venerdì 31 gennaio 2020

Pensiero fulmine.

            

            Sempre le medesime cose. Inutile insistere. Si può cercare di sfuggire almeno per un po’ alle abitudini, fingere di sentirsi magari su un altro piano, immaginarsi persino superiori, o di essere assolutamente capaci di un’analisi maggiormente accurata, o anche più veritiera, e che mostri i limiti di ciò che ci sta attorno. Ma alla fine è la monotonia delle giornate che riesce a piegarci, un succedersi continuo di elementi costanti e già ampiamente previsti, senza alcuna possibilità di sottrarsi per davvero a questa logica. Un ritmo costante delle ore di ogni giorno, un continuo ripetere di gesti, espressioni, pensieri, fino alla nausea, semmai entrasse anch’essa nel gioco. E poi però anche la sicurezza delle solite cose, la tranquillità dei pensieri ben noti, la capacità della coerenza: tutto regolato da un unico grande ragionamento: il filo continuo che lega le cose, i fatti, la realtà, ciò che nel bene e nel male ci riguarda più o meno tutti.    
            Sbatto la porta mentre esco di casa, non perché mi senta nervoso, quanto per essere sicuro che sia chiusa per bene una volta uscito da lì. C’è un pezzo di strada di fronte a me da affrontare, quindi devo semplicemente sostare alla fermata del bus, osservare due o tre volte l’orologio, guardarmi un po’ in giro ed attendere, che sia un solo minuto oppure dieci. All’arrivo del mezzo pubblico posizionarmi in modo da usare la mano di destra per aiutarmi a salire, cosicché la mano sinistra sia libera il prima possibile per obliterare il biglietto, e cercare immediatamente con il corpo uno spazio abbastanza libero in mezzo alla calca, per guadagnare una nicchia in cui sentirmi protetto, con le spalle alla vettura già in movimento, osservando dal vetro vicino un panorama cittadino privo di dettagli resi peraltro illeggibili dalle pubblicità.
            Potrei scendere dal mezzo pubblico ad una fermata qualsiasi, perdermi a piedi lungo un groviglio di strade che conosco anche poco, allontanarmi da tutto ed attendere che qualcuno venga forse a cercarmi, come se avessi perso completamente la mia memoria, non riconoscessi più la mia città e non sapessi come fare per tornarmene indietro. Potrei trovare forse un rifugio, una tana qualsiasi dove nascondermi da questo tempo martellante, da queste cose da fare, gli impegni da affrontare, le abitudini alle quali dar seguito. Potrei rannicchiarmi in un angolo ed osservare gli altri che passano davanti ad una semplice feritoia praticata in una spessa parete, difendermi dagli attacchi di coloro che forse odiano tutto, quelli indifferenti alle sofferenze di tutti. Potrei muovere a mia volta degli attacchi mirati, compiere delle incursioni precise per cercare di fiaccare le fila di ogni avversario, e poi rendere inoffensivi i nemici tramite degli astuti tranelli, iniziando subito dopo col prepararmi per una valida controffensiva, fingendo di avere diverse unità ai miei comandi, in modo da incutere paura già solo mostrando le mie potenzialità.
            Però le fermate scorrono una dietro quell’altra, e ad un tratto riconosco la mia, così scendo, devo scendere, proprio come ogni giorno. Il mio posto di lavoro rimane come ogni volta davanti a me, identico, e nella stessa maniera di sempre tra un attimo striscerò il mio cartellino dentro la macchina, poi entrerò nell’edificio, saluterò i miei colleghi, e sarò pronto per intraprendere un’altra giornata lavorativa. Però mi fermo, rifletto, mi passa un fulmine improvviso dentro la testa, poi mi giro su un fianco e con passo svelto mi allontano, senza neppure guardare chi possa aver dietro. Faranno a meno di me, almeno per oggi.


            Bruno Magnolfi
     

          

giovedì 30 gennaio 2020

Materiali aridi.

            

            "Sono io a sbagliare”, dice con piglio. Poi si prende una pausa durante la quale si sposta di circa un metro. “Anche se la differenza tra essere giusti o in errore è sempre minima, quasi una stupidaggine", conclude. L'operaio sul ponteggio prosegue a parlare con un altro operaio, ma senza guardarlo, mentre ambedue continuano a stendere l'intonaco fresco sulla facciata, lavorando con ritmo, senza risparmio, senza mai smettere. Dieci metri più in basso qualcuno prepara la malta per loro, in maniera che non ci siano mai delle perdite di tempo. “Mio figlio certe volte mi guarda, e forse pensa che non avrei mai potuto far altro che questo mestiere. E’ come se tutto fosse inamovibile nella sua mente: pensieri fatti e poi definiti, senza variabili”. Il ponteggio si muove ogni tanto, quando i due operai si spostano a destra o a sinistra, per via della flessibilità dei ferri e dei piani, ma tutto è ben solido, non ci sono problemi.
            “Lui crede che il lavoro sia quello che uno si merita”, fa ancora lui, “ed io non so proprio spiegargli cosa ci sia di sbagliato in questo schema”. Di sotto qualcuno urla di tirare su il verricello, la carretta è già pronta, piena fino all’orlo e di giusta consistenza. Lui si accende una sigaretta mentre pigia il pulsante azzurro del macchinario, ed osserva venir su la merda grigia, fredda, scostante, pronta a cadere da tutte le parti se non la sai trattare nella giusta maniera. L’altro intanto raschia i residui nei cassoncini, poi li sbatte sui piani, ed infine ripulisce le zone dove loro mettono i piedi. Arriva la roba e i due ricominciano, riprendendo a stendere dallo stesso punto dove si sono interrotti. “E’ difficile parlare con questi ragazzi”, fa lui. “E’ come se ci fosse tra lui e noi una distanza molto maggiore di una semplice generazione”.
            Qualcuno poi dice qualcosa da sotto: sembra che in cantiere sia appena arrivato il geometra a controllare i lavori, ma nessuno trova niente di cui preoccuparsi, i lavori procedono, tutto va bene. "Certe volte gli dico che è solo la passione; è l'entusiasmo che metti nelle cose che fai, a produrre tutta la differenza. Ma lui ride e basta, sembra non gli interessi nulla di niente". Arriva il geometra sotto al ponteggio, chiede con voce alta se tutto proceda come previsto, loro si affacciano un attimo, gli dicono: “certo; è tutto sotto controllo”. Quello dopo poco se ne va, e loro continuano come sempre. “Non vorrei mai facesse il mestiere di suo padre”, fa lui; “però neppure quello di uno stronzo come il geometra”. L’intonaco nelle zone più lontane da dove stanno loro comincia a tirare, e lo si vede schiarire già dalle sfumature di grigio.
            Arriva mezzogiorno, e loro scendono, dopo aver sciacquato con cura tutti gli utensili che hanno sopra al ponteggio. Si siedono dentro all’edificio senza finestre, sopra dei mattoni forati appoggiati in mezzo alla polvere, ed aprono le loro borse, tirano fuori con attenzione le cose che devono mangiare. “Vorrei tanto che qualcuno mi desse una dritta”, fa lui; “che esistesse un sistema sicuro per non sbagliare mai con i figli”. L’altro lo guarda, ed anche se non ha figli comprende tutta la sua preoccupazione, mentre addenta qualcosa. “Potrei fare come tanti”, prosegue; “fregarmene; e lasciare che fosse lui a scegliere la propria strada. Ma non sarei tranquillo se almeno non gli spiegassi cosa c’è da scansare, cosa non vorrei mai che facesse nella sua vita. Perciò voglio farlo venir qui qualche volta, per fargli mangiare anche a lui un po’ di questa polvere arida, e comprendere meglio le parole che adesso non so proprio dirgli”.


            Bruno Magnolfi
            

       

mercoledì 29 gennaio 2020

Importanza della noia.


    

            “Sono stanca”, fa lei; “stanca di avere di fronte sempre le medesime cose”. L’amica annuisce mentre ambedue continuano a camminare lentamente lungo quel marciapiede, senza neanche avere una meta precisa, soltanto per compiere una semplice passeggiata. “Lui rientra tardi, è il suo lavoro, lo capisco; però di tutto il resto sono io a dovermene occupare”. Poi attraversano la strada, si fermano davanti ad una vetrina e si scambiano alcune opinioni su quanto vedono esposto.
            “Non si tratta di cattiva volontà”, dice ancora lei; “però adesso mi vedo stretta in un ruolo che non credo di aver mai desiderato”. Infine, dopo aver indicato l’un l’altra qualcosa, decidono di entrare dentro al negozio, guardare meglio gli articoli in bella mostra, individuare le cose che sembrano più interessanti. L’amica prende un golfino da sopra un espositore, sorride, dice soltanto che quello è un colore che le piace moltissimo. La commessa chiede se può essere utile, ma loro si limitano a scuotere semplicemente la testa. Lei forse vorrebbe provarsi una gonna, ma non riesce a trovare la taglia giusta, così ci rinuncia. Anche l’amica riappoggia il golfino, pur mostrando ancora una certa titubanza, ed alla fine escono da lì, salutando con cortesia la ragazza che sta alla cassa.
            “Però tuo marito faceva il giornalista anche prima di conoscerti”, dice adesso l’amica. “E’ vero”, fa lei; “ma sai come vanno le cose: pensi sempre che tutto migliorerà, oppure che ti potrai abituare a questa vita, prima o dopo. E poi non avevo proprio considerato che con un mestiere del genere lui si ritrovasse a stare continuamente al telefono con qualcuno, a cercare notizie ed aggiornamenti, anche quando è con me, tanto che con la testa rimane perennemente da qualche altra parte. Per lui sembra non esistere altro che il suo lavoro, ma certe volte diventa difficile anche soltanto parlarci”. Poi decidono di prendere un caffè in una pasticceria luminosa poco più avanti, così entrano, si siedono ad un tavolino e guardandosi in giro aspettano il cameriere.
        "Forse dovrei cambiare atteggiamento", fa lei; "iniziare a disinteressarmi completamente della nostra abitazione, di tutte le faccende da portare avanti: mettere in ordine, sistemare gli armadi, occuparmi della spesa quotidiana che resta in parte perennemente ancora da fare, ed alla fine anche di cucinare, e sempre con nuove ricette ". L'altra sorride, ordina al cameriere un tè ed una fetta di torta, poi fa: "potresti chiedergli l'aiuto per tutti i giorni, piuttosto che due volte alla settimana come hai adesso". Lei prende un sorso del suo caffè macchiato, poi fa: "a mio marito gli pare già di spendere troppo così, figuriamoci se gli dico una cosa del genere". Poi qualcuno con cortesia saluta loro due con un gran sorriso, e loro rispondono alla stessa maniera. "Potrei farmi desiderare", fa lei sottovoce, proseguendo a sorridere. "Qualcosa magari potrebbe anche smuoversi".
       Infine, dopo qualche piccola risata intorno a quel tema, loro due decidono di uscire dal locale e tornarsene con calma alle loro rispettive abitazioni. Lei subito sbuffa, mostrando con ciò di non dimenticare in nessun momento di essere sempre da sola durante certe serate, e di scocciarsi parecchio per questo. L’altra la guarda, “si potrebbe andare a cena fuori, io e te”, le dice con leggerezza. “Magari farci soltanto uno spuntino, e subito dopo arrivare con la mia macchina fino ad un locale che conosco, dove a una certa ora si balla”. “Perché no”, fa subito lei; “se torno a casa non troppo tardi mio marito non se ne accorge nemmeno”. Ridono, camminano più svelte sui tacchi adesso che si sono trovate d’accordo. Poi arrivano fino all’automobile, ci salgono sopra, e all’improvviso si sentono libere, come se non ci fosse più nessun obbligo. “Va proprio bene”, fa lei chiudendo il suo sportello; “cambiare qualcosa è sempre un momento importante”.

            Bruno Magnolfi

martedì 28 gennaio 2020

Strada divisoria.


       

            Un tizio dice qualcosa a voce alta, dall'altra parte della strada, mentre io me sto seduto al tavolino all’aperto di un bar con una birra ed un giornale da leggere. Lo guardo, quello resta fermo, sembra aver detto proprio a me, così lo studio per un attimo, poi torno subito al mio quotidiano, ignorandolo. Uno svitato, penso, un tipo che non sa proprio cos'altro fare delle sue giornate. "Ti tengo d'occhio", sento ancora urlare subito dopo; "so chi sei, e anche come ti chiami". Mi alzo, appoggio il giornale, entro dentro il locale per distoglierlo e farmi versare un'altra birra, ma quando torno fuori il tizio si è semplicemente spostato di qualche metro, ma ancora è lì, e come prima rivolto proprio verso di me. Adesso però non dice niente, mi guarda soltanto, ed il suo atteggiamento pare bastargli, almeno per il momento.
            Torno a sedermi e mi viene da sorridere per la situazione strana in cui mi trovo. Lui resta imperterrito a fissarmi. Poi prendo coraggio, appoggio le mie cose e mi tiro su in piedi per attraversare la strada ed affrontare il tizio, in modo da capire se magari mi abbia preso per qualcun altro, o semplicemente se non sia con la testa del tutto a posto. Ma appena metto un piede sull’asfalto stradale, e mi guardo attorno per evitare eventuali automobili, quello scappa d’improvviso, e arriva rapidamente fino al primo angolo, sparendo alla mia vista. Mi guardo attorno, “deve essere mezzo matto, quello lì”, dico ad una persona che sta camminando vicino a me lungo il marciapiede, senza provocare alcun commento, a parte una breve risatina.
            Mi siedo, riapro il giornale, accavallo le gambe mentre mi allungo leggermente sulla sedia. Ogni tanto abbasso le pagine per vedere se quello si fa ancora vivo, ma non sembra: “forse si è stufato”, penso. Invece poco dopo eccolo di nuovo lì, che riprende a guardarmi fisso nella stessa posizione di poc’anzi, ed adesso mi indica anche, con un braccio steso e con un dito della mano, come a mostrare che non ci sono dubbi, sono proprio io quello con cui se la sta prendendo. “Che cosa vuoi?”, chiedo a voce alta, mentre mi sto decisamente stufando di questa situazione. Poi lo indico a mia volta con un dito, esattamente come ha fatto lui fino ad un momento fa, in modo che non ci siano proprio dei dubbi: “sto parlando con te”, sembro urlargli, “tu che te ne stai a rompere l’anima a chi neppure ti conosce”.
            Cala il silenzio, ogni tanto le macchine percorrono la strada come sempre, ed io mi trovo ancora da solo presso i tavolini all’aperto di questo stupido bar, ed il tizio di fronte a me se ne sta ancora lì a guardarmi, come non avesse proprio altro da fare. Maledico la strada che sembra ci divida, perché se non fosse così, a questo punto lo avrei di già affrontato e avrei chiarito tutte le cose una volta per tutte. “Sei un codardo”, gli dico senza neppure alzare troppo la voce, e lui in risposta sembra prendere qualcosa da terra per tirarmelo, anche se poi non tira niente. Basta, entro dentro al bar quasi deserto, mi siedo al bancone e mi disinteresso del tutto di quel tizio, proprio come non fosse mai esistito. Dopo un attimo però qualcuno viene a sedersi accanto a me, e senza che io lo guardi direttamente, ma soltanto osservando i calzoni che indossa, mi rendo conto che è proprio il tizio del lato opposto della strada. Allora mi volto, lo guardo con decisione, e lui mi dice: “potresti pagarmi una birra adesso; sempre che ti vada”.


            Bruno Magnolfi

lunedì 27 gennaio 2020

Libertà solo apparente.


   

            "Ancora uno, per favore", dico alla ragazza che ci porta da bere, mentre assieme agli altri proseguiamo a giocare nella saletta fumosa sul retro del locale, concentrati sopra al panno verde oliva del nostro biliardo. "Non c'è niente di male, se provo un tiro a tre sponde", fo agli altri senza aspettarmi da loro alcuna risposta. Ad uno che guarda, seduto fuori dal cerchio di luce, gli scappa da ridere, come se avessi detto qualcosa di divertente, o chissà; poi mi abbasso con atteggiamento professionale, chiudo l'occhio sinistro e faccio oscillare la stecca appena un attimo prima di colpire pacatamente la bilia in una zona leggermente ad effetto. Tre punti. Nessuno trova niente da dire. Poi prendo un sorso dal mio bicchierino appoggiato sul tavolo accanto ad una parete, lascio che qualcuno segni i miei punti, e quindi mi prendo una pausa.
            Sostanzialmente sono stanco di trascorrere le serate in questo modo, ma ormai è un’abitudine a cui non riesco quasi più a rinunciare. Diverse volte ho pensato a cercarmi qualcosa di alternativo in cui impegnarmi, ma non è facile trovare un’attività che mi riempia la testa nella stessa esatta maniera. C’è il confronto con gli avversari, la ricerca continua del tiro magico, la battuta di spirito appena sussurrata, la voglia di mettere in mostra le proprie presunte capacità. Però alla fine sono sempre le stesse cose che si ripetono all’infinito. Appoggio la stecca sul bordo e dico agli altri che adesso purtroppo devo andarmene via, lascio il posto ad un altro, mi ero quasi dimenticato di un appuntamento importante.
            Pago le consumazioni, indosso la giacca e poi esco dal locale, prima che possa ripensarci, anche se non ho alcuna idea verso dove possa dirigermi. Torno a casa, decido alla fine, e siccome abito poco lontano e sono arrivato fin lì a piedi, nella stessa maniera affronto la strada a ritroso. Trovo subito un tizio che mi dice qualcosa, probabilmente mi conosce, rifletto, così gli rispondo in maniera scherzosa, ma quello mi spiega che le cose per me si stanno mettendo un po’ male, anche se non capisco per nulla di cosa lui stia parlando. Mi fermo, gli chiedo spiegazioni, e lui mi dice che a qualcuno non è affatto piaciuto il mio ritiro improvviso dalla sala di biliardo.
            “Ognuno è libero di decidere”, gli fo; “oppure c’è qualcosa che non ho compreso”. Lui mi osserva, poi tira fuori una mano dalla tasca del giubbotto, e quindi stende con calma le sue dita mentre le guarda, come fossero le ali di una farfalla appena uscita dal bozzolo. “Non è così facile”, dice; “quello che ci si aspetta da una persona come te non è questo”. Mi sembra che l’individuo di fronte a me sia stato appositamente inviato da qualcuno, però mi pare persino impossibile che ci sia un tale attaccamento a quel gioco. “E cosa dovrei fare”, gli chiedo senza muovere un solo muscolo. “Non so”, fa subito lui conservando la stessa espressione; “magari potresti tornare là dentro; o forse dare la possibilità di rivincita a qualcuno, nei prossimi giorni”.
            “Va bene”, fo io; “puoi dire tranquillamente a chi ti ha mandato che mi farò vedere domani nella stessa sala da biliardo, e così potrò giocare con chi sarà presente per un’ultima volta, visto che non intendo andare ancora avanti”. Lui fa un cenno di affermazione, mi saluta toccandosi la fronte e sorridendo, poi scompare dal marciapiede, così com’era apparso. Resto perplesso: “in questa città non è facile sentirsi del tutto liberi”, rifletto; “certe volte si deve rendere conto perfino delle cose che credevamo in assoluto meno importanti”.

            Bruno Magnolfi

domenica 26 gennaio 2020

Rinvio motivato.


         

            "In questo periodo non ho proprio voglia di uscire", dice lei con voce monotona alla sua amica durante una telefonata di cortesia. "Non mi va di vedere nessuno", conclude. "Forse in seguito passerà rapidamente questo periodo negativo, magari persino domani; comunque, almeno per adesso è così". Poi si salutano senza enfasi, e lei si alza dalla sua comoda sedia dove di solito trascorre la maggior parte del tempo leggendo, ascoltando la radio, qualche volte guardando qualcosa in televisione, e va adesso ad accostare l’orecchio ad una parete dell’appartamento vicino, attraverso la quale si avvertono distintamente le voci di qualcuno che sta litigando. Lei cerca di decifrare qualche parola per comprendere il motivo della discussione, ma dopo poco tutto torna ad essere piuttosto silenzioso. Il suo appartamento certe volte le sembra una spugna pronta ad assorbire gli elementi che gravitano in aria, ed anche se le piace sentirsi isolata da tutti, al contempo le interessa sapere cosa accade da quelle parti.
            Si tiene però lontana dalle finestre, quasi per paura di essere osservata da qualcuno lungo la strada oppure dalle case di fronte, ed è come se le persone che abitano e frequentano la città fossero chiaramente dei suoi avversari, gente abituata a coltivare abitudini, pensieri già codificati, facili giudizi certe volte terribili, che impongono etichette di tipo indelebile, quasi un marchio da applicare sopra la pelle degli indifesi. Ecco, lei spesso si sente esattamente così: indifesa, come se al giorno d’oggi tutto si manifestasse contro qualcosa, o peggio ancora contro qualcuno. Ci sono spesso degli elementi che paiono convergere per creare una cortina intorno ad un semplice individuo; poi qualcuno cerca di scrollarsi di dosso quanto gli è stato esageratamente caricato, ed ecco che subito si abbassa lo sguardo, tanto fa pena.
            "Vorrei uscire da qui a testa alta", dice tra sé. "Andare in mezzo a tutti gli altri con la capacità di sentirmi al di sopra dei loro giudizi, indifferente a qualsiasi loro pensiero". I vicini di casa tornano a farsi sentire, come se a nulla valesse il suo impegno per tenersi al di fuori dei loro battibecchi. Paiono quasi sciocchezze quelle che si dicono, ma è il modo aggressivo di dirle che fa diventare ogni parola praticamente una vera e propria minaccia. Non ci sono delle cose irreparabili, pensa lei; con della buona volontà tutto si può sistemare, ed anche la convivenza si può riuscire a trasformarla in un progetto di tanti piccoli elementi piacevoli. Si siede: "certe volte le giornate sono persino troppo lunghe quando corre l'obbligo di trascorrerle da soli", riflette. "Me ne vado da qui", si dice quasi urlando nell'appartamento vicino, e lei pensa subito che in fondo non è necessario avere dei buoni motivi per realizzare una cosa del genere.
            Poi torna di nuovo la calma, lei si disinteressa dei problemi di coppia da lato opposto del muro, così finge di accendere la radio ed inizia ad ascoltare le notizie che la sua fantasia desidera dettarle. Spesso sono informazioni senza capo né coda, elementi tutti identici, che non portano a nulla di particolare. La sua mente continua ad elaborare qualcosa, come se la realtà fosse il frutto maturo di molti pensieri, fino a quando rimane spossata sulla sua sedia, senza altro da aggiungere al proprio mondo inventato. 
            Suona qualcuno alla porta, lei si guarda attorno come fosse ormai in trappola. "Sono senz’altro i vicini", riflette, "giunti da me per comprendere cosa io abbia compreso dei loro problemi, per tirarmi nel mezzo, magari darmi anche un ruolo, attribuirmi forse delle responsabilità di chissà quale natura". Infine, dopo parecchi ripetuti squilli, lei si decide ad aprire. È la sua amica, venuta di persona a vedere come sta, ed adesso le propone di uscire, di andare insieme a prendere un caffè in un locale, fare due chiacchiere, vedere la gente che ci sta in giro. "Rimandiamo", risponde lei; "non mi pare sia il caso in un momento del genere".

            Bruno Magnolfi

giovedì 23 gennaio 2020

Buio, intorno al rifugio.

          

            “Arrivo”, gli fo, dopo che lui ha già bussato diverse volte ai vetri della finestra che si affaccia sul retro della mia casa. Forse oggi non avevo neppure troppa voglia di uscire dalla mia cameretta, penso, ma è evidente che in questo momento ormai non ne posso proprio fare a meno. Il mio amico viene quasi tutti i pomeriggi a scuotermi dal torpore che spesso mi prende dopo la scuola, e comunque a me fa piacere che lui mi dia un po’ d’importanza. Generalmente apro la finestra ed esco direttamente da lì, scavalcando il davanzale, senza dare tante spiegazioni alla mia mamma che sta nell’altra stanza e crede proprio che rimanga tutto il giorno curvo sopra i libri.  
            Non facciamo niente di male in fondo, quasi sempre ci si va ad infilare nel nostro rifugio fatto di canne e sterpi subito fuori dal centro abitato accanto ad un fosso, e si sta lì, seduti per terra, a parlare sottovoce e a rannicchiarci ogni volta che avvertiamo nei dintorni qualche rumore. "Ho recuperato una cicca", fa lui, e tira subito fuori una sigaretta senza filtro che sappiamo lasciarci in bocca tutto l'amaro del tabacco, ma che è sempre meglio di niente. Abbiamo promesso da diverse settimane di dare una bella lezione ad un tizio grosso che a scuola ci rompe sempre le scatole, così mentre si fuma si parla quasi sempre di questo tipo e di quello che possiamo fargli uno di questi giorni. "Dobbiamo essere in diversi", fa adesso il mio amico; "e tutti con le bende sopra la faccia per evitare problemi nei giorni seguenti'. "Certo", lo incalzo io; "gli diamo appuntamento da queste parti con una scusa, e poi all'ultimo momento usciamo fuori con i bastoni e gli facciamo passare la voglia di fare tanto il grosso e il prepotente".
            “Non voglio più andare a scuola”, fa lui a un certo punto; “dopo questo lavoretto per esempio mi metterò ad organizzare delle soluzioni per far ragionare tutti quelli che rompono le scatole”. Lo guardo mentre inevitabilmente mi scappa già da ridere. “Pensi che possa diventare un mestiere fare cose del genere?”, gli fo. Lui mi guarda ed assume subito un’espressione seria. Prende un’altra boccata di fumo, fa qualche colpetto di tosse, poi dice: “non lo so, ma io non credo molto nel futuro. Penso che si debba vivere tutto nel presente. Fare le cose che ci girano dentro la testa in questo momento, senza aspettare un bel nulla di ciò che sarà, perché si cambia velocemente, e ci si ritrova ad aver gettato via solo un sacco di tempo”. “Su questo hai ragione”, gli dico.
            Poi qualcosa si muove intorno al nostro capanno, così ci mettiamo in ascolto cercando di vedere qualcosa tra le fessure delle canne legate insieme. Ci sono due tizi che risalgono il fosso vicino, forse cercano qualche tana di animale, o dei nidi di airone, chissà. Il mio amico alza le spalle, lui se ne frega di quello che succede qua attorno, penso; ormai è andato avanti, non è più interessato alle cose spicciole che fino a ieri ci davano preoccupazione e forse un po’ ci piacevano. “Ce la puoi fare”, gli fo tanto per dare una spinta ai suoi propositi. “Lo so”, fa lui senza neppure guardarmi. “Bisogna crescere in fretta”, mi fa; “dobbiamo guadagnarci un ruolo prima di tutto. Questo è quello che penso. Se continuiamo ad andarcene a scuola diventiamo tutti quasi identici, anche se alcuni di noi riescono a prendere di mira i prepotenti e quelli privi di testa”.
            Infine usciamo da lì, lentamente si torna indietro, e quando siamo sul retro di casa mia, vedo che la finestra della mia cameretta è ancora accostata, mi mamma non si è accorta di nulla. “Ciao”, gli faccio al mio amico, “dove te ne vai adesso?”. “Non lo so”, mi fa lui; “però mi sa tanto che torno al rifugio. Tanto devo iniziare a prenderci confidenza, anche se tra poco sarà quasi buio”.


            Bruno Magnolfi
         

         

mercoledì 22 gennaio 2020

Via d'uscita.

           

            "Ci sono", urla la ragazza arrivando dal fondo del corridoio. Poi, toglie rapidamente il suo giubbotto, entra nel ripostiglio dei detersivi, ed indossa subito, quasi di fretta, sia i guanti di gomma già pronti, che la sua spolverina da lavoro. L'altro impiega un bel po' di tempo prima di farsi sentire a sua volta, ma alla fine ecco che dice: “sono qua", mentre manovra con il carrello tra alcuni uffici ed il lungo corridoio. "È il mio collega", pensa lei quasi sorridendo. "La persona più stravagante ed incomprensibile tra tutte quelle che conosco". Generalmente lui entra un'ora prima tra quei locali che a quell’ora oramai sono deserti, ed inizia con lo svolgere tutti i compiti preliminari per quegli ambienti, dando aria con l’apertura sapiente delle finestre, ad esempio, e poi svuotando subito i cestini ed anche i posacenere, e accendendo con metodo tutte le luci che servono per svolgere bene le operazioni. Quando poi arriva anche lei allora si dedicano insieme alla pulizia dei tavoli, delle attrezzature, dei bagni e di tutti i pavimenti.
            "Sei arrivata tardi", le fa lui tanto per stuzzicarla. Lei non gli risponde, sa che non è vero e che quello è soltanto un vecchio gioco che le fa spesso, tanto per vedere cosa cerca di rispondergli. Lui è avanti con gli anni, ma ancora si crede di poter fare il ragazzo spiritoso. "Oggi sono stanca", fa invece lei con una smorfia quando si avvicinano tra loro; ""è come se poco per volta stessi perdendo qualsiasi entusiasmo, e prendesse il sopravvento soltanto il fastidio, il nervosismo, e poi la fiacca". L'altro la guarda mentre spinge ancora un po’ in avanti il suo carrello: "una come te non dovrebbe mai neanche pensarle queste cose", le fa. "Eppure sono vere", dice lei; "e posso dirti anche che non ho intenzione di proseguire ancora per molto con questa vita, perché se mi accontento adesso di questa semplice manciata di stupidaggini, in seguito non sarò più neppure capace di desiderare qualcosa d’altro. E poi non si tratta del lavoro: è tutta questa monotonia di orari, di gesti, di comportamenti; di questi giorni tutti identici, che finiscono inevitabilmente per snervarmi". "Certo", le fa subito lui annuendo;, "dovresti dare alle tue giornate una bella scrollata, così magari puoi ripartire con un maggiore entusiasmo". Lei lo guarda mentre con l’elastico sistema un sacco nel cerchio del carrello.
            Non è facile parlare così di queste cose, pensa lei; ci vuole niente ad essere fraintesi, e poi ognuno di noi sta sempre in bilico, tra la voglia perenne di piantare tutto, ed il bisogno di resistere per non dover affrontare qualcosa anche di peggio. “Voglio morire”, dice lei all’improvviso con la faccia seria, dopo aver lasciato indietro soltanto una piccola pausa. “Non trovo più molti motivi validi per spingermi oltre questo punto, ed anche se sembra assurdo quello che ti dico, eppure mi sta abbandonando la volontà di tirare ancora avanti”. Lui la guarda, commosso, profondamente colpito dalle sue parole. Non trova da ribattere, e forse non tenta neppure, ma dopo qualche attimo dice soltanto: “ti capisco, è un sentimento che nasce dal profondo; probabilmente qualcosa che non ti porterà mai a nulla, e chissà quante persone hanno provato la tua stessa sensazione prima di te. Però adesso sei tu che stai così, e già soltanto sapere che esiste sempre e comunque una via d’uscita da questa specie di ingorgo privo di significati, è qualcosa che almeno in parte può risollevarti. Ed io spero proprio che sia in questa maniera, perché tutte queste scemenze che portiamo avanti, non valgono una briciola della tua vita”.


            Bruno Magnolfi
        

       

martedì 21 gennaio 2020

Senso di colpa.


          

            "Mastico amaro, amico", spiego con calma. E subito dopo mi chiedo che senso abbia mai parlare con questo tizio che non sembra neppure starmi a sentire. "Ogni attimo che giunge può essere una brutta sorpresa, ma non ci si può fare niente", dico ancora. Poi butto giù un altro sorso della mia birra, mentre intorno al bancone dove resto seduto c'è gente che schiamazza e pare divertirsi. "È inevitabile", riprendo. "In ogni momento che segue quello che stai vivendo non sai cosa ti aspetti. Col tempo magari ci fai pure l'abitudine, e poi fingi di non farci neppure più caso. Però non puoi essere mai del tutto tranquillo, non puoi sospendere alcun momento di tutta quanta la tua esistenza. Fortunato chi non ci pensa nemmeno a cose del genere. Per me invece è diverso: vivo in un’angoscia costante, e non riesco a farci un bel niente".
            “Se per esempio immagino di godermela un po’, e magari mi metto in casa sdraiato davanti alla televisione, senza nient’altro da fare che seguire là sopra una cosa leggera, che non mi impegni troppo la mente, dopo poco le preoccupazioni scendono comunque improvvise sopra di me, fino a scalzarmi da quel mio posto, con dei pretesti del tipo: devi fare la spesa, devi ripulire la cucina, farti una doccia, andare a lavorare, pianificare la settimana, e così via. Un senso di colpa come un pugno allo stomaco inizia a lavorarmi con sempre più forza, fino a quando spengo tutto ed inizio a ripulire la mia abitazione o cose del genere”.
            L’altro beve con tutta calma la sua birra fresca, e forse pensa che io sia mezzo svitato, perché lui riesce costantemente a fregarsene di tutto quanto e a mandare avanti le sue cose senza nessuna preoccupazione. Difatti sorride quando finge di comprendere quel che sto cercando di spiegargli, ma io penso che tutto al contrario lui non può proprio capire un bel niente di quello che dico, perché non prova per nulla dentro di sé l’angoscia per il futuro ed il senso di colpa. Poi si solleva dal suo sgabello e mi dice che deve andarsene, così lascia dei soldi sul banco e poi mi pianta da solo a bere e a sopportare questo pomeriggio senza alcuna prospettiva. Penso che non ci sia niente di peggio, che quando come adesso ti impegni per spiegare la cosa a cui hai dedicato in assoluto più tempo per cercare di renderla almeno arginabile, e qualcun altro tratta i tuoi problemi con gran leggerezza, come se fossero dei semplici argomenti da birreria.
            Perciò penso di andarmene anche io, e sto già per alzarmi da questo posto, quando il tizio di prima torna indietro: “ci potrebbe essere una soluzione”, mi fa. “Dovresti trovare qualcosa di importante, tanto da riempire completamente il tuo tempo. Lo so, non è facile, però ce la puoi anche fare. Scrivere poesie, dipingere, ideare qualcosa, impegnarti di brutto in un argomento che ti distolga completamente dai tuoi brutti pensieri. Magari iniziare a descrivere con precisione su qualche quaderno tutto quello che hai cercato di spiegarmi fino adesso. In fondo potrebbe essere la maniera anche per dare una mano a qualcun altro, in seguito a questo. Far capire ad altre persone che si può anche uscire da una depressione come la tua, semplicemente mettendoci un certo impegno nell’affrontarla davvero: spiegarla, definirla, usare tutte le parole che puoi per far comprendere al meglio possibile che cosa possa mai essere”. Lo guardo: “ va bene”, gli fo.

            Bruno Magnolfi

lunedì 20 gennaio 2020

Tolleranza zero.

           

            "Ogni tanto mi capita di fare qualche stupidaggine", dice lui ad un conoscente del suo quartiere che ha incontrato proprio all'ufficio postale, mentre ambedue stanno facendo la fila per pagare qualche bolletta allo sportello. "Forse dovrei addirittura smetterla di andare sempre allo stadio,  perché quando sto da quelle parti perdo quasi completamente il senso delle cose", dice con una certa sincerità; “però non saprei cos’altro fare”. Poi abbassa la voce, e per farsi grande dice: "mi capita di odiare profondamente quelli che se ne stanno a fare casino alla curva opposta alla mia, e se la mia squadra perde le cose certe volte sembrano subito complicarsi".
            Poi tocca a lui presentare i fogli all'impiegata dietro lo sportello, così tira fuori i soldi che ha già preparato, quindi prende le matrici e qualcosa di resto, ed infine se ne va, salutando l'altro senza mostrare comunque un grande entusiasmo. “Non è facile avere dei vicini di casa quando tutti attorno a te sanno che hai delle amicizie esclusivamente tra i tifosi”, pensa lui adesso; “è come se ti salutassero soltanto con una parte del loro corpo, perché l’altra si tiene già sulla difensiva, come se tu potessi affrontarli fisicamente da un momento all’altro, senza neppure un motivo valido per farlo. A me non interessa passare per un violento durante i normali momenti della giornata. Posso anche parlare di calcio con qualcuno, ascoltare altre opinioni e così via, non ci trovo niente di male. Però quando mi trovo insieme agli altri ragazzi e ce ne andiamo allo stadio con le nostre bandiere, le sciarpe ed anche tutto il resto, allora le cose cambiano parecchio.
            Perché alla fine non puoi permettere a della gente come quella che si fa vedere ai cancelli opposti ai tuoi, di provocarti come sempre fanno: non è possibile, non lo puoi proprio tollerare. Ognuno sostiene la sua squadra, questo è normale, però gli altri sono diversi da noi, hanno qualcosa che non riesci proprio a sopportare, nemmeno se ti impegni, e poi ti provocano quando vengono qua, nel nostro stadio, come se avvistando noi si aspettassero soltanto di avere di fronte dei ragazzetti senza una spina dorsale, persone che agli insulti non sanno rispondere per bene e per le rime. Non ci possiamo permettere di fare una figura così, è più che evidente, perciò dobbiamo sempre sapere a che cosa ed anche a chi andiamo incontro ogni volta.
            Certe volte ci è scappato pure qualche ferito, questo è vero, ma sono state sempre tutte cose di poco conto, senza troppa importanza, perché a noi ci basta dare una bella lezione a tutti coloro che vengono fino qui per provocare, quelli che ci urlano ‘mezze cartucce’ come a volte fanno, quasi che non avessimo un nostro modo preciso di schierarci e di tenerci sempre pronti per qualsiasi evenienza. Perché non abbiamo mai paura quando siamo insieme, sappiamo bene come difendere la nostra squadra, e non tolleriamo che qualcuno parli male dei nostri giocatori”.
            Poi lui arriva davanti casa sua, con questi pensieri che gli girano ancora nella testa, e ritrova per combinazione lo stesso conoscente di poco prima, quasi si fossero dati un preciso appuntamento. “Tutto a posto?”, gli chiede l’altro con un mezzo sorriso quasi ironico; e lui risponde, con serietà, che gli pare proprio di sì, e che non ci sono dei problemi; anche se all’improvviso vede dietro quella faccia che ha di fronte, qualcosa che non gli va del tutto a genio. “Forse dovrei sapere meglio questo cosa fa”, riflette. “Forse non è neanche dei nostri”.


            Bruno Magnolfi  
       

        

domenica 19 gennaio 2020

Come tra ebrei.



Si ritrovano almeno un paio di volte la settimana a casa di una di loro, sempre nei pomeriggi dopo la scuola, e si sistemano sedute sul divano o nelle tante comode poltrone di una zona dell'ampio salone dell'abitazione della famiglia di lei, e lì generalmente si parlano, ridono, si divertono, si scambiano opinioni relative agli insegnanti e ai loro compagni di classe, anche se quando c'è da studiare per qualche compito di una certa importanza da affrontare in qualcuno dei giorni seguenti, allora si piazzano con impegno su un grande tavolo là accanto, con i loro libri e anche i quaderni dei propri appunti, e si mettono sopra quelli con la testa bassa, senza perdersi in altro. Sono quattro ragazze del liceo, ormai giunte all'ultimo anno, che sembrano proprio avvertire l'importanza del periodo, ma pur non rinunciando a studiare e a prepararsi, cercano di stare il più possibile vicine tra loro, perché sanno che solo così può manifestarsi dentro se stesse la spinta di cui spesso e volentieri avvertono la necessità. Non è facile reggere il peso di tutte le preoccupazioni che le sovrastano, ed anche per questo forse cercano sempre di non perdere mai in nessun caso il buonumore che spesso si fa vivo per sostenerle.
Poi giunge nella loro classe questo insegnante supplente laureato da poco, un tipo alla mano, simpatico, ed una delle quattro, quasi scherzando a fine lezione, lo invita per quel pomeriggio al solito ritrovo in quel loro salone. Tutte naturalmente sono mezze innamorate di lui, non fosse altro che per la sua immagine di bravo ragazzo poco più grande di loro in età, però già sistemato in qualche maniera, avendo passato tutte le prove che loro al contrario devono ancora affrontare. Lui ride, le rassicura con un modo scherzoso, dice che devono stare assolutamente tranquille, non c'è niente di particolarmente preoccupante nel loro futuro. Le ragazze ci credono, lo apprezzano, vedono dietro alle sue espressioni rilassate il punto di arrivo a cui aspirano anche loro, ed ascoltano ammirate le sue opinioni su tutto, non permettendosi mai di interromperlo mentre continua a parlare come fosse ispirato.
Mentre lo accompagnano tutte insieme verso la porta, dopo un pomeriggio davvero piacevole, una di loro dice qualcosa che lo fa improvvisamente oscurare. "Non c'è niente di male nel fatto che tutte noi siamo di origini ebraiche, non è vero?", spiega lei quasi ridendo. Lui non risponde, le osserva un momento, si vede da lontano però che è vagamente turbato, anche se è inconcepibile pensare che ad una persona così carina e così intelligente possa creare problemi una cosa del genere. Giungono presto fino all'ingresso principale di quella abitazione, e si vede che il professore vorrebbe aggiungere qualcosa a tutto ciò che ha già detto in quel pomeriggio, ma appare contrastato, perplesso, incapace di affrontare ciò che invece vorrebbe spiegare. Alla fine si salutano, si danno appuntamento naturalmente per la mattina seguente, al liceo, dove tutti dovranno assumere, per il loro ruolo, un atteggiamento meno amichevole e meno cordiale.
Le ragazze rimaste da sole non sanno che cosa pensare, ma tutto viene presto ammorbidito dalle cose piacevoli ed interessanti di cui le ha parlato quel loro insegnante, tanto da cancellare la brutta impressione provata alla fine. Ma è la mattina seguente che tutto viene chiarito, quando il professore in sostituzione sale alla cattedra con espressione tirata, lo sguardo deciso, anche se sembra non posarsi mai su nessuno in particolare tra gli studenti. “Questo è il mio ultimo giorno di supplenza”, spiega per tutti; “spero di tornare tra voi prima o dopo; in ogni caso è stata un’esperienza importante, che non credevo quasi possibile”. Poi se ne va, senza salutare nessuno individualmente. Ma non ha molta importanza comunque, oramai pensano tutti: era soltanto un giovane insegnante, per una semplice sostituzione.


Bruno Magnolfi


giovedì 16 gennaio 2020

Colpo di mano.


          

            Mi trovo in sala d’attesa, la terra di mezzo tra il prima ed il dopo. La signorina all’entrata del poliambulatorio mi ha detto che il medico ancora non c’è, però io posso sedermi qui, su una delle sedie di plastica e aspettare. Così ho fatto, e mi sono ritrovato in una completa solitudine, dentro una stanzetta bianca, direi disadorna, con due file di seggiole che si fronteggiano appoggiate alle pareti più lunghe, collegate tra loro in maniera stabile e perciò inamovibili. Immagino tutta la gente che passa da qua, in orari magari leggermente diversi, e normalmente staziona tra queste mura nell’attesa di una visita importante, di un parere prezioso, di una parola definitiva da parte della persona di scienza che dal suo studio medico a fianco certe volte toglie dei dubbi, e in altri casi può anche inserirli, sempre con un’opinione assolutamente obiettiva, sia sul paziente che sulla materia.  
            Persino la finestra ha dei vetri opachi, che non permettono di vedere di fuori, perciò ogni individuo che si trova in questo luogo è costretto a pensare solo e soltanto a quanto potrà succedergli o meno, appena verrà ammesso al cospetto del dottore di turno. Poi però entra una donna, improvvisamente, saluta sfuggente ed osserva dei fogli che tiene in mezzo alle mani, pare distratta, poi annusa in giro, come a cercare la pista più giusta; torna indietro e la signorina all’entrata, dal suo bugigattolo protetto dal vetro, le dice con voce un po’ alta e sbuffando, che l’ambulatorio che lei sta cercando resta semplicemente dalla parte opposta del corridoio, dove si trova comunque un’altra sala d’attesa, probabilmente identica a questa, penso io.
            Di nuovo da solo, rifletto che dovrò sicuramente attendere molto, anche se oramai mi sento nervoso: in fondo questo è proprio il posto giusto per prepararsi ad una condanna, oppure ad una parziale assoluzione, visto che già perdere un pomeriggio così, è qualcosa che in genere costa. Arriva un medico lungo il corridoio con il suo camice bianco ancora aperto, ma non è il mio, anche se io lo seguo attentamente con il mio sguardo, visto che non ho altro da fare: sta parlando al telefono, ma da vero professionista indossa l’auricolare e mette là ogni tanto solamente qualche vocale a voce bassissima, in maniera che intorno si comprenda il nulla assoluto della sua legittima conversazione. Poi sparisce dietro una porta e tutto torna tranquillo.
            Vorrei andare a chiedere, alla signorina che staziona dietro al suo sportello all’entrata e ad occhi bassi verifica qualcosa sopra uno schermo, se dovrò attendere molto, ma non vorrei in questa maniera mettermi subito in cattiva luce, perciò aspetto paziente che tutto si compia con i tempi consueti. Ma è a questo punto che accade qualcosa: arriva una dottoressa, e capisco subito da come guarda da questa parte che è quella che io sto aspettando, però non è sola, ma circondata da quattro o cinque persone che le parlano in affanno quasi contemporaneamente, e tutte insieme entrano nella sala d’attesa dove io mi sono rifugiato in quest’angolo. Immediatamente lei sparisce dentro al suo studio aprendo la porta e richiudendola di scatto alle sue spalle, non senza aver immesso assieme a lei anche un paio di persone che l’hanno accompagnata fin qui.
            Qualcosa pare sfuggirmi di mano, lascio trascorrere un paio di minuti e poi penso di alzarmi in piedi per bussare alla porta e chiedere spiegazioni, ma in quell’esatto momento arriva la signorina che stava all’entrata, e dice con tono professionale che c’è una lista di attesa con prenotazioni già prese per via telefonica; appende immediatamente la lista accanto alla porta in una cornice che non mi aveva proprio dato nell’occhio, e vedo subito che il mio nome è scritto per ultimo. Mi alzo, rido forte, come uno scemo, non sapendo cos’altro fare; poi me ne vado.

            Bruno Magnolfi   

mercoledì 15 gennaio 2020

Certezze insolute.


          

            L’elemento fondamentale è la certezza. Quella di un elenco di cose da fare, ad esempio, ordinate per importanza o per priorità. E poi quel sentirsi perfettamente coscienti di essere capaci di affrontare con adeguatezza quello di cui ci siamo riproposti di occuparci; avere perciò già preparato gli strumenti più adatti, e poi conoscere perfettamente verso che cosa andiamo incontro, intraprendendo ogni minuta faccenda a cui vogliamo dedicarci. Lui, considerato che possiede pure una buona memoria, parte ogni volta sempre con un leggero sorriso sopra la faccia, quando osserva quasi distrattamente quanto ha annotato al primo punto della scaletta su quel quaderno che tiene soltanto per queste sue attività, ed anche se conosce già bene quanto del proprio tempo dovrà dedicare a quei compiti, ugualmente intende segnare il momento esatto in cui ciascuno sarà terminato, in modo da avere per la prossima volta dei riferimenti maggiormente precisi.
            Il mondo è composto da sole certezze: se tutto è stato previsto nella maniera adeguata, non è possibile ritrovarsi a sbagliare; un piccolo margine di errore è comunque messo nel conto, ma fa parte anch’esso di tutto il meccanismo, naturalmente. Così questa mattina lui intende uscire da casa con la sua borsa contenente dei documenti da consegnare all’impiegato di banca del suo quartiere, una persona che conosce superficialmente ma di cui si fida abbastanza, per avere più tardi la possibilità, con un assegno circolare che si farà consegnare, di compiere un acquisto di una certa importanza, almeno per lui: una bicicletta nuova fiammante che ha già visto diverse volte nella vetrina di un negozio poco lontano, e addirittura negli ultimi giorni ha potuto provare, dopo varie insistenze con il commerciante, lanciandosi ad esibire qualche pedalata sulla strada là attorno.
            La certezza più grande sarà quella che finalmente, nel pomeriggio, potrà compiere una bella passeggiata con la sua bicicletta ben lucida, e mostrare a tutti coloro che incontrerà lungo le vie del quartiere, quanto sia stato capace improvvisamente di disegnarsi addosso un ruolo del tutto nuovo, come cittadino perfettamente rispondente alle regole imposte: quello del ciclista, che percorre le strade senza sporcare, senza emettere vapori inquinanti, senza produrre fastidiosi rumori, ed infine mostrando a tutti gli altri anche un modello sicuramente da seguire. Perciò prepara quanto gli serve, immaginando con lungimiranza le piccole difficoltà a cui potrà andare incontro. 
            Con certezza esce di casa con la sua borsa, convinto com’è della direzione da prendere, ma una vicina lo incontra proprio appena chiuso il portone di quel condominio, e siccome lo conosce da anni, gli fa subito presente che occorrerà al più presto possibile finanziare dei lavori sulla facciata, perché da qualche giorno si sta scrostando l’intonaco, ed ora rischia di cadere addosso alle persone che percorrono quel marciapiede. Improvvisamente, lui che non aveva mai volto lo sguardo al disopra del primo piano dove è sito il suo appartamento, resta sconcertato da quella scoperta che non aveva mai ipotizzato, e sostiene adesso che non ci sia un solo minuto da perdere, perché le cose possono degenerare di colpo. Perciò rientra nel suo appartamento e telefona all’amministratore del condominio, fissando un appuntamento con lui da lì ad un’ora. Poi rassicura la vicina, suonandole il campanello e facendole presente quello che dovrà essere immediatamente deciso.
            Quando poi resta solo, la sua certezza improvvisa è che per questa giornata non potrà proprio fare quello che si era prefissato: ma cosa importa, pensa senza rammarico; si tratta soltanto di aggiornare l’elenco delle cose da fare, e impostarne in altro modo le priorità e l’importanza; il resto è soltanto questione di tempo: anche un rinvio, in fondo, è un elemento del tutto prevedibile.

            Bruno Magnolfi

martedì 14 gennaio 2020

Sogno sperato.


        

            “Si è spostato, tutto si è spostato lentamente, senza che neppure ce ne fossimo accorti. Avevo in mente certe cose qualche tempo fa, ed adesso sono cambiate, anche se non in maniera radicale, però almeno di un pochino alla volta, quasi che fosse sufficiente uno scricchiolio ogni giorno, per formare poi una crepa vistosa. Vi guardo e vedo persone che non conoscevo, anche se ci siamo frequentati per un sacco di tempo; lo stesso probabilmente dite voi di me e di tutti gli altri, è evidente. Non lo so neppure, stasera, di che cosa vi voglia parlare, sempre che abbiate il desiderio di concedermi ancora la vostra attenzione, però quello struggimento che prende quando ci accorgiamo che tutto ci sta scivolando di mano, adesso è proprio qui questa sera, insieme a noi, e non possiamo neppure fingere che sia qualcosa di un’altra natura”.
            Poi smetto, lascio il microfono, qualcuno mi applaude, come sempre succede quando uno di noi prende la parola per dire delle cose generiche, quasi scontate. Un appello alla ragione, un altro alla lungimiranza, nessun intervento divisivo, anzi, una ricerca costante del collante migliore per tenere assieme le volontà che sembra desiderino andarsene per conto proprio. Le idee di molti spesso galleggiano sul niente: delle impressioni, certe scelte fatte di pancia, quasi sempre senza ragionamenti. “Dobbiamo programmare qualcosa, prevedere in qualche maniera il futuro, essere capaci di mettere a fuoco dei pensieri che abbiano valore per tutti, non soltanto per qualcuno”.
            Nella sala del circolo nessuno ha più voglia di affrontare argomenti pesanti, di discutere su quale posizione tenere nei confronti di un fatto o di un altro. L’accordo tra noi rimane latente, forse non c’è, e non si aspetta altro che sciogliere anche questa riunione per riprendere ognuno il proprio parere, le medesime idee che aveva anche prima, a dimostrazione del fatto che siamo composti di una medesima pasta, e non ci lasciamo imbambolare da chi parla meglio o ci sa stare di più dietro al microfono. Le manciate di parole adoperate per spiegare qualcosa, alla fine sono sempre le stesse, ed anche se ci impegniamo parecchio per costruire delle frasi che funzionano meglio nel veicolare i nostri pensieri, alla fine tutto rimane circoscritto intorno a concetti ormai risaputi.   
            Mi lascio pagare un caffè al bancone del locale vicino, c’è sempre qualcuno che ti batte una mano sopra la spalla, e ti dice di pensarla alla stessa maniera, anche se tutto questo non ha alcuna importanza, e quella medesima persona sia disposta a dire la stessa cosa a moltissimi altri. Tutto peggiora, vorrei quasi rispondergli: ed anche questo caffè non è più buono come quello di un tempo. Poi alla fine esco, l’aria fresca di questo periodo sembra rigenerare anche le serate incompiute, ritrovo i miei passi sopra la pavimentazione stradale, le mie tasche dove lascio sprofondare le mani, il mio sguardo sempre vigile nel tenere sott’occhio quanto mi accade d’intorno. Non so quale senso sia possibile dare a tutto questo: forse è soltanto un continuo modellare la realtà in funzione della voglia che viene mostrata; forse era del tutto inevitabile che le cose prendessero prima o poi questa piega. Mi pongo delle domande a cui non contrappongo nessuna risposta, soltanto supposizioni.
            Probabilmente devo smettere persino di pensare: prendere una vacanza mentale, farmi un giro chissà dove, a caccia soltanto di svago, di sensazioni diverse, e quindi tornare, ma dopo un bel po’ di tempo, come fossi uno straniero che arriva da queste parti senza sapere niente di questo posto, e non conosce qui attorno proprio nessuno. Ecco, soltanto così potrei avere finalmente idee nuove, soluzioni, proposte: come se ripartire da capo fosse quasi un inizio, un avvio che forse non avrei mai immaginato, un sogno di quelli che ormai non riesco più neppure a sperare.

            Bruno Magnolfi


lunedì 13 gennaio 2020

Numeri e basta.


         

            Anche questo tardo pomeriggio è come sempre: i ragazzi annoiati stazionano sulle panchine della piazzetta, qualche anziano poco lontano sembra osservarli per curiosità, ma con la faccia di chi li vuole soltanto compatire. Non c’è molto da dirsi, oltre a parlare della scuola: le solite battute spiritose, i soliti argomenti di sempre, solo qualcuno più timido tra loro da prendere in giro. Le ragazze a braccetto due a due invece, se ne vanno su e giù lungo il corso per guardare qualcosa di nuovo nelle vetrine e parlare dei loro argomenti, ma naturalmente si limitano e tornare indietro poco prima di arrivare fino a quella piazzetta, proprio per evitare che qualcuno tra quei mezzi teppisti le faccia arrabbiare con le solite maniere sguaiate che oramai conoscono bene.
            Prima di andarsene a casa, qualcuno dice a voce un po’ alta che non c’è alcuna soddisfazione a trascorrere il tempo così, senza alcun fine; ma gli altri lo guardano e ridono subito di lui, perché sanno di non avere alcuna alternativa, o perlomeno di non essere capaci di trovare qualcosa di diverso da fare. Perciò si dividono, è l’ora di tornarsene a casa, ognuno per conto proprio, e senza neppure un’idea. Ma uno di loro rimane, da solo, seduto su di una panchina, e non sembra preoccuparsi proprio di nulla, soltanto cercare come di scomparire nella sua posizione rilassata, tenendo lo sguardo per terra, le braccia abbandonate sui fianchi, e le mani dentro le tasche. E’ lui che si è lamentato, perché vorrebbe che tutto fosse diverso, ma non sa proprio da che parte iniziare, soprattutto non sa che cosa potrebbe cambiare.
            Un anziano gli dice che è brutto restare da soli, ma lui alza le spalle come se non gli importasse poi molto. Un attimo dopo però all’improvviso si alza e va verso quell’uomo, gli chiede che cosa gli sembra se qualcuno facesse un elenco delle persone che frequentano quella piazzetta. “Non so”, fa l’altro, “non ne capisco lo scopo”. “Si tratta di rendersi conto di tutta la forza che riusciamo a sprecare nel rimanercene qui sfaccendati”, fa lui; “e per comprendere questo è necessario aprire gli occhi, esserne completamente coscienti”. L’anziano capisce che quelli sono argomenti che non lo riguardano e così si allontana, ma il ragazzo si sente investito in prima persona del problema che ha sollevato, e per questo tira fuori dal suo zaino un quaderno su cui inizia ad annotare i nomi di tutti i ragazzi che sono stati presenti nella piazzetta quel pomeriggio.
            Non c’è niente di male, riflette; si potrebbe iniziare a scrivere accanto ad ogni nome gli argomenti che ognuno dei ragazzi ha portato fin qui, di quali temi ha voluto parlare, che cosa probabilmente ciascuno cercava trascorrendo in questo posto insignificante tutto il tempo che è rimasto con gli altri. Potrebbero venir fuori in questa maniera certi discorsi più ricorrenti di altri, certe esigenze che forse a prima vista sembravano proprio sfuggire, e probabilmente, inserendo poco per volta questa attività di prendere appunti quasi come si fosse di fronte ad un vero e proprio dibattito, sarebbe possibile sollecitare argomenti mai presi in esame in precedenza, e trovare così addirittura delle vie diverse di comunicazione, o tirare fuori delle parole che non si usano spesso.
            Tutto al giorno d’oggi è composto da elenchi, pensa adesso il ragazzo; tanto vale iniziare a formarne anche noi uno nostro, in completa e totale autonomia, qualcosa che possa servirci, che ci faccia uscire anche di poco da questo torpore in cui siamo caduti. In fondo oggigiorno siamo tutti delle semplici prede di qualcuno che ci sorveglia e che riesce a conoscere sempre più a fondo le nostre abitudini e preferenze: possiamo farlo anche noi con noi stessi, almeno per renderci perfettamente conto di quanto possiamo finire per essere soltanto un numero nelle mani degli altri.

            Bruno Magnolfi  
           

domenica 12 gennaio 2020

Voglia di niente.


           

            Quando sto qui tutto il resto diventa per me poco importante. Guardo dalla finestra la strada che scorre sotto ai miei occhi, ed io resto ferma, immobile accanto ai vetri, senza alcun motivo per spostarmi da dove mi trovo in questo momento. Qualche giorno addietro mi sono impegnata a leggere qualcosa per svagarmi, ma mentre stavo sulla mia poltroncina pensavo che qualcuno nello stesso momento avrebbe certamente avuto bisogno della mia attenzione. Così, come per intuito, mi sono alzata, sono tornata a guardare la strada dalla mia finestra, e da lontano improvvisamente ho visto lui, che camminava tranquillo, con il suo passo di sempre, forse per venire da me, o forse no. In fretta mi sono ravviata i capelli, forse avrei avuto anche necessità di cambiarmi d'abito ma non ce n'era il tempo, perciò mi sono limitata a guardarmi nello specchio ed ho deciso che andava tutto bene già così, non c'era assolutamente bisogno d'altro.
            Ho riflettuto su come farmi trovare, magari mostrando un semplice moto come di sorpresa, oppure mostrando una certa indifferenza, e magari fargli presente subito che avevo fretta, per spiegargli quindi che stavo giusto per uscire, anche se comunque qualche minuto di tempo per lui l'avrei trovato senza dubbio. Potevo dire che stavo aspettando appunto qualcun altro, e che tra pochi istanti avrebbe quindi dovuto andare via; poi però con il leggero accenno di una risata ho lasciato perdere tutte queste sciocchezze, ed ho pensato che la cosa migliore era aprirgli la porta con naturalezza, senza spiegare a lui un bel niente.
            Mi sono seduta, ho ripreso in mano il mio libro ed ho aspettato, cercando di leggere ancora qualche frase. Avvertivo il silenzio attorno a me, ed in tutto il condominio, per questo ho mosso i piedi, ho cercato io stessa di provocare qualche rumore, giusto per non sentirmi del tutto sola. Niente, sono trascorsi molti minuti, forse troppi, senza che non sia accaduto proprio niente. Sono tornata a guardare dalla finestra e lui non c'era più, sparito chissà dove. Ho pensato che anch'io adesso avrei dovuto uscire, senza cercarlo evidentemente, magari per tentare semplicemente di farmi trovare lungo la strada, ma come per un puro caso. Però, soltanto a pensarci, ho provato una profonda fatica, e così sono tornata a sedermi sopra la mia poltroncina.
            Che cosa importa tutto questo, ho riflettuto: mi piace starmene qui per conto mio, osservare gli altri che si affannano nel cercare chissà cosa, ed io che con completa indifferenza proseguo ad attendere che qualcosa realmente possa accadere, senza preoccuparmi d’altro, solo di questo. Certe volte ci sono dei rumori in questo condominio, si sente distintamente qualcuno che magari sta salendo queste scale, ed io mi aspetto da un momento all’altro che venga suonato proprio il mio campanello, che si chieda di me, per qualche motivo, che sia arrivato un conoscente a vedere come sto. Però non è detto che questo accada adesso oppure un po’ più tardi, in fondo non c’è niente di importante nel corso di una giornata simile, niente che valga la pena di preoccuparsi per qualcosa da fare, qualcosa da intraprendere, qualcosa che ci si debba aspettare veramente. Tutti gli altri in fondo sono là, lungo la strada, e basterebbe che a me venisse la voglia di allontanarmi dalla finestra e scendere giù per la scala condominiale, e potrei avere davanti a me tutte le conoscenze che desidero. Se soltanto lo volessi.

            Bruno Magnolfi


sabato 11 gennaio 2020

Niente da fare.

        

            "Ci sono", dico mentre arrivo trafelato nella saletta del circolo dove con i ragazzi ci ritroviamo quasi ogni sera. Diversi tra i presenti rispondono con un'esclamazione, anche se in quattro continuano a giocare a boccette come se niente fosse. Sono in ritardo come sempre, loro probabilmente mi hanno aspettato a lungo per la sfida pattuita, poi però si sono messi a giocare senza di me. "Non ho fatto un grande ritardo", piagnucolo scherzando tanto per giustificarmi, "e poi la colpa è vostra che non avete mai da fare nient’altro che venire qui". Proseguono a giocare senza guardarmi e senza ribattere, perché lo conoscono tutti il mio limite, lo sanno cosa penso, ma io però non posso certo essere diverso da come realmente sono. Vado di là, nel locale, prendo una birra, torno nella saletta e mi metto a sedere, profondamente deluso.
            Poi ad un tratto me ne vado, senza dire niente a nessuno, mi faccio un giro per qualche strada della zona con il mio motorino, e quando torno loro sono ancora lì, come se non fosse trascorso neanche un minuto. Uno però mi dice che devo imparare ancora molto su come ci si comporta, e che probabilmente nessuno avrà più voglia di giocare con me almeno per un pezzo. Vorrei arrabbiarmi con qualcuno, ma lascio perdere, mi metto in un angolo e non ribatto nulla. Si siede accanto a me un tizio della mia età che si fa vedere solo qualche volta nella nostra saletta, e mi dice sottovoce che può anche capitare di fare tardi, non c’è da farla così lunga. Non so se sta prendendomi in un po’ giro oppure se stia parlando proprio sul serio, così provo a rispondere soltanto a monosillabi, dicendo soltanto che questi ragazzi certe volte tendono ad esagerare.
"Io non sono amico di nessuno", mi fa lui. "Certe volte vengo qui e ascolto cosa dicono tutti. Però difficilmente sono d'accordo, perché penso sempre qualcosa di diverso da loro, anche se un po' forse mi dispiace, perché è difficile andare avanti senza degli alleati. Non lo dico mai a nessuno che mi sento differente da loro, però è vero, difatti i miei non mi hanno ancora preso il motorino e spesso mi tengono a casa, perché non vogliono che io stia sempre in giro come fanno tutti gli altri". Io lo guardo, non avevo mai pensato a delle cose di quel genere, per questo provo un certo stupore, anche se da un lato credo che questo tizio sia soltanto uno di quelli che resteranno sempre ai margini di tutto, perché incapaci di stare al passo con tutti gli altri. Poi però usciamo assieme, si fa un giro con il mio motorino passando per il centro, si dà noia ad un paio di ragazze che fanno un po' le sceme, e mi accorgo che lui si diverte veramente, forse non si è mai appoggiato a qualcun altro, penso, forse non ha neppure un vero amico.
"Torniamo al circolo", gli fo; "magari hanno finito di fare tanto il muso e mi fanno entrare anche a me nella partita". Lui non ribatte niente, mi guarda un attimo, fa cenno di si e poi basta, e probabilmente avrebbe fatto uguale anche se gli avessi detto qualcosa esattamente contraria, penso. Arriviamo di nuovo lì e non sta giocando più nessuno, e tutti i ragazzi adesso sono seduti con loro la birra, così ci sediamo anche noi senza dire niente. Quelli continuano a parlare per conto proprio, come se noi non fossimo neppure insieme a loro, perciò guardo il mio amico e vedo dalla faccia che lui si aspetta adesso che io dica qualcosa, mi faccia sentire, dimostri a tutti di cosa sono capace. Invece gli fo soltanto un cenno, solo uno sguardo deciso, e lentamente così ci alziamo dalle seggiole, e senza neppure salutare ce ne andiamo via da lì, visto con evidenza che non abbiamo proprio niente a che fare con tutta questa gente.


Bruno Magnolfi