venerdì 28 novembre 2014

Adattamenti.

            

In quel quartiere, oltre la piazza con gli alberi e le panchine tra le aiuole, non c'è proprio nient’altro, se non quelle file di case intorno, a due o tre piani, quasi tutte simili, in certi casi con un minuto giardinetto sul davanti. Luciana va a sedersi quasi ogni giorno sopra una di quelle panchine; si porta il libro, legge qualche pagina, si guarda attorno certe volte, e se trova qualcuno che conosce scambia volentieri anche due chiacchiere.
Ha abitato da sempre in quella zona, ed ha visto tanta gente arrivare fino lì, ed anche andarsene; e pure botteghe e negozietti che sono stati aperti e che ora non ci sono più. Ma lei rimane seduta, con le sue maniere, le sue abitudini; e certe volte si chiede cosa mai farebbe se non ci fossero quelle case, quegli alberi, le aiuole e le panchine, tutto quel semplice arredamento di quartiere, quegli oggetti quasi suoi, e anche di tutti, naturalmente, ma che lei conosce così bene. 
Avrebbe tanto voluto che le autorità avessero sistemato un monumento in quella piazza, qualcosa proprio al centro, tra quei pochi alberi, e che abbellisse tutto quanto dandogli importanza. Ne aveva anche parlato con qualcuno, Luciana, con quegli anziani che frequentano le panchine insieme a lei quando il tempo è bello, e parlandone si era convinta che le sarebbe tanto piaciuto un grande oggetto che raffigurasse la perseveranza, come se la resistenza alla modernizzazione e ai cambiamenti di tutto quel quartiere, fosse un elemento da riconoscere, e forse da simboleggiare. Si, si, avevano detto tutti, e lei si era sentita sempre più convinta di quella scelta, tanto quasi da aspettare che da un giorno all'altro iniziassero i lavori.
Invece non è mai successo niente in quegli anni, e tutto alla fine è rimasto esattamente nella medesima maniera. Ma Luciana ha iniziato a pensare un po’ per volta che quella mancanza di cambiamenti fosse essa stessa un monumento: non c’è bisogno di far risaltare quanto rimane costantemente uguale in questa zona, ha detto già a qualcuno dei suoi conoscenti. Queste aiuole, questi alberi che invecchiano, sono loro un vero monumento; le case, i marciapiedi, la forma della piazza, tutto quanto ciò che prosegue a conservare l’identità del luogo, proprio il suo spirito.
Qualcuno le ha anche dato ragione, tanto per farla più contenta, ma altri hanno alzato le spalle, e in due o tre le hanno voluto spiegare che quel quartiere non aveva proprio niente per cui essere invidiato. Luciana se n’è risentita, perché a lei pare quasi impossibile che si possa pensare cose di quel genere. Così è tornata a casa, si è chiusa dentro, e provando una malcelata stizza, ha deciso di non frequentare almeno per qualche giorno quelle panchine della piazza.
Poi non ha più resistito, e c’è tornata, però muovendo i piedi con lentezza, quasi un po’ svogliatamente. Già da lontano si è accorta che qualcosa era diverso, ma neanche a quel punto si è affrettata. Ha atteso, conservando lo sguardo sul verde delle aiuole, di vedere bene coi suoi occhi quanto era accaduto. Un albero, di quelli più grossi, forse malato e pericolante, in quei pochi giorni era stato abbattuto e rimosso dai giardinieri, fino a lasciare al suo posto un vuoto che improvvisamente a lei è parso quasi terribile. Luciana allora si è seduta sopra la sua solita panchina, è rimasta immobile e pensierosa per qualche minuto, ma poi ha estratto dalla borsa il suo libro, lo ha aperto, ed ha iniziato a leggere. Succede, ha detto più tardi ad un conoscente che passando davanti le ha fatto notare quanto era capitato.

Bruno Magnolfi


martedì 25 novembre 2014

Respirare profondamente.

            
La tosse mi lascia senza fiato. Camminando sul marciapiede, certe volte mi trovo a sbandare da un lato all’altro, tanto mi sento disabilitato. Ma non è solo quello: è che ogni giorno scopro di non trovare più dentro di me l’entusiasmo che avevo un tempo e che servirebbe adesso per tirare avanti con tutte queste piccole cose che vorrei affrontare. La mia alimentazione è forse eccessiva e disordinata, spesso ho male allo stomaco, e poi a furia di tossire sento dei dolori sotto ai polmoni ed anche alla schiena.
Sulla metro incontro un tizio che conosco di vista e che mi dice delle cose senza chiedermi niente. Sorrido; bravo, penso dentro di me: non dobbiamo far la fine di chi sta sempre ad annoiare tutti a morte con domande banali ed altre cose del genere. Scendo ad una fermata, a un certo punto, una qualsiasi, anche se non è la mia, pur di liberarmi di questo scocciatore: ho anche voglia di camminare, di svagarmi, però nell’aria serale quasi subito mi riprende la tosse. Qualcuno mi guarda come se avessi una malattia contagiosa. Qualche volta ho pensato di portare con me un fazzoletto macchiato di rosso, tanto per vedere quale faccia farebbero gli altri sopra i mezzi pubblici o negli uffici aperti alla gente.
Sto male, questo è il punto di sostanza. Male perché non riesco ad essere come vorrei, fare le cose che devo, affrontare quello su cui ho riflettuto per tanto tempo. Vivo soltanto un blando surrogato di ciò che mi immagino, ed ogni giorno mi accorgo che tutti vanno avanti, si spingono in fuori, raggiungono dei risultati e degli obiettivi che si erano prefissati, lasciando me sempre più indietro. Forse lo merito quanto sta accadendo, penso; probabilmente avrei dovuto fare scelte molto più radicali qualche anno fa. Però non ero pronto, mi dico; ho avuto bisogno di tutto questo tempo per riuscire a comprendere che cos'era davvero importante per la mia persona.
Mi siedo sopra una panchina, lascio scivolare nella bocca l'ennesima caramella calmante per l’infiammazione delle vie orali, poi scendo di nuovo nella metro per andarmene a casa. Chissà come vanno queste cose, penso; poi all’improvviso ritrovo lo stesso tizio di poco prima, e rifletto subito che adesso tocca a me stare a parlargli, sta a me dire qualcosa, ed è così che lo affronto subito nella ricerca di spiegargli almeno la maggior parte di tutti i miei problemi. Quello mi ascolta sorpreso per lunghi minuti, quindi inizia a guardarmi con attenzione, ma sempre più allibito. Alla fine mi riprende un attacco di tosse senza che possa neppure farci niente: quello si allontana da me, e senza neppure salutarmi alla fine scende ad una fermata, forse neppure la sua.
Attorno mi guardano: quello che ho detto non è passato affatto inosservato; forse c’è addirittura qualcuno che si ritrova in quello che ho cercato di spiegare. Alcuni scendono, altri passando davanti a me mi salutano. Uno poi mi stringe la mano: le porgo tutta la mia solidarietà, mi dice; poi se ne va. Alla fine riprendo a tossire, e quando scendo non mi accorgo quasi di niente. Devo andare dal medico, penso, non posso più continuare in questa maniera. Ma fuori dalla metro adesso l’aria improvvisamente mi sembra più fresca, così la inspiro a pieni polmoni, mi guardo attorno, sento che qualcosa in qualche maniera si sta come assestando dentro di me. Va molto meglio, penso; in fondo ci voleva ben poco.


Bruno Magnolfi

lunedì 24 novembre 2014

Convinta interpretazione.

        

Mi sento sereno, dice il secondo mentre tutt’e due camminano velocemente verso la barca. Il piccolo molo ricoperto di legno marino scricchiola leggermente mentre raggiungono l’attracco giusto; la giornata è bella, c’è calma di vento. Il primo procede in silenzio, poi sale in barca, l’altro lo segue, lui accende il motore, molla l'ormeggio. C'è una debolissima onda lunga mentre si allontanano dal piccolo porto, che assieme al ronzio del motore sembra calmare i pensieri e rendere tutto più facile. Solcano senza fretta un paio di miglia di mare, prendono le mire su alcuni punti fermi che ancora si vedono a terra, poi dopo circa mezz'ora riescono a triangolare sul giusto braccio di mare, quello precedentemente deciso. Calano l’ancora, e poco dopo anche le lenze, pur restando quasi in un religioso silenzio, scambiandosi appena qualche gesto, ed infine, mentre lo scafo ha finito di posizionarsi con la prua contro quella leggera bava di vento, loro due si mettono seduti e in attesa.
Si dicono ancora qualcosa sulla bella giornata, poi il secondo, dopo un altro lasso di tempo, avverte una vibrazione, ed il primo lo incita a stare calmo e ad avere pazienza. Alla fine il pesce sembra tornargli all'attacco dell'esca, ed il secondo gli assesta un leggero strattone, quindi tira su recuperando con calma la lenza e tenendo sapientemente il filo in tensione.
Loro due vanno avanti ancora per un paio d'ore in questa maniera, ed in tutto tirano fuori dall’acqua appena cinque o sei tra spigole e orate, tutte di taglio piuttosto piccolo, quindi decidono che non è la giornata giusta, ne hanno abbastanza e che forse è ora di rientrare. Si è messo un po' più di vento adesso, la barca si muove su qualche onda più alta. Il primo, mentre passano sullo specchio di mare davanti al molo, dice che tutto sommato si è stufato di giornate come quella, il secondo annuisce, anche se sembra aver conservato ancora qualche entusiasmo rispetto all'altro.
Ormeggiano al solito attracco, spengono il motore e controllano che tutto sia a posto, poi mettono i piedi sul molo. Il primo dice al secondo di prendersi lui quel poco di pesce che hanno pescato, l’altro annuisce, quindi si separano al parcheggio nei pressi delle auto, e se ne vanno ognuno per conto proprio.
Qualcuno li ha seguiti, sin dal momento in cui sono usciti in mare, osservandoli con attenzione mediante anche un grosso binocolo, ed adesso che sono rientrati si è segnato sopra un quaderno gli orari e tutto quanto ha potuto esaminare, quasi come fossero quelli degli appunti preziosi. Qualsiasi cosa si può analizzare, pensa adesso. Ogni più piccolo dettaglio risulta sempre scomponibile in altri elementi più piccoli, fino a perdersi in risultati che presumibilmente non riescono neanche più a tenere conto di un’intera vicenda.
Poi si alza dalla sedia accanto alla vetrata su cui è stato seduto fino ad allora, mette via i suoi appunti, ed infine esce dalla saletta del locale dove è rimasto per tutto il tempo. Camminando riflette che la realtà è qualcosa che non sta per forza dentro alle cose che si riescono a vedere, quanto negli interstizi, nella maniera come si strutturano gli eventi, pur essendo qualche volta minuti ed ininfluenti come quelli a cui ha appena assistito.
Scriverà un articolo su quella semplice battuta di pesca, pensa ancora; ed analizzando quello che ha visto giungerà forse a capire e a spiegare i motivi per cui il primo ed il secondo pescatore probabilmente non usciranno più insieme per mare. Ma quello a cui si dovrà arrendere è il fatto che nella sua ricostruzione metterà per forza anche qualcosa di sé, della sua interiore maniera di concepire tutte le cose, e magari starà forse proprio in questo aspetto il tratto più convincente.


Bruno Magnolfi

venerdì 21 novembre 2014

Collezione di banalità.



Lei è sempre molto attenta verso ciò che indossa. Soprattutto non le piace passare del tutto inosservata, anche se non cerca mai di porsi troppo al centro dell’attenzione. Difficilmente, anche con i colleghi di lavoro o con le amiche, inizia a parlare per prima se proprio non ne sente l’assoluta necessità: attende sempre che qualcuno le rivolga sufficiente considerazione, che le venga posta una domanda, un quesito anche in forma indiretta, o che sia richiesto il suo parere su qualcosa.
Lui appare sempre sicuro di sé, anche se a conoscerlo meglio si capisce come nasconda sotto la scorza molti e forti dubbi, che peraltro cerca costantemente di dissipare con il suo sguardo distante, spesso rivolto soltanto verso un altrove vuoto ed insipido. Fa le cose che fanno tutti, in fondo, parla di quello di cui parlano gli altri, ma tende costantemente a mostrarsi superiore su ogni argomento, come se il suo vero pensiero fosse per qualche motivo già ben oltre quanto tutti continuano a discutere.
Insieme si sentono fortemente una coppia, anche se non sempre tra loro si dicono tutto. Anzi, proprio nella continua ricerca di essere leggermente diversi dagli altri, trattengono dentro se stessi gli elementi maggiormente evidenti, dandoli cioè per scontati, affrontando spesso con grande profondità argomenti di fatto superficiali. Quando poi capita loro di separarsi per accudire ognuno le proprie faccende, niente dell’individuale equilibrio che mostrano insieme pare stia in qualche modo cambiando di stato, come se nulla dei loro atteggiamenti o delle loro personalità subisse un qualche contraccolpo per una semplice cosa del genere. Fingono cioè di rimanere integri, come fossero davvero degli individui integri. In realtà non riescono neppure a stare bene quando sono  soli, e appena si sentono davvero così, provano costantemente la necessità di ritrovare in fretta quel sostegno che riescono a scambiarsi soltanto quando stanno insieme.
Lei certe volte dice: sei uno su cui non si  può fare affidamento; pedante, contraddittorio, non hai neppure uno scopo vero in quello che fai. Lui sorride, gli pare che queste cose dette da lei siano più rivolte a se stessa che ad altri, così non contraccambia alcun giudizio e neppure si difende, abbassa la testa, lascia in qualche maniera che tutto faccia il suo corso. Poi lei si calma, lo guarda, sa che per certi versi si assomigliano, ma la sua bocca non lo dirà mai, e così, anche solo mentalmente, prosegue su di lui a disegnare e a ricamargli addosso i propri personali difetti.
A lui non piace essere denigrato, perciò attende il momento opportuno per dirle che sta sbagliando sul suo conto, ma lo fa debolmente, senza grande convinzione, così lei se ne accorge e lo critica anche per questo. Forse lei lo vorrebbe maggiormente forte, convinto delle sue cose, per questo sospira nella sottolineatura di ciò che potrebbe essere e che invece non è. Lui non si lamenta quasi mai, però sente dentro di sé che sarebbe bello se lei fosse diversa: sentirla più vicina, forse addirittura più complice, anche se non vorrebbe mai fosse appiccicosa, cosa della quale scherzando a volte la rimprovera, anche soltanto per farla sentire in una veste che invece non ha.
Insieme si incontrano ogni tanto con i loro amici, e nessuno di questi si sognerebbe mai di prenderli in giro per i loro atteggiamenti: si vede benissimo che sono compressi, vagamente tesi, pronti sempre a difendersi a vicenda, di fatto difendendo solamente ognuno se stesso. Sono brave persone, dicono quasi tutti: si vede che si vogliono bene.


Bruno Magnolfi

martedì 18 novembre 2014

Diversi nemici.

            

Qua attorno ci sono sicuramente i nemici, dei pazzi assassini, dice lui sottovoce parlando tra sé, mentre affila il viso strabuzzando leggermente i suoi occhi, quasi a mostrare la maschera proprio di coloro che teme. Magari quelli mi osservano nell'ombra, senza essere visti, ed aspettano soltanto il momento migliore per colpirmi alle spalle. Non ho paura, dice ancora con convinzione, con voce adesso più forte, perché ho la piena consapevolezza che tutti quanti non siano altro che dei semplici vigliacchi, e non appena saprò dimostrare che riesco a tener testa alle loro stupide azioni, fuggiranno tutti a gambe levate per tornarsene diritti da dove sono venuti.
Mettendosi ad osservarlo, lo si può notare muoversi nervosamente lungo il corridoio, in genere restando sempre lontano dalla finestra sul fondo, come fosse quella la fonte dei pericoli, e quando passa davanti al piccolo specchio appeso sul muro, si capisce che evita persino di guardarsi, proprio perché sa che là dentro, in tutte le immagini riflesse, si possono annidare proprio alcuni degli elementi che lui cerca il più possibile di evitare.
Sto benissimo, dice subito ad un anziano vicino di casa le poche volte che quello va da lui per sincerarsi sulle sue condizioni. So difendermi, sostiene, ed ho intenzione di guardare dritto in faccia chiunque arrivi fin qui ad affrontarmi. L'unico problema sono questi angoli oscuri, gli anfratti, i nascondigli  insidiosi che tengono celati alla vista i veri pericoli infidi, i nemici, gli individui assetati di sangue.
Prima di aprire la porta di casa all’inquilino che abita al suo stesso pianerottolo, e che ormai è l’unico ad andarlo a trovare, mette sempre in opera mille stratagemmi, cercando dapprima di capire se sia davvero la persona che conosce quella che gli bussa alla porta, e poi se per caso non sia accompagnato da qualcun altro; e quando infine lo lascia entrare, si vede senz’altro che non ne è del tutto contento.
Per prudenza o circospezione lo tiene in piedi nel corridoio, in quei pochi metri quadrati dove lui stesso trascorre la maggior parte del tempo. Ho avvertito anche stamani i sottili rumori che provocano gli assassini, gli dice. Strisciano chissà dove, cercano di entrare dalle finestre, magari di farsi largo tra la gente comune per cercare la vittima giusta. Ma io lo so che sono loro il vero nemico, dobbiamo fronteggiarli con tutte le forze che abbiamo. 
Il vicino lo ascolta, poi gli rivolge delle domande banali, e alla fine va via, raccomandandogli come sempre di bussare alla porta, nel caso avesse bisogno di qualcosa. Lui chiude subito l’uscio alle sue spalle, poi controlla con attenzione ogni angolo della cucina e della camera da letto, prima di tornare nel corridoio. Resta fermo in ascolto per qualche minuto, nel caso avvertisse dei rumori sospetti, poi alla fine si siede sull’unica seggiola.
Lo specchio è ancora al suo posto: lui è quasi tentato di girarlo dalla parte del muro, pur di non doverlo più neanche vedere, ma darebbe così la possibilità a tutte le immagini contenute là dentro di nascondersi comodamente alla vista. Così lo copre, semplicemente, mettendoci un asciugamano sopra e quindi girandolo tutto attorno alla cornice. Poi aspira l’aria con maggiore soddisfazione. Nessuno uscirà da là dentro almeno stasera, dice tra sé; devo riuscire a tamponare le possibilità del nemico, sbarrargli la strada, rendergli impossibile qualsiasi comportamento. Solo così sarò sicuro di non avergliela mai data vinta.


Bruno Magnolfi

domenica 16 novembre 2014

Parole senza spessore.

            
            Mario è un uomo. Se gli guardi le mani ti accorgi che non le tiene quasi mai a riposo, e che il suo sguardo è vigile, sempre sulla difensiva, pronto a schivare eventuali attacchi della quotidianità. Puoi anche seguirlo nei suoi innumerevoli giri che compie mentre affronta tante strade diverse, anche se alla fine frequenta sempre i medesimi luoghi, ed accorgerti poco per volta che la sua evidente insicurezza sembra contrarsi o distendersi proprio a seconda dei mutamenti che sopraggiungono nei suoi itinerari.
            Qualche volta entra dentro un noto caffè, Mario, un affollato locale del centro: là dentro si fa accompagnare sempre da una certa signora; normalmente loro due si siedono, si lasciano servire del tè oppure degli aperitivi, e parlano in genere delle proprie difficoltà, e di quello che forse per ognuno di loro sarebbe più giusto da fare, anche se poi generalmente mai niente cambia nei comportamenti che hanno adottato in funzione di tutto il resto che li circonda. Quando escono da quel luogo comunque, appaiono sempre abbastanza soddisfatti, anche se è evidente come non siano riusciti una volta di più a prendere alcuna decisione importante.
            Mentre passeggiano in attesa dell’ora di rientrare, lei certe volte gli dice: Mario, dobbiamo essere maggiormente realisti, comprendere che le cose sono in una certa maniera, e con tutto l’impegno che possiamo impiegarci, non riusciremo certo noi a farle cambiare. Lui scuote la testa, non la guarda neppure, dice soltanto che non è proprio certo con questo spirito che si possono affrontare le avversità. Poi però riconosce che lei forse ha ragione, e che probabilmente è giusto essere più concreti e guardare tutto con maggiore obiettivo distacco.
            A lui piace spingersi a volte fino alla sponda sinistra del fiume, restare appoggiato alla spalletta lungo la strada per osservare l’acqua che scorre sotto il suo ponte preferito, illuminato alla sera da luci calde e giallastre sul fiume grigio e scuro come l’inchiostro, per poi ritornarsene sui suoi passi rinfrancato da quelle immagini così rassicuranti e complete. A Mario piace la solitudine, sostanzialmente, anche se in certi casi si ferma a parlare con qualcuno che passeggia proprio come lui, senza avere mai una meta precisa.
            Non tutto è perduto, dice Mario allora con un sorriso: possiamo ancora impegnarci e tenere in pugno le cose; l’altro non gli risponde, non c’è alcuna necessità di parole a fronte di quei pensieri che vagano dentro la testa. E’ sufficiente lasciarsi un saluto, un gesto qualsiasi che definisca una stessa veduta, forse addirittura una momentanea complicità, quasi una stessa maniera di immaginare come saranno le cose domani, sempre che avvenga un cambiamento apprezzabile.
            Rientrare è sempre un dolore: qualcosa si è concluso ormai anche stasera, pensa Mario; però ho molte speranze per la giornata di domani, riflette; qualcosa dovrà pur accadere, e certamente saprò tener testa a quanto si presenterà come nuovo, insieme a tutto ciò che avrà il noto sapore di vecchio. Non ci sarà nemmeno troppo da preoccuparsi, dice tra sé: tutto quanto potrà mai avvenire, sarà sempre qualcosa che avevo già immaginato, qualcosa di cui ero quasi in attesa, proprio come se ogni possibile variazione possa soltanto restare all’interno di un quadro finito, completo di ogni particolare, appeso al muro, incorniciato da tutte le nostre insignificanti parole.


            Bruno Magnolfi    

venerdì 14 novembre 2014

Luci della città.

           

Ci sono dei giorni in cui camminando per strada ho notato con la coda degli occhi alcune piccole luci intorno al mio campo visivo, e di queste presenze in me si è spesso manifestato tutto lo stupore che potevo provare, accompagnato dalla mia assoluta attenzione. Poi però certe volte quelle luci si spengono, anche se in genere soltanto poco per volta, e peraltro non lasciano mai dietro di loro delle tracce visibili. Quando ci sono, se fingo di non guardarle, quelle insistono a brillare ed a muoversi nervosamente da qualche parte, magari sul margine delle mie percezioni, spesso in una allocazione della quale, anche riflettendoci, non saprei definire bene neppure direzione e distanza. Ma in questi casi allora tolgo gli occhiali con stizza, e spesso in questa maniera qualsiasi loro riflesso si annulla, ed è cosi che la serata appare improvvisamente più calma, serena, quasi noiosa per certi versi, senza più alcuna distrazione rispetto alla mia voglia di camminare e di curiosare lungo le strade di questo quartiere.
Ho chiesto ad un amico, una sera per caso a passeggio con me, che cosa riuscisse a vedere in mezzo a degli alberi scuri di un giardinetto che avevamo di fronte, vicino ad un palazzo in fondo alla strada, e lui mi ha garantito che non notava niente di strano, e che i miei nervi probabilmente erano forse sovraeccitati, o magari che avevo bevuto un po’ troppo. Probabilmente aveva pure ragione, penso adesso, anche se non mi è piaciuta la risata con cui ha accompagnato le sue parole, perché per me è come se quelle luci fossero vive, tanto che se ogni volta non mostro con determinatezza di averle notate, quelle sembra quasi che riescano a correre subito da qualche altra parte, nascondendosi rapidamente alla mia vista, magari comportandosi così soltanto per farmi un vero e proprio dispetto.
Il mio amico, in seguito, mostrando maggiore serietà, mi ha detto di non preoccuparmi, e che tutte le cose col tempo in qualche maniera si aggiusteranno, ma al contrario di lui a me pare che i miei problemi ultimamente tendano quasi costantemente ad aumentare. Ogni sera affronto la mia solita girata digestiva dopo l'ora di cena; l’itinerario che compio è addirittura quasi sempre il medesimo: ed ecco che alcune di quelle luci si fanno avanti e paiono di nuovo inseguirmi, anzi, addirittura precedermi. Se poi le guardo fisse quelle spariscono, si vanno a nascondere chissà dove. Ma se cerco di preoccuparmi di altro, ecco che quelle mi inseguono, si infiltrano nelle lenti dei miei occhiali, reclamano in qualche modo tutta la mia possibile attenzione.
Allora inizio a correre, vorrei sfuggire alle loro lusinghe, così svolto in un angolo, entro dentro la nicchia di un oscuro portone, mi volto a cercarle e loro eccole lì, quasi si burlassero di me. Le ignoro, per qualche altra decina di metri, ma poi sbuffo, sono stufo, vado verso di loro, cerco di prenderle, mi tuffo a capofitto in mezzo ad alcuni cespugli lungo il viale. Mi rialzo dopo che sono caduto, ce l'avevo quasi fatta stavolta, penso con convinzione, ed è sicuramente questo il sistema, devo dapprima ignorarle e poi buttarmi su di loro quando meno se lo aspettano, per poi catturarle, riuscire a prenderne almeno una o due direttamente con le mie mani nude, oppure con l’aiuto di un sacco, magari di una busta di plastica.
La mia fronte è sudata, devo calmarmi, penso; forse è meglio per il momento rimandare tutto quanto a domani: verrò da queste parti già ben attrezzato, rifletto; pronto per questo inseguimento che ormai devo per forza affrontare, e non mi farò gabbare stavolta, starò attento ad ogni movimento da fare, e le prenderò, ne sono sicuro, riuscirò a catturarle ed a metterle in gabbia, proprio per mostrare che avevo ragione stavolta, a tutti quanti, anche al mio amico; per convincerlo proprio che insomma, non c’era proprio niente da prendere in giro.


            Bruno Magnolfi

martedì 11 novembre 2014

Niente da fare. 2.

            

La donna percorre tutto il corridoio lasciando leggermente scandire dai tacchi delle scarpe i suoi passi, e guardandosi attorno; l'uomo, con atteggiamento più remissivo, si limita a seguirla. Alla fine c'è una stanza con un cartello che definisce la sala d'attesa, dove al momento non si vede ancora nessuno. I due si siedono, in silenzio. Lei dice subito che secondo il suo parere dovrebbero bussare magari senza insistenza a quell'unica porta chiusa che si apre nella parete di fronte alla loro fila di sedie, e così far presente che sono già arrivati per l’appuntamento, ma l'uomo le dice un po’ sottovoce che probabilmente è meglio restare seduti ed attendere, semplicemente aspettando che vengano chiamati. La donna non replica, anche se non è del tutto convinta, così poco dopo si alza e si avvicina alla porta nel tentativo almeno di decifrare i lievi rumori che si odono giungere a tratti dall'interno, ma poi, raccolta una vecchia rivista da un tavolinetto, torna a sedersi. Vedrai, non ci sarà da aspettare ancora per molto, fa lui. Lei lo guarda per un attimo senza replicare, forse pensa qualcosa di diverso, ma non si esprime.
Poi si sentono dei passi lungo il corridoio, lo stesso che hanno percorso loro due poco prima, quindi dei semplici rumori come di una serratura e di una porta che viene aperta. L'uomo si alza, si affaccia sul corridoio, poi rientra. Non c’è nessuno, dice, quasi con una certa soddisfazione. Poi dice: sei sicura di avere portato con te tutte le carte? Certo, risponde la donna, ho nella borsa tutto quanto quello che serve.
Arriva una signora, chiede con un lieve sorriso se hanno già cominciato a chiamare, la donna le dice di no guardandola fissa e scuotendo leggermente la testa. Meno male, dice la signora mentre si siede di fianco alla coppia, perché sono un poco in ritardo. La donna allora, tirando fuori i suoi incartamenti, le chiede per quale ora le era stato fissato l'appuntamento, l'altra dice le tre e mezza, e l'orologio a parete, presumibilmente preciso, segna quasi le quattro.
Stando così le cose, dice l'uomo, ne avremo per un bel pezzo: noi abbiamo appuntamento per le quattro ed un quarto, ma se non hanno ancora iniziato a chiamare, la faccenda si allunga. Forse bisognerebbe bussare, dice insistendo la donna, ma la signora arrivata da poco la frena, sostenendo che ha già sentito dire che là dentro a volte allentano i tempi con qualche cliente. Ci predisponiamo subito male se arriviamo a mettere fretta alle loro cose, dice con un altro sorriso. Restano così tutti in silenzio per qualche minuto. Ed anche dietro alla porta sembra non ci siano più rumori, mentre l’attesa continua a protrarsi.
Arriva un uomo dal solito corridoio, chiede se sia lì che riceve un certo dottor Bertelli, ma i tre scuotono la testa. Ad essere sinceri, dice la donna, abbiamo un appuntamento, ma non sappiamo esattamente con chi. L’uomo torna sui suoi passi, si sente che sta telefonando a qualcuno lungo il corridoio, usa poche parole, poi alza subito la voce, dice qualcosa sgarbatamente, infine chiude la chiamata e poi se ne va.
I tre rimasti in sala d’attesa adesso si guardano, la donna si alza, va verso la porta, bussa leggermente come per non disturbare, ma da lì non giunge alcuna risposta. Insiste, e alla fine arriva una persona giovane, con l’aria scocciata, dice che oggi non è giornata di ricevimenti, hanno sbagliato la data per l’appuntamento, devono ritelefonare per fissarne una nuova, poi torna a richiudere la porta. I tre non si dicono niente, si muovono sconsolati lungo il corridoio quasi per andarsene, ma ecco che torna l’uomo di prima, passa loro accanto e va ad infilarsi nella sala d’attesa e poi dentro la porta, senza neppure bussare. Dopo un attimo esce: è chiuso, dice loro senza neppure guardarli; per oggi non c’è proprio niente da fare.


Bruno Magnolfi

venerdì 7 novembre 2014

Colpevole.

           

Spesso mi trovo arreso, quasi messo in condizioni di non nuocere. Mi guardo ancora attorno almeno un’altra volta prima di rientrare in casa ed andarmene definitivamente a letto, proprio perché ancora spero di veder giungere qualcuno che pur all'ultimo momento riesca ad arrivare finalmente per gridare che sono salvo, che la mia grazia è firmata, e che infine è stata riconosciuta ufficialmente e da tutti la mia innocenza. Sorrido delle mie illusioni, mi spoglio, mi corico, stringo le braccia nel tentativo di sentirmi meno solo, e attendo il sonno di ogni notte come fosse il solo stato fisico capace di farmi scordare almeno per qualche ora la realtà.
Giro nervosamente per casa, durante il giorno; poi qualcuno suona il campanello. Apro la porta: davanti a me c’è una persona che non ho mai visto, balbetta qualche cosa in merito agli sviluppi energetici, all’evoluzione tecnologica, al tenersi correntemente aggiornati come un dovere di tutti, e non solo per se stessi, dice, ma in funzione semplicemente della collettività. Annuisco, lo faccio entrare. Lui è subito perplesso, forse gli capita di rado che qualcuno gli dica di accomodarsi, che gli offra una sedia, un bicchiere d’acqua, l’ascolto e l’attenzione che probabilmente merita.
Lui parla, io resto in silenzio mentre lo guardo. Infine mi alzo dalla sedia, cerco di spiegargli sinteticamente come si stia ritrovando davanti a sé una vera e propria preda del sistema che tende a neutralizzare qualsiasi pensiero divergente. Lui medita, sembra comprendere qualcosa, fino a mostrare di sentirsi sempre meno a proprio agio. Mi interrompe a un certo punto, dice qualcosa attorno a degli obblighi che sostiene di avere con una compagnia, ma io gli dico a mia volta che non ha alcuna importanza tutto questo, e che lui può divenire fin da subito il formidabile anfitrione della mia causa, quella che assurdamente mi vede colpevole senza quasi alcuna possibilità di appello.
L’uomo va verso la porta, io non lo trattengo, in fondo abbiamo cercato di spiegarci vicendevolmente le nostre ragioni, penso, e che poi ognuno di noi non sia riuscito a convincere l’altro, in fondo è soltanto un dettaglio superficiale, una possibilità anche largamente già prevista. Se ne va con modi sgarbati, ma mentre è ormai lungo le scale dice a voce alta senza guardarmi che forse ciò che mi sta capitando me lo sono addirittura meritato, e questo evidentemente appare subito l’elemento più importante tra tutti gli altri.
Mi metto seduto, una volta solo, e cerco di riflettere a quanto è stato detto. Forse ha ragione, penso, forse davvero ho colpa di qualcosa in tutta la faccenda, anche se non mi sono mai accorto di niente. Perché mai proprio io, penso mentre sento già montarmi la febbre. Forse dovrei ribellarmi a questo stato di cose, che so, magari fuggire, allontanarmi per sempre da questa situazione.
Tornano a suonare il campanello: sono le guardie, immagino, adesso non c'è più altro tempo, comprendo al volo, ed il giudizio finale ormai è stato dato, le mie ragioni sono state del tutto calpestate, ed è sicuro che a rimetterci per tutti sarò soltanto io. Invece è la mia vicina, una signora che abita al mio stesso pianerottolo, dice che ha sentito urlare per le scale, ed adesso vuole soltanto sapere se ci sono per caso dei problemi. Tutto a posto, la rassicuro subito, la realtà è composta solamente di tante piccole sciocchezze alle quali spesso diamo semplicemente uno smisurato credito, le dico. Adesso forse tutto appare contro di me, le spiego ancora; ma probabilmente è appena sufficiente lasciar trascorrere un tempo adeguato, e tutto all' improvviso si sistemerà, proprio come se qualunque mio delitto vero o presunto non si fosse mai verificato. Perché in fondo, le dico con serietà e guardandola negli occhi: io non ho fatto proprio niente.


Bruno Magnolfi

mercoledì 5 novembre 2014

Piatto freddo.

            

Terminato il suo caffè, lei appoggia lentamente la tazza sopra al piattino che ha proseguito a tenere nell'altra mano, prendendo solo una piccola pausa prima di sollevarsi dalla poltrona di stoffa su cui è rimasta seduta per tutto il tempo, e sistemare infine tutto quanto nel piccolo vassoio sul tavolino da fumo alle sue spalle, costringendosi così a lanciare un breve sguardo verso di lui. Forse dovremo uscire stasera, dice l’uomo senza grande convinzione ed evitando anche di guardarla direttamente. Lei torna a voltarsi verso la vetrata sotto la quale, sei piani più in basso, l’incrocio con uno dei più trafficati viali cittadini prosegue a riversare sull’asfalto grandi cortei di automobili generati a getto continuo dai tempi organizzativi dei semafori. Potremo andarcene ad un cinema, continua lui come parlando tra sé. Poi si muove, con indifferenza cambia di nuovo canale al grande schermo televisivo, con il volume azzerato, posizionato in un angolo, apprezzando, come d’altronde è suo uso, il silenzio quasi irreale di quella sala insonorizzata da robusti doppi vetri. Va bene, fa lei senza variare espressione, sai già quale film andare a vedere? No, purtroppo, risponde l’uomo; però potresti scegliere tu qualcosa di buono, dice senza alterare la leggera ironia.
Non so neppure che vestito indossare, fa lei riferendosi alla serata, ma senza parlare troppo sul serio, e peraltro come riflettendo tra sé. Potremo adesso mangiare velocemente qualcosa di freddo qui in casa, dice lui con un improvviso guizzo di sfumato entusiasmo; e una volta usciti dal cinema completare la cena in una tavola calda. Lei allora si alza definitivamente, solleva il vassoio e con calma lo porta in cucina. Quando torna, lui si è seduto ed ha spento definitivamente lo schermo. Potremo andarcene al Principe, dice; così, facendo giusto due passi, evitiamo anche di muovere la macchina dal garage. Va bene, risponde lei; non so che pellicole proiettano stasera, ma in ogni caso qualcosa andrà bene sicuramente.
Lei poi si accende una sigaretta e torna lentamente a sedersi sulla stessa poltrona di prima, lui intanto si alza e va in cucina, e quando torna sostiene che può velocemente preparare dei sandwich al formaggio. No, non mi va, fa lei; preferisco magari dell’affettato, e in ogni caso è ancora presto, mi pare. D’accordo, fa lui. Poi controlla sopra al portatile il titolo dei films in programmazione al multisala, e gli orari delle proiezioni serali. Lei allora si tira su, ascolta l’elenco dei titoli commentando semplicemente che non le sembrano molto incoraggianti, poi torna ad osservare la sera incalzante fuori dalla vetrata.
Considerato tutto potremo cercare un film televisivo, dice lei senza neppure crederci troppo; e così restare in casa senza complicarci l’esistenza. Lui difatti non l’ascolta neppure, torna dopo un attimo ad accendere lo schermo televisivo, e guarda scorrere i titoli di un telegiornale. Va bene, ho capito, le fa: tiro fuori la macchina dal garage e faccio un giro da solo. Trovo una rosticceria e torno con qualcosa di pronto, ti va?
Lei lo guarda, si accende una nuova sigaretta, poi dice: ma non dovevamo andarcene al cinema? Lui allora alza leggermente il volume dello schermo televisivo, giusto per ascoltare con attenzione un servizio giornalistico, poi torna subito però ad azzerare il volume. Lei esce dalla stanza, forse va in bagno, o a scegliere un vestito per uscire, oppure a guardare cosa c’è nel frigorifero. Quando torna sta semplicemente ridendo: ha un grosso pezzo di formaggio in una mano, e lo tiene vicino alla bocca, come volesse azzannarlo. Anche lui sorride, così si muove leggermente restando in piedi, ma infine torna a guardare lo schermo, in silenzio.


Bruno Magnolfi

domenica 2 novembre 2014

Niente da fare.



Lo so che la mia immobilità è senz'altro un problema, un nodo sicuramente da sciogliere, prima o poi. Ogni pomeriggio mi siedo sulla panchina a bordo strada e resto lì, almeno fino a quando posso. Qualche vicino di casa che conosco mi saluta, altri invece non mi guardano neppure. Gli estranei poi non fanno caso a niente, transitano da quella strada come da qualsiasi altra parte, magari mi guardano, quasi senz'altro pensano di me che io sia uno svitato, uno senza cervello, ma la loro riflessione in sostanza dura appena un attimo, praticamente lo stesso tempo esatto della loro occhiata, quindi riprendono come prima facevano ad ignorarmi. Certe volte sorrido mentre passano, oppure cerco di parlare con un personaggio che immagino stia proprio seduto anche lui sulla mia panchina, accanto a me. Gesticolo, gli altri mi guardano, forse hanno pena del mio stato, però mai nessuno di loro mi chiede niente.
Un giorno arriva questa signora, fine, ben vestita, seria direi; dice buongiorno sottovoce e poi si siede. Non è assolutamente una persona con la quale potrei avere qualcosa a che fare, penso, perciò evito di guardarla e anche di risponderle. Lei sicuramente vuole parlarmi ancora dopo il suo saluto, sfoglia una rivista con indifferenza, senz’altro non mi perde d'occhio un attimo anche se cerca di non essere invasiva. Probabilmente fa parte di una di queste associazioni tutte protese verso la gente con qualche problema, penso, e già soltanto questo mi fa praticamente inorridire. Viene spesso da queste parti, mi chiede improvvisamente in modo gentile e pacato, senza guardarmi. Le rispondo appena con un semplice grugnito. Ho capito tutto di te, vorrei subito dirle. Lasciami perdere, non sono il tipo adatto ad entrare tra le tue indagini cittadine, tra le tue stupide statistiche. Lei insiste, dice che conosce un posto lì vicino dove si incontrano tra loro delle persone come me che trovano un grande giovamento dalla frequentazione di quel luogo.
Lascio in aria una buona pausa, infine mi volto verso di lei e la guardo dritto. Non ho grossi problemi, vorrei dirle. So tranquillamente starmene da solo, in genere mi piacciono le cose semplici che non prevedono inserimenti di estranei o anche socializzazioni da dover praticare quasi per forza. Ma invece le dico: va bene, e poi basta; riprendo la mia posizione di prima e aspetto. Di seguito invece mi giro. Lei tira fuori un taccuino usando modi da gran professionista, chiede il mio nome, vuole inserirmi nell’elenco di tutti gli altri, mi dice; vuole semplicemente aiutarmi, venirmi incontro, facilitarmi le cose, rendere gradevole e semplice tutto quanto.
Mi alzo; va bene, dico ancora all’aria, come confermando ciò che ho detto prima. La signora mi guarda, perplessa: io me ne vado senza dire altro. Allora si alza anche lei, mi segue per qualche passo, chiede, per ultimo tentativo, se vengo spesso a questa panchina. Certo, le dico girandomi tutto verso di lei. Questa è la mia panchina, faccio; lei è stata mia ospite fino adesso, non se ne è ancora resa conto? Mi scusi, dice lei, non lo immaginavo. Dicono tutti così, le spiego ancora mentre riprendo la mia camminata, vengono fino qui a scocciarmi senza sapere che questo è il mio posto, e che non sempre qui nei dintorni sono dei veri e propri benvenuti. Va bene, fa lei, però adesso potrebbe venire assieme a me, così magari l'accompagno fino al centro del quale le parlavo prima. Va bene, fo ancora io senza battere ciglio. Con la mano lei mi stringe il braccio, così mi fermo, e senza dire niente vorrebbe forse indicare la direzione verso cui avviarsi. La guardo: vada via, le dico con un sorriso un po’ sarcastico. Non ha più niente da fare con me.

Bruno Magnolfi