domenica 27 febbraio 2011

Un ritratto da portare via.


            
L’impiegato della compagnia delle assicurazioni, dietro la sua scrivania al terzo piano del palazzo dove ha sede la direzione della società per cui lavora da quasi vent’anni, pensa a sua moglie in quel primo pomeriggio pieno di sole che filtra dai grandi finestroni a vetri che fronteggiano la strada, in un’aria leggermente sonnacchiosa, forse per via di quel quarto di vino rosso di cui si è servito quasi con superficialità durante il pranzo nella mensa aziendale al piano terra del medesimo edificio. Qualcosa gli sembra differente in quella giornata così identica a qualsiasi altra, forse sarà la digestione, immagina, o forse il pensiero di sua moglie che sembra sorridergli in modo stravagante da dietro la piccola cornice di metallo appoggiata in un angolo sul piano della scrivania.
            In fondo le abitudini hanno giocato un grande ruolo all’interno di tutta la sua vita, pensa: la monotonia perenne degli orari, tutte quelle attività sempre un po’ simili, quel comportamento suo e degli altri colleghi spesso alternabile, quella maniera di augurarsi il buongiorno a inizio turno, e la buonasera alla fine della giornata di lavoro; ecco, tutto questo adesso gli appare come qualcosa di indigesto, che all’improvviso lo richiama verso qualcosa di cui, a dire la verità, non si è quasi mai interessato. Sua moglie è stata cortese, questo è sicuro, prima di lasciarlo andare via di casa quel mattino; eppure qualcosa nei suoi modi sembrava nascondere qualche elemento di insincerità, come un inventarsi certe maniere eleganti, quasi piacevoli, proprio nel dire le cose abituali di ogni giorno, edulcorate da un sorriso inedito, forse più disteso.
            Lui a tratti ha parlato con i suoi colleghi durante la mattina, si sono scambiati tra loro le solite riflessioni di ogni giorno, si sono detti le cose che si dicono da sempre abitualmente tanto per lasciare scorrere le ore, per poter dimostrare che la loro vita è utile, concreta, quasi necessaria, e questo gli è bastato per arrivare all’ora del pranzo soddisfatto della sua attività. Ma adesso è lì sua moglie che lo guarda, sopra al piano della scrivania, con un’espressione che sembra quasi voler dire che tutti quei suoi comportamenti così composti, così garbati, di piena adeguatezza, di cui lei peraltro si è sempre mostrata compiaciuta, bene, adesso quei suoi modi precisi e definiti, quei dettagli sempre misurati e riflettuti, quelle maniere così giuste, sono assolutamente fuori sintonia, anzi, a dirla tutta, addirittura un po’ ridicoli.
Ecco, questa è la parola fondante in tutta la faccenda: lui si sente ridicolo, ma non perché sua moglie adesso lo osserva da quella vecchia fotografia a colori, oppure perché si è dilungato a parlare coi colleghi di cose in fondo poco significative, quanto perché lui adesso è cosciente di essersi adagiato, giorno dopo giorno, dentro a un meccanismo che forse non condivideva appieno. Certo, questo è il punto. Svolgere la propria esistenza senza averla mai affrontata criticamente. Questo è l’aspetto che gli manca. La stessa foto di sua moglie sopra al piano della scrivania, è soltanto un’abitudine per tutti coloro che come lui lavorano nella sede della compagnia delle assicurazioni, non una scelta personale.     
All’improvviso, a fronte di queste riflessioni, si sente quasi mancare, sarà colpa del vino rosso, pensa ancora per un attimo. Poi si alza lentamente dalla sedia girevole con i braccioli e il poggiatesta, raccoglie il portaritratti che per molti anni è stato sopra l’angolo del piano della scrivania e se lo ficca in tasca. Quindi esce, indifferente all’ora indicata dal grande orologio sul muro in fondo al corridoio, raggiunge le scale, scende al piano terra e se ne va: niente di meglio che avere qualcosa di importante da fare in un pomeriggio come quello, pensa sorridendo, confrontato allo starsene seduto su una sedia fingendo qualcosa senza alcun significato.

Bruno Magnolfi
           
            

giovedì 24 febbraio 2011

L'urlo dei pensieri.


            
            I ragazzi si erano stufati in fretta di giocare al pallone, così si erano seduti sopra al bordo di un marciapiede poco lontano, tenendosi le ginocchia con le braccia e parlando sottovoce delle loro cose. Il babbo di uno di loro era passato poco dopo con la sua auto scarburata, aveva abbassato il finestrino e lo aveva chiamato. Lui era corso via e nel giro di mezz’ora anche il resto del gruppo si era sciolto, andandosene ognuno verso la sua casa, mentre le ultime ombre del giorno si allungavano tra i sassi e la terra di quel quartiere periferico.
            Andrea era rimasto in silenzio ad ascoltare gli altri, poi, quando se n’erano andati, aveva salutato tutti con un ciao imbronciato e si era allontanato da solo, perché era l’unico che abitava in un appartamento delle case minime, un gruppo di abitazioni di legno messe su in fretta dopo il terremoto in una zona fuori mano, e poi rimaste lì, a degradarsi poco per volta in quei dieci anni, giorno dopo giorno. Non gli piaceva tornarsene dai suoi, preferiva tirare tardi insieme a qualcuno dei ragazzi, quando era possibile: c’era in casa quel clima perennemente teso, una guerra continua anche soltanto per delle stupidaggini, e lui, nonostante il suo silenzio e gli occhi bassi, a volte comunque riusciva a fare le spese di qualcosa di cui non aveva minimamente colpa.
            La strada polverosa girava attorno ad un gruppo di orti di fortuna, recintati alla meglio, e qualche povero cane, rinchiuso nelle cucce di lamiera, abbaiava e guaiva al minimo sentore di qualcuno nelle vicinanze. Andrea si era fermato, si era guardato attorno, infine senza far rumore era andato a sedersi su una grossa pietra lì vicino: non aveva voglia di tornare a casa, continuava a ripeterselo continuamente, avrebbe fatto di tutto pur di non sentire i soliti urli e assistere alle medesime scenate di ogni giorno. I cani in poco tempo si erano acquietati, e lui, nella sua equilibrata solitudine, aveva respirato l’aria fresca della sera, quel silenzio meraviglioso, quella pacatezza che regnava accanto agli orti ormai deserti a quell’ora.
            Sarebbe diventato grande tra qualche anno, pensava, le cose sarebbero state facili e naturali per lui, così come lo erano state per suo fratello e per tutti gli altri ormai adulti, e avrebbe anche lui potuto dire in faccia a chiunque le sue idee e le sue opinioni, facendosi ascoltare, e si sarebbe fatto in fretta una reputazione, la calma sarebbe regnata in casa sua, ognuno avrebbe potuto esprimere in piena libertà ogni proprio singolo pensiero. Era solo questione di tempo, tutte le cose si sarebbero aggiustate, ma non poteva lui pretendere adesso una qualche scorciatoia, era evidente, e se non sopportava il continuo litigare dei suoi genitori, doveva solo convincersi che tutto questo non sarebbe continuato così per molto tempo.
            Nessuno gli chiedeva mai la sua opinione, ma era solo perché lui preferiva starsene perennemente in silenzio, e tutti in genere lo lasciavano in disparte di ogni cosa, come se Andrea non avesse un suo parere. Ma sarebbero cambiate le cose, lo sentiva, era sufficiente far passare un po’ di tempo, e lui avrebbe spiegato a tutti cosa pensava veramente, quali erano le idee che gli passavano continuamente nella testa e qualche volta parevano quasi urlare dentro di sé. Ormai era buio, non c’era altro da fare, adesso doveva proprio rientrare a casa sua, così si alzò da quella pietra incamminandosi verso quel buffo gruppo di alloggi di legno poco lontano, e nello stesso attimo un cane uggiolò, riportandolo all’improvviso alla realtà: volse la testa come per cercarlo tra quegli orti, anche se era tutto scuro, e d’un tratto seppe di volergli bene, anche se non sapeva di preciso neppure dove fosse.

            Bruno Magnolfi

lunedì 21 febbraio 2011

La finestra socchiusa.


            
            Lei lo ha visto, lo ha guardato solo un momento. Lui si è girato, come altre volte, a mostrarle che era attratto da quel suo viso, dagli occhi, dai suoi modi pacati. Un’ombra è passata tra le loro finestre socchiuse, solo un attimo, e le cose sono sembrate inevitabilmente diverse: lei è rientrata, ha accostato la tenda, lui ha finto interesse per qualcosa sopra al suo davanzale. Non importa, ci saranno altre occasioni, importante rimane l’impalpabile linguaggio dei loro sguardi, che contemporaneamente indica tutto e anche niente, fino a mostrare quanto il pensiero e la fantasia siano forti, superiori ad ogni altra cosa.

            Bruno Magnolfi

domenica 20 febbraio 2011

Scena n.16. Presa di coscienza.


            
            Nessuno di noi può tacere su ciò che sta accadendo, diceva l’uno. Certo, tacere avrebbe significato soltanto avvallare ciò che succedeva, e di questo, nei fatti, nessuno di loro, e neppure qualsiasi altra mente aperta, poteva condividerne la triste realtà sotto gli occhi di tutti. Eppure c’era chi si limitava ad annuire, e rimaneva lì, fuori dall’alveo della discussione, preso solamente dalle proprie piccole convinzioni che non arrivavano neppure ad abbracciare gli argomenti che oggi erano davanti a chiunque.
            Il problema di sostanza, diceva qualcun altro, è l’indifferenza nella quale viene coltivato tutto il processo in atto in questi ultimi tempi, ed è del tutto inutile appellarsi alla necessità del suo esatto contrario: ci vogliono i motivi, e se questi non riescono a smuovere l’assopita coscienza di chi sta solo a guardare, tutto è inutile, non cambierà un bel niente di questa situazione.
            Lentamente Fausto era entrato nella sala, aveva percorso lo stretto corridoio lungo il muro di fondo, e infine si era seduto in un posto libero, attirato dall’interessante e colorato manifesto all’esterno che pubblicizzava la riunione in quel circolo della cultura. Aveva inforcato i suoi occhiali, ascoltato attentamente le ultime parole, infine si era reso conto di quanto l’argomento fosse meno interessante di quello che avrebbe creduto in un primo tempo. Era tardi per andarsene, così svogliatamente si era messo immobile a seguire quei discorsi. Trascorsero così pochi minuti, infine si alzò, appena disturbando il suo vicino, e proprio in quel momento dal tavolo dei relatori si voltarono incuriositi verso di lui.
            Ci fu soltanto un attimo di imbarazzato silenzio, come un dare spazio all’intervento che Fausto pareva voler fare, e di fatto, trovandosi lui così in piedi, di fronte a tutti, con una concessione di parola che spesso non era facile ottenere in assemblee di quel genere, si schiarì la voce, e nel silenzio generale, disse in fretta, quasi sottotono: credo che i tempi siano ormai maturi. Si tratta di far forza sulla leva della solidarietà, senza forzare le cose, basta una parola di collegamento, e tutti sapranno cosa fare.
            Poi tolse gli occhiali, Fausto, guardò in basso per vedere se nel momento gli fosse caduto qualcosa, quasi per un gesto istintivo, e rimase in silenzio per un attimo, quando, nella stessa frazione di secondo, forse per motivi di incoraggiamento, qualcuno iniziò ad applaudire, trascinando velocemente tutti gli altri. Fausto non riuscì ad aggiungere altro, si schernì con un gesto delle mani, ma anche questo fu preso per un’amplificazione delle sue parole, e in breve tutti si trovarono d’accordo con la sua semplicità e la sua schiettezza. Tutti si voltarono a guardarlo uscire dalla sala, alcuni, con grandi sorrisi, cercarono addirittura di fermarlo, ma Fausto era già tornato sulla strada mentre si spengeva l’eco degli applausi dietro di lui.
                 Chissà, pensava lui, forse era vero quel che aveva detto, forse per combinazione aveva colpito proprio nel segno: in ogni caso non gli dispiaceva affatto aver spiegato così la propria opinione; anzi, adesso si sentiva bene, sgravato da un peso che forse senza rendersene conto lo aveva a lungo oppresso. Era bello avere un’idea precisa delle cose, pensava, per niente al mondo adesso si sarebbe scambiato con coloro che stavano a guardare, si sentiva all’improvviso migliore di parecchi altri, e questo era senz’altro un grande risultato.

            Bruno Magnolfi

sabato 19 febbraio 2011

A margine dei fatti.


            

            Mi ero seduto sopra un gradino di una piccola scalinata di pietra, giusto due o tre giorni fa, e avevo cercato di mettere a fuoco i pensieri, visto che non avevo proprio niente di meglio da fare. La gente passava e nessuno voltava la testa verso di me. Giusto, riflettevo, cosa ci sarebbe mai stato da guardare di un uomo seduto che non ha niente da fare, e passa la sua giornata scaldandosi al sole, come se quello fosse stato quanto di meglio possibile? Niente, niente di interessante, ecco, proprio nulla che potesse attirare qualche attenzione.
            Ero rimasto lì a lungo, mi ero guardato le mani, poi avevo tirato fuori da una delle mie tasche l’unica sigaretta che mi era rimasta, ma l’avevo riposta velocemente di nuovo dove l’avevo trovata, conservandola per fumare più tardi. Non c’era nessuna ragione per cui dovessi restare lì a lungo, eppure era come se quel tratto di strada e di mondo che mi passava davanti fosse tutto quanto potesse interessarmi di più. Restavo seduto, quasi immobile, come per una cocciutaggine alla quale non mi sentivo di oppormi.    
            Avrei potuto passeggiare per la città, andarmene magari fin dentro al mercato a respirare i profumi dei salumi e dei formaggi tra le bancarelle che vendevano generi alimentari, e ascoltare le frasi delle persone impegnate nelle compere, mentre si scambiavano aggettivi e opinioni su una cosa o sull’altra e i venditori magnificavano i prodotti in bella vista sul proprio banco, ma forse non era la giornata più adatta, e poi non avevo alcuna voglia di sentirmi spintonato senza motivo.
            Stavo lì, e non avevo voglia di niente, se non di lasciare che tutti i pensieri corressero per proprio conto, senza indirizzarne il tragitto. Una donna si era fermata guardando qualcosa nella sua borsa, poi l’aveva richiusa, aveva sollevato lo sguardo e mi aveva osservato con severità. Non avevo detto niente, l’avevo solo guardata a mia volta, ma senza alcuna intenzione; lei si era girata verso di me e aveva calcolato nella sua testa un giudizio sommario, poi si era rimessa in cammino. Soltanto dopo pochi minuti era tornata, si era fermata proprio davanti, mi aveva chiesto qualcosa che non avevo capito.
            Alle mie deboli rimostranze, costituite da un unico gesto di indifferenza, aveva alzato la voce, dicendo che le avevo rubato qualcosa da dentro la borsa, ne era sicura, ma io ero rimasto il più possibile immobile, lo sguardo voltato dall’altra parte, l’espressione noncurante di qualsiasi cosa accadesse. Qualcun altro si era fermato curiosando su quanto continuava a dire la donna, ma nessuno aveva dato troppa importanza alla cosa, e anche lei stessa, dopo qualche altra parola, aveva fatto un gesto di stizza allontanandosi svogliatamente da lì, nella convinzione che io fossi un gran furbacchione. 
            Forse sarebbe convenuto a quel punto che io avessi tolto velocemente il disturbo di starmene su quel gradino, e invece, cocciuto come sono, rimasi seduto, esattamente dov’ero, quasi a voler dimostrare che la libertà non è semplicemente una parola. Quando arrivò il poliziotto non dissi niente, mi limitai ad osservarlo con espressione seriosa, spiegai soltanto con poche espressioni che non sapevo un bel niente di quello che diceva la donna, e le cose andarono avanti un bel po’, come se nessuno avesse qualcos’altro da fare. Fu a quel punto che mi decisi ad alzarmi e a rimettermi in piedi, feci vedere che nelle mie tasche non c’era un bel niente, e che niente sapevo di quanto si andava dicendo. Così ritrovai la mia sigaretta, e siccome avevo anche un fiammifero, la misi in bocca e l’accesi, nella massima indifferenza per quanto accadeva. A qualcuno il mio gesto forse non piacque, ma è certo che non avrei mai potuto farci un bel niente.

            Bruno Magnolfi
            

giovedì 17 febbraio 2011

Poco più di niente.


           
            Non ha nessuna importanza, in fondo, questa senso di incompletezza, di smarrimento, questo sentire di non essere utile a nessuno, pensava Fabio mentre girava a vuoto lungo le strade del suo quartiere. Era uscito di casa solo per prendere aria, per perdersi in mezzo alle tante persone che c’erano in giro solitamente a quell’ora, vagare tra i negozi già illuminati, osservare il traffico caotico della serata, ma l’angoscia sottile che provava all’inizio non si era attenuata, e la sua solitudine gli pareva sempre più una vera condanna. Devo smetterla di pensare in modo così negativo, pensava, in fondo ci vuole ben poco ad uscire da un momento difficile, è questione di volontà, solo di questo. Poi si era fermato davanti ad un negozio, attratto da qualcosa che non sapeva neppure lui cosa fosse, ed era rimasto lì a guardare gli oggetti esposti per qualche minuto.
            Un uomo gli si era accostato, aveva osservato a sua volta la vetrina di quel negozio, poi, senza neppure voltarsi verso Fabio, quasi come conoscesse i suoi affanni, con voce pacata aveva detto: certe volte diventa difficile persino pensare a se stessi. Non c’è niente, mi dico, oltre questa percezione amara delle cose; niente che possa davvero cambiarci. Forse ci vuole soltanto coraggio, e imboccare una strada diversa quando riusciamo a scorgerne una. Poi si volse verso di lui, lo guardò soltanto per un attimo, senza alcuna espressione, e infine riprese a camminare lungo la strada, come se non ci fosse da aggiungere altro. Intorno la gente proseguiva con i medesimi comportamenti di sempre, e le auto ogni tanto suonavano il clacson per schivare i passanti che attraversavano la strada.
            Dopo un attimo di smarrimento, Fabio si mosse, cercò di raggiungerlo, ma si rese subito conto che era come sparito in mezzo alla calca. Adesso non era neppure tanto sicuro di ricordarsi la faccia dell’uomo, forse ordinaria, senz’altro inespressiva, una faccia qualsiasi: probabilmente neppure se lo avesse incontrato di nuovo avrebbe saputo riconoscerlo, così rimase ancora per un attimo fermo a pensare, mentre la gente sul marciapiede continuava a passargli vicino, poi proseguì lentamente con la sua camminata. Che cosa significava, pensava Fabio ripensando a quelle parole, avere coraggio? Coraggio per cosa, per avere dei comportamenti diversi da ciò che dettava la sua indole? O affrontare ogni piccola difficoltà con determinazione, come niente avesse importanza se non quello che ci si era prefissati di fare? No, non era da lui un comportamento del genere, coraggio era soltanto una bella parola, dietro non c’era quasi niente, pensava.
            Poi prese per una strada secondaria, proseguì a passeggiare ancora mezz’ora con la testa sempre più vuota, infine salì sopra un autobus che lo riportava verso il piccolo appartamento dove abitava. Quando scese dal mezzo pubblico ritrovandosi lungo la via principale del suo quartiere, sentì dentro di sé il piccolo morso di angoscia che spesso provava, così si fermò per accendersi una sigaretta, anche se aveva quasi perso quel vizio. Pensò di nuovo al coraggio, quella parola magica che pareva l’unica chiave per aprire le porte serrate, e gli venne da ridere: prese una boccata di fumo, si avvicinò al portone di ingresso del palazzo dove abitava e lanciò un grido con quanto fiato aveva nella gola. Qualcuno si affacciò alla finestra, lo osservarono in diversi nella poca luce di quei lampioni, e lui seppe di star bene, che forse ci voleva ben poco, meno di quanto pensasse, per riuscire a superare le sue piccole perplessità.

            Bruno Magnolfi    
             

martedì 15 febbraio 2011

Prove di comportamento.


           
            Resto qui seduto, in questa sala d’attesa con le luci al neon in alto, ed osservo a lungo le mie scarpe per evitare lo sguardo della bella ragazza che mi siede di fronte, su una poltroncina proprio uguale alla mia, notando ad un tratto che anche lei si scruta le scarpe ogni tanto, persa chissà dietro quali pensieri. Oltre la porta bianca con la maniglia lucida c’è un medico famoso, qui si attende il proprio turno in silenzio e con deferenza, raccogliendo le proprie riflessioni attorno al destino di tutti e al potere risolutivo della scienza, portata avanti con sicurezza dentro questo ambulatorio.
            Vorrei sfiorarla quasi con indifferenza, penso, sorriderle con espressione distesa, tranquilla, dirle, senza neppure abbassare troppo la voce, che per me è un vero piacere incontrare una ragazza come lei, sederle di fronte, poterla osservare nelle sue espressioni piacevoli e immaginare quanto cortesi e garbate devono essere i suoi modi, i suoi gesti, persino la voce. Invece sto qui, rannicchiato e fermo su questa sedia di stoffa e metallo, e sento risucchiare ogni tanto le mie riflessioni da elementi distanti, da velati ricordi, che qui in questa stanza sembrano ancora più remoti, quasi dei filamenti che giungono svogliatamente da un’altra vita, da un mondo lontano.
            I lacci delle mie scarpe sono ben stretti, osservo, non riuscirò a sistemarli così bene nella fretta di rivestirmi una volta effettuata la visita, e questa sarà una disdetta: uscirò da questa clinica con la testa confusa, alcuni fogli incomprensibili ben stretti dentro le mani, l’eco di alcune parole sentenziate dal medico e i vestiti malmessi, niente di peggio potrebbe succedermi. Anche la ragazza di fronte proverà le mie sensazioni, penso, ma a differenza di me potrà forse vantare una capacità adattativa migliore, un diverso modo di affrontare le cose, qualsiasi esse siano.
            Così mi rassegno, vorrei essere lontano da qui con tutto me stesso, eppure so che devo fronteggiare qualsiasi prova mi si pone davanti, perché questa è la regola, e va rispettata. Adesso osservo le scarpe della ragazza, tanto per prendermi come una pausa: sono sicuro che calzano perfettamente e verranno indossate perfettamente anche dopo la visita, pronte ad accompagnarla in tutti quei giri che ancora in quella serata le resteranno da fare, alla volta di alcune piccole salutari esperienze, incontrare qualcuno, passare del tempo insieme agli amici. Invidio quella perfetta capacità che mostrano certe persone, e se ci penso mi rendo conto di quanto io abbia sempre cercato di assomigliare a qualcuno di loro, salvo aver perso soltanto del tempo verso il mio fallimento.
            Vorrei alzarmi da questa sedia, adesso, schiarirmi la voce, declamare qualcosa senza capo né coda, mettermi in mostra, scatenarmi in una risata liberatoria che rompa questo silenzio impossibile percorso soltanto dal fastidioso ronzio delle lampade al neon. Invece sprofondo sempre più nelle mie spalle, piego la schiena, osservo ancora a lungo la punta delle mie scarpe. Poi la ragazza solleva lo sguardo, fa un leggero sorriso, dice: tocca a lei adesso, si faccia coraggio, le cose vanno affrontate con serenità; lo faccia per me, giusto per assomigliarmi, per prendere un po’ della gioia di vivere che non deve  mai abbandonarci. La guardo, lentamente mi adeguo a quel suo sorriso, sento dentro di me che ha ragione, non ci potevano essere parole migliori di quelle che ha detto, tanto che non riesco neppure a rispondere, a dire qualcosa. La porta bianca si apre, l’infermiera si affaccia, dice il mio nome: vado.

            Bruno Magnolfi     

sabato 12 febbraio 2011

Nessuna sensibile solidarietà.


           

            Le giornate scorrevano tranquille, non c’era proprio niente che intervenisse almeno qualche volta a rompere anche solo di poco quell’ordinarietà delle cose che pareva si fosse innestata ormai da parecchio tempo. Già soltanto assistere dietro ai vetri della finestra a un pomeriggio di pioggerellina uggiosa sembrava un elemento di squilibrio, qualcosa che lasciava sbuffare tutti quanti per le scocciature degli ombrelli e degli impermeabili nel caso di dover uscire dalla propria abitazione. Così si andava a letto nelle ore notturne, e durante quelle diurne il tempo era scandito dal lavoro, dal pranzo, dalla cena, dalle medesime cose che si ripetevano invariabili.
              Per Vittorio tutto questo poco per volta era diventato quasi insopportabile. Non che avesse in mente chissà cosa di diverso rispetto a quanto tutti facevano in quel loro piccolo paese, ma era come se sentisse dentro di sé un peso sempre più opprimente nel piegarsi a quelle abitudini stratificate. Certe volte lui si fermava nella piazza principale a parlare con qualcuno dei ragazzi della sua età che si incontravano lì ogni giorno, ma lo faceva soltanto per non tornare subito a casa dei suoi, una volta terminato il suo orario di lavoro come apprendista. Spesso, anzi, rimaneva in silenzio quando stava insieme agli altri, restava fermo ad ascoltare quello che i ragazzi avevano da dire, salvo riscontrare che erano più o meno sempre le medesime sciocchezze, tanto che a volte anche quel tempo trascorso in quel modo e senza un vero scopo, gli pareva un po’ pesante e inutile.
            Si sedeva, quasi sempre, su una delle sedie di quel bar all’aperto, assieme agli altri, ed osservava le espressioni, le loro facce buffe, quei gesti di tutti articolati ad amplificare il linguaggio che usavano, quelle parole spesso povere, quei modi di dire e di spiegarsi spesso identici. Poi un giorno era arrivata Laura. Non aveva detto niente, si era limitata a sorridere ascoltando i discorsi che si facevano, e Vittorio se ne era sentito attratto soltanto ad osservarla, come se dietro quel sorriso e quella sua espressione intelligente, ci fossero tante altre cose insolite da scoprire. Le aveva parlato, una sera qualsiasi, le aveva chiesto di sé, quali fossero i suoi pensieri quando era da sola, per esempio, ma anche come immaginasse la sua vita tra due anni oppure dieci.
            Lei lo aveva guardato, aveva sorriso, naturalmente si era mostrata sorpresa di quelle sue curiosità: nessuno mi ha mai chiesto cose come queste, aveva detto, però era stata vaga nelle sue risposte, senza chiarire quasi niente, come se tenesse in serbo una propria intimità celata. Poi, avevano parlato qualche altra volta loro due, allontanandosi da quel solito posto, affrontando certe lente passeggiate lungo i marciapiedi della strada principale, e Vittorio in quei casi, aveva cercato di dire qualcosa di importante, qualcosa in cui credeva, che mostrasse a lei la sua sensibilità. Laura lo aveva ascoltato in silenzio, poi aveva cercato in genere di alleggerire gli argomenti, non si lasciava andare a spiegare nel dettaglio i suoi pensieri, così lui spesso immaginava che su molte cose lei fosse d’accordo o comunque in sintonia con le sue cose.
            Un giorno lei passò dal solito bar con la sua amica, salutarono ambedue Vittorio, si fermarono però soltanto un attimo, sembrava avessero da fare; così si allontanarono quasi subito, e lui, senza essersi mosso dalla sua sedia, ne seguì i loro passi con lo sguardo, come se stesse cercando di mettere a punto qualcosa dentro se stesso. Poi le due ragazze, ormai a venti metri di distanza, si voltarono contemporaneamente, lo guardarono ambedue, e scoppiarono a ridere senza che se ne evidenziasse un qualche motivo. Hai visto?, sembrava dicesse l’amica di Laura continuando a ridere, non ti perde più di vista. Te lo avevo detto, rispondeva l’altra, ormai è così da settimane, sembra quasi che io sia la cosa più insolita che transiti lungo questa strada.
            Vittorio sorrise, si sollevò lentamente da quella sedia, lasciò agli altri un gesto collettivo di saluto, e se ne andò da lì per incamminarsi verso casa: in fondo non c’era molto di nuovo nel paese, pensava, lui doveva cercare di convincersi di questo, era perfettamente inutile cercare della solidarietà per quei suoi strampalati modi di essere.

            Bruno Magnolfi    

venerdì 11 febbraio 2011

Tentativo di coppia.


           

            Lui non crede nella possibilità di essere diverso da com’è, anche se ogni tanto ci pensa; ci riflette volentieri qualche volta su questa cosa, ma solo per convincersi che non può essere altro che così, e solo pensarci lo fa sentire già meglio, giustificato nel suo modo di essere, convinto di quanto ogni volta comprende di sé. Quando esce dal suo lavoro si ferma sempre a salutare gli amici in una bettola lungo la strada: gli piace ridere e dare delle gran pacche sulle spalle di tutti, per lui sono gesti importanti, come sapere di non essere soli, che esiste una certa solidarietà, e che almeno là dentro alcuni valori sono condivisi dagli altri.
            Lei lo attende a casa da sola e poi lo punzecchia ogni volta che può, gli dice che in quel locale che a lui piace tanto ci sono soltanto dei semplicioni che non capiscono niente, e le pare impossibile come lui possa ancora confondersi con certe persone. Gli dice che c’è bisogno di crescere durante la vita, mettere a punto nuovi valori, maturare le idee, trasformare la propria personalità mediante un processo di rinnovamento continuo, qualcosa che porti chiunque di noi ad abbandonare certe abitudini e magari sostituirle con altre di maggiore valore.
            Lui lascia dire, ma quando è sotto la doccia ci pensa, si insapona i corti capelli e lascia che l’acqua gli scorra sopra la faccia, come il simulacro di un rinnovamento che forse vorrebbe: mentre si asciuga ha già pronto qualcosa da dire, una frase delle sue, qualcosa di divertente, giusto per togliere la pesantezza dei discorsi difficili che lei affronta qualche volta. La guarda, le dice: mica mi avrai preso per un cervellone che complica qualsiasi stupidaggine, vero? Lei sorride, lo abbraccia, stasera cena speciale, dice, poi tutto riprende l’andamento di sempre.
            Lei qualche volta si sente nervosa, le piacerebbe che le cose tra loro scorressero meglio, che ci fosse un’intesa maggiore, ma spesso si accorge che soltanto da parte sua c’è questo sforzo, e che lui non si accorge di niente, ed è sicura che alla lunga il loro rapporto si complicherà proprio per questo. Ha provato ad andare in giro con lui e con i suoi amici del bar qualche volta, ma le è sembrato quasi un altro pianeta, una dimensione lontana da sé, della quale non riesce a spartire quasi niente. Lo ha guardato con occhi diversi, in quei casi, e purtroppo si è accorta che lui è perfettamente a suo agio con loro, tranquillo, e questo l’ha quasi ferita.
            Lui si sente dolce con lei certe volte, quasi sentimentale. Gli piace quando le cose arrivano fino a quel punto, sa che niente può sostituire quello che prova quando scatta quel meccanismo tra loro, tanto che è come se niente avesse valore attorno a quei meravigliosi momenti. La stringe a sé, quasi vorrebbe che i loro pensieri si unissero, niente è paragonabile a quello che prova. Si sente disposto a promettere qualsiasi cosa lei voglia, non gli importa di altro, solo di lei e del loro starsene insieme così, senza che niente possa dividerli, qualsiasi cosa succeda.
            Lei una sera lo guarda un po’ di traverso, dice che è stufa di molte cose, ma soprattutto non riesce più a sopportare che tutto continui sempre nella stessa maniera, che non cambi niente, che le cose proseguano con monotonia, quasi che i giorni fossero fotocopie l’uno dell’altro. Persino fermarsi ogni sera in quel solito stupido locale è un’abitudine insostituibile, dice, le pare persino impossibile che non si trovi mai qualcosa di diverso nel ciclo dei giorni, delle settimane e dei mesi. Le dispiace, prosegue, ma lei non si sente più assolutamente disposta a proseguire così: è la sua vita, dice, e dalla mia vita mi attendo qualcosa di meglio.
            Lui abbassa lo sguardo, si sente le mani ancora sporche perché è uscito da poco dal suo lavoro, però se potesse vorrebbe quasi tornarsene indietro, magari cambiare qualcosa di quegli ultimi giorni, sostituire il suo comportamento con un altro più adatto, adesso sa che avrebbe potuto anche farlo, ora che si rende conto che era stato avvertito, che avrebbe dovuto combinare qualcosa invece di starsene lì con lei a fare il sentimentale e nient’altro: non ha niente da dire, non c’è niente da dire, si è formata un’incrinatura tra loro e forse non ci sarà più niente di possibile per ripararla.
            Lei esaurisce in fretta i suoi argomenti, non c’è altro da dire, le cose non hanno funzionato, pensa tra sé, finiamola qui, è meglio, prima che tutto questo divenga soltanto un’assurda malattia.
             
            Bruno Magnolfi

mercoledì 9 febbraio 2011

Fuori dal tempo.


           

            Dovevo assolutamente riuscire a prendere il treno delle diciannove e trentadue per tornarmene a casa, anche se ero uscito della riunione della direzione aziendale in forte ritardo, tutto grazie alle solite chiacchiere di circostanza dei colleghi una volta terminate le discussioni ufficiali, e così continuavo a percorrere di corsa piccoli tratti di quei marciapiedi infiniti della città, mentre già quasi vedevo in fondo al viale il grande edificio della stazione ferroviaria. Il biglietto lo avevo, era ben custodito al fondo di una delle mie tante tasche, e la mia valigetta per i documenti più volte mi era parsa un elemento stupido e inutile nel mio tentativo di sentirmi leggero, capace di giungere in tempo.
            Ero arrivato davanti ai binari con quasi l’ultimo filo di fiato che conservavo dentro ai polmoni, e intravisto il grande pannello a messaggio variabile che indicava la postazione del mio convoglio, così mi ero diretto senza fermarmi verso quel marciapiede, allentando di poco il mio ritmo solo negli ultimi metri di corsa, fino a rendermi conto, una volta giunto di fronte, che il mio treno sarebbe partito con un ritardo di diversi minuti, chissà mai per quale motivo.
            Così, con un piede già sopra al gradino del treno, mi ero fermato un momento a riprendere fiato, poi ero entrato dentro al vagone con una calma maggiore, guardandomi attorno come per scegliere un posto ottimale dove riposarmi dopo quella fatica, fino ad abbandonarmi sul primo sedile libero che avevo trovato. Avevo appoggiato la mia valigetta a terra, accanto ai miei piedi, rilassato le braccia sopra ai braccioli, appoggiato la testa allo schienale mentre sentivo il sudore scendermi dentro al colletto della camicia, infine avevo dato un’occhiata alle altre persone che stavano sedute insieme a me.
            Di fronte avevo una donna, una signora distinta, immersa nella lettura di una rivista illustrata, e senza volerlo l’avevo sfiorata mentre mi accingevo a sedermi. Mi aveva notato, ma non aveva detto niente, anche se io mi ero prontamente scusato, si era solo scostata sistemandosi meglio per le sue letture. Erano passati così almeno dieci minuti, infine il treno si era avviato, e il rumore delle ruote, giungendo ovattato, aveva immediatamente lasciato calare un certo torpore.
            La signora di fronte aveva messo via la sua rivista, osservato qualcosa dal finestrino, e infine mi aveva guardato, soltanto per un attimo, giusto per dirmi, con voce bassa: certe volte viaggiare su un treno fa perdere il senso del tempo, non trova? Si, avevo detto, ha ragione, senza che fossi riuscito a capire a che cosa intendesse riferirsi. E’ un po’ come immaginarsi di affrontare un viaggio molto più lungo, alla cui fine è possibile scoprirsi diversi, cambiati, come se qualcosa potesse intervenire dentro di noi per far emergere aspetti che non conosciamo.
            Perché dice questo, mi feci coraggio di chiedere, forse nel passato le è accaduto qualcosa del genere? Forse ha maturato qualche importante decisione proprio su un treno? Lei non rispose, abbassò semplicemente lo sguardo sorridendo per le mie domande, infine tornò ad osservarmi, ma solo per dirmi: no, a me non è mai accaduto niente di particolare, però devo riconoscere che viaggio sempre molto di rado, ma soltanto adesso, vedendo lei, mi è parso evidente come tutto qui sopra si presenti così legato a tempi e ad orari, da riuscire a farci provare la voglia di liberarcene, una volta per tutte; non lo faremo, certo, forse nessuno riuscirà neppure a cambiare minimamente per questo, però che bello sognarlo…

            Bruno Magnolfi

martedì 8 febbraio 2011

Progetto ideale.


            
            Alberto resta seduto su una panchina ad osservare il traffico lungo il viale di fronte a sé. Poco distante c’è un grande palazzo di uffici inaugurato da poco, lui ne osserva la grande facciata alla sua destra, ed elenca con gli occhi la fila di alberi identici che costeggiano il largo marciapiede, chiara dimostrazione di quanto importante sia riqualificare tutto il quartiere. Non c’è niente di una qualche rilevanza che stia avvenendo là attorno, eppure un forte senso di modernità traspare da tutto l’arredamento urbano che è posto in opera: Alberto si alza, cammina senza fretta, incontra altri passanti più o meno come lui.
            Il cielo, in alto sopra ai palazzi, lascia transitare nuvole sottili e lattiginose, dimostrando il lento trascorrere della giornata, il resto è formato soltanto da una complessa struttura di manufatti che caratterizzano semplicemente quella parte della città. All’angolo Alberto si ferma, attende che alcune persone lo sfiorino, infine si volta, e immagina quali dovrebbero essere i pensieri e i suoi comportamenti per essere totalmente integrato in una situazione del genere. Su un fianco della strada si apre una fila di negozi: potrebbe entrare, scegliere qualcosa, acquistare una sciarpa o una radio elettronica, ad esempio, poi, con la sua busta in mano, sentirsi assolutamente a suo agio.
            Sorride all’idea, e quasi con indifferenza entra in un caffè luminoso, si accosta al bancone, si lascia servire un aperitivo. Altri scherzano tra loro, sembrano perfettamente integrati nel quadro d’insieme, e per un attimo lui ne prova un’invidia leggera. Quando torna ad uscire sul marciapiede, gli pare di aver fatto un piccolo passo, e quel poco di alcool che ha bevuto lo fa sentire più allegro, più rilassato. Avanza la sera, le auto accendono i fari e i lampioni stradali mostrano lunghe prospettive, fingendo di spingere all’infinito le linee regolari che disegnano in aria.   
            Non c’è niente di significativo, gli pare, lui si sente ancora una persona qualsiasi disegnata da un architetto per la presentazione di quel progetto: che tenga le mani dentro alle tasche o abbia più fretta di altri non ha alcuna importanza. Si sente perduto, Alberto, non riesce a provare alcun sentimento, continua a guardare attorno a sé e immagina di scorrere, lungo quei bei marciapiedi, come una goccia d’acqua su un piano liscio e inclinato. Non c’è colpa, pensa tra sé, non si può certo immaginare tutto, quando si pensa qualcosa: sicuramente le città sono a misura di uomo e di donna, si tratta di trovare la giusta lunghezza d’onda per sentirsi immersi dentro agli ambienti, in mezzo alle case e alle strade.
Infine cerca di immaginare la sua abitazione ideale in quel quartiere, così pensa a stanze luminose, calde e accoglienti, proprio lì accanto, all’ultimo piano di un bel palazzo, e nei suoi pensieri si vede rilassato in una poltrona, impegnato a leggere qualcosa. Poi si alza, Alberto, spenge le luci, torna ad uscire di casa, e mentre scende lentamente le scale per raggiungere il parcheggio dove ha lasciato la sua auto, pensa con un sorriso che non dovrà inserire nient’altro nel suo progetto di arredo urbano: sarà la gente a costituirne il senso, tutte quelle persone che giorno per giorno prenderanno un pezzo di quell’insieme e ne faranno così un elemento proprio, modellato con la propria esistenza.

Bruno Magnolfi   

domenica 6 febbraio 2011

Contemporaneo.


            

            Non c’è niente nella mia testa, niente di tutto ciò che in tante occasioni avrei voluto manifestare, quando magari serviva prendere qualche buona decisione, per esempio, ed io invece sono rimasto lì, a guardarmi attorno e a starmene in silenzio. Qualcuno forse mi ha posto una domanda, ma io non ho risposto, mi sono limitato ad osservare il mio interlocutore, ho assunto un’espressione ambigua, come a mostrare quanto sciocco immaginassi quel comportamento: non ci sarebbe stato alcun bisogno di interrogarsi, sembrava pensassi dentro di me, chiedere qualcosa con insistenza, proprio come al contrario dei miei principi stava accadendo, curiosare continuamente l’uno nei confronti dell’altro, all’interno di un’esistenza apparentemente pacificata, e invece dovevo sopportare qualcuno che insisteva con un comportamento così competitivo, quasi un emblema di tempi tristi e di brutti periodi ormai trascorsi. 
            Mi osservo attorno, prendo aria, inizio a parlare di qualcosa di cui sono sicuro nessuno avrà qualche commento da contrapporre, e vado avanti sviscerando sicurezza e modi rilassati. Non c’è niente dentro la mia testa, alcun pensiero, soltanto queste immagini che hanno la leggerezza impalpabile delle cose che non ci appartengono, delle quali non abbiamo mai sentito neppure la necessità, che non ci hanno neppure mai sollevato una benché minima curiosità.
            Ma certo, rifletto, che bisogno c’è di tutta questa continua ricerca, questa perenne analisi dentro noi stessi: possiamo rilassarci, i gesti sono privi di qualsiasi significato, le parole sono soltanto delle scatole vuote, le espressioni, figuriamoci, semplici maniere per dare un po’ di lustro ai nostri giorni. A cosa serve riflettere, pensare, cercare dentro noi stessi qualcosa che riesca a spingerci soltanto un po’ più in là, verso significati che ci riempiano soltanto di importanza, di certezze, di vita che sappiamo essere soltanto un surrogato di ciò che vorremmo veramente.
            Così me ne vado in giro senza l’ombra di un pensiero, tengo ben in alto il mio sguardo, quasi con un piglio di superbia: concedo semplici saluti a chi mi incontra, chi non potrebbe mai sospettare quanto io ormai sia oltre, oltre questi modi consueti, oltre questa maniera semplice di condurre avanti le cose, oltre la normalità di tutti gli altri. Qualcuno mi guarda, a me non interessa: pensino assolutamente ciò che vogliono coloro che mi osservano, i tempi sono questi, prima che riescano a capire cosa passa veramente nei miei occhi tutto sarà già tramontato, ed io avrò continuato per tutto questo tempo a fingere qualcosa, senza che nessuno sia mai riuscito ad accorgersi di niente.
            Infine rientro: sono contento di me stesso, essere riuscito ancora ad indossare la maschera della persona retta, rispettabile, che contempla tutto quanto con sguardo il più possibile obiettivo, è sempre qualcosa che riesce a riempirmi l’anima di un grande orgoglio; posso proseguire così fin quanto voglio, ne sono certo, nessuno saprà mai niente di me, tutti gli sforzi di chiunque saranno sempre un niente nei confronti dell’energia che è riuscita a spingere tutti questi miei comportamenti. Sono soddisfatto, e questo è quanto conta.

            Bruno Magnolfi

venerdì 4 febbraio 2011

(Profilo n. 8). Estraneo al mondo.


            

Sto da solo in questa mia cuccia calda, e penso a tutto il mondo che lentamente continua a muoversi, a girare indifferente per conto suo, senza che questo abbia minimamente qualcosa a che fare con le mie idee, i miei propositi, la mia maniera di essere. Certe volte, senza che ne sia preoccupato, sento che qualcuno cerca di tenermi d’occhio, aspetta solo che io faccia qualcosa di strano, che mi comporti in maniera inadatta, lo sanno tutti che non ci si può aspettare molto da me, ho già avuto dei piccoli problemi in passato, ma proprio per questo io lascio perdere tutte le loro congetture, e resto qui, come se il loro osservarmi non mi riguardasse minimamente.
Non credo che qualcuno si preoccupi di venire davvero a cercarmi, e per me il solo sapere che tutti mi passano quasi vicino, proprio davanti, senza che nessuno di loro riesca a vedermi, ad immaginare minimamente che io sia qui, rintanato in questo posticino perfetto, dove mi sento a mio agio, capace di stare al di fuori del mondo e di poter osservare ogni dettaglio di ciò che succede, ecco, questa per me è la sensazione migliore che potessi provare. Non mi importa di nulla, di nient’altro, se non di starmene qui, senza che nessuno se lo immagini. Sorrido mentre guardo la gente sui marciapiedi da dietro queste inferriate.
Esco, certe volte, da questa cantina buia e abbandonata, ma solo la sera, quando nessuno può riconoscermi, e allora vado a rivedere quei luoghi che più mi piacciono, quelli a cui mi sento più affezionato. Qualcuno mi guarda, per via dei vestiti malconci, a qualcun altro chiedo uno spicciolo, senza insistenza, quasi per non perdere quella abitudine. Compro qualcosa da mangiare, nient’altro, perché di niente sento di avere bisogno. Poi torno svelto a sistemarmi all’interno della mia cuccia.
Da dietro la grata osservo la sera scorrere come sempre, ascolto i passi di chi transita sul marciapiede, immagino la fretta, o l’indolenza, oppure la serenità. Mi sento tranquillo, qui non potranno trovarmi, e questa per me è la cosa più importante di tutte. Certe volte riesco a comprendere frasi e parole che le persone si scambiano passando proprio qui accanto: parlano delle loro attività, dei loro modi di pensare, a volte di quello che faranno domani, o chissà quando. Mi stupisco delle loro apparenti certezze, e a volte rido della loro incapacità di rendersi conto: sono come dei bambini, innocenti, non adatti a proseguire ciò che credono di fare; si ingannano tra loro inconsapevolmente, e c’è senz’altro chi approfitta della loro inadeguatezza.    
Mi sento felice del poter starmene fuori da tutta questa bolgia, solo io riesco ad avere un’opinione obiettiva sulle cose, di questo sono sicuro, e quando certe volte mi addormento tra i cartoni e le coperte vecchie, mi sento a posto, come mai mi sono sentito durante la mia vita. Su questo muro, sotto la grata, scriverò uno di questi giorni il mio testamento, il mio pensiero su tutti coloro che mi sono passati accanto senza neanche saperlo: sarà per loro una sorpresa, un rendersi conto che c’era qualcos’altro che non avevano minimamente immaginato.

Bruno Magnolfi

mercoledì 2 febbraio 2011

Scena n. 15. Danza di corteggiamento.


            

            La luce tagliente rischiara l’espressione di una ragazza acconciata e abbigliata come una prostituta, con la faccia sorridente e sicura di sé, il rossetto vistoso sopra la bocca, gli occhi appesantiti dal trucco. Resta seduta su una poltroncina, le sue gambe, accavallate sapientemente, emergono dalla gonna forse un po’ troppo corta, e le mani e le braccia, come anche le spalle, sembrano in posa, come se tutti dovessero forzatamente guardarla. Un uomo entra lentamente nella scena leggendo qualcosa, si accorge della ragazza ma non le concede più di un’occhiata, si ferma accanto ad un tavolo e legge ad alta voce alcune parole apparentemente poco adeguate:
Siamo esseri goffi, dice; cerchiamo di brillare all’interno di una cornice falsa e ammiccante. Eppure niente ci fa sentire migliori di altri se non il nostro essere arguti, furbi, capaci di trucchetti sagaci.
La ragazza si guarda le unghie smaltate, l’uomo appoggia i suoi fogli sul piano del tavolo e si siede, non c’è niente sopra quel palco che conceda un motivo di ottimismo, nulla che crei un vero collegamento tra quelle parole e l’immagine che si offre. La ragazza allora si alza, si guarda attorno con plastici movimenti studiati, va verso il tavolo, prende quei fogli appoggiati e con una intonazione profonda e concentrata prosegue quella lettura:
Ci sono momenti in cui tutto sembra in relazione con quanto si ha voglia di vedere, immaginare, sentire; eppure la verità è sempre lì, a portata di mano, anche se noi facciamo di tutto per neutralizzarla.
L’uomo osserva la ragazza con maggiore interesse: forse un collegamento è sempre possibile scoprirlo in mezzo alle cose, pensa, così attende che lei si senta guardata, per poter rendersi evidente ai suoi occhi. La ragazza aspira l’aria e guarda attorno a sé con un’espressione dubbiosa, come se qualche cosa si potesse incrinare all’interno delle sue certezze. Poi torna ad appoggiare quei fogli davanti agli occhi dell’uomo. Lui abbassa lo sguardo, riprende la frase dal punto, dice:
Niente sta qui senza che sia voluto; inutile dare ad altri la responsabilità delle cose, siamo colpevoli, nessuno ha voluto davvero che si dovesse accettare questo degrado.     
I due adesso sono in piedi, si osservano, forse sarebbe meglio dire si studiano. La ragazza pare abbia accantonato i modi ricercati, e il suo sguardo è meno sicuro di sé. L’uomo forse ha vergogna nel mostrare di essere attratto da lei, eppure non la perde di vista, pur proseguendo nel cercare di ignorarla. Si muovono lentamente, sembrano attratti l’uno dall’altra, ma in qualche maniera ognuno di loro conserva la propria individualità. Assieme tornano al tavolo, prendono in mano quei fogli guardandosi per un momento a fondo negli occhi, poi leggono, seppure in silenzio:
Non siamo diversi, ci assomigliamo, ma solo aiutandoci potremo diventare migliori, e solo migliorando potremo pensare un giorno di avere vissuto davvero, oltre questo incubo individualistico.

Bruno Magnolfi

martedì 1 febbraio 2011

Le solite pecore.


            
            Via, pensava l’uomo camminando a passo svelto lungo il marciapiede; via da qui, da questi luoghi dove non c’è niente, solo indifferenza, grigiore, e una miriade di persone lontane l’una dall’altra, come se pur sfiorandosi continuamente ognuna mostrasse integra in questo modo la propria individualità.  Lungo la strada c’era il solito traffico del pomeriggio, la giornata era piena di nuvole, tutto prometteva una serata qualsiasi. Le mani restavano sprofondate nelle tasche della sua giacca, il suo sguardo, privo di qualsiasi ottimismo, continuava a guardare lo spazio avanti a sé, senza un interesse preciso, se non quello di muoversi, procedere verso qualcosa, una meta qualsiasi. Sul largo piazzale si apriva un centro commerciale, la gente andava e veniva attraversando le porte a vetri scorrevoli, e alcuni stazionavano là fuori, a fumare e a parlare tra loro.
            Forse sarebbe stato possibile confondersi tra tutti, passeggiare osservando le vetrine dei negozi e lasciare quei suoi pensieri ad un altro momento, pensava l’uomo, ma qualcosa lo spingeva a prendere una decisione, a definire le idee che parevano nella sua testa ormai come un treno in piena corsa, così si fermò davanti ad un gruppetto di persone solo per immaginarsi di dire loro con voce alta, richiamando l’attenzione anche di altri, che tutto ciò maggiormente evidente era che nulla di quanto si stava compiendo aveva senso. Probabilmente qualcuno avrebbe sorriso, altri sarebbero rimasti in silenzio, senza comprendere i motivi che spingevano l’uomo a dire cose del genere. Lui non si sarebbe preoccupato di niente, se non di dare seguito a quelle sue parole, giusto per confermare quanto era insulsa la vita osservata da quel suo punto di vista.
            Invece rimase in silenzio ad osservare qualche espressione di coloro che proseguivano a fumare e a parlare di cose leggere che parevano senza particolare importanza. In fondo lui sapeva benissimo che sarebbe stato impossibile scuotere le coscienze in quella maniera, così rimase ancora qualche minuto là in mezzo, senza risolversi a niente, e infine riprese la sua camminata, senza altri indugi. Cosa c’era di male, pensava, nel dire agli altri ciò che passava nella sua testa, sarebbe stato anzi un suo preciso dovere comportarsi così, se non fosse stato per quella odiosa paura di non riuscire a spiegare adeguatamente le cose che a lui apparivano evidenti.
            Camminò ancora a lungo senza risolversi ad andare verso un luogo preciso, osservò l’espressione di ogni persona che incrociava lungo quei marciapiedi, cercò di concentrarsi ancora sulle sue idee, e quando infine tornò nei pressi di quel piazzale, proprio di fronte al centro commerciale, l’uomo si rese conto che c’era il solito gruppetto là fuori, anche se costituito da altre persone rispetto a poco prima. Stavolta non stette neppure a fermarsi, non si preoccupò minimamente di quale potesse essere il risultato, e passando là in mezzo, come se parlasse con tutti e con nessuno in particolare, alzò la testa e diresse lo sguardo ben fermo in avanti, dicendo con voce distesa: siamo soltanto delle pecore, lasciando così tutti perplessi ad osservarlo con curiosità.

            Bruno Magnolfi