mercoledì 30 novembre 2016

Nicchia segreta.

            

            Spesso vengo a rinchiudermi in questo stanzino dimenticato. Gli altri impiegati del palazzo vagano per i corridoi, spesso si incontrano tra loro e scambiano delle battute, così quasi sempre li trovi davanti alle macchinette del caffè posizionate ad ogni piano, a raccontarsi le loro sciocchezze di sempre, e anche a parlare dell’assurdità di essere costretti a passare l’intera mattinata prigionieri di un luogo proprio come questo, dove il lavoro fortunatamente è sempre l’ultima delle preoccupazioni di tutti. Lentamente, e senza provocare rumori, chiudo a chiave la porta quando sono già dentro, ed accendo questa lampadina fioca, in mancanza della finestra, rimanendo qui, con gli occhi mezzo chiusi, fermo, a riflettere su quanto continua a passarmi attraverso la mente.
            Sulla mia scrivania dell’ufficio ci sono rimaste anche oggi una decina di cartelle: posso mettere la firma di assenso ad ognuna in appena dieci minuti, e levarmi di torno una volta per tutte qualsiasi preoccupazione; ma questo è il lavoro di tutta la settimana, perciò devo parcellizzarlo, lasciare che decanti con calma, e che mostri ai miei superiori quanto sia difficile prendere delle vere decisioni. Certe volte sento i colleghi che parlano fuori da questa porta, mentre camminano lungo il corridoio, ma a nessuno di loro verrebbe mai in mente di cercarmi qua dentro. Generalmente rimango qua seduto per almeno un’oretta, a volte anche di più, ma che cosa importa, a me piace stare da solo, recuperare una dimensione in cui il lavoro si mantenga distante, almeno come ingrediente di una giornata come la mia, così monotona e indissolubile.
            In certi casi, una volta terminato il mio orario di lavoro, ho pensato che mi sarebbe piaciuto persino rientrare di nascosto dentro al palazzo, salire le scale fino al mio piano, e rinchiudermi di nuovo qua dentro. Ci sto bene, questo è il punto, anche se non ho fatto proprio niente per personalizzare questo luogo dimenticato da tutti. Non ne ho mai parlato con nessuno, ma fin da quando striscio il cartellino all’inizio del turno, non riesco oramai a pensare ad altro. Devo stare attento, è evidente, non posso assolutamente correre il rischio che qualcuno si accorga del mio rifugio. Ma so prendere ogni volta le mie dovute precauzioni. Quando esco, lascio sempre che mi cada qualche carta di mano, per mostrare a chi mi vede che sono impegnato in qualcosa, anche se in fondo a nessuno interessa, ed anche per evidenziare che quella porta che chiudo alle mie spalle nasconde come una tappa importante della mia giornata lavorativa.
            Stamani, come sempre, entro alla svelta là dentro, nel mio stanzino personale, e trovo subito qualcosa che non sta esattamente dove ricordavo che fosse. Mi guardo attorno, perlustro tutti gli oggetti presenti, ed un vago sentore di disagio mi prende la mente. Qualcuno ha scovato il mio rifugio, rifletto, e già solo il fatto di non essere più l'unico ad entrare in questo luogo mi provoca un'ansia notevole. Così mi trattengo là dentro anche più a lungo, e cerco di mettere in atto qualche strategia di sicurezza. Posiziono alcuni oggetti in modo da rendermi conto perfettamente se qualcuno sta usando al posto mio questo stanzino, ed alla fine stremato dall’agitazione mi decido ad uscire. Faccio appena dieci cauti passi nel corridoio, volto l'angolo, e subito un dubbio pregnante mi prende. Così torno indietro, ed appena in tempo riesco a vedere la porta del mio stanzino che si sta richiudendo. Qualcuno è entrato, non c'è alcun dubbio, attendeva proprio che io me ne andassi: è stato violato il segreto. In preda ad un capogiro mi trascino fino alla scrivania e quindi mi siedo. Dovrò prendere un lungo periodo di malattia, rifletto, non posso certo continuare così. Ed in seguito tutto sarà da ricostruire: chissà se in questo palazzo esiste un luogo simile al mio rifugio, penso; dovrò cercarlo, decido, fare dei tentativi, prendere informazioni, anche se forse l’equilibrio che ero riuscito ad ottenere in tutto questo tempo, ormai sarà perduto per sempre.


            Bruno Magnolfi

lunedì 28 novembre 2016

Perfetta comprensione.

            

            Il parrucchiere Marcello è gentile, dice Armando alla mamma; anche se la sua gentilezza in tutti questi anni da quando vado in quel suo negozio, a me non è mai rimasta troppo simpatica. Spesso lui regala intorno a sé battute di spirito, normalmente cose abbastanza scontate, a cui tutti i clienti del suo esercizio sembrano ridere quasi forzatamente, proprio per fargli piacere e nient’altro; e poi parla di continuo, non si ferma quasi mai, anche quando io e tutti gli  altri proviamo forte il desiderio di starcene un po’ più tranquilli, mentre come al solito ci ritroviamo purtroppo seduti con le nostre cose da leggere su quei sui scomodi e ordinari divanetti, ad aspettare pazientemente il nostro turno per tagliare i capelli o la barba.
            Vedi mamma, dice lui: a me già non piace il pensiero di quando Marcello inforca le forbici ed inizia a tagliarmi le ciocche; per questo sto per tutto il tempo in tensione: una parte di me, bene o male, se ne andrà a cadere per terra, continuo a riflettere, ed in seguito verrà spazzata via senza mezze misure dalla scopa di quell’aiutante di bottega, quel ragazzetto che ridendo come un ebete affronta qualunque cosa in maniera sbagliata e svogliata, senza metterci impegno. Devo, questo il punto, perché non posso lasciare che i miei capelli crescendo si riversino ancora quasi sopra le spalle, come già qualche volta è accaduto. Ma fosse per me, lo dico sul serio, lascerei che fosse soltanto la natura ad imporre la loro definitiva lunghezza. In ogni caso la giornata da me scelta per andare da Marcello è sempre una giornata oltremodo triste, un passaggio praticamente obbligato, e so perfettamente mentre percorro il tratto di strada che mi porta da lui, che non sarò affatto contento quando rifarò lo stesso percorso al contrario, qualsiasi possa essere il tipo di taglio che viene deciso.
Sto lì, quasi con rassegnazione, mamma, spiega Armando, e aspetto che le cose si compiano; e poi tocca a me, e Marcello ancora continua a parlare quasi non facesse differenza tra un cliente ed un altro. È tardi, dopo il mio turno è rimasto soltanto un anziano che pare stia lì con indifferenza, tenendo lo sguardo perso chissà verso dove, come non avesse, beato lui, alcuna preoccupazione. Io penso, dice ancora, che sarebbe bello per me potermi addormentare su questa poltrona girevole, proprio davanti allo specchio, e svegliarmi soltanto quando tutto sarà sostanzialmente finito. Ma lui invece fa: è un pezzo che non ci vediamo, mentre mi pettina la frangetta. Facciamo un taglio come quelli soliti?, mi chiede mentre già inizia a sforbiciare qualcosa. Annuisco, cerco il più possibile di stare rilassato, non vorrei mai dovergli spiegare qualcosa peraltro piuttosto difficile da dire, e in ogni caso mi sento ancora più nervoso, tanto da immobilizzarmi su questo sedile, pronto comunque a lasciarmi fare quello che a questo punto forse nessuno potrebbe limitare a quelle sue mani.
Naturalmente oggi, ad un tratto, senza che niente di particolare lo avesse annunciato, mi ha chiesto di te, sai mamma, dice ancora Armando; come fosse una domanda qualsiasi, la sfumatura di un argomento normale tra tutti quelli che affronta Marcello durante la sua intensa giornata di lavoro. Così mi sono paralizzato, come ogni volta succede, ed ho soltanto detto qualcosa senza alcuna importanza, nell’attesa che anche quel tema passasse. Lui ha continuato a tagliare, ha sforbiciato davanti e di dietro senza alcuna preoccupazione, piegandosi sulle ginocchia come fosse un artista di calibro. Poi ha tolto il telo, mi ha spazzolato fin sulle spalle, ha detto che aveva finito, ed io gli ho dato i suoi soldi, senza neppure guardarlo, fino a quando mi sono trovato con la mano sulla maniglia; e prima che lui mi dicesse come al solito di salutarti, l’ho prevenuto: ciao Marcello, gli ho detto duro, pensando intensamente che non sarei mai più tornato là dentro, in nessun caso. E lui stavolta, con ogni probabilità, ha compreso perfettamente.


Bruno Magnolfi 

venerdì 25 novembre 2016

Nessuna illusione.

          
            Sono vuoto, nonostante in apparenza tenti sempre di mostrarmi come una persona curiosa di qualunque situazione si presenti. In fondo non mi interessa proprio nulla di quanto viene spiegato da tutti continuamente; fingo regolarmente di apprezzare le novità, di starmene abbastanza aggiornato, ascoltando ogni individuo che mi parla con espressione attenta, ma in realtà vorrei soltanto sbadigliare e coricarmi sul divano di casa per non pensare più a niente. Qualcuno potrebbe appellarmi come egoista indifferente a tutto, ma dentro di me non c’è nessuna volontà precisa di tipo negativo, non provo rancore per niente e per nessuno, perché non ci sono reali scelte che abbia davvero fatto prima o dopo. Non ho passioni, tutto qua, vado avanti senza mettere impegno nelle mie azioni, scelgo sempre la via senz’altro più comoda anche per raggiungere qualche semplice obiettivo. E poi non cerco neanche le cose migliori per le mie esigenze, mi lascio galleggiare nella normalità, spesso senza muovere neppure un muscolo.
            Esco certe volte con un amico, e lui in certi casi riesce a trascinarmi persino in qualche locale, probabilmente proprio per avere il tempo di raccontarmi le sue giornate, i suoi interessi, la sua volontà. Io rido, lo ascolto, mi lascio guidare da lui nei luoghi e in mezzo ai suoi discorsi, poi quando torniamo lo ringrazio e rientro in casa esausto, riprendendo subito i miei comportamenti abituali. A che serve tutto questo, mi chiedo a volte. Forse dovrei starmene sempre nel mio appartamento, alla ricerca perenne della posizione più comoda magari per ascoltare semplicemente a basso volume qualche canzonetta che trasmette questa radio alla quale lascio riempire il silenzio. Lui invece mi telefona, dice: si potrebbe andare al cinema, o in una birreria che conosco, piena di ragazze carine. Va bene, come vuoi, gli dico. Ti aspetto qui, puoi passare a prendermi.
            Poi, in un posto dove mi sono lasciato portare, incontro questa ragazza silenziosa. Mi guarda per un attimo, e lascia con naturalezza che io le offra da bere. Le chiedo qualcosa, lei risponde, ma in seguito non mi guarda neanche più: dice soltanto le brevi frasi che servono al dialogo e poi basta. Mi rendo conto che se non proseguo a farle delle domande non riusciamo più neanche a parlare, così mi volto, guardo avanti a me, e tanto per riempire il vuoto, inizio a dirle che non ho interessi, e che di questo forse provo dispiacere. Mi sento privo di voglie, le spiego, mi sembra tutto quanto così difficile che preferisco non lottare, pur di evitare delle sconfitte impegnative. Non posso essere un esempio per nessuno, ne sono consapevole, però tutto questo è assolutamente il frutto della mia natura, che forse in certi casi mi fa anche vergognare, questo è vero, ma devo assecondarla, e così mi limito a nasconderla non parlandone mai con anima viva, e fingendo con tutti di essere come uno qualsiasi, impersonando quasi sempre ciò che gli altri desiderano vedere nella mia persona.
            Lei allora si volta, mi guarda, non sembra particolarmente impressionata dalle mie parole, però avverto che qualche cosa si è mosso dentro di lei. Beve un sorso, poi dice di andarcene da lì, che non abbiamo niente da fare in questo postaccio. Si parla, ma lei non dice quasi niente di sé, solo che è stufa di tutto, perché qualsiasi cosa abbia tentato, non è mai riuscita a farla diventare qualcosa di importante per il suo futuro. Ascolto: le dico riassumendo che siamo ambedue amareggiati da qualcosa, e ne sorrido, così facciamo un giro e poi senza enfasi alla fine ci salutiamo, che tanto appare evidente che non ci può essere un futuro per due come noi: è bene prenderne subito atto, penso, senza farci alcuna illusione.


Bruno Magnolfi

mercoledì 23 novembre 2016

Semplice antiquariato.

          
            Oltre lo schermo di questi miei poveri occhi, semplicemente protetti ma anche esaltati dalle lenti di vetro che porto sul naso, comprendo ogni giorno che c’è soltanto molta diffusa abitudine in ogni comportamento di tutti, dice Natan. Osservo i modi di fare di parecchie persone che conosco da tempo, magari mentre salutano gli altri, o quando passano davanti a questo piccolo negozio dove lavoro da sempre; e mi rendo conto ogni volta di quanto tutto l’insieme di queste piccole cose che compongono la mia giornata, sia dettato alla fine soltanto da elementi senza molta importanza, certe volte addirittura dallo stesso semplice sentire di ogni cliente che passa da qui, come se la sensazione di un individuo opportunamente immerso in un ambito, fosse il suo stesso recinto, la sua piccola oasi, spesso neanche riconoscendo lui stesso, persino in piena onestà, il proprio mostrare in questo modo l’appartenenza ad un gruppo.
            Guardo fuori dalla vetrina dei miei libri antichi, spiega Natan con calma a questo cliente. Ma non c’è nulla che riesca a trascinarmi oltre l’immagine che tento di assumere, sotto l’insegna indiscutibilmente in ebraico che mi sormonta. Entrano i soliti clienti, spesso mi dicono cose che conosco oramai alla perfezione, e che comunque mettono velocemente in sintonia le nostre conoscenze reciproche. Si sorride, si fanno cenni di assenso, poi ognuno di loro in piena libertà acquista qualcosa per la sacrosanta voglia di sentirsi più unito ai suoi simili, sullo stesso versante, fratelli anche oltre qualsiasi possibile supposizione.
            Il cliente resta freddo, non ha voglia neanche di annuire alle affermazioni del negoziante. Prosegue, pur ascoltando con attenzione, a prendere in mano i vecchi volumi ed a saggiarne la carta, l’integrità, la consistenza; alla fine farà un buon acquisto, pensa Natan, che ormai sa riconoscere a prima vista il personaggio giusto per la sua bottega di antiquariato della cultura. L’altro prende tempo, dice ad un tratto che i tempi sono molto diversi da quelli di una volta. Non c’è alcuna possibilità di sentirsi vicini, oramai, se non questo vecchio sentore di polvere, di carta ingiallita, di antico trascorso tra le mani di qualcuno a noi simile.
Natan allora gira su se stesso, fin oltre il suo vecchio scrittoio che funge da bancone di vendita, aspira l'aria quasi per incoraggiare il cliente, ma questi sembra come allontanarsi improvvisamente da quei libri, come desiderasse soltanto trattenersi in quell'ambito appena per qualche minuto, giusto per concludere la chiacchierata, e poi basta. Chissà se è stato giusto parlare proprio con questo cliente delle mie sensazioni, pensa lui con rassegnazione. Non ha alcuna importanza, riflette ancora Natan: va tutto bene se riesco ancora a comprendere quanto qualcuno sia capace di stare all'altezza di tutto questo. Che poi riesca a fargli fare un acquisto, è già un elemento superiore, e non sempre le cose vanno proprio per il verso che si desidera. Il cliente infine lo guarda, chiede di avere ancora tra le mani quel volume prezioso che ha osservato maggiormente, più di ogni altro. Decide l'acquisto, anche se il prezzo gli pare eccessivo, così tergiversa, prende ancora del tempo, chiede un pagamento da effettuare in più volte. Natan sorride, a questo punto, annuendo a tutte le richieste che vengono fatte: non c'è proprio niente di differente con tutti gli altri, pensa risoluto alla fine; siamo simili, inutile stare a negarlo.


Bruno Magnolfi

lunedì 21 novembre 2016

Potere inconsulto.

            
            Si, sto bene, dico subito a qualcuno che mi ha visto cadere così in malo modo. Mi aiutano, mi tirano su, io bofonchio qualcosa e poi mi riaggiusto la giubba sopra le spalle, dolorante ma quasi pronto persino ad affrontare qualche altro gradino scivoloso. Lentamente ma con orgoglio mi riavvio, e dopo un altro piccolo tratto di strada, entro senza indugi nel palazzo degli uffici dove mi dovevo recare stamani. Forse qualcuno tra quelli presenti alla mia caduta mi ha seguito fin qui, penso; forse vorranno chiedermi ancora se tutto vada bene davvero. Con determinazione, dal grande ingresso pieno di gente, vado risoluto a girare la maniglia di una porta qualsiasi, lungo il primo corridoio che incontro, ed entro dentro, come sapessi già perfettamente dove recarmi, ed in modo da eludere qualsiasi tentativo di coloro che sicuramente insistono ad inseguirmi.
            Una donna dietro la sua scrivania alza gli occhi dalle carte che ha di fronte, e mi chiede subito gentilmente che cosa desideri. Le faccio presente con accuratezza la mia situazione attuale, le relaziono i dettagli della mia caduta, le spiego la posizione assunta da alcuni curiosi, e tutto il resto che mentre parlo mi torna pronto alla mente, non dimenticandomi naturalmente di mostrarle un certo gonfiore sopra un ginocchio, risultato evidente della gran botta, ma lei sorride, come stessi dicendo quasi qualcosa di divertente. La guardo con una certa sorpresa, l’impiegata subito mi dice che proprio non può essermi utile, e che adesso per farle un favore dovrei proprio uscire da quell’ufficio. Assecondo perplesso la sua richiesta, ma quando apro la porta mi accorgo, anche se non riesco a riconoscere quegli individui tra gli altri, che c’è qualcuno che mi sta aspettando, come se in certi ambienti si volesse ancora sapere i dettagli del mio stato, e magari anche d’altro.
            Spiego alla donna che non posso uscire dalla sua stanza, devo obbligatoriamente restare confinato là dentro, e già che ci siamo le chiedo se può anche aiutarmi con le pratiche che devo mettere a posto. L’impiegata si alza dalla sua scrivania, mi si accosta con un’espressione incerta, osserva i miei incartamenti e infine, spingendomi leggermente ma quasi restando dietro di me, apre la porta e si guarda subito attorno, lungo quel corridoio che sto cercando di evitare. Venga con me, mi dice, l’accompagno io allo sportello dove potrà risolvere questi suoi problemi: se sta al mio fianco, nessuno le potrà dire niente. La seguo, mi fido, anche se a dire la verità avrei preferito restare almeno qualche altro minuto nella sua stanza, seduto da una parte magari, senza preoccupazioni, in un luogo così sicuro come sembra quello, assolutamente protetto.
Lei cammina veloce, io arranco cercando di starle attaccato. Lei infine si ferma, parla con qualcuno, indica qualcosa da una parte e dall'altra, lasciandomi infine comprendere, senza volerlo, che mi sta consegnando direttamente ai miei inseguitori. Perciò mi volto, noto quattro o cinque persone che vengono verso di me, mi sposto rapido da una parte, mi piego ad evitare di essere riconosciuto, ma il mio ginocchio non tiene, provo una fitta di dolore e così vado a terra. La donna ride con un’espressione da dura, mi indica come un individuo di cui farne oggetto di scherno, io sono confuso, vorrei fuggire in fretta da lì, ma lo ritengo impossibile, così resto immobile ad aspettare gli eventi. Qualcuno mi fa un’iniezione, mi portano via con una barella, mi ritrovo disteso nel letto ordinario di un vecchio ospedale, senza neppure sapere perché.

Bruno Magnolfi 


domenica 20 novembre 2016

Fuori dalla mischia.


La donna guarda avanti a sé mentre cammina lungo la grande galleria, e intanto spiega il suo punto di vista. L’altra ascolta per un po’, a tratti annuisce, e infine dice: sono d’accordo; non potevi proprio fare altro. E lei: è chiaro, non era possibile in nessuna maniera dargliela vinta senza dimostrare che il mio punto di vista era diverso, così ho finto completa indifferenza per quella sua stupida uscita. Il centro commerciale adesso è pieno di persone, fuori piove a tratti, la gente là dentro si sente come protetta e fortunata, e tutti vanno avanti e indietro senza sosta, forse nella ricerca di qualcosa, o magari per sentirsi semplicemente immersi in mezzo agli altri.
Lei si ferma, osserva con interesse un capo di abbigliamento esposto dentro la vetrina di un negozio, poi alla fine dice: mi piacerebbe però riuscire a fargliela pagare. L’altra sorride: certo, per questo non dovresti avere troppi problemi. E lei: è vero, ma non vorrei sbagliare gesto e fare soltanto la figura della vendicativa. D’accordo, fa l’altra, la sua superficialità però prevede che ti posizioni ben più in alto di quelle sue sciocchezze. In fondo io non gli chiedo molto, dice lei ricominciando a camminare. A me basta non essere trattata mai come una qualsiasi, e che si tenga conto in ogni caso della personalità che esprimo. E l’altra: sono d’accordo, un atteggiamento del genere da parte sua è ciò che di peggio possa capitare ad una come te.
La folla si muove quasi tutta in una certa direzione, e loro due si lasciano quasi sospingere dagli altri. Resta comunque una differenza di fondo tra di noi che non porterà mai niente di buono, dice lei. E l’altra: credo proprio tu debba dare una spinta a questo aspetto, in modo che se anche le cose sono destinate ad incrinarsi, almeno succeda subito, senza strascicare un rapporto indirizzato prima o poi verso la fine. Hai ragione, dice lei; siamo diversi, inutile girarci attorno, e questo almeno per me è un grosso problema. Lui non mi cerca, non mi fa sentire importante, non mi concede la fiducia che vorrei. Lascia che le scelte per noi due siano solo le mie, e poi si limita quasi sempre ad annuire, senza mostrare mai entusiasmi.
Devo lasciarlo, dice ancora lei. E l’altra: se ti senti di dover fare questa cosa, è meglio tu la faccia subito. Forse come vendetta magari è anche un po’ troppo, riprende lei. Però potrebbe darsi il caso che in seguito lui mi cercasse con maggiore impegno, e questo atteggiamento potrebbe far cambiare molte cose. Certo, dice l’altra; hai tutto da guadagnare nello smuovere le acque. Intanto loro due sono arrivate ad uno degli ingressi principali del centro commerciale, e la gente in questa zona pressa ancora di più, visto che fuori adesso piove forte. Scansiamoci, fa lei, evitiamo questa gente, basta spostarci al margine del corridoio. Poi riprendono come prima a camminare lentamente, evitando ogni poco qualcuno che viene loro incontro.
Ho deciso, dice lei alla fine. Aspetterò che lui dica qualcosa, mentre io cercherò di rimanere in silenzio il più possibile. Dovrà chiedere il mio parere prima o dopo, ed io a quel punto gli dirò quello che penso, senza falsità, senza costruzioni artificiali. Gli spiegherò che non sono il tipo di persona che si astiene dal combattere, e dargliela vinta sulle sue contraddizioni non può essere il mio stile. Brava, fa l’altra; è così che mi piace il tuo comportamento, quando tiri fuori del carattere, e riesci ad essere te stessa, senza compromessi. Già, fa lei; tutto vorrei salvo i compromessi: e in ogni caso intendo essere apprezzata per come sono veramente, e mai per come potrei essere.


Bruno Magnolfi

giovedì 17 novembre 2016

Casa mia.

           

            Senza mai preoccuparmi di niente, giro a caso per strada, quasi sempre nei dintorni della stazione degli autobus. Mi piace la gente in partenza, poi qua ci sono le pensiline, le vetture, i larghi marciapiedi disseminati di comode panche, ed io, adesso che è buio, immagino come per tutto il pomeriggio decine di persone siano transitate da queste parti, magari tutti di fretta, orologio alla mano, cercando la propria corriera con il biglietto bene in vista o dentro una tasca. Qualcuno magari ha perso per un soffio la sua coincidenza, altri si sono dimenticati qualcosa, l’intero bagaglio forse, appoggiato per un attimo a terra, mentre la testa era persa dietro altre cose. Ormai è tardi, a quest’ora poche macchine passano ancora da qui, e solo quelle a lunga percorrenza; si fermano con tutte le luci sguainate davanti, sotto questa tettoia, giusto per qualche minuto, e i passeggeri naturalmente sorridono, rassicurati da quella presenza, poi salgono su, parlano tra loro, occupano subito il posto migliore, infine si mettono comodi e rimangono fermi, tranquilli.
            Vorrei tagliare la strada ad una di queste corriere, farle scoppiare una gomma proprio mentre sta arrancando sulla salita che porta ad un paese qua attorno; oppure mettermi in mezzo, nel buio più profondo, fuoriuscito da un bosco del margine, per gridare all’autista che adesso deve fermarsi, deve lasciare almeno un momento che il motore respiri, e che tutti quanti all’interno si chiedano l’un l’altro il motivo di quella frenata, di questa sosta imprevista. Allora mi farei aprire la porta, mostrerei a tutti dei modi decisi, e infine salirei a bordo conservando con me, nonostante ogni apparenza, tutta la calma possibile; poi però mi farei sotto con il guidatore per mostrargli il mio ferro già bene in vista. Che possiamo fare, direbbero tutti, cosa mai significa questa faccenda, ma io direi con parole gentili a quell’autista, ma anche agli altri, di ingranare di nuovo la marcia, perché adesso dobbiamo andarcene assieme, navigare verso un luogo invitante, magari un posto bellissimo, un luogo che già avevo in mente da un pezzo, che sognavo ogni notte da tantissimo tempo.
            Un viaggio imprevisto, certamente, una trasferta verso qualche luogo lontano e inaspettato, dove si possa tirare un respiro con calma, dove forse vivono degli abitanti cordiali, e le case e le strade sono pulite, perché una certa tolleranza è diffusa persino nei confronti di gente identica a me. Probabilmente lascerei i passeggeri e l'autista, col loro mezzo vetrato, proprio all’imbocco di questo paese così piacevole, ma saluterei tutti, naturalmente, sorridendo a ciascuno di loro, e poi me ne andrei rasserenato per conto mio, a familiarizzare con questo bel luogo. Non c’è niente di male, penso; ho fatto fare a tutti una bel giro, ho regalato loro un imprevisto piacevole, una leggera paura subito sciolta, visto che poi alla fine, per questi viaggiatori, è ripreso tutto quanto come è sempre stato. Vorrei forse trattenere dentro di me qualcosa di questi casuali compagni di viaggio, del loro sentirsi così normali, ordinari, pronti ad essere ogni volta i medesimi, i soliti monotoni personaggi di questa divertente minuta commedia.
            Uno di questi però lo chiamerei col suo nome: amico, potrei dirgli, và pure avanti ancora per la tua strada, e fai pure le tue cose da ora in avanti come se fossero un po’ anche le mie. Ti sento vicino, è evidente, perché viaggiare rimane sempre la cosa più bella del mondo, e forse anche la più solidale, anche nel caso ci si trovi a percorrere sempre gli stessi tragitti. Anche io voglio fermarmi, prima o dopo, gli direi ancora, perché anche io provo in fondo a me stesso questa necessità; ed ho bisogno di un posto che in questo momento non so neppure dove si trovi, ma il cui nome completo però è indubbiamente quello di casa.


Bruno Magnolfi

lunedì 14 novembre 2016

Destino oscuro.

            

            Mi scusi capitano, ma sono sfinito: sarà per l’essere stato rannicchiato per tante ore in questo nido, o anche per il rumore di tutti i proiettili che con fatica forse mi è riuscito di mettere a segno, e pure per il mio dito che a furia di stare sempre premuto sopra il grilletto del mio emmegi, sembra adesso quasi diventato un pezzo di legno, proprio staccato dal resto del corpo. Va bene, sergente, adesso cerco di farti sostituire, ma spero almeno tu abbia tirato giù qualcuno di quei bastardi. Penso di sì, tre o quattro li ho visti infilare di corsa in mezzo a quelle macerie, forse li ho colpiti per davvero. Riposati un po’, non più di cinque minuti comunque: purtroppo un camion dei nostri, non molto lontano da qui, è saltato poco fa sopra una mina, e dal comando ci hanno chiesto di mettere su, proprio dove siamo noi, un avamposto per l’artiglieria. Ed io non so se ce la faremo, visto che su quel camion c’erano dei rinforzi destinati proprio a noi, che adesso non so nemmeno quale fine abbiano mai fatto.
            Ho bisogno di riposare, capitano, e anche di calma: se vado ancora avanti in questo modo, rischio di fare delle cose insulse. Lo so, lo so, ma se non proseguiamo col fuoco addosso a quei musi di scimmia, quelli tirano su la testa, riprendono fiato, si renderanno conto velocemente che siamo solo in pochi dietro queste case. Sergente, so che posso contare sul suo appoggio incondizionato, ed anche se lo sforzo che le chiedo risulta per lei notevole, ed io me ne rendo conto benissimo, l’ordine perentorio in queste condizioni è quello di tornare al più presto possibile alla sua postazione. Non posso, dice allora il sergente, non ce la faccio; piuttosto mi espongo al fuoco nemico, mi arrendo, fingo di essere stato colpito e mi sdraio in mezzo alla polvere. Non dica sciocchezze sergente, non siamo venuti qui per giocare, il nostro dovere viene ancora prima di tutto.
Va bene, però adesso mi metto qui, dice lui mentre si siede con la testa tra le mani; mi pare quasi impossibile essere arrivato fino a questo punto. Perché vede, capitano, a me quella gente che abbiamo di fronte, non ha fatto proprio nulla di male, e forse comprendo anche il loro punto di vista, considerato che siamo noi ad essere giunti fino qui a sparargli addosso e farli fuori. Non diciamo sciocchezze, sergente, la guerra non è qualcosa che decidiamo io e lei su delle basi così sciocche e superficiali, ci sono sicuramente interessi più alti e più importanti che hanno determinato queste azioni, noi dobbiamo solo obbedire e fare al meglio possibile il nostro dovere. Va bene, fa lui, ma adesso che ho visto da vicino che cosa significa tutto questo, mi sento quasi un obiettore di coscienza, tanto mi ripugna il sangue che devo far versare; e tutta quella gente che ho inquadrato nel mirino, mi ricorda parecchio molte delle persone del mio paese, gente uguale a me, insomma.
Sergente, non mi costringa a metterla agli arresti. Questi non sono discorsi degni di un soldato. Può darsi capitano, dice lui, però qualche dubbio può prendere a chiunque, non le pare possibile anche a lei? Senta sergente, non c'è più tempo per stare a tergiversare: o torna al suo posto, oppure disobbedisce ai miei ordini, prenda una decisione finale. Faccio poco volentieri quello che mi chiede, dice lui; tra due minuti andrò ad infilarmi di nuovo dentro il buco, dietro ai sacchi di sabbia e camuffato tra le pietre, ma oramai non sono più convinto di un bel niente, vorrei morire io al posto di qualcun altro a cui debbo sparare, mi pare tutto diventato così poco credibile. Ecco, sergente, le dò un po' d'acqua dalla mia borraccia, spero che bevendola assuma anche un po' del mio coraggio. Lo spero, capitano, ma può anche darsi che nella confusione riesca a versare tutta l’acqua nella polvere, tanto mi tremano le mani pensando a quei suoi ordini. E forse anche al suo destino.


Bruno Magnolfi

sabato 12 novembre 2016

Falso d'autore.

    

Ho sbagliato qualcosa, è evidente. Sono entrato dentro al negozio mentre già mi sentivo confuso, poi inspiegabilmente non c'era al momento proprio nessuno dietro a quel banco, e tra gli scaffali e le casse neanche un cliente. Così mi sono guardato attorno, ho atteso paziente che qualcuno giungesse, ed intanto ho messo la mano dentro la tasca, come per cercare quei due spiccioli che a volte riesco anche a spendere. Quando è arrivato il proprietario, un uomo di mezza età senza pretese, quasi per un automatismo avevo già steso il mio dito indice dentro la tasca, mettendolo per bene in vista anche, e proprio come fosse uno scherzo, ho detto con una voce ben camuffata, bassa e decisa: apri la cassa prima che ti procuri un foro in mezzo alla pancia. Lui mi ha guardato con gli occhi sbarrati, ha obbedito alla svelta, e sembrava tremare persino, come se tutta quella messinscena fosse una vera rapina, tanto che io stavo per mettermi a ridere e dirgli che era soltanto uno scherzo, ma lui mi ha messo davanti quel sacco di bigliettoni che mi hanno subito tolto ogni voglia di ridere.
Li ho presi, inutile giraci attorno, e sono uscito alla svelta da dentro quel tugurio da morti di fame, dimenticandomi persino di salutare quel tizio pauroso. Ho evitato da quel momento tutti i posti che conoscevo, sono andato a dormire in una baracca che era come una cuccia per cani, ed è trascorso in questo modo un tempo sicuramente sufficiente per farmi tirare un respiro di sollievo e tranquillizzarmi. In tutto questo periodo i soldi sono sempre stati con me, mi pare evidente, ed ho pure evitato di spendere anche uno soltanto di quei bei biglietti di banca.
Adesso, dopo tutte queste settimane, mi sento abbastanza tranquillo, giro per strada e chiedo un po' d'elemosina, come ho sempre fatto d'altronde, e soltanto qualche volta mi trovo di notte a graffiare una macchina, o a gettare in terra due o tre motorini parcheggiati per bene, giusto per mostrare il disprezzo che continuo a nutrire verso un po’tutti. È la mia maniera per sentirmi diverso, anche se alla fine, se ci penso per bene, non mi pare neanche di essere messo malissimo. Nessuno mi ha mai chiesto niente, almeno fino ad oggi, e dentro la fodera cucita della mia giacca, sento sempre con le mani la forma dei miei bigliettoni sparsi che dormono lì, nell'attesa di essere spesi.
Poi ieri sera mi viene la voglia di metterli tutti per bene, così apro la fodera mentre sono in un posto nascosto da solo, e faccio con calma dei mucchietti che metto insieme con degli elastici che mi sono procurato. Sistemo tutto quanto dentro una scatola, e lascio fuori soltanto tre o quattro banconote, pronte per essere spese. Così questa mattina, dopo aver sotterrato la scatola in un posto veramente sicuro, me ne vado un po’ in giro a testa alta e le mani affondate dentro le tasche, come fossi il più ricco di tutto il quartiere. Mi prendo ovviamente tutta la calma del mondo, cammino su e giù per un sacco di strade prima di mettere a fuoco il posto che più mi piace, e infine mi decido ad entrare in un bar ristorante, proprio per sedermi e farmi servire un pasto esattamente come si deve. Mi guardano subito male quei camerieri sospettosi, ma faccio vedere che in tasca c’ho i soldi, e quindi mi mettono davanti senza battere ciglio tutto quello che chiedo. Mangio ogni piatto con grande soddisfazione e alla fine loro mi portano il conto, senza che io mi sogni di fare neppure una smorfia; tiro fuori con grande scena i quattrini che servono, il tizio che sta lì ad aspettare lì prende, li guarda con calma, li saggia, e subito dopo mi dice, con severità: questi sono falsi, si vede benissimo.


Bruno Magnolfi

venerdì 11 novembre 2016

Vapore acqueo.

            

            Lui oggi si sente ombroso, taciturno; si è sistemato sulla sua poltrona preferita, con la lampada vicina, ed è rimasto lì per tutto il pomeriggio, a leggere qualcosa e prendere appunti. Lei ad un certo punto è rientrata, lo ha salutato come sempre, senza grande enfasi, osservandosi attorno quasi con un'ombra di sospetto; poi è andata a cambiarsi, ed infine è tornata per sedersi in silenzio, sistemandosi vicino al vecchio tavolo del salotto, proprio di fronte a lui. Mi fa bene ogni tanto starmene un giorno a casa lontano dal mio lavoro, ha detto lui. Lei ha annuito, ma secondo il suo parere non c’era molto da dire: è così per tutti, pensava, anche se non ha ritenuto di dover ribadire niente. Dobbiamo cambiare, ha spiegato invece lei sottovoce, dopo una pausa. Non si può tirare ancora avanti in questa maniera insopportabile. Lui l’ha guardata senza cambiare espressione, quasi si aspettasse un’uscita del genere, ed infine le ha steso una mano, senza spostarsi, come per invitarla verso il suo posto; in quel gesto evidentemente si rannidavano alcune speranze, ma lei si è alzata con indifferenza ed è subito andata verso la finestra, forse per sentirsi più libera, più indipendente da quel gesto di lui, anche se poi si è girata per guardarlo di nuovo e con maggiore attenzione.
            Fuori la giornata è più fredda, aveva pensato un attimo prima, trattenendo nella sua mente l’immagine di quel cielo grigio visto fuori dai vetri; ma è così che mi piace l’autunno, col vapore che fa già la nuvoletta quando ti esce di bocca. Resta evidente come lui non voglia affrontare quell’argomento, non adesso comunque, e così si comporta come ha fatto sempre, restando a lungo in silenzio, lo sguardo perso altrove, forse nella speranza di alleggerire magari in parte quel clima. Ho intenzione di andarmene, almeno per qualche tempo, dice lui alla fine, cercando probabilmente un rilancio un po' alla disperata, ritrovandosi, così come si sente, preso alle strette, ed anche nella convinzione che una cosa del genere possa in qualche modo rimetterlo in gioco. Certo, fa lei, puoi farlo, ma non cambierà di una virgola quanto resta qua dentro.
            Solamente adesso lei, riavvicinandosi al tavolo, nota appoggiata sul piano, la stampa di una singola prenotazione aerea per sola andata, che in fondo spiega quanto le sue parole siano assolutamente fondate. Va bene, dice sentendosi improvvisamente ancora più nervosa e meno accondiscendente nei confronti di lui; vedo che hai già portato le cose in avanti. In fondo è meglio per tutti se passiamo un periodo senza vederci, fa lui. Non lo so, dice lei; forse riesce soltanto ad allontanare momentaneamente i problemi. Lui allora si alza, affonda le mani dentro le tasche, gira su se stesso e va verso quella stessa finestra che si affaccia su un minuscolo giardino accanto alla strada. La giornata è più fredda, pensa di slancio, le persone camminano e rilasciano un sottile vapore visibile in aria, mentre respirano.
Ho voglia di caldo, dice alla fine, spingersi verso sud può essere una buona idea. Lei si sente come punta sul vivo, torna a dargli le spalle prendendo in mano quel biglietto per osservarlo con maggiore attenzione, poi: ormai posso soltanto prendere atto delle cose che hai intenzione di fare, dice con un certo sarcasmo. Può anche essere un semplice invito, quello che ti stai ritrovando sotto gli occhi, dice lui mentre continua a guardare la strada; non ci vuole poi molto a trasformare una fuga dai nostri problemi, in una vacanza per due di grande piacere. No, grazie, sentenzia lei, ho altri programmi. Come vuoi, dice lui, in ogni caso più riduci ogni mio spazio di manovra, più significa che hai già stabilito dentro di te il nostro futuro. Futuro, fa lei sorridendo con una certa amarezza; mi pare qualcosa di molto nebuloso, almeno in mezzo a tutti i pensieri che ho. Può darsi, fa lui, in ogni caso nessuno di noi due sembra convinto di come vada disegnato, tanto vale iniziare a prendere un foglio di carta e delle matite. Ci penserò, dice lei quasi con stizza. Poi lui gira la maniglia, forse per assaporare l'aria di fuori, e spalanca in silenzio quella finestra: entra dentro un bel freddo asciutto adesso, ciò che naturalmente si poteva già immaginare osservando il panorama dai vetri; e tutto il vapore di quella stanza pare improvvisamente andarsene via.


Bruno Magnolfi

martedì 8 novembre 2016

Ipoteca imprevista.

         

            Sento il rumore delle macchine che transitano lungo il viale; muovo lentamente una mano, prendo il cartone ancora quasi pieno che sta qui vicino, e butto giù un sorso di vino, tanto per sentire più caldo e meno rumore. Generalmente non dormo su una panchina, non è neppure il mio stile, voglio dire. Soltanto, ho avuto qualche problema ultimamente, e così ho pensato che è meglio se mi tolgo dai piedi almeno per un po’. Ho fatto qualche scherzetto a qualcuno giù al dormitorio, dove vado sempre in queste giornate così umide; niente di serio, roba quasi tra amici, però qualcuno di loro adesso penso proprio voglia farmela pagare. Ma passerà, come tutte le cose, e tra poco tempo nessuno avrà più voglia neppure di ricordarsene di questa faccenda.
La cosa che mi preoccupa di più nel passare la notte da solo in questi giardinetti, è data da quegli sbandati che vanno sempre a rompere le scatole alla gente proprio come me. Io sto qui bello tranquillo con la mia coperta pesante, e quelli ti vengono attorno e sghignazzano anche, e se qualcuno di loro è ubriaco finisce pure che cercano persino di arrostirti. Ma io so difendermi, e dormo sempre con il coltello sfoderato qui accanto, pronto per qualsiasi evenienza. Certo, mi piacerebbe poter tornare bello tranquillo giù al dormitorio, e forse sarebbe anche meglio, ma adesso non è proprio aria, mi devo tenere distante, non c'è niente da fare. Avevo trovato una tizia tutta stranita che comunque ci stava, e perciò me la sono subito portata nel dormitorio; e poi, per permettermi di farle un regalo, il minimo che potessi fare per lei, ho dovuto ripulire nel buio qualche tasca rigonfia di qualcuno che stava là dentro. Tra persone normali si potrebbe anche comprendere un gesto del genere, penso, ma in questo ambiente spesso non c’è niente da fare, ognuno è attaccato alle proprie cose quasi come un polpo allo scoglio.
Così, eccomi qua. E mentre cerco di prendere sonno avverto rumori sospetti un po' dappertutto, così butto giù un'altra sorsata dal mio bel cartone, e poi mi giro su un fianco per provare a chiudere gli occhi. C'è un fanale in fondo al vialetto, ed illumina abbastanza bene tutto questo spiazzo dove mi sono sistemato; la luce dà un certo fastidio, ma stare nel buio credo sarebbe anche peggio. Poi arrivano questi tre o quattro stronzi: li sento mentre fingono di avvicinarsi alla chetichella, ma ridono e fanno più casino loro di venti bambini in un parco giochi. Mi preparo, tiro giù intanto una gamba e impugno con forza il coltello: al primo che mi viene più a tiro, gli faccio subito un bel graffio da qualche parte, così gli altri se la fanno subito sotto e mi tolgono velocemente il disturbo. Non ha fegato la gente come questa, basta fare la faccia cattiva e si impauriscono subito.
Girano attorno, mi guardano, io fingo ancora di stare nel mondo dei sogni. Poi uno mi viene vicino e dice piano: è lui; così capisco che non è esattamente come pensavo. Apro gli occhi, mi tiro su, la coperta nasconde il coltello, loro non dicono niente, ma mi sembra che le cose non si mettano bene per me. Cosa volete, dico tanto per dire, ma quelli neppure rispondono. Dobbiamo farti uno sfregio, dice uno con indifferenza, così imparerai come ci si deve comportare. Così lo guardo, quello mi viene più vicino, ha un coltello esagerato dentro una mano, e me lo punta proprio sugli occhi. Quando sta a tiro gli pianto il mio temperino dentro una coscia e mi scanso per evitare il suo colpo, lui casca per terra e si rotola per il dolore. Due degli altri scappano subito, uno invece resta e mi dice che volevano soltanto farmi paura, nient’altro. Portalo via, gli dico con voce gracchiante, perciò quello lo alza e l’aiuta a rimettersi in piedi ed a camminare. Mentre li guardo andarsene strascicandosi nella maniera che possono, penso però che prima o poi torneranno, e a quel punto sarà proprio dura per me. Dovrò nascondermi per chissà quanto tempo, rifletto, forse cambiare addirittura città. Non è andata bene, dico tra me, il mio futuro ormai è ipotecato.


Bruno Magnolfi

lunedì 7 novembre 2016

Spazzatura elettronica.

            
            Adesso è giunto il momento in cui mi sento proprio stanca, dice lei parlando quasi in un soffio. Stanca delle tue maniere, del tuo monotono essere sempre uguale a te stesso. Hai fatto la scorza con quelle poche cose di cui ti interessi, nel muoverti per casa in una maniera sempre così prevedibile, senza mai alcuna variazione. Ho continuato per anni a farti notare come poco per volta ti andavi riducendo, ma tu hai sorriso ad ogni mio debole appunto, ed hai tirato dritto senza preoccuparti minimamente di quanto dicevo. Forse perché, con tutto il rispetto che ho costantemente avuto nei tuoi confronti, ho sempre cercato comunque di non farti affatto pesare le cose che spesso continuavo ad esplicarti, usando sempre parole dai toni morbidi, e ammettendo che quanto dicevo in fondo era soltanto un parere, una mia interpretazione.
            Certe volte non mi sono fatta trovare, dice ancora la donna, e ti ho lasciato uno stringato messaggio con cui ti comunicavo che forse sarei tornata più tardi, che avevo qualcosa di importante da fare, magari che ero in giro con qualche mia amica, e che la cena comunque era pronta, e potevi andare avanti con le tue cose anche senza di me. Poi ritornavo, e ti trovavo nella stessa maniera di sempre, indifferente a qualsiasi variazione, persino lontano da ogni pensiero dettato dalla curiosità. Quasi sdraiato, come ogni sera, perso davanti alla televisione, e senza un minimo di cura per te e per le cose intorno al tuo evidente egoismo.
            Poi ho cercato di stimolarti, dice lei abbassando ancora la voce; l’ho fatto cercando qualcosa che potesse in qualche modo coinvolgerti, che ti desse una spinta per uscire una buona volta da quel tuo solito bozzolo, e per molte delle cose che ho messo insieme, ho finto addirittura che ti arrivassero quasi per caso, per non farti pesare niente di me, neppure quelle piccole idee. Ho sorriso, in certi casi, quando al contrario ci sarebbe stato da piangere, ma ho sempre voluto trovare un'altra possibilità da concederti, anche se tu ogni volta hai sempre trovato il modo di neutralizzare tutto quanto. Ed ho smosso il più possibile almeno ciò che ho potuto, se non altro per darti l'impressione che il resto del mondo intorno non è fermo, come invece sei tu; ma senza alcun risultato.
            Il tuo unico sforzo è sempre stato soltanto quello compiuto per il tuo lavoro, spiega lei con ancora più calma; impegno peraltro portato avanti giusto in qualche maniera, e accompagnato perfino da continue lamentele nei confronti dei colleghi, del tuo capo, dell’organizzazione generale, e anche degli orari a cui ti sei spesso sentito costretto. La liberazione che hai sempre avvertito, giungendo alla fine del tuo turno lavorativo, non è però mai stata controbilanciata da una vera voglia di fare, di recuperare almeno qualcosa, come se il resto del tempo a tua disposizione potesse essere risolto in un niente completo, che peraltro in questa maniera non può neppure riuscire a darti lo slancio per impegnarti di più e più proficuamente proprio in quel tuo mestiere.
Infine, adesso appena sussurrando, la donna dice di nuovo ma con altre parole ciò che ha appena spiegato; non è facile, pensa subito dopo, aver trovato il momento adatto per dire a lui tutto quanto, anche se solamente in una registrazione di questo mio cellulare. Poi arresta la memoria elettronica, ed osserva a lungo quel file, un piccolo scarabocchio sopra lo schermo, così importante da contenere ormai quasi tutto di quei suoi pensieri, di ciò che ha sempre avuto presente, tutto quello che a lui avrebbe sempre voluto spiegargli. Poi però lo cestina, con un semplice clic.


Bruno Magnolfi

domenica 6 novembre 2016

Errori comuni.

            
            Forse ho sbagliato, dico io; ed il babbo: certo che hai sbagliato, su questo non c’è proprio alcun dubbio. Ed io: ma l’ho fatto in buona fede; va bene, fa lui, però potevi comunque prevederlo. Ed io: forse mi sono fidato troppo della situazione; ma questo ottimismo non è un errore. D’accordo, fa il babbo, però le conseguenze di adesso saranno tue e del tuo ottimismo. Però credo che tutti prima o poi cadano in tranelli del genere, dico io. Forse, fa lui; in ogni caso c’è una battuta d’arresto nel tuo percorso. Vedi, dice ancora il babbo: l’errore può anche essere previsto, ma le conseguenze non lo sono affatto, così adesso c’è soltanto da pensare bene a come rimediare.
            Tu mi aiuterai, penso, faccio io. Non credo, fa lui, altrimenti non imparerai niente, anzi io diventerei in quel caso semplicemente il tuo paracadute. Ed io, con apprensione: ma questo non è molto giusto; e lui: non parliamo adesso di cose giuste, altrimenti perdiamo la bussola. Così mi lasci solo, faccio io; può darsi, fa lui: ma te lo sei meritato. Secondo me, continua il babbo, dovresti provare ad essere almeno un pochino autocritico. Vuoi dire che generalmente sono altezzoso?, faccio io. Non dico questo, interrompe lui: però c’è bisogno di un pizzico di maggiore umiltà.
            L’auto si ferma, il babbo scende per primo e muove due passi sull’argine di quel canale che continua a scorrere placido. Dopo un momento lo seguo, chiudendo lo sportello dietro di me e inforcando gli occhiali da sole anche se la giornata è un po’ grigia. Non c’è niente di male, faccio io, se cerco un aiuto dagli altri. No, dice lui sorridendo; sempre ammesso che gli altri siano disposti davvero ad aiutarti. Ed io: perché c’è anche il caso di individui che potrebbero approfittarsi della mia debolezza, vuoi dire? Forse, fa lui; in ogni caso devi avere maggiore convinzione nelle tue scelte, non prendere quelle che ti suggeriscono gli altri.  
            Si cammina sull’argine erboso, a me pare una giornata perfetta per chiudere tutto alle spalle e ricominciare sin d’ora qualcosa di nuovo. Va bene, fo io, domani affronterò a testa bassa l’argomento, e cercherò di superare i miei errori. E lui: non credo sia sufficiente; c’è bisogno di testa e di tempo, non di strappi improvvisi di pancia. Ma allora c’è una tecnica anche nei rimedi, dico io. Certo, fa il babbo; e in ogni caso non può certo abbassarsi la tua autostima, se ti metti a studiare un percorso per il pieno recupero. Vorrei sapere adesso come andrà a finire tutta la storia, dico io abbassando la voce; perché mi pare che tutto quanto sia più compromesso di quello che mi sarei mai aspettato.
            Il babbo non dice niente, si accende una delle sue sigarette, osserva la foschia in fondo al canale, e assapora quei colori così tenui che paiono spengersi via via che ci si allontana da qui con lo sguardo. Faccio io: vorrei tanto non essere incappato in questa situazione. Lo so, dice lui: ma ciò non toglie che sia comunque un’opportunità quella che ti si sta presentando. Respiro l’aria umida e colma di mille profumi, poi dico: credi tu che le cose potranno risolversi bene? Certo, fa lui; molto dipende da te e da ciò che farai, ma averne parlato in questa giornata, è già un primo passo, quasi un impegno a dare una vera svolta alle cose. Ed io: ne sono convinto, anch’io mi sento già meglio, forse si stempra dentro di me quell’angoscia che continuavo a provare. Il canale continua a scorrere con tranquillità; l’erba degli argini trema, la foschia in mezzo agli alberi pare già diradarsi.


            Bruno Magnolfi

sabato 5 novembre 2016

Insegnamenti ordinari.

          
            L’ampio salotto di casa risulta ingombro, più che da mobili antichi, da un arredamento evidentemente ormai vecchio, invariato da diversi decenni, ed il grande tavolo di legno centrale rimane posizionato sopra un tappeto un po’ logoro, a coprire un pavimento di un vago colore rosso scuro, ben incerato però, e costituito da piastrelle di una normale graniglia di marmi. L’anziana signora vorrebbe dirgli qualcosa, mentre continua con dedizione ad impegnarsi su un piccolo lavoro di cucito, seduta nell’angolo più luminoso di quella stanza, ma lui sembra distante, pur seduto a quel tavolo, interessato com’è dalla lettura di un articolo del suo giornale.
            Dobbiamo essere maggiormente concreti e realisti, e pensare che le cose da ora in avanti possono persino peggiorare, vorrebbe forse spiegarle lui, magari soltanto per smuovere qualcosa della sua sensibilità residua, probabilmente ancora presente nella vecchia mentalità della sua mamma, pur così restia a qualsiasi cambiamento; ma di fatto, immobile sopra le pagine scritte, allontana subito da sé quell’argomento, ad evitare che le parole e le frasi possibili, inanellandosi velocemente tra loro, portino verso chissà quali discorsi, che adesso secondo lui non è proprio il caso di affrontare. Lei invece, nello stesso momento, in qualche maniera riesce persino ad immaginare proprio quei pensieri del figlio, mentre stanno sull’orlo del farsi parole, ma sapendo già l’argomento a cui si potrebbero riferire, si sente poco propensa a spianargli la strada di quel dialogo, e così resta in perfetto silenzio, nell’attesa magari di una prova decisamente più convincente di personalità, da parte di lui. In più sa che è quasi l’ora del tè, un rito praticamente irrinunciabile per una come lei, eppure resta in attesa, come se dovesse essere proprio suo figlio a ricordarglielo. Infine sbuffa, muovendo sensibilmente le mani e insieme il pezzo di stoffa a cui sta lavorando, e lui, proprio per non darle soddisfazione, finge di non accorgersi praticamente di niente.
            Allora lei si alza, appoggia con cura le sue cose, poi senza fermarsi chiede a suo figlio, ricordandosi d’improvviso che ha oramai quasi cinquant’anni, se desiderasse una tazza di quel tè che proprio in questo momento sta andando in cucina per preparare, ed infine esce dalla stanza, dopo lo scontato diniego di lui, che non ha mai gradito, in tutta la sua vita, quella bevanda. Lui allora ne approfitta per alzarsi dal tavolo, andare alla finestra, e scansando la tendina, guardare fuori con occhio indagatore quel minimo panorama invariato da sempre, per poi tornare a sedersi, quasi nella stessa posizione di prima. Le giornate si sono accorciate, pensa di dire alla mamma appena lei sarà tornata con la sua tazza fumante, ma quando questo avviene davvero, gli sembra improvvisamente una frase talmente scontata da sentirsi quasi in obbligo di evitare l’apertura della sua bocca. Anche lei probabilmente pensa la medesima cosa riguardo i pomeriggi sempre più brevi, tanto da accendere una lampada accanto alla sua postazione, una volta seduta; ma anche a lei forse risulta un argomento troppo banale.
            Allora il figlio si alza, indossa con metodo la sua giacca pesante, e dice che adesso andrà a fare due passi, per tornare tra un’ora o poco più, proprio per aiutarla a preparare la cena; lei lo osserva un momento, sollevando lo sguardo sopra le lenti dei suoi occhiali, e dice soltanto: va bene, senza espressione, e nient’altro. Ha ancora molte cose da imparare, pensa subito dentro di sé, mentre ascolta in fondo all’ingresso, il portone aprirsi e richiudersi: e forse non c’è più neanche il tempo per insegnargli davvero qualcosa.


            Bruno Magnolfi 

venerdì 4 novembre 2016

Dialogando.

           
Lei è immobile in questo momento, ne ha pienamente coscienza. Apre le persiane di casa ogni mattina prestissimo, come ha sempre fatto, ogni giorno all'incirca alla medesima ora, ed assapora quell'aria da fuori che gira e si avvita lentamente nel vuoto, come se all'interno del suo appartamento dovesse arrivare dalle altre case un possibile annuncio di chissà quali incredibili notizie. È ancora presto, lo sa benissimo, ha tutto il tempo che vuole per fare tutto quanto con calma, e continuare persino ad osservare quel niente che riesce a vedere, forse piuttosto monotono, ma indubbiamente rassicurante, quel vuoto buio e completo da cui è circondata. Quando torna a chiudere i vetri e rientrare, sembra proprio, tramite quel pizzico di volontà che la spinge ad occuparsi di sè, che tutta la macchina che la circonda, pur lentamente, inizi poco per volta a mettersi in moto, ed ecco che i primi pensieri la colgono, soprattutto riguardo quelle iniziali piccole preoccupazioni di sempre, comuni a chiunque in qualsiasi altro giorno, e praticamente anche oggi senza grandi variazioni di sorta.
Quando infine esce da casa, pronta ad affrontare i suoi compiti, quell’aria che le era tanto piaciuta affacciandosi dalla finestra, adesso le appare decisamente più ostile, quasi uno schiaffo, così disumana ed estrema, come d’altronde lo è perfino il suo passo, che risuona, in quell’aria di tutti, a lei ancora più estraneo, cadenzato e sgradevole, come un ticchettare nervoso che la perseguita lungo quel tratto di strada fino alla fermata degli autobus. Ci sono sempre le solite facce a quella fermata, così lei per evitare chiunque, spesso si finge distratta, e quando dopo pochi minuti arriva il suo mezzo pubblico, lei sale di scatto, quasi sorpresa della sua prontezza e del suo ordinario prendere subito posto. La solita gente di ogni giorno forse la osserva, ma lei torna a guardare qualcosa dal finestrino, mostrando completa indifferenza, mentre ad ogni fermata si accomoda meglio lì dove si trova, ed inizia a costruirsi la sua personale atmosfera.
Più tardi si sentirà maggiormente protetta, avvolta come sa essere, poco per volta, da una sorta di materiale trasparente e invisibile conosciuto soltanto da lei, che le permette di stare con gli altri, ma comunque difesa da loro. Parla, sorride, affronta ogni argomento con personalità, e la logica che la sorregge è quella di sempre, la stessa che adopera per qualsiasi suo compito. Rientra a casa, nel pomeriggio, e torna a socchiudere la sua finestra, come se le mancasse quell'aria che rammulina soltanto da quelle parti, fuori dai vetri, e scioglie finalmente quella corazza da cui è stata protetta fino a questo momento. Non c’è niente nelle sue stanze, nulla che le possa davvero piacere; eppure qualcosa la tiene quasi inchiodata là dentro, come se non ci fosse altro luogo capace di darle una rassicurazione paragonabile a quella che prova.
Si muovono le tende della sua finestra ancora socchiusa, lei adesso si perde a girare per casa con calma, conservando la voglia perenne di tornare ad uscire, di spingersi di nuovo là fuori ad affrontare tutto ciò che può trovarsi di fronte. La finestra le parla, le dice qualcosa che pare quasi una nenia infantile, un sussurro a cui lei non riesce in nessun modo ad opporsi; infine si siede però, e riesce a rilassarsi davvero: la sua tenda ora è ferma, gli infissi, con l’ultimo piccolo colpo di vento, si sono chiusi da sé, e lei adesso è tranquilla: il dialogo può continuare.


Bruno Magnolfi

mercoledì 2 novembre 2016

Serena sorte.

         

Mi piace piegare la testa in avanti, affondare il viso dentro le braccia, e restare seduto sopra un gradino, vicino al marciapiede di una strada qualsiasi, o magari su una panchina dei giardinetti, senza avere niente da fare, salvo scaldarmi nel sole, come uno di questi gatti randagi. Chiudo gli occhi, allento la tensione, ed un’immagine di quiete mi prende, come fosse un piccolo sonno ristoratore che magari riesce soltanto a durare lo spazio di un attimo, ma che indubbiamente incoraggia, e dà la spinta sufficiente per tirare avanti.
Poi mi alzo, riprendo a girare come sempre per questo quartiere, nella mia estenuante ricerca di quella serenità che purtroppo continua a sfuggirmi, e che purtroppo ritengo fondamentale per formulare qualche progetto che valga almeno per questa giornata. Mi fermo a guardare qualcosa, attratto come sono da ciò che almeno non riesco a spiegarmi nell'immediatezza, e mentre sto immobile con lo sguardo perso sopra qualcosa, una persona mi avvicina, sfiorandomi un braccio come per presentarsi, o farmi notare che si è accorta di me. La guardo in silenzio, questa signora dall'espressione elegante e con il vestiario di chi non ha problemi di soldi. Non penso niente di lei, non ho bisogno di fare congetture. Posso parlarle, mi chiede, ed io: certo, le faccio con calma, praticamente in questo momento non ho neppure niente da fare.
Mi indica un caffè lì vicino, così entriamo senza parlare e ci accomodiamo ad un tavolo libero. Vorrei aiutarla, mi dice, e nient’altro. Naturalmente osservo meglio la donna, ma non mi vengono idee in mente, neppure riguardo la richiesta che ha fatto. Le dico che mi reputo soltanto un qualsiasi vagabondo, uno che si è ritrovato ad essere così da un giorno a quell’altro, ma lei mi interrompe: non voglio sapere la sua storia, comprendo bene che la sua non è assolutamente una scelta, ma io vorrei soltanto darle una mano, nient’altro.
Respiro, il cameriere ci serve i caffè, io mi preoccupo della mia tazzina, e intanto penso che in fondo non saprei cosa chiedere a questa signora, se non qualche spicciolo come in fondo chiedo spesso anche ad altri. Però il mio orgoglio mi fa pensare semplicemente che non ho bisogno di niente, così alzo le spalle, perché la mia vita va avanti, oscillando tra gli orari in cui mi reco alla mensa, e le nottate da trascorrere possibilmente in un posto al coperto. Improvvisamente lei sembra di fretta, apre il borsello e mi mette in una mano un po’ dei suoi soldi, poi, senza aspettare risposta, paga velocemente il cameriere, e alla fine mi saluta dicendomi buona fortuna, nient’altro.
Attendo ancora un momento, poi mi alzo per uscire da quel locale, e di colpo, quando sono ormai sulla porta, mi sento come una persona diversa, uno che adesso ha quasi meno energia, e gli resta soltanto la voglia di sprofondarsi nelle sue cose, con estrema indifferenza verso tutto ciò che gli resta attorno. Riprendo il mio vagare, mi fermo, vado ancora avanti, alla fine mi siedo sopra il gradino di un palazzo lì accanto.
Immagino la donna di prima che mette in mano dei soldi a chiunque incontri per strada, come per liberarsi di qualcosa che porta con sé. Ma alla fine rifletto meglio, ed arrivo a pensare come ci siano ancora delle persone in fondo meravigliose, che mostrano il senso primario della loro esistenza. Vorrei alzarmi da qui, andarmene solo da qualche parte, ma non posso proprio adesso mostrarmi egoista: dividerò, questi soldi che ho avuto, con il primo accattone che incontro, lo giuro a me stesso, e poi starò meglio; la serenità scenderà poco a poco dentro di me, almeno per oggi.


Bruno Magnolfi