sabato 27 giugno 2020

Come ogni giorno.


          
            Lui stamani ha indossato con calma una camicia pulita e stirata, e poi sopra una delle sue divise estive che sono in uso ormai da parecchie settimane perché fa già un caldo estenuante; quindi ha preso la borsa con dentro alcuni documenti, la sua pistola di ordinanza, il cappello, ed alla fine è uscito, come ogni mattina, o almeno come tutte quelle mattine in cui rispetta questo turno di attività. Si sente fiero del suo grado e della livrea impeccabile, e quando esce da casa e si guarda attorno nel gusto frizzante dell’aria di un nuovo giorno che si avvia ad iniziare, gli piace molto anche incontrare subito qualcuno tra i suoi vicini oppure tra i negozianti della zona dove abita, il giornalaio, o la tabaccaia, ad esempio, persone che conosce e che lo guardano sempre sorridendo augurandogli il buongiorno mentre si avvia ai suoi impegni quotidiani; spesso gli sembra addirittura che dipenda proprio da quel semplice segnale lanciato dai conoscenti tutto il buon esito della sua giornata. Sa che in caserma l’appuntato già lo aspetta per uscire fuori con la macchina di servizio, il solito giro di ricognizione, poi probabilmente andranno a fermarsi dalle parti dell’incrocio con la strada statale, per fermare qualche auto e tastare il polso alla situazione, per redigere insieme a fine mattinata un rapporto ben circostanziato su tutto ciò che riusciranno a constatare circa i comportamenti della popolazione riguardo al rispetto delle nuove normative di governo.
            “Buongiorno maresciallo”, dice uno dei giovani carabinieri di fresca nomina distaccati in quella piccola sede di paese. Lui risponde come sempre sottovoce, con il suo fare sornione, di chi la sa lunga sulla maniera di dirigere al meglio una stazione come la sua, dove ad operare sono sempre in pochi, e qualche volta assolutamente insufficienti ad affrontare certe casistiche complesse come questa della trasmissione virale tra i cittadini del loro territorio. “Oggi ci segnalano altri due nuovi casi dal comando di compagnia”, dice con profonda serietà chi ha trascorso il turno precedente a decifrare le notizie e a raccogliere le informazioni che giungono in caserma. “Va bene”, dice lui mentre aziona la macchinetta a cialde per farsi una tazza di caffè; “hai già trascritto tutti i dettagli immagino: lasciali sopra la mia scrivania, così li consulto prima di uscire”. 
            L’appuntato in quel momento è appena rientrato dalla rimessa da dove ha già tirato fuori la loro macchina di servizio, salito i tre gradini all’interno della robusta recinzione che circonda la palazzina, ed entrato dentro gli uffici con un fare vagamente agitato. “Buongiorno maresciallo”, dice togliendosi in fretta dalla testa il suo cappello. “Forse ha già visto la brutta novità del giorno”. Lui lo guarda, si ferma un attimo perplesso con la tazza del caffè sorretta da una mano, mentre con l’altra fa il gesto come per incoraggiare subito ciò che c’è di così urgente da apprendere. “La moglie del sindaco”, fa l’altro; “portata via d’urgenza già in gravi condizioni”. Lui si siede lentamente alla sua scrivania, si sente perplesso, quasi costernato, poi prende con gesto misurato il telefono portatile e chiama immediatamente il sindaco, che però non gli risponde. Sicuramente ha cose estremamente importanti adesso che gli girano rapide dentro la mente, riflette. Ma dopo un attimo il sindaco lo richiama: “sono in ospedale maresciallo, non so che dirle”.
            “Lo so”, dice lui con estrema calma; “volevo soltanto farle presente che noi tutti siamo a disposizione per qualsiasi cosa di cui abbia bisogno”. Il sindaco lo ringrazia, non è certo il momento per chiamarsi per nome come in genere fanno, o per darsi del tu in modo amichevole come sempre succede nel corso dei mesi. Qualcosa di più importante adesso mette in fila le cose, e le lascia misurare con un metro fondante, essenziale, quasi alla base di qualsiasi espressione si cerchi dentro la testa. “Mi sento smarrito”, aggiunge soltanto il sindaco in questo momento; e dopo riattacca. “Appuntato”, dice il maresciallo alzando la faccia dalla scrivania; “abbiamo un dovere da compiere adesso, e niente potrà esimerci dal portarlo avanti, neppure oggi”.

            Bruno Magnolfi

lunedì 22 giugno 2020

Pulito e pettinato.



Sono stato fregato. Mi hanno appiccicato della roba che in apparenza sembrava buona ed anche a basso prezzo, ed invece era soltanto segatura, senza alcun valore. Volevo festeggiare, anche se non c'è niente in realtà da festeggiare, e fingere di stare bene, sentirmi contento, perché mi hanno detto che se sai tirarti su di morale hai fatto già metà dell'opera. Nel condominio dove abito mi tengono a distanza, come fossi un appestato, forse dicono di me che sono un drogato, poco di buono, un avanzo di galera ecco, ed è meglio non aver niente a che fare con gente della mia natura. Forse hanno ragione, in fondo non sono riuscito a combinare niente di buono in questi trent'anni che mi porto appresso, magari perché non ho mai trovato la mia strada, non sono stato capace di perseguire davvero un obiettivo. Ma non ci penso, generalmente vivo alla giornata, consolandomi quando riesco a star bene per un intero pomeriggio, oppure una serata.
Non è che mi interessa soltanto far lo scemo assieme a qualcun altro proprio come me che inevitabilmente trovo davanti ai soliti locali che frequento, con una birra in mano, la battuta facile, la voglia di tirare tardi senza alcun pensiero. Lascio passare il tempo, allontano dalla mia persona ogni altra cosa, e poi rido, e fingo di divertirmi, ma come per una specie di difesa. Quando poi resto da solo invece, tutto crolla all’improvviso, e mi ritrovo preda di una profonda angoscia, di una necessità profonda di essere capito davvero da qualcuno, qualcuno che abbia anche voglia di aiutarmi, qualcuno che mi spieghi, sempre che lo sappia, che cosa devo fare in un momento come questo, perché io proprio non riesco a comprenderlo.
Ho trascorso il periodo di quarantena come un carcerato, muovendomi nervosamente da una stanza all'altra della casa dove abito. Certe volte ho preso le scale condominiali e sono sceso quasi di fretta fino al portone, ho guardato per un attimo la strada del quartiere, poi sono risalito su, come se fossi stato chissà dove. Capisco che siamo sprofondati tutti quanti in una stessa situazione, ma per me la solitudine è forse qualcosa di peggio che per altra gente. Mi sono innervosito, mi sono arrabbiato con la televisione accesa, poi ho preso un coltello da cucina e ho minacciato a caso la signora che abita l’appartamento di faccia sul mio pianerottolo. Lei ha avuto parole rassicuranti, non è scappata subito come immaginavo, ha detto che il momento era difficile per tutti, ma lo ha spiegato con parole piene di tranquillità, pur restando un po’ a distanza da me. Mi sono messo a piangere ad un certo punto, e lei ha compreso che la mia sofferenza non era una posa, ed ha detto con voce calma che dovevo portare un poco di pazienza, e che lei mi avrebbe suonato il campanello per sentire come stavo ogni mattina ed ogni sera.
Lo ha fatto davvero, e la sua piccola visita è diventata per me giorno dopo giorno un appuntamento davvero importante, tanto ogni volta da farmi trovare da lei con la barba corta, ben pettinato, con i vestiti puliti e così via: un aspetto rispettabile, ecco cosa ho cominciato a mostrare grazie al suo piccolo aiuto, come se in quel periodo avessi preso a guardarmi proprio con i suoi occhi. Quando suo marito mi ha detto che era stata portata in ospedale mi sono sentito mancare la terra sotto ai piedi, e sono sprofondato di nuovo e rapidamente nella sofferenza. Adesso qualcuno mi ha fregato, ma io devo essere più forte, lo devo a lei, e smetterla con i soliti comportamenti. Così mi sono pettinato, ho messo un vestito pulito, e sono uscito per fare un giro; senza farmi vedere però davanti ai soliti locali che frequentavo un tempo.


Bruno Magnolfi



giovedì 18 giugno 2020

Personaggio in caduta.


          

            Il male è dentro di lui. Certe volte si rigira dentro al suo letto svegliandosi nel sonno d’improvviso, ed immaginando come una specie di occhio elettronico capace di vedere dappertutto, si ritrova ad indagare a fondo tra i suoi organi, le sue viscere, la sua anima stessa. Poi si riaddormenta. Lo sa, ne è pienamente cosciente, che tutto dovrà precipitare un giorno tra questi, eppure continua a cercare un segno che mostri il principio, l’accenno, l’inizio, dell’inevitabile conseguente. “Non mi interessa”, dice a se stesso quando si guarda dentro lo specchio, e comprende che i suoi lineamenti, la sua espressione, i dettagli della sua faccia, non hanno alcun valore in confronto a tutto il resto e soprattutto al suo pensiero, in grado questo di articolare a comando qualsiasi forma, mossa, atteggiamento, anche in uno scenario già complesso. Le persone pagano per vederlo sofferente sopra al palco, e lui articola le proprie parole in una composizione ogni volta sempre nuova, all’interno di un canovaccio pretestuoso in cui spesso si divincola.
            Conosce perfettamente i meccanismi di immedesimazione che si compiono di fronte a lui, e lui sa suscitarne sempre di nuovi quando è il momento adatto, fino a piegare i suoi argomenti verso quella sgradevolezza che d’improvviso pare quasi annullare tutto il resto. Eppure tutto è sorretto da un filo sottile, ed ogni cosa dovrà pur abbandonarlo un giorno o l’altro, perché sa benissimo il tormento a cui sarà chiamato a tener testa. E’ vero, tutti hanno un male oscuro che li agita, ma lui riesce semplicemente, con pochi gesti e certe rare espressioni, a ricordarlo proprio a tutti quanti. Dovrà smettere, questo è il punto, perché adesso è arrivato proprio là dove desiderava, e non può proseguire a moltiplicare se stesso di fronte al pubblico. Odia replicare, ed anche il trasformismo, se anche fosse da prendere in considerazione, non fa parte della sua personalità.
            Non prevede altre soluzioni, se non uscire di scena in un momento qualsiasi, per non rientrarvi più. Niente di più facile, senza alcuna spiegazione, come la cosa più normale tra tutte quelle che si potrebbero sperimentare. Torna a guardarsi nello specchio: non ci trova niente di diverso oggi, è ancora il pensiero che contraddistingue la sua immagine, non i modi, non le dichiarazioni a favore di obiettivo, non le risposte argute impostate in precedenza. Non è facile, potrebbe ancora dire a chi lo domandasse, stare qui come un giullare ad intrattenere gli ospiti. Ma non pensa questo: sa con certezza che c’è qualcosa dentro, sotto la pelle, direttamente nell’organismo animale di ognuno, che prende delle decisioni assolutamente insormontabili, a cui non ci possiamo in nessun modo opporre, e soltanto quella compiutezza trova un senso, per noi chiamati solo a sostenerla. Oggi va così, potrebbe dire, e ciò che si è fatto vivo poco per volta in mezzo ai suoi pensieri, adesso se ne va, come la conclusione naturale di un disegno già previsto.
            Poi prende la giacca, esce, fa un giro per le strade inforcando i suoi invalicabili occhiali dalle lenti scure sotto ad un berretto calzato ad arte, prendendo aria, dimenticando ogni suo ruolo, forse incrociando persone che potrebbero facilmente riconoscerlo, ma che in nessun caso neppure mostrandone tutto il desiderio riuscirebbero in qualche modo ad aiutarlo. Ma lui si perde tra la gente, forse smarrisce persino quel suo male per un attimo, mentre continua a camminare sopra ai marciapiedi, e intanto indaga tra i gesti stanchi di chi incontra, immaginando già se stesso, in un giorno esattamente uguale a questo, privato della sua funzione e persino della sua personalità.

            Bruno Magnolfi

martedì 16 giugno 2020

Proprio oggi.


        

            La mia ferita continua a sanguinare adesso, ed io non posso farci niente. Forse non avrei mai dovuto entrare in quel locale, perché potevo immaginare chi fossero i frequentatori di quel posto, e poi anche lasciarmi provocare in quella maniera avrebbe dovuto soltanto farmi sorridere, senza alcuna altra reazione; però non sono riuscito proprio a trattenermi, e quando quello che rimaneva lì davanti a me ha detto a voce alta che avrei dovuto soltanto tornarmene velocemente a casa mia, mi è sembrato di provare quasi un senso di soffocamento, come se tutte le cose brutte che mi sono state dette in questi trent’anni anni della mia vita, si raddensassero insieme, e gridassero dentro di me che non era giusto essere trattato in questo modo. Sono stato adottato quando non avevo neppure l’età per comprendere che cosa significasse, e per me avere qualcosa di diverso dagli altri non è mai stato un problema. Ed invece, qualcuno a turno, fin dal periodo della scuola, si è sempre preso la briga di ricordarmi quali erano le differenze che contavano, e di sorridere della mia presunta inferiorità.
            Ho sfoderato le mani nude, mi sono difeso per quanto ho potuto, ho picchiato a casaccio davanti a me, senza neanche guardare, ad occhi chiusi praticamente, ed ho sentito le nocche rigide di chi mi stava scazzottando, forse neanche da solo, ma aiutato dai propri amici, quelli che sono subito accorsi a dargli appoggio. Mi sono accasciato quando ho provato una fitta dolorosa al braccio, e mi sono subito reso conto che doveva essere spuntato un coltello o qualcosa di quel genere per farmi uscire il sangue. Sangue rosso, caldo, uguale identico a quello che circola dentro a tutti gli altri, ho pensato, persino quelli che in quel momento mi stavano davanti e che in un attimo però si sono dileguati, subito dopo avermi spinto fuori dal locale e lasciato a soffrire sopra al marciapiede. Mi sono rialzato, ho messo un fazzoletto sopra la ferita, poi sono arrivato in questi giardinetti dove sotto ad una fontanella mi sono sciacquato la ferita, fortunatamente poco profonda.
            Provo un dolore forte adesso, sia per il taglio nel muscolo del braccio, che per la maniera come mi è stato procurato: vigliaccamente, quasi con indifferenza, nel tentativo evidente di imprimermi un danno irreparabile, o qualcosa comunque di difficile da dimenticare; ma io dimenticherò, o meglio non denuncerò nessuno, non andrò neppure a farmi medicare, considerato che i sanitari mi porrebbero immediatamente delle domande, informando obbligatoriamente le autorità, e così sarei costretto a dar seguito a luoghi e contesti in cui si sono svolti tutti i fatti. Invece terrò tutto per me, è questa la maniera migliore per superare la voglia di vendetta che mi potrebbe prendere se solo mi lasciassi andare a dei pensieri bassi. Non importa penso, il sangue smetterà di uscire, tra poco riprenderò a respirare lentamente, con la calma necessaria, e sarò capace di ritrovare la serenità che mi ha sempre contraddistinto. Non ci sarà alcun seguito, perché non provo adesso nessuna voglia di ritrovarmi di nuovo davanti a quei tizi del locale; non per paura, non per evitare dei nuovi guai per me, quanto perché le loro facce sono proprio quelle di chiunque, perché chiunque poteva essere al posto di colui che mi ha ferito deliberatamente.
            Devo stare più attento, da ora in avanti, tutto qua, e prestare più accortezza, evitando il più possibile certe persone, imparando a frequentare soltanto quegli individui che mostrano di avere la testa per apprezzare gli altri da cui sono circondati, indipendentemente dalle origini che hanno o dalla storia di vita che portano dentro, perché credo proprio che la violenza porti soltanto altra violenza, e soltanto interrompendo questo corto circuito si possa sperare di essere migliori. Anche se non potrò dimenticare mai ciò che mi è stato fatto oggi.

            Bruno Magnolfi  

venerdì 12 giugno 2020

Senza neanche rassegnarsi.


        

            “Mi devono aiutare”, dice oggi con enfasi il proprietario della piccola gelateria sul mare ai suoi pochi clienti di adesso, negli scarsi momenti in cui qualcuno si fa vedere dentro al suo locale, naturalmente uno per volta. Tutti loro lo ascoltano e annuiscono con semplicità, e dicono che ha perfettamente ragione, ma dopo se ne vanno, indifferenti ai guai economici che girano attorno a quel suo storico esercizio. Settimane di chiusura senza avere il minimo appoggio, neanche morale, pensa lui nelle pause. “Mi hanno lasciato solo”, dice certe volte in questi giorni a chi ha voglia di ascoltarlo, e sono sempre di meno. Perché anche lamentarsi non è mai una bella cosa: la clientela sfugge volentieri a chi se la passa poco bene, ed ascoltare sempre i soliti discorsi quando si sta cercando un po’ di svago e leggerezza, non è certo piacevole. Tutti lo sanno che il momento risulta oltremodo difficile, e che si devono fare molti sacrifici. Ci vorrà del tempo per tornare quelli che eravamo, dice qualcuno; però non si può scaricare le proprie preoccupazioni sul primo che ti passa sotto al naso, questo è quello che pensano quasi tutti coloro che lo conoscono di più.
            Ha piazzato due o tre tavolini fuori dalla piccola vetrina, sul marciapiede, ma nessuno in questi giorni sembra abbia davvero voglia di sedersi in quello spazio angusto, e quando qualcuno invece entra dentro al suo locale, finisce per prendersi appena un piccolo cono gelato, e dopo se ne va. Non sono più quei momenti in cui c’era la fila fuori in certe giornate di primavera o durante i primi caldi avanti l’estate. Lui aveva anche due aiutanti che stavano dietro al banco frigo per servire, ed una ragazza sul retro a preparare continuamente con le macchine i contenitori, pieni dei vari gusti maggiormente richiesti: le cose andavano bene, a lui non rimaneva altro che starsene alla cassa, fare dei saluti e sorridere ai clienti, mettendosi in tasca un bel po’ di soldi tutti i giorni. Ha telefonato innumerevoli volte alle autorità per spiegare che adesso non riesce a farcela da solo se non viene aiutato, ma gli hanno fatto qualche blanda promessa e dopo basta, come per fargli capire che deve semplicemente inventarsi qualcosa per conto proprio se vuole rimanere in piedi.
            “Le spese vive sono rimaste tutte”, dice ad una donna che ha notato altre volte fermarsi lì da lui, e lei lo guarda, comprende perfettamente quale sia il problema: dopo mesi di chiusura, adesso era il momento di tirare il fiato, ma alla gente non va più di spendere, e da quel lungomare non passa quasi più nessuno. “Capisce il mio problema”, fa lui insistendo; e lei lo guarda ancora per un attimo con una piccola coppetta di crema e cioccolato in mano, tanto che le viene quasi voglia di lasciargli una mancia sul bancone, ma poi va via semplicemente pagando quello che è previsto, per non offenderlo, e non per altro. Lui adesso prepara soltanto le varietà di base del gelato, quelle più tradizionali, senza proporre sapori ricercati come in altri tempi. Ma in una giornata intera di lavoro in cui fa tutto da solo, riesce a mettere in cassa appena quello che gli serve per pagare l’affitto e le materie prime che ci vogliono per i suoi prodotti.
            “Mi sento disperato”, dice ad uno che passa da lì con la sua bicicletta, fermandosi soltanto per fargli un saluto. “Non ho neppure la licenza per tenere fuori i tavolini e le sedie, non ho mai avuto bisogno di fare del richiamo davanti al mio locale; ed invece adesso se passa un vigile in divisa, per il suolo pubblico potrebbe farmi una multa che non posso neanche pagare”. L’altro scuote il capo, poi riprende a pedalare, lasciandolo lì coi suoi pensieri. Questa è la vera depressione economica, pensa adesso lui rimasto solo. Quando d’improvviso ciò su cui contavi crolla, ed anche se hai ancora voglia di tirarti su le maniche e darti da fare per resistere, scopri che non è possibile, nessuno ti fa credito, e che le cose per te hanno girato proprio male: devi soltanto rassegnarti.

            Bruno Magnolfi   

martedì 9 giugno 2020

Insopportabile.


          

            Lo so, mio figlio era ancora troppo piccolo per comprendere da solo quello che realmente stava accadendo. E nonostante ogni sforzo che ho cercato di imporre anche a me stessa per portarlo minimamente a riflettere sulla necessità di adottare certi comportamenti in questo difficile periodo, lui alla fine ha deciso ogni volta di fare a malapena quello che gli chiedevo, come per un semplice favore alla sua mamma, e nient’altro. Ho cercato più volte anche di mettermi nei suoi panni, e quindi di tornare ogni volta a spiegargli il motivo per cui non era possibile andare ai giardini insieme agli altri bambini del quartiere che lui conosce, oppure a trovare suo cugino più grande di due anni come qualche mese addietro facevamo. Ma lui ha proseguito a lamentarsi costantemente di qualsiasi cosa e dopo basta, tenendomi regolarmente il broncio.
            “Sei cattiva”, mi ha anche detto qualche volta, come per far ricadere la colpa di tutto su di me, ed io mi sono limitata a sorridergli, tornando a spiegargli con pazienza come stavano davvero tutte le cose. Non è facile tirare su da soli un figlio come il mio, ed in più questo periodo così difficile non ci voleva proprio, né a me, e tantomeno a lui. Mi sono vista disperata in certe giornate, così ho alzato la voce, gli urlato contro, l’ho persino minacciato, lasciando da parte, almeno momentaneamente, ogni volontà di comprensione. Mi è venuto persino da piangere in qualche occasione, per la rabbia repressa, per la situazione, per la sfortuna tremenda di ritrovarmi in una condizione come questa. Adesso non so più cosa pensare: si può tornare fuori poco per volta, andare in giro, riassaporare un briciolo di normalità; ma il guaio è fatto: mio figlio mi guarda senza sorridermi, sembra non fidarsi più di quello che gli dico, e spesso decide di starsene in silenzio piuttosto che sentire ancora la mia voce che cerca soltanto di spiegargli le cose di sempre.
            A me pare sia cresciuto estremamente in fretta durante questa semplice manciata di settimane, ed i suoi sentimenti verso di me sembrano aver virato verso il sospetto, l’incredulità, persino il dubbio, quando cerco solo di parlargli come sempre ho fatto. Lo so che non mi accetta, ed a me di controparte lui riesce sempre meno sopportabile, anche se non dovrei neppure pensare una cosa di questo genere. Certe volte in questi ultimi giorni vorrei quasi soffocarlo mentre dorme, e poi immediatamente andare a gettare il suo corpo da qualche parte, dentro un fosso d’acqua magari, che se lo porti via con la corrente. Non sono vere parole da mamma queste, lo so benissimo, però ci vuole comprensione anche nei miei confronti, perché io mi sento esasperata, non sopporto ancora questo andamento delle cose, ed avverto sempre più forte la necessità di riappropriarmi della mia esistenza. Ormai non telefono a nessuno, mi rinchiudo nei miei pensieri e mi limito ad incrociare uno sguardo carico di odio con mio figlio, regolarmente ricambiato con il suo modo di osservarmi.
            Non può durare a lungo questa situazione, me ne rendo conto benissimo, ed aspetto da un momento all’altro che accada qualcosa di irreparabile. Devo difendermi, questo è il punto, perché so con certezza come lui adesso abbia maturato la forza necessaria per prendere un coltello da cucina e di recidermi la gola. Non gli posso permettere una cosa di quel genere, dopo tutto ciò che ho fatto nei momenti più difficili di questo periodo di chiusura claustrofobica. Devo stare attenta, studiare le sue mosse, attendere con calma che si scopra, che mostri le sue vere intenzioni, e poi sorprenderlo con uno studiato contropiede, neutralizzandolo in un attimo, e mostrandogli così in questa maniera che anche per conto mio si è superata ormai la soglia di qualsiasi sopportazione.

            Bruno Magnolfi 

venerdì 5 giugno 2020

Attacco diretto.


      

            “Non ci avevo neppure mai parlato, prima di adesso, però gli ho preso la mano, ed ho atteso con infinita pazienza che chiudesse i suoi occhi”, pensa lui da solo quasi sdoppiandosi dentro la sua mente, cercando in sé quella freddezza che il suo mestiere a volte gli richiede. Poi spiega ancora ai suoi pensieri di essersi semplicemente allontanato con lentezza nelle luci basse del notturno ospedaliero, nel suo piccolo reparto, dopo aver annotato l’orario e la situazione verificata, e di aver probabilmente pensato che tutti quanti in fondo siamo destinati a spegnerci, chi più lentamente, altri invece all’improvviso. Infine però ha telefonato a casa, perché in fondo non era neppure troppo tardi, e sua moglie gli ha risposto subito, come fosse quasi in sintonia almeno con alcuni dei suoi sentimenti più profondi. “Sono un po’ provato”, le dice adesso senza darle troppi dettagli, “anche se è normale che certe cose avvengano in un luogo come questo”. Poi ha riagganciato, si è seduto nello stretto ambulatorio in fondo al corridoio, ed ha iniziato a scrivere le pratiche e i dati del caso. 
            Adesso attende quasi con irrequietezza che qualcuno dei pochi pazienti in corsia schiacci il pulsante del campanello, che lo chiami, lo tenga impegnato, perché ha bisogno di sentirsi ancora in azione, di essere di nuovo utile a qualcosa, di riuscire a mandare avanti il suo lavoro, piuttosto che mettersi in un angolo a riflettere su tutto quello che accade e poi basta. Giungono rapidamente i colleghi che si occupano di queste cose, e prendono in carico la situazione; lui assiste alla sistemazione del corpo inerte di quella persona anziana, e nessuno tra loro scambia una sola parola, ognuno sa già perfettamente che cosa fare, ed ogni espressione di qualsiasi tipo apparirebbe solo superflua. Ed i suoi occhi per un momento sfondano il muro della nuda ed immodificabile realtà, assistendo quasi impotenti allo scorrere ordinario di un’intera vita davanti a loro, un’esistenza fatta di mille difficoltà, di risate, di piaceri, ma anche di tantissime giornate dure e tristi.
            Poi i colleghi portano via tutto, lasciando soltanto alle loro spalle un posto vuoto, che lui con calma inizia a riassettare, nonostante l’ora notturna, con gesti semplici, misurati, che cercano per professionalità l’indifferenza massima, per lasciare accogliere al meglio proprio in quel letto, forse tra non molto, un altro corpo, un nuovo malato, un’altra vita intera in balia di un destino che appare immutabile eppure concreto. C’è un filo sottile che segna il margine tra il lavoro e l’emozione, e certe volte resta difficile tener distanti questi due mondi, anche se è così per tutti, e nessuno può pretendere di sentirsi maggiormente sensibile rispetto ad un altro. I minuti scorrono nel silenzio teso tra il corridoio e le camere, accompagnati da un debole ronzio di qualche lampada bassa. Lui cammina tra la porta d’entrata e la finestra, con passi leggeri e cadenzati, percorrendo quel tratto parecchie volte, quindi si ferma, torna a sedersi, riprende in mano le cartelle dei suoi pazienti.
            Un nuovo giorno domani, dice il suo doppio; si volta una pagina, si devono affrontare altre cose, nuove difficoltà, far fronte ad ulteriori sacrifici. Ci vuole forza, lasciare rapidamente alle spalle altre nottate esattamente come sta trascorrendo questa, e dimenticare rapidamente ogni sguardo scambiato, ogni stretta di mano, ogni piccolo dolore trasmesso nell’aria da queste tante persone che ci si trova di fronte: anziani, sfortunati, fragili, facili prede, nella loro debolezza, di un attacco disumano e feroce, a cui non possiamo facilmente rimediare, ed appigliarci a tutto ciò in cui possiamo ancora essere utili, senza guardare mai indietro, perché questo è quanto ci è dato di fare, nient’altro. Poi però lui appoggia lentamente i fogli sopra il suo piccolo tavolo, ed una lacrima adesso inizia a scorrergli calma sopra il suo viso.

            Bruno Magnolfi

martedì 2 giugno 2020

Perdita di tempo.


            

            Guardo ogni tanto le informazioni che mettono in onda quelli della televisione, poi leggo giusto qualche riga tra quegli articoli pubblicati sopra ai giornali pieni di pubblicità che vengono forniti gratuitamente davanti ai supermercati, ed infine seguo anche qualche notizia in rete sul visore del mio telefono portatile, e faccio tutto questo però in modo molto distratto, senza approfondire mai troppo neppure qualche dettaglio, naturalmente per rimanere il più distaccato possibile dalle opinioni degli altri, e quindi maggiormente obiettivo, più imparziale, anche se ogni giorno mi convinco sempre di più che niente tra qualche tempo sarà più identico a prima. Sta andando tutto alla malora, questo è il punto, e tra coloro che continuano a tenere stretto il potere non interessa un bel niente della gente semplice e normale, esattamente come sono io. Intanto personalmente devo ancora rendermi conto se il contagio sia stato voluto da qualcuno di preciso oppure no, e poi sono convinto che ci sarà senz’altro una parte degli individui più in vista a livello globale che riuscirà ad approfittarsi della situazione che si è creata negli ultimi tempi, mentre la gente semplice a cui anch’io appartengo, rimarrà per forza strangolata dal disastro economico che sicuramente arriverà tra poco tempo.
            Resto in casa, esco, neanche so più neanche io in quale modo comportarmi: mi sembra un’ironia dare ancora retta a quello che le autorità ci chiedono di fare; penso che ogni tanto una bella depressione finanziaria con il seguito delle inevitabili masse crescenti tra disoccupati e famiglie ormai ridotte pressoché alla fame, sia proprio quello che ci vuole a chi ormai si è già arricchito alle spalle degli altri nel momento giusto e non vuole certo perdere adesso neppure un centesimo di tutto ciò che è riuscito ad accumulare. Siamo alle solite di sempre, non è cambiata una virgola dell’ingiustizia sociale che da queste parti è sempre esistita. Non sopporto più nessuno, mi sento preso in giro da chiunque si metta a parlare con quella supponenza che tradisce subito una falsità di fondo di cui avverto l’odore fin da lontano. Noi del popolo siamo presi nel mezzo, penso, e a questo punto non è più neppure possibile tentare di ribellarci.
            Mi chiudo dentro la mia stanza, vorrei isolarmi da tutto e smetterla una buona volta di pensare che non c’è proprio niente che io possa fare per cercare una via d’uscita da questa situazione. Sono fregato, questo è il punto, nessuno potrà darmi mai quello che desidero e che secondo me sarebbe sacrosanto. Poi suonano alla porta, vado ad aprire già di malavoglia, senza alcuna curiosità, così apro leggermente l’uscio e vedo dallo stipite che è soltanto il mio vicino di casa che è venuto a chiedermi qualcosa, restando comunque a distanza sopra al pianerottolo e con la protezione prevista ben pressata sulla faccia. “Sono a terra”, mi fa, “non ho più neppure un soldo, ed anche se mi hanno già promesso degli aiuti, intanto non ho niente neppure per mangiare”. Lo guardo un attimo: “sono nella tua stessa condizione fratello”, gli fo senza starci troppo a pensare, così lui abbassa lo sguardo e dopo un secondo se ne va, senza neppure insistere.
            Lo so, forse avrei potuto dargli qualcosa, oppure dividere con lui la scorta di roba che ho nel frigorifero, però non è colpa mia se la situazione porta ognuno a rinchiudersi in se stesso, a fregarsene degli altri: è il sistema che ha generato tutto questo, penso con rabbia; noi poveri cristi siamo soltanto delle pedine rimaste in mano a che ci muove come vuole. Mi apro una lattina di birra e ne butto giù un bel sorso: e poi chi lo conosce questo qua, è soltanto uno che mi abita di fronte, uno che si comporterebbe esattamente nella stessa maniera nei miei confronti; per questo è del tutto inutile persino continuare ancora a rifletterci.

            Bruno Magnolfi