi cose decisamente sgradevoli; poi, alla fine, si erano semplicemente dileguati.

            Bruno Magnolfi

lunedì 4 marzo 2013

Nelle liste certificate.


            
            Non avrei mai potuto scegliere di stare in una città piccola. In un posto così in poco tempo ti conoscono tutti, ti tengono sott’occhio, non ti fanno sentire libero di scegliere niente, perché subito quella gente ti guarda, e magari si da pure di gomito. In una metropoli invece puoi perderti. Nessuno si interessa di quello che sei, nessuno si preoccupa se ti fai vedere in un posto oppure in un altro, e tu puoi fare esattamente quello che ritieni più giusto per te.
            Certo, ci sono i suoi inconvenienti. La polizia non ti permette di dormire tranquillo se ti piazzi in qualche angolo della grande stazione ferroviaria, per esempio. E poi se scopri un posto dove ti offrono qualche bella minestra calda, sicuramente devi fare dei chilometri per andare fin lì. Devi essere scaltro in una città, astuto, perché ci sono anche i ladri di niente che in un attimo ti fanno fuori anche una vecchia coperta bucata, o un paio di scarpe sfondate, figuriamoci la roba buona.
            Gli altri, quelli che girano per la città tutto il giorno, proprio come fai tu, non ti danno mai un’informazione che sia giusta, è come se per loro dovessi in qualche modo guadagnartela, anche poco per volta, come fosse la fiducia, o l’amicizia, o qualcos’altro del genere. Così io me ne sto sempre da solo e fuori dal giro, mi trovo sempre dei posti tranquilli di periferia e rimango lì, senza preoccuparmi di niente, come uno che si fa i fatti propri e questo gli basta. Poi però arriva un tipo dell’associazione e dice subito un sacco di cose che neppure mi riguardano.
            Mi alzo da dove mi trovo, mi sposto, senza replicare con una sola parola, ma quello mi segue, dice che è lì soltanto per aiutarmi e altre stupidaggini del genere. A gesti gli faccio capire che non è nei miei scopi stare dietro a cose di quel tipo, ma quello mi bracca, mi tiene stretto con un sacco di discorsi senza che io abbia possibilità di far niente. Poi mi dà un foglio con su scritti una serie di numeri e di informazioni, dice che domani sarà in giro di nuovo, di farmi trovare, avrà qualcosa per me, mi spiega. Rimango solo, penso che dovrò cambiare cuccia almeno per qualche tempo, ma poi penso ad altro e mi dimentico anche di questa idea.
            Il giorno seguente quello ritorna, e ci sono anche degli altri con lui. Dicono che possono aiutarmi, portarmi di qui oppure di là, darmi dei soldi, dei buoni pasto, indirizzi dove andare a dormire, e tante altre cose del genere. Li lascio dire, loro non si rendono conto che la vita è complessa, non puoi permettere che arrivi uno che neppure conosci per permettergli di cambiare ogni cosa della tua giornata. Ci sono delle priorità, delle abitudini, dei piccoli modi di essere a cui sei legato, non può certo arrivare uno qualsiasi e proporti il numero dello sfigato del giorno.
            Alla fine mi fanno arrabbiare, insistono, sembra che per loro sia una questione fondamentale, e la loro associazione pare sia nata proprio per me, anche se io continuo a dire che a me non interessa esattamente un bel niente: voi volete che per farvi piacere diventi qualcosa che non ho mai sognato di essere, dico loro; sono uno povero, uno che gira per strada, che non ha molti mezzi oltre due spiccioli per un bicchiere di vino ogni tanto, ma fino a quando non entrerò nelle vostre liste non sarò mai davvero un barbone, ficcatevelo nella testa, è solo questo il punto essenziale.

            Bruno Magnolfi