martedì 29 aprile 2014

Passeggeri qualunque.

            

Tu non sei una persona qualsiasi. Però, diciamoci la verità, non sei neppure troppo speciale. Ogni mattina ti alzi alle sette e poi vai a lavorare, proprio come faccio io, nello stesso modo di tutti, o di tanti, senza grandi variazioni. Io ti incontro sul tram, tu forse neppure mi vedi. Ma io ti conosco, ed anche se guardo fuori dai vetri, se fingo di affondare la faccia dentro un giornale, ed anche se appaio del tutto indifferente alla tua particolare presenza, come d'altronde a quella di tutti, però sono qui, e se non proprio accanto a te, comunque spesso a poca distanza da te. Addirittura credo di sapere tutto di te, ed anche se evito costantemente di volgere lo sguardo verso la zona della vettura dove ti vai generalmente a sistemare, però conosco perfettamente i tuoi modi fare, intuisco persino come riesci a comportarti, come sai sederti, almeno quando c'e posto, che gesti fai, quali sono le persone che ti va di salutare sopra questo tram. Sono sicuro di comprendere perfino qualcuno dei tuoi pensieri, qualche volta, perché credo di riuscire a decifrarli addirittura dalle tue espressioni, anche da quel tuo modo particolare che hai di guardarti attorno, o da come in certi casi stringi la bocca, o anche, in altre occasioni, da come tieni e muovi le mani. 
Tu scendi ad una certa fermata, ed io a quella subito dopo. Ogni mattina, regolarmente. Potrebbe apparire tutto noioso, un andamento monotono che sembra non dover mai cambiare, e invece non è affatto così, e non perché quasi ogni giorno indossi vestiti diversi o tieni i capelli pettinati in un modo o in un altro, quanto perché, appena riesco come ad avvertire in mezzo agli altri la tua presenza su questo tram, sono subito capace di comprendere in quale maniera sarà la nuova giornata che sta già iniziando, sia per te che per me, e forse addirittura anche per gli altri, grazie al tuo modo di porti nei confronti del mondo, e di come tu sia sempre nuova, capace di creare nell’aria qualcosa di differente ogni volta che arrivi.
Non sono innamorato di te, anche se riconosco che sei senza dubbio una gran bella donna. L'amore lo trovo noioso, senza grandi prospettive se non declinanti una volta raggiunto l'apice maggiore dei primi tempi. Nel mio caso non cercherò mai di parlarti, perché questo probabilmente mi costringerebbe a salutarti già dal giorno seguente, rompendo questo meraviglioso equilibrio che si è creato tra me e te.
Per questo oggi insisto a guardare fuori dal finestrino, nonostante tu sia venuta a sederti proprio qui, accanto a me. Ma tu hai subito detto: mi scusi, sistemandoti sul seggiolino, forse per abitudine, o per troppa gentilezza, probabilmente senza neppure immaginare di cosa effettivamente ci sia da scusarti. Poi ti sei mossa, ed ancora senza alcuna intenzione hai appoggiato la tua borsetta ad una mia gamba, e quindi hai riso con grande spontaneità, e mi hai costretto a girarmi dalla tua parte, e poi mi hai detto ancora, sempre ridendo: scusi di nuovo.
Allora con grande imbarazzo mi sono alzato, ho sorriso con timidezza a mia volta, sottintendendo con questo gesto e in questa maniera che praticamente ero giunto alla mia destinazione, ma tu hai subito detto: c'è ancora tempo per la sua fermata, facendomi comprendere quanto mi avevi già precedentemente osservato, chissà con quanta sottile attenzione, e poi vai a sapere perfino da quanto tempo. Così sono tornato a sedermi, quasi abbandonandomi a questa nuova realtà, ed ho lasciato che qualche frase immediatamente ed inevitabilmente scambiata a quel punto tra noi, rompesse per sempre qualsiasi antico equilibrio. Il giorno seguente naturalmente sono andato a lavorare con la mia auto.


Bruno Magnolfi

domenica 27 aprile 2014

Maledetto presente.

            

Tornavo indietro, una volta, come si torna verso le cose che ormai si conosce, quelle che danno maggiore sicurezza, che riescono quasi a proporti un piccolo spaccato di vita differente da qualcosa che hai appena fatto, dopo che tutto ciò in cui avevi riposto affidamento sembra essersi perso nel nulla, o peggio, mescolato in mezzo ad elementi del tutto insignificanti. Invece di prendere la strada verso casa, per poi ritrovare le abitudini di sempre, le piccole quotidianità di cui è naturale sentire il bisogno, guidando la mia auto con gli occhi che quasi mi si chiudevano per via delle precedenti nottate trascorse in certi locali notturni della zona, a cercare insieme ad altri lo svago del presente e la dimenticanza di tutto il passato, nel tentativo di trovare sempre qualcuno, o qualcuna, disposto o disposta ad ascoltare e a credere a tutte le  parole che potevo riuscire a mettere insieme, approdavo quasi senza volerlo davanti alla abitazione di mia mamma, forse più per la voglia di non ritrovare la confusione dei soliti oggetti del mio piccolo appartamento, che per la voglia vera di vedere una volta di più la mia vecchia.
Appena sceso dall'auto però già sentivo che era una stupidaggine quella che stavo facendo, e forse volentieri sarei risalito velocemente per andarmene via, salvo farle magari la solita telefonata svogliata più tardi; sennonché una vicina mi aveva riconosciuto e subito salutato, di fatto inchiodandomi lì. Avevo sorriso verso di lei quasi senza averne alcuna intenzione, ma poi a quel punto avevo continuato, mani dentro alle tasche, con quell’avanzare in pratica del tutto indolente, quel percorso indesiderato eppure ormai diventato improvvisamente quasi obbligatorio.
Mia mamma, la solita: e che bella sorpresa, però ti vedo sciupato, era un bel pezzo che non passavi da qui. Ho bisogno di dormire, dico io, mi basta mezz'ora sul divano di là; no, tutto bene, più tardi magari ti spiego. Ancora quattro parole di circostanza, poi la televisione subito accesa nel salottino, col volume al minimo, a riempire quell'inevitabile vuoto. Mia mamma in cucina, subito pronta a mettere assieme qualcosa, a farmi contento, in qualche maniera, a rendersi utile. Poi è stato sufficiente allungare i piedi sopra al tavolinetto di fronte a me, per addormentarmi quasi di colpo, quasi senza coscienza. Più tardi, appena un’oretta, il risveglio pieno di una strana amarezza, di un sentirmi del tutto fuori dal luogo dove probabilmente sarei potuto essere, ed infine, inevitabile, il saluto frettoloso, superficiale, senza stare troppo ad insistere.
Si, sto bene, una di queste sere ritorno, non preoccuparti, tutto va bene, davvero, è tutto a posto, vedrai che staremo meglio quando ripasso, ti porto anche un dolce, di quelli come piacciono a te. Che senso ha tutto questo, rifletto mentre salgo di nuovo sulla mia auto. Non ho niente da dire, ho perduto tutti i contatti, forse non tornerò mai più a far visita alla mia mamma, penso. C'è troppa distanza, continuo a riflettere mentre mi allontano perplesso; potrei anche dire che le nostre generazioni, fin da subito così diverse, adesso non hanno proprio più nulla per riuscire a scambiare qualcosa, ma non è solo così. Forse sono io che non so riconoscere altro che ciò che ho più vicino; è il presente, questo tremendo presente che più di ogni cosa mi incalza, mi reclama, mi vuole tutto per sé, spesso lasciandomi perso. Proseguo a percorrere la strada dell’immediatezza, dell’attualità che mi circonda, quasi come una perenne ossessione. Mia mamma è distante, troppo distante, lo so; a volte mi dico che lei è soltanto la mamma, ma so anche che forse dipende tutto da me, non da altre cose, ma non potrò mai essere differente, nemmeno di poco, perché è tutto ciò che ho attorno che mi reclama così.


Bruno Magnolfi

mercoledì 23 aprile 2014

Rivendicazione di sé

            

Silenzio adesso, dentro al piccolo cortile polveroso sul retro della palazzina degli uffici. Un luogo praticamente abbandonato, uno spicchio di mondo senza padroni, ideale per farci scoppiare quella piccola bomba dimostrativa, magari, così come è successo, durante una notte qualsiasi, ad un’ora quando nessuno avrebbe mai potuto essere lì a farsi del male. Ma se accade nell’oscurità, al mattino tutto sembra già un po’ più chiaro, ed i vetri alle finestre appaiono tutti spaccati, qualche calcinaccio peraltro è anche caduto qua e là, e la confusione tra gli impiegati dell'amministrazione si è subito dimostrata notevole, e la folla per strada a parlare di questo e di quest'altro, e le forze dell'ordine pronte a dare un risalto speciale a tutta quella faccenda.
Gli inquirenti naturalmente subito pronti ad indagare, e forse interrogheranno chiunque, dice qualcuno, ma io non do retta a tutte queste voci, lascio correre le cose come ho fatto sempre, restando come indifferente rispetto a tutta quanta la storia dei dinamitardi. Si dice con insistenza di una persona che conosceva bene la zona, di qualcuno che voleva fare mostra di sé, scollegato da gruppi e da organizzazioni, difatti non c'è neanche stata una pur pallida rivendicazione. Ancora commenti, per strada, ed ipotesi, ed altri giorni trascorsi a rincorrere un fantasma praticamente imprendibile, inclassificabile, un irregolare, si dice, e forse questo sembra già un elemento molto azzeccato. Poi il niente, i vetri subito riparati, gli impiegati tornati in fretta al lavoro, il cortile ripulito e risistemato quasi nella stessa maniera di com’era prima, riconsegnato al silenzio e all'immobilità che sempre lo ha contraddistinto.
Non c'è senso in una cosa del genere, spiegano al caffè sulla piazza. Perché mai devastare l'andamento monotono e regolare di tutte queste cose, perché minare un'istituzione amministrativa che non fa male a nessuno, che prosegue soltanto a portare avanti le pratiche di tutti come ha sempre fatto. Poi la calma, poco per volta, giorno dopo giorno, ed io che cerco qualcuno per strada che abbia voglia di parlare ancora di tutta la faccenda, fino a spingermi al caffè, tra la gente comune che ha già ripreso a dialogare del più e del meno, e di argomenti insulsi e infruttuosi, come risulta abituata a fare da sempre, senza mai stancarsi di questo.
Così mi arrabbio, qualcosa ci deve pur essere che sta covando sotto tutta questa cenere, dico forte, qualcuno che ha avuto voglia di rompere in questa maniera gli equilibri di sempre; ci deve essere per forza, ripeto più volte sempre a voce alta. In pochi però hanno ormai voglia di parlarne, i più hanno la volontà di voltare per sempre questa pagina, e dimenticare in fretta tutta la storia. Non è possibile, penso agitatissimo: pochi giorni, poche settimane, e tutto è definitivamente finito, come non fosse mai successo un bel niente.
Allora prendo e vado nella palazzina degli uffici, dico che ci sono dei notevoli sviluppi in atto, che dovremo aspettare altri gesti, altre risoluzioni come quella bomba, è inevitabile, dico, sarà così sicuramente. Nessuno mi dà relazione oltre la semplice curiosità, così vado a casa, scrivo qualcosa sopra un foglio di carta, compilandolo come fosse un volantino rivendicativo, qualcosa di forte e pauroso, e poi torno alla svelta fin dentro gli uffici dell'amministrazione. Ecco la prova, dico, era appoggiato sul muro, poco lontano da qui, adesso dobbiamo prepararci, cambiare molte delle cose già in atto, prendere tutto sul serio, guardarsi attorno, perbacco.
Infine mi fanno arrestare, penso anche io fosse ormai inevitabile, ma in questura non ascolto nessuno, e non mi interessa neppure sapere se è per la bomba oppure per il volantino di rivendicazione. Sono diverso da loro, adesso, dentro la gabbia: questa la cosa importante.


Bruno Magnolfi

martedì 22 aprile 2014

Parole leggere.

            
Casualmente, passeggiando per strada, Toni incontra il suo amico. Si salutano con cordialità, si dicono qualche spiritosaggine, poi vanno insieme a bere qualcosa in un locale poco lontano. Toni conosce perfettamente l’itinerario che segue il suo amico per tornarsene a casa quando esce dal luogo dove lavora. Per questo l’altro si aspetta che lui voglia dirgli qualcosa di importante, qualcosa per cui Toni evidentemente ha cercato di vederlo da solo, in un momento del giorno in cui non ci sia alcuna probabile prevenzione da parte sua. Forse vuole parlargli di sua moglie, o del suo lavoro, o di chissà cosa, ma intanto continua a pronunciare parole leggere, senza spessore, cercando soltanto piccole battute di spirito, e quasi nient’altro.
Poi pagano ed escono, Toni sembra contento, forse il suo amico ha creduto qualcosa che non era esattamente in quella maniera, o forse Toni non ha trovato il coraggio per affrontare quanto aveva veramente da dire. Si salutano, si danno appuntamento per un giorno da stabilire, magari per andarsene insieme a passare una serata con le loro rispettive consorti, oppure con qualcuno dei loro amici comuni. Ognuno prosegue adesso per la sua strada, l’amico di Toni sembra però un poco perplesso: è da tanto tempo che si conoscono, Ma non gli era mai capitato di sentirsi nei suoi confronti in questa maniera. Più tardi probabilmente pensa che gli farà una semplice telefonata, e chiederà a Toni di quel qualcosa che forse adesso non si è sentito di mettere in mezzo.
Toni invece è contento, si sente tranquillo, gli piace girare per strada senza un itinerario preciso, ed aver incontrato il suo amico gli pare qualcosa che coroni bene quella buona giornata. Di lui pensa che sia un po’ troppo ombroso, e che gli è sempre tornato difficile trascinarlo da qualche parte per il solo gusto di starsene un po’ in compagnia. Sente dentro di sé che le cose potrebbero probabilmente andare meglio se ci fosse tra loro una maggiore fiducia e sincerità, se magari potessero scambiarsi anche qualche pensiero un po’ più nascosto delle solite cose.
La sera, da casa, Toni prende il telefono e chiama il suo amico. Lui gli risponde che aveva in mente proprio di sentirlo, giusto per sapere se si era forse dimenticato di dirgli qualcosa nel pomeriggio. Toni resta sorpreso per questa richiesta, e per non deluderlo si inventa che un paio di giorni indietro ha fatto una grande sciocchezza, ed adesso non sa più come uscirne. Per meglio spiegarsi dice che sua moglie ha preso le sue cose, dopo l'ultima scenata che lui le ha fatto, e se n'è andata, con l'idea di non tornare facilmente sulla sua decisione. L' amico di Toni annuisce, sembra colpito per questa storia, poi gli dice semplicemente che se ha bisogno di parlarne più a fondo lui è a sua completa disposizione. Si vedono poco più tardi nello stesso locale del pomeriggio, si prendono una birra e la sorseggiano per un po' prima di decidersi ad aprire la bocca. Allora Toni dice che non è del tutto vero che sua moglie se ne sia andata da casa. Hanno avuto una discussione, questo è verissimo, ma poi tutto alla fine è stato risolto. L'amico lo guarda con serietà, come se gli risultasse incomprensibile il comportamento di Toni. Così Toni lo guarda a sua volta, e poi sorride: scusa, dice alla fine, è sempre così difficile parlare con te.


Bruno Magnolfi

mercoledì 16 aprile 2014

Va bene (cortometraggio n. 7).

           

Il dolore sottile a tratti sembra pulsare sotto la sua pelle sporca. Il ragazzo a terra adesso neppure si lamenta, aspetta soltanto che accada qualcosa di positivo, come una mano magica che improvvisamente lo sollevi da quella posizione, e forse lo rimetta in sella alla sua bicicletta, fino a che tutto torni com’era stato appena un attimo prima. Forse non è niente di grave, pensa intensamente, forse tutto è ancora facilmente rimediabile. Sta fermo, immobile, ma in fretta giunge dentro di sé la più forte disperazione: sicuramente non potrà mai più camminare come prima, dovrà passare lunghi periodi di ospedalizzazione, forse si susseguiranno delle operazioni chirurgiche sul suo corpo, e tutto per una stupida caduta.
Il ragazzo affonda il viso in una mano, si sente quasi perduto, ma poi riflette che non dovrebbe pensare soltanto a se stesso, e chissà quanti altri ragazzi della sua stessa età hanno subìto una situazione del genere, o magari anche peggio, bisogna essere forti, si dice. Però ci sono i suoi genitori che soffriranno per lui: è ben chiaro, lo aiuteranno per quanto sia possibile nel lungo decorso del tutto inevitabile, ma in loro ristagnerà per chissà quanto tempo una pena inalienabile, che a lui certe sere sembrerà di non poter sopportare, quasi come la stessa esistenza trascorsa d’ora in avanti a trascinare una gamba, e a non essere mai più quello che era stato una volta. Se ci pensa gli pare adesso incredibile essersi andato ad infilare per quel viottolo sassoso, così, da solo, soltanto per il semplice gusto di vedere dove lo avrebbe portato.
Stava bene, era contento appena un attimo fa, tutto sembrava perfetto per quella pedalata nel sole, a caccia di qualcosa da vedere, di cui rendersi conto. Adesso, sforzandosi, riesce anche andare a ritroso in tutti i dettagli, fino proprio al momento di uscire da casa, quando aveva messo ai piedi le scarpe da ginnastica, aveva inforcato la sua bicicletta e via, a pedalare senza preoccuparsi di nulla. Perché qualcosa non lo ha trattenuto, pensa ora; perché non si è messo in garage ad ingrassare il cambio e la catena della sua bicicletta, come peraltro aveva deciso di fare per quel pomeriggio. Che senso ha tutto questo, riflette ancora, che se ne faranno mai gli altri di uno come me, ridotto così, in uno stato a dir poco pietoso.
Poi pensa a qualcuno che passando da lì potrebbe soccorrerlo, ma subito dopo allontana dai suoi pensieri affannosi quel momento, come se le parole e lo sguardo di qualche sconosciuto fossero la prova definitiva che è successo proprio a lui tutto quanto, e che non è un incubo o la sua fantasia galoppante: sta succedendo davvero, è proprio lui quello a terra, che sta subendo tutto quanto il disastro. Allora si osserva attorno, si solleva leggermente facendo forza sulle sue braccia, si siede sui sassi, sente i graffi sui gomiti e alle mani, poi con coraggio muove una gamba, poi anche l’altra. La bicicletta è lì accanto, non sembra neppure troppo rovinata. Infine prova a rialzarsi, inizialmente i dolori sono forti, forse avrà lividi da tutte le parti, pensa, ma alla fine riesce a mettersi in piedi: non è andata male, sono intero, pensa, è tutto molto meglio di quanto avevo previsto.
Arriva un passante, lo guarda senza avere niente da dire, si avvicina con calma al semplice ritmo della sua passeggiata. È in quel momento che il ragazzo comincia a ridere; guarda l'espressione meravigliata dell’uomo vicino e ride ancora di più. Continua a ridere quasi senza potersi fermare, mentre l’altro lo prende forse per uno svitato. Poi gli viene improvvisamente da piangere, per sé, per tutti gli altri, non lo sa neanche lui. Guarda ancora quell’uomo che adesso si è fermato davanti, forse vorrebbe addirittura abbracciarlo, mentre le lacrime gli scorrono lungo le guance, magari vorrebbe dirgli qualcosa, spiegare cosa è successo, ma in fondo non ha alcuna importanza: va bene così.


Bruno Magnolfi

domenica 13 aprile 2014

Cambiamenti (ritratto n. 15).

          

In albergo, a parte i fine settimana, ci sono pochi clienti in questo periodo dell'anno. Il mare di fronte pero è già bellissimo, ed il sole caldo e piacevole. La sera, giù nel salone, si radunano quasi tutti per le chiacchiere e per gli aperitivi. Qualcuno se ne sta in disparte con un libro, altri però ascoltano le note morbide della pianista già al lavoro, e molti hanno solo voglia di divertirsi in pieno rilassamento. Il cliente della camera 207 invece, qui da almeno una settimana, a quest'ora non si vede mai. Arriva più tardi, non scambia parola con nessuno, sfoglia da solo un giornale, poi si siede, tra i primi, dentro alla sala del ristorante, e si fa semplicemente servire la cena.
Soltanto altri due o tre giorni, penso mentre attendo il cameriere, poi potrò ripartire e tornarmene a casa. Non che qui, in questo bellissimo albergo sul mare, non si stia più che bene, tutt'altro; però questa specie di esilio momentaneo mi sta sinceramente iniziando a pesare. Forse dovrei parlare con qualcuno, accennare alla mia situazione, spiegare come questo momento di riflessione, prima della decisione di separami da mia moglie, sia per me fondamentale per essere sicuro della strada da prendere.
La serata, anche dopo i tempi di una cena quasi infiniti, si protrae ancora dentro al salone, con la nostra pianista che propone qualche vecchia canzone che in molti cercano di intonare, magari sottovoce, sorridendo e guardandosi attorno. Qualcuno, ma sono pochi, si avventura in una breve passeggiata in spiaggia, in genere soltanto nella zona illuminata dai lampioni dell’albergo. Il cliente della 207 invece, si siede in un angolo, e scrive qualcosa su un quaderno che chiude velocemente anche soltanto all’avvicinarsi di qualcuno al suo tavolo. Si fa servire un bicchierino di acquavite, e sta lì, quasi per tutto il tempo. Abbiamo deciso di mandargli una ragazza della portineria questa sera, a chiedergli simpaticamente se questa permanenza da noi è di suo gusto.
Questa ragazza è gentile, in fondo non mi ha chiesto niente di sconveniente, probabilmente si è solo accorta che me ne sto troppo in disparte, così le ho risposto che va tutto bene, anzi, che è tutto al di sopra delle mie aspettative. Ma adesso devo per forza unirmi almeno al gruppo di quelli che stazionano attorno al pianoforte, sorridere, cercare di svagarmi. Ripongo il quaderno, mi alzo, con il mio bicchierino vado verso il banco del ricevimento. Il portiere mi guarda, aspetta che dica qualcosa, gli chiedo il nome della brava pianista: Liana, mi dice, e nient’altro. Così in un momento in cui non sta suonando, vado da Liana, e le dico senza mezze misure che la sua figura è a dir poco affascinante.   
Il cliente della 207 sembra adesso che stia esagerando: è già al terzo bicchiere, ed adesso vuole strafare offrendo una bottiglia si spumante alla nostra pianista. Lei accetta, in fondo è il suo mestiere, forse si sente lusingata di essere entrata nelle sue corde dopo tante sere di indifferenza. Tutti quanti stiamo ad osservare quali saranno le prossime mosse, anche se non sembra ci possa essere un seguito.
Basta, dico tra me, la mia parte di animale sociale ormai è fatta, adesso posso tornare a tutti i miei pensieri. In fondo, un bicchiere, una bella donna e qualche canzone, non hanno mai fatto male a nessuno. Partirò domani mattina, ho deciso, tutto ciò su cui dovevo riflettere ormai si è esaurito, così lascerò un omaggio di fiori a Liana, e poi, chissà, magari tra qualche domenica, potrei addirittura tornare a farle una visita.

Bruno Magnolfi


giovedì 10 aprile 2014

Rifiuti.

            
            Al caffè di pomeriggio non c’è nessuno, soltanto un vecchio in un angolo, che legge un giornale muovendo la testa, lentamente. Fuori, lungo la strada, il solito passaggio di macchine e di gente a piedi. Serata fiacca, pensa il barista mentre sistema le tazzine. Poi entra lei, da sola, muovendosi come non fosse giunta veramente là dentro, e senza neppure guardarsi attorno un momento, quasi che le cose ordinarie presenti non riuscissero neanche a sfiorarla. Si accosta al banco con calma, mostra che intende riferirsi alla persona che sta lavorando proprio lì dietro, ma resta comunque ad una distanza rispettosa sia per lei che per il tipo di locale, ed infine chiede con moderazione e bella voce, un’informazione tutto sommato piuttosto semplice. Le viene risposto immediatamente, con l’aggiunta di ulteriori indicazioni che completano la notizia nuda. Lei ringrazia, senza sorridere, torna verso la porta vetrata, il barista esce da dietro il suo banco e si precipita ad aprire, proprio quando lei sta per uscire. Una volta fuori, la donna sparisce velocemente dentro una grossa auto dai vetri oscurati.
            Più tardi torna, ancora da sola, maggiormente agitata e seria di com’era prima, e nel locale adesso c’è un bel po’ di gente che sorseggia qualche aperitivo, ma soprattutto ride e chiacchiera, spesso a voce alta. Lei si avvicina, dice con un tono molto leggero qualcosa al barista, il medesimo di prima, e lui spiega ad occhi spalancati che non ha trovato niente, nessuna lettera o biglietto come gli chiede questa donna che adesso tutti dentro al caffè stanno magicamente osservando. Per solerzia, gli viene in mente perfino di chiedere la stessa cosa anche al suo cameriere, forse anche per dare maggiore credibilità alle sue parole, affacciandosi sul retro mentre quello è intento a preparare i salatini per i clienti, e la donna in questo movimento lo segue, accettando addirittura quella remota possibilità. Quando torna nella saletta lei guarda a terra, tra i piedi di tutti e le zampe metalliche delle sedie, con espressione quasi disperata. Non si decide neppure con facilità ad andarsene, dice ancora varie volte per favore, con l'atteggiamento di chi non sa più che pesci pigliare, e infine pare rassegnarsi.
Poi esce, ma resta sul marciapiede antistante, lei che praticamente appare fuori luogo in qualsiasi posto si trovi, se non è almeno un ambiente di classe, ma che in ogni caso, soltanto con la sua presenza, riesce ad impreziosire tutto ciò con cui viene a contatto. Il barista l'osserva ancora per qualche minuto, prepara qualche cosa che gli ha chiesto un cliente, e alla fine si muove e arriva fino sulla porta, per un ultimo sguardo curioso, e forse vorrebbe addirittura dire ancora chissà cosa a quella donna, ma poi ci riflette e alla fine rinuncia. Lei però improvvisamente si volta, lo guarda ancora per un attimo, di là dal vetro, la sua espressione si fa adesso severa, quasi cattiva, e dopo, malcelando la stizza, se ne va. Lui si sente amareggiato per quella occhiata che crede di non meritarsi, torna dai suoi clienti, anche se improvvisamente si sente dispiaciuto di tutto.
Più tardi, rimasto solo all’ora della chiusura, una volta sistemate tutte le sue cose, il barista ripensa ancora una volta a quella donna, indaga vagamente sull’assurdità di tutto quanto, poi, serrando il locale, trova sotto la porta vetrata un piccolo biglietto ancora ben chiuso. A quel punto rientra, non lo dispiega neanche ma va deciso nel retro, alza il coperchio ed accartocciandolo lo getta immediatamente nel secchio, senza altri pensieri, preciso in mezzo ai rifiuti.


Bruno Magnolfi

martedì 8 aprile 2014

Punti di vista (piccola commedia n. 4).

           

Da fuori, semplicemente posizionandosi in un angolo preciso del giardino pubblico, è possibile realmente rendersi conto di ciò che avviene all'interno delle grandi finestre, al piano rialzato della casa accanto. Una casa grande, come si può facilmente vedere anche da questa posizione, dove molte vicende però sembrano succedere solamente in quella specie di salone che fronteggia il verde del giardino. La donna passa ripetutamente davanti ai vetri chiusi, sembra nervosa, detta forse qualche propria volontà ad un uomo, probabilmente il marito, che prosegue ad ascoltarla restandosene in silenzio, con espressione seria. Poi lei sembra attratta da qualcosa, si sofferma a guardare da qualche parte fuori dalla finestra, e l'uomo, con ogni probabilità, ma pur senza tirar fuori degli argomenti veri e propri, cerca di opporre resistenza al carattere forte e deciso della donna, magari soltanto dicendo di no alle sue richieste. Lei sembra subito spazientirsi, dice a voce alta che non ha intenzione di sopportare ancora a lungo quella situazione giunta al limite. Lui, apparentemente intimidito, alza però lo sguardo su di lei, sembra prendere le distanze da quei discorsi, come se improvvisamente una soluzione comoda per tutti gli fosse giunta in mente, quasi inaspettata. Lei avverte quella variazione, si volta verso l'uomo, lo fronteggia, lo scontro pare avvenire per un attimo tutto all'interno soltanto dei pensieri di ciascuno.
Già nei giorni precedenti, dalle panchine del giardino, si era avvertita l'eco delle voci alterate e rancorose dei due coniugi, ma adesso sembra proprio che le cose abbiano raggiunto il culmine, anche se al momento, pare che nessuno dei due voglia aggiungere dell’altro a quanto detto. La donna, ad un certo momento, forse esplicitando un gesto di stizza, apre la finestra a lei più vicina, getta uno sguardo corrucciato tra gli alberi del giardinetto subito di fronte, poi torna a voltarsi verso l'uomo. Lui dice improvvisamente che è pronto ad accettare, però soltanto a patto che lei si occupi di tutto. Lei resta per alcuni momenti pensierosa, muove qualche passo obliquo dentro la stanza, e infine dice quasi sottovoce che va bene, aggiungendo che tanto le cose finiscono sempre nella maniera come vuoi tu, riferendosi naturalmente a suo marito.
Lui lentamente raggiunge la finestra, riaccosta leggermente i vetri, forse vorrebbe anche tirare le tende, ma non lo fa, e invece si gira, e dice semplicemente: sei tu che cerchi sempre di complicare l’esistenza; per quanto mi riguarda, io non avrei neppure affrontato un argomento come questo. Va bene, dice lei, adesso vuoi stravincere, è tipico del tuo modo di fare, ma sappi bene che non lascerò per sempre che tutto sia determinato dalla tua mentalità di persona moderata e senza fantasie.
L’uomo sorride a queste parole, la donna sembra apparentemente ancora più nervosa, ma infine lei gli si avvicina, lo guarda a fondo, e con voce ora più calma dice che alla fine non le importa molto neanche a lei di tutta la faccenda, le basta di sapere che qualcosa cambierà, che qualche decisione porterà dell’aria nuova in quella casa. Lui prosegue a sorridere,  forse non è neppure dello stesso avviso, ma probabilmente sa che solo assecondando certe cose, si riesce a ritrovare in famiglia l’accordo necessario. 
Alla fine escono ambedue da quella stanza, ma è lei che ad un tratto torna indietro, raggiunge la finestra ancora socchiusa, guarda per un attimo nella stessa direzione di poc'anzi, poi serra i vetri accostando anche le grandi tende. Fra poco sarà buio, pensa sorridendo: dovremo accendere le luci.


Bruno Magnolfi

domenica 6 aprile 2014

Tutto finirà (piccola commedia n. 3).

            

Lo so già, lo so per certo, senza neppure avere fatto delle analisi o degli specifici controlli, che coltivo dentro di me una brutta malattia, qualcosa che mi renderà sempre più dipendente dagli altri, e che addirittura mi lascerà poco per volta privo, quasi per una lenta tortura, persino di me stesso e della mia dignità. Per questo fingo di star bene, cammino e mi muovo come sempre, anche se provo dei forti dolori, nei muscoli e nelle ossa, che credo non stiano ad indicare niente di buono. Non penso  permetterò neppure che nel prossimo periodo qualcuno mi curi: preferisco sopportare tutto quanto mi succede, almeno fino a quando potrò resistere, evitando alla fine spese inutili e soprattutto false speranze per me e per chi mi sta vicino.
Però mi sto già preparando a quello che dovrà inevitabilmente avvenire, e allora in questo lasso di tempo cerco delle mie cose di non lasciare mai niente in sospeso, e poi tento naturalmente di essere più buono e comprensivo verso tutti gli altri, cercando siprattutto di concedere minore importanza a quelle faccende ordinarie che un tempo mi sembravano addirittura fondamentali, tanto da puntare i piedi e farmi lottare con tutta la volontà che avevo: piccole sciocchezze, penso adesso, inezie delle quali in questo momento posso solo ritrovarmi a sorridere.
Appena giungo a casa mi accascio, non ho più la forza di far niente, e sento che la mia esistenza è in mano a qualcosa di cui mi sfugge il senso, il fine ultimo. Perché credo di avere ancora molte cose di cui occuparmi, esprimere ancora molte idee che forse possono essere decisamente utili agli altri, capaci di dare una spinta verso i cambiamenti di cui da qualsiasi parte si sente con evidenza la necessità. Però so bene che tutto quanto ciò che potrei intraprendere nell’immediato futuro, sarebbe inevitabilmente destinato a restare incompiuto, lo penso quasi con un eccesso di realismo, per cui mi limito a spiegare a qualcuno le cose che sarebbe possibile fare da qui in avanti, quali elementi coltivare più di altri, e quale sia secondo me la strada migliore da intraprendere.
A dire la verità non ho trovato fino adesso molte persone che abbiano seguito particolarmente le cose che cerco di dire loro, ma ciò non toglie che continui a perseguire la mia strada e anche le mie asserite convinzioni. Certo, non posso neppure scoprirmi troppo, mostrare per esempio una saggezza che ultimamente sento di iniziare a possedere probabilmente proprio per queste mie condizioni, ma che potrebbe subito venire scambiata per puro egocentrismo. Così abbasso la testa, lascio che i giorni proseguano, mi rassegno poco per volta alla mia condizione inevitabile.
Poi metto male un piede camminando, faccio qualche passo affrettato cercando di riprendere l’equilibrio, ma vado a cadere in malo modo, sbattendo sgarbatamente a terra una mano che subito si insanguina. Qualcuno mi soccorre, ma sento forti dolori da ogni parte, e intanto cercano di rimettermi in piedi, di aiutarmi, anche se dico subito ai presenti che non ha alcuna importanza, e che ormai è venuto il mio momento, lo dico in due parole, anche se stringo i denti per la sofferenza. Qualcuno chiama un’ambulanza, io mi rannicchio a terra nel minimo dello spazio, non vorrei dare fastidio, e quando alzo lo sguardo vedo che tutti intorno continuano a guardarmi, e qualcuno sembra addirittura ridere, forse prendono come uno scherzo tutto quello che mi sta accadendo, penso. Morirò, dico loro con forza; ma mi accorgo subito che nessuno mi dà retta.


Bruno Magnolfi 

mercoledì 2 aprile 2014

Amici miei.

            

Si possono osservare molte cose dentro ad una tavola calda come questa. I clienti sono quasi tutti di corsa, ed entrano generalmente già con un certo affanno, quasi come se l'unica preoccupazione per loro fosse per esempio quella di accaparrarsi uno di questi tavoli liberi. Si mettono impazientemente in fila, scorrono velocemente lungo il nastro con il loro vassoio, e infine vanno a sedersi, portando subito con energia il cibo alla bocca. Un uomo tra gli altri arriva ogni giorno immancabilmente da solo, sempre alla stessa ora; entrando accenna un sorriso verso qualche inserviente che ormai conosce, poi prende il vassoio, si sceglie le pietanze senza mai chiedere niente, poi si sistema seduto, generalmente nell’unico posto libero di un tavolo già occupato da qualcun altro.
Schivo, inespressivo, non parla mai, si limita ad osservare qualcosa fuori dai vetri, per questo avendo cura in ogni caso di non mettersi con le spalle alle vetrine. Trovandolo per strada o anche da qualsiasi altra parte, risulterebbe quasi impossibile riconoscerlo, tanto anonima appare la sua faccia. Lui non ha mai fretta. Addirittura, quando ha finito di mangiare, si trattiene sempre a lungo, come se non avesse da raggiungere alla svelta un luogo di lavoro come è evidente per quasi tutti gli altri, e venisse dentro a questo luogo soltanto per una propria scelta, forse soltanto perché sa bene di trovarsi a proprio agio esattamente in un tipo di locale come questo.
Un giorno arriva dal marciapiede assieme ad una donna, fa la coda davanti al bancone come sempre, annuisce a fatica mentre lei gli parla di qualcosa, e infine assieme a questa donna va a sedersi ad un tavolo libero che riesce ad indicarle appena con un cenno. Lei non può essere la moglie o la compagna, è evidente, forse neppure la sorella e neanche una collega di lavoro. Piuttosto una vecchia conoscente quasi dimenticata, che forse l’uomo ha incontrato magari poco lontano lungo la strada che porta fino qua, probabilmente proprio in questa zona, esattamente mentre cercava di raggiungere come sempre questa sua tavola calda, ed appare quasi evidente perfino come non sia riuscito in nessun modo a disimpegnarsi da questa scocciatrice.
Lei sembra a suo agio nel locale, ma nei confronti dell'uomo che le siede di fronte pare quasi che provi un certo impaccio, come si sentisse in soggezione nei suoi confronti. Lui si limita ad ascoltarla, lei parla e ride, magari anche un po’ troppo, lui guarda generalmente dentro al proprio piatto, e quando alza lo sguardo è soltanto per osservare qualcosa di incomprensibile fuori dai vetri. Lei sembra sempre come sul punto di arrossire, magari si sente sbagliata in un luogo come questo, probabilmente è abituata ad altro; o forse semplicemente non le andava neanche a lei di scambiare questo pranzo con una persona come quella che si è ritrovata lì davanti.
Infine vanno via, insieme, nella stessa maniera come erano arrivati, ma a un certo punto, dopo un attimo, lui torna sui suoi passi, rientra nei locali della tavola calda, si guarda attorno come si fosse dimenticato di qualcosa, dell’ombrello, per esempio, oppure del soprabito, ma non è affatto così, e con un gesto improvviso e inaspettato saluta tutti quanti coloro che si trattengono ancora dentro al ristorante, come se tutti quanti fossero davvero ed improvvisamente diventati amici suoi.


Bruno Magnolfi

martedì 1 aprile 2014

Senza una vera strada (ritratto n. 14).

           
            Questa panchina è rigida, non è possibile stare seduti a lungo sopra a questo ferro duro e freddo; diventa necessario dopo un po’ almeno alzarsi e fare un giro, muovere le gambe insomma, scorrere senza fretta lungo questi marciapiedi, magari alla ricerca di qualche curiosità da cogliere sulla faccia o nei gesti dei passanti, oppure, con maggiore apparente attenzione, direttamente nelle vetrine e tra i clienti dei negozi.
            Non è facile in una città come questa ritrovarsi tanto tempo libero e nessun soldo nelle tasche: si gira, ci si siede per dieci minuti, ci si concentra su qualcosa, tanto per darsi l’aria di chi va come in cerca di qualcosa di preciso, anche se non è del tutto vero. Ci sono i pensieri che accompagnano ogni movimento, le riflessioni sterminate su qualsiasi cosa possa accendere la fantasia o il ricordo, ma il resto ha semplicemente la consistenza della polvere.
Quando è nuvoloso si può attendere il sole, quando fa troppo caldo si cerca l'ombra; ma quando piove tutto è notevolmente più difficile. Nel sottopasso del viale è possibile rannicchiarsi su un gradino ed ascoltare le ruote delle auto che schizzano l’acqua dalle pozze, stando lì assolutamente fermi, come se niente valesse la pena di qualsiasi movimento. Una donna accanto osserva tutto, sembra quasi non sia possibile sfuggirle qualche cosa a giudicare dai suoi occhi vigili; si muove, cerca qualcosa in una busta, pare indaffarata ma attentissima a ciò che le sta attorno. Chiede a qualcuno che ora sia, ma si vede distintamente che non le interessa affatto.
Poi inizia a cantare ad alta voce, qualcosa in francese, mai sentito, una canzone melodiosa che non c'entra niente con la sua faccia e neppure con quei suoi modi di fare. Qualcuno si ferma ad ascoltarla, lei prende maggiore coraggio, si fa piu decisa nell'intonazione, la sua voce adesso è più profonda, allunga le note, elabora un vibrato stretto e gentile, qualcosa di discretamente piacevole all'ascolto. Probabilmente è stata una professionista qualche tempo fa, o forse no, ma adesso regala la sua voce a tutti coloro che hanno semplicemente voglia di ascoltarla.
Inizia a muovere le braccia a un certo punto, cambia tipo di canzone, pare non ricordarsi neppure bene le parole, ma non fa niente, prosegue ugualmente nella sua intonazione riverberata da questo luogo di passaggio eppure chiuso. Fuori prosegue a piovere, qualcuno impreca e molti tentano di perdere del tempo nell’attesa che magari smetta. Per questo la gente che si ferma attorno a questa donna pare sempre più numerosa, forse qualcuno potrebbe raccogliere addirittura degli spiccioli per lei, ma proprio nel momento in cui tutti la seguono, e quando ognuno sembra sia perfino incantato ad ascoltarla, ecco che lei smette.
Basta; non dice niente, si scosta, riprende a muoversi velocemente nel sottopasso e a fare le proprie cose come prima, e la sua voce è già lontana, persa da qualche parte, come se non ci fosse più per lei alcuna possibilità. Poi va a sedersi sul gradino, trova finalmente qualcosa nella busta che ha con sé, pare una fotografia, la guarda, sembra commuoversi, ma infine dice qualcosa ad una persona accanto: smetterà di piovere, spiega frettolosamente, ne sono più che sicura; però devo andare in fretta, subito dopo, camminare svelta per la strada, perché lo so che sono già in ritardo.


Bruno Magnolfi