sabato 27 febbraio 2010

Nel fischio del treno.



Un giorno sono andato alla stazione dei treni, alla fine di una giornata. C’era calma, anche se era piena di gente. Ho girato avanti e indietro guardandomi attorno, senza far nulla. Mi pareva non mi venisse niente di buono a rimanermene lì, sfaccendato; ma nonostante questo pensiero restavo là dentro a camminare avanti e indietro tra le sale d’attesa e le biglietterie, come aspettando qualcosa, anche se non sapevo proprio neanche io cosa fosse. Osservavo i grandi orologi ogni tanto, poi continuavo a spostarmi su e giù, proprio come facevano tutti, godendomi le parole e le frasi smozzicate che i viaggiatori scambiavano continuamente tra loro, chi chiedendo qualche informazione, chi lamentandosi di qualche ritardo o di un disservizio registrato in mezzo alla bolgia dei convogli che arrivavano e partivano, in continuazione.
Avevano sempre un motivo per parlare o starsene zitte, quelle persone, e avevano bagagli, a volte valigie ingombranti, osservavano il giornale o i tabelloni che si aggiornavano, e tiravano avanti, come perseguendo attività qualsiasi, di ogni giorno. Era divertente l’espressione di qualcuno, altri parevano seri, ma c’era pure chi si crucciava, e tutti si stringevano dentro ai cappotti, come se l’aria fredda che arrivava da tutte le parti li facesse sentire più soli.
Poi la serata fece il suo corso, le persone poco alla volta si diradarono, e tutto assunse lentamente un aspetto più familiare. Quando fu l’ora adatta mi spinsi verso un lato, costeggiando la massicciata, appena fuori dalla stazione. C’era altra gente con me, alcuni correvano in quel buio tagliato da freddi lampioni, lungo la zona dei binari morti, coi respingenti di fine corsa bene in vista. Si individuava alla svelta il convoglio più adatto, si apriva con circospezione lo sportello di un vagone, e ognuno si sceglieva uno scompartimento per sé. Non c’era alcun bisogno di parlare tra noi, a volte bastava solo un gesto, l’indicazione della mano, il resto veniva da solo. Ognuno sapeva perfettamente che in quella cuccia decisa per quella nottata ci portava dentro la propria miseria, la propria storia, i propri affanni, e c’era un rispetto reciproco tra noi.
Forse non c’era neppure da vergognarsi, ma in fondo nessuno aveva voglia di farsi vedere dagli altri, di mostrare le condizioni a cui era arrivato. Là dentro ti sentivi in un riparo eccellente, tanto da affezionarti in un attimo a quei sedili, ai divani, al giornale lasciato da un viaggiatore, proprio come se fosse qualcosa di tuo. Ti sdraiavi nel buio, dentro al cappotto, cercando il più presto possibile il sonno, quel sonno che avrebbe rilanciato per il giorno seguente tutti i progetti di cui avevi piena la testa, che portavi con te, lì accanto a te, e questo era tutto. Restava la paura, il disagio, il buio e il freddo persistenti.
I treni fischiavano e manovravano poco lontano, e l’immobilità di quel tuo riparo pareva irreale. Il sonno vero era pochissimo, contornato dai sobbalzi dei micro risvegli dati dai tanti rumori, e dalle immagini surreali di freddo e di ferro scostante che si mescolavano a dei sogni più dolci di cui forse tutti avevamo bisogno, ma che riuscivano a durare solo lo spazio di un niente.
 Quando poi al mattino presto uscii dal vagone, e anche da quella stazione ferroviaria, mi sentii senz’altro migliore, e forse non mi interessava di altro.


Bruno Magnolfi

venerdì 26 febbraio 2010

Autoritratto.



“Davvero, non ha nessuna importanza questo disordine…”, disse lei. Era la prima volta che metteva piede in quella casa, ma l’atmosfera familiare e la luce immobile e calda di quelle stanze la mettevano perfettamente a suo agio. Lui le fece una lieve carezza, poi disse: “Forse è vero, però parla del mio tempo, spesso perso dietro ad altre cose, a come riesco a vivere male, da solo, senza organizzazione…”. Si sedettero al tavolo e lui prese una bottiglia di vino rosso e due calici. Lei si era tolta il soprabito, lo aveva appoggiato sul divanetto, dando un’occhiata veloce agli oggetti. Poi lui continuò: “E’ un momento fantastico, fatto di equilibrio tra il nostro piacerci ed il confronto con i nostri passati, carichi di esperienze, certe volte purtroppo andate male…”. “Si…”, lo interruppe lei, “E’ esattamente quello che stavo pensando, in fondo non ci conosciamo affatto, possiamo anche raccontarci delle storie giocando con la sincerità…”.
Lui si alzò dal tavolo con il bicchiere in mano, si spostò fino ad uno scaffale e prese un libro: “Vorrei tanto avere un manoscritto così, da darti, da farti leggere, con dentro tutta la mia storia…”, disse, “Ma non c’è, non esiste; ci sono soltanto alcune cose che forse mi assomigliano, altre che sono proprio diverse, altre ancora che probabilmente mi piacciono, ma non avrei mai pensato e non avrei mai potuto scrivere…”. “Dobbiamo fidarci delle nostre parole…”, disse lei; “Degli sguardi e dei gesti, forse della fortuna di esserci conosciuti solo adesso, e poter ripercorrere la nostra vita raccontandoci, ora che i nostri figli sono grandi, e niente ci intralcia nel poter essere noi stessi”. “Verissimo; se guardiamo le cose da questo punto di vista, spiegarci diventa fare i conti della nostra vita anche con noi stessi, con i pianti e le risate che fino adesso ci ha dato…”.
“Il bello di tutto questo è che non c’è da barare, non avrebbe alcun senso, ma forse anche inventarsi qualcosa può essere messo nel conto, perché in fondo la lettura del nostro passato è un’interpretazione, non la verità sacrosanta…”. “Sono contento di averti incontrata per caso. Io credo al caso, alle combinazioni fortuite, credo che esista una volontà superiore a qualsiasi nostra logica, che è dentro di noi ma noi non controlliamo, e si esprime in qualche modo senza che possiamo capire quando e perché, e ci indirizza senza che noi neppure si sappia o se ne sospetti qualcosa…”. Lei si era alzata dal tavolo, si era avvicinata a lui osservando quello scaffale, aveva preso il primo libro su cui le erano caduti gli occhi, e ne aveva guardato la copertina: “Chissà su quante cose abbiamo opinioni diverse…”, disse, come tra sé. “E quanto questo fatto, invece che un ostacolo, possa essere per noi due una ricchezza…”.   


Bruno Magnolfi

giovedì 25 febbraio 2010

Soltanto un paio di scarpe.

            

            Stridore di freni di un treno lontano. E’ mattina, Franco si muove dall’angolo dove ha passato la notte. Ha freddo adesso, ma il sole che sorge tra un po’ sarà caldo, lui siederà sopra una panchina e starà subito meglio. Dentro il suo zaino non ce n’è più niente, neanche una briciola di quel pezzo di pane che ha sbocconcellato per tutta la sera. Non importa, a mezzogiorno andrà a mangiare alla mensa. Si sente libero prima ancora di andare fin lì.
Poi, mentre paziente sta in fila, sente di essere uno come gli altri. A volte gli viene da ridere per quella vita stupida, trascinata da un angolo all’altro, tutta al presente, senza alcuna prospettiva. La gente fa la carità per conservarti così come sei, pensa Franco, e togliersi un piccolo peso dalla coscienza. A volte ripensa a ciò che è successo. E’ stato veloce il percorso, è bastato che a sua moglie fosse intestata la casa, dopo la causa del divorzio, che lui perdesse il lavoro, subito dopo, e il gioco era fatto.
Ho perso, a volte dice tra sé, come per ricordarsi della sua condizione, del suo stato. Ma la giornata davanti è ancora lunga, intera, possono accadere tantissime cose. Lui non ha più cercato nessuno, parenti lontani, amici, ex vicini di casa. Che importa, si sente bene mentre ciondola con il suo bagaglio di niente, non ha bisogno degli altri. Poi si siede su un muro di pietra: si è accorto che alla scarpa sinistra si è aperta la suola. E’ un guaio, se diventa difficile camminare tutto è estremamente più complicato. Per lui che è sempre stato un perfezionista, è difficile riuscire ad accettare quella scarpa sfondata.
Mentre è lì che armeggia cercando di sistemare alla meglio le cose con un pezzo di spago che aveva nello zaino, un’auto passa vicino al muro di pietra rallentando, si ferma, scende una donna. Si avvicina, lo guarda, è sua moglie. Gli chiede cosa sia successo, qualcuno le aveva detto qualcosa nei giorni passati, lei lo stava cercando. E’ incredula, le pare impossibile che si sia ridotto così, gli chiede di andare in un bar, mangiare qualcosa, giusto per togliersi il freddo di dosso, ma Franco guarda per terra, non ha bisogno di niente, gli resta quel minimo di orgoglio che gli fa sollevare la testa e restare in silenzio, indifferente.
Le mostra la sua scarpa, l’unico vero problema che adesso lo affligge, lei allora gli chiede di salire sulla sua macchina, per favore, di farsi aiutare, le viene da piangere. Lui pensa con ironia alle favole di quando era bambino, alla piccola fiammiferaia, a cose del genere, e forse avrebbe voglia di ridere, ma resta fermo, anche se non sa cosa fare. Poi sua moglie lo convince a salire sopra l’auto, gli dice che non avrebbe mai immaginato una cosa del genere, che adesso cambierà tutto per lui, starà a casa sua, insieme a lei, fino a che non avrà ritrovato un altro lavoro, che tutto si sarà sistemato.
 “Anch’io sono da sola, Franco”, gli dice; poi si ferma davanti a un caffè per comprargli qualcosa. Lui aspetta solo che lei sia entrata dentro al locale, apre con calma lo sportello, si guarda per un attimo attorno, poi se ne va. Ho solo bisogno di un altro paio di scarpe, pensa con calma, e di nient’altro.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 24 febbraio 2010

Niente sarà più come prima.



Per anni ho continuato a scrivere poesie, e ancora ne ho voglia. Ma io non voglio dire ciò che dicono le parole. Cioè, non voglio dire solo quello: si tratta di lasciare che qualcos’altro scorra in mezzo alle frasi. La costruzione del pensiero spesso avviene in maniera autonoma: certo, è necessario uno strato minimo di concentrazione su qualcosa, come un canovaccio da seguire, ma il resto a volte può prendere vita autonoma e snodarsi lentamente dipanando un proprio senso in maniera indipendente da tutto, indifferente al pensiero iniziale o ai progetti elaborati. Il senso che ne scaturisce può sorprendere, ma va a collegarsi in modo stretto con ciò che abbiamo dentro, quello che non riusciamo a spiegare neanche a noi stessi. Si possono utilizzare altre buone parole per spiegare ciò che ha origine in questo modo: intuizione, creatività, fantasia, ma non è questo il senso. C’è qualcosa che non sappiamo e che certe volte fuoriesce da noi, che lo vogliamo o meno.
Il controllo sul mondo è solo un bisogno, la verità è che i significati più importanti ci sfuggono. Come quando si pensa al proprio corpo e ci pare impossibile che possa resistere a tutti i maltrattamenti a cui lo sottoponiamo. E soprattutto, lui vive, cresce, si muove, indipendentemente dalla nostra volontà, quasi facendoci rabbia, certe volte. Poi, l’improvvisa sensazione che si stia aprendo uno squarcio all’interno del nostro organismo si fa avanti: come una parte del corpo che all’improvviso smetta di funzionare e si rompa, e un’emorragia di sangue e tessuti molli invada ogni interstizio dentro di noi, e che tutto all’improvviso si offuschi perché privato del complesso sistema che coordina tutto l’insieme; ecco, la paura che tutto ciò avvenga, adesso, in questo preciso momento, ci paralizza. Ci paralizza in piedi, fermi in una posizione non di riposo, l’unica in cui abbiamo quasi tutti i muscoli tesi, e siamo certi di non provare dolore, siamo convinti di poter ancora resistere; l’immobilità  e la solitudine sono le uniche cose che ci permettono di credere di poter ancora essere come eravamo, come siamo sempre stati, e di non cedere al nostro umano sconvolgimento, lasciarci convinti che ancora siamo, viviamo, possiamo permetterci di stare ancora bene.
Nessuno ci ha visti, nessuno è a conoscenza di quello che stiamo provando, quindi ciò che accade non è proprio vero, è solo una nostra costruzione mentale: un piccolo sforzo e tutto è passato, possiamo aspirare ancora a muoverci, pensare, scrivere poesie, anche se forse abbiamo perso un po’ di quel senso di invulnerabilità che ci sosteneva e ci lasciava strafottenti, egoisti, pieni di noi. I minuti passano, la strana rivoluzione dentro di noi è ancora lì, ci preoccupa sempre di più. Allora guardiamo attorno, cerchiamo negli altri l’aiuto necessario, quel sostegno di cui, fino soltanto a un momento prima, eravamo sicuri di poter fare a meno. Adesso ci serve, cerchiamo qualcuno, attiriamo l’attenzione con una smorfia, un’espressione di dolore, uno sguardo pietoso, un grido.
Ci soccorrono; due, cinque, dieci persone si fermano, osservano in noi ciò che non vorrebbero mai accadesse anche a loro, ci parlano addosso, ci fanno domande, si informano su noi, chi siamo, cosa siamo, e infine riassumono in una sola espressione: siamo un corpo, un corpo qualsiasi, malato di chissà cosa, possiamo essere lasciati in mano ai professionisti, persone che si occupano solo di quello, non importa se la nostra era solo sofferenza di vita, dolore esistenziale, malattia da incomprensione. C’è una cura per tutto, non dobbiamo preoccuparci. Così possiamo rassegnarci ad essere, e basta.
Penso questo e mi giro nel letto, nel buio della mia stanza fredda e silenziosa di una notte qualsiasi. Adesso ho capito, niente sarà più uguale per me, da domani.       


            Bruno Magnolfi

martedì 23 febbraio 2010

Lei sola.

           

Le due donne avevano litigato usando un pretesto, giusto per la voglia che provavano, chissà da quanto tempo, di dirsi qualcosa fuori dai denti. Poi una delle due si era seduta sopra un gradino, in un angolo di quella grande terrazza condominiale attraversata da una parte all’altra da fili di ferro zincato per stendere i panni ad asciugare, e singhiozzando aveva nascosto il viso dentro le mani. Il vento era tiepido, il sole sembrava concentrare là sopra la maggior parte di sé, su quel pavimento polveroso di graniglia di marmo, su quei muretti di lato, bianchi  e un po’ scalcinati. Le lenzuola si muovevano in modo sinuoso, ogni tanto un odore di sugo arrivava da qualche casa là attorno.
L’altra, conservando sulle braccia la cesta quasi vuota dei panni, si era mossa lentamente verso di lei, aveva detto sottovoce che le dispiaceva, che non era stata sua intenzione offenderla, e che in fondo non era successo niente, quelle scaramucce erano solo stupidaggini che nascondevano un po’ di nervosismo, nient’altro. La donna seduta non si era mossa. Si conoscevano da anni loro due, ma non erano amiche, solo vicine di casa. “C’è qualcosa di più, mi sembra di capire, che non le nostre piccole guerre per stendere i panni…”, disse l’altra, spinta dalla curiosità di sapere da cosa fosse causata quella reazione.
Arrivarono due bambini che giocavano a rincorrersi, si nascosero l’uno dall’altro in mezzo alle lenzuola già stese, e continuarono a ridere e a scorrazzare fino a prendersi un urlo di riprovazione che li fece fuggire di nuovo, giù per le scale. La donna si era alzata dal gradino, si era sistemata i capelli e la gonna, si era guardata attorno, ma tenendo gli occhi bassi, indifferente alla domanda che le era stata rivolta. Tutto attorno le pareva uno scherzo, un gioco assurdo della vita che adesso le mostrava cose impensabili, realtà alle quali non si sentiva legata, come se una materia a lei sconosciuta avesse plasmato le cose, le persone, i gesti e le parole di ognuno.
Disse fra sé: “Ho soltanto bisogno di tempo; devo ancora definire cosa sono, chi sono, cosa mi ha portato a questo punto negli ultimi anni, e fino a quando non lo faccio non posso avere opinioni su niente, non ho una base sulla quale decidere di cosa ho bisogno, o verso dove posso dirigermi…”. L’altra non comprese quelle parole, ma si dispiacque di aver alzato la voce poco prima: era interessante quella donna, sfuggiva ai criteri ordinari, adesso che poteva osservarla un po’ meglio le pareva proprio strana, diversa da tutte, forse persino con qualche problema mentale.
Avrebbe chiesto in giro qualche altra opinione su lei, e nel futuro si sarebbe ben guardata dal non apparirle sempre sorridente e soprattutto bendisposta, pronta a capire di più dei suoi modi, dei suoi atteggiamenti strani, risoluta nel riuscire a sapere per prima cosa dentro di lei non andava, forte della sua capacità di immaginare al volo le cose. In fondo, pensava adesso, non c’era niente di male: era stato giusto litigare con lei, la comprensione delle cose funzionava meglio così che non attraverso domande curiose.


            Bruno Magnolfi

lunedì 22 febbraio 2010

Apparentemente inosservato.

            

Uscire di casa senza avere un progetto preciso per la giornata è un po’ come accettare il divenire naturale delle cose senza usare niente per cambiarne il disegno. Camminare per strada per abitudine, senza un luogo preciso dove recarsi, è come vivere allo sbando coi recettori alzati, pronto a interagire con qualsiasi cosa possa presentarsi davanti, qualsiasi novità davanti ai percorsi tortuosi dei passi.
Ho passeggiato a lungo percorrendo strade e marciapiedi. Ho incontrato persone che mi sono apparse preoccupate solo di se stesse. Ho visto espressioni serie, camminando, a volte corrucciate, a volte più serene. Mi sono immerso in personaggi diversi da me, a volte instabili, incostanti, immedesimandomi in ruoli e atteggiamenti che neppure conoscevo. Poi da tutto questo ho cercato di trarre dei risultati positivi.
Terribile e rassicurante trovare attorno tutto normale, senza un’ombra di irregolarità, come previsioni meteorologiche ben studiate e definite, che non prevedono niente di difforme. Così ho visto un uomo, e ne ho seguito il cammino, non per curiosità dei suoi itinerari, ma per cercare nei suoi percorsi un’identificazione di cui provavo stringente necessità, come cercare di assumere gli stessi pensieri di chi sembrava perfettamente a suo agio nella vita sociale. Insieme siamo entrati dentro un negozio di tabacchi, poi ci siamo accesi una sigaretta appena tornati sul marciapiede. Abbiamo percorso una via lastricata, stretta in mezzo alle case, col fondo irregolare di vecchie pietre coperte di umidità.
Infine l’uomo è sparito dentro a un portone di legno, stringendo sotto braccio una borsa di pelle con dentro, presumibilmente, delle carte, dei documenti. Ho atteso quasi senza muovermi in quel tratto di strada, controllando ad ogni secondo il portone dal quale sono entrate ed uscite diverse persone, ma non il mio uomo. Intanto che continuavo ad aspettare riflettevo sul suo abbigliamento: cappotto grigio chiaro abbottonato, calzoni blu notte di taglio classico, camicia celeste con cravatta dal nodo sottile, di colore bordeaux. Una persona qualsiasi, un’età indefinita tra i quaranta e i sessant’anni, con un passo ordinario, dei movimenti assolutamente normali.
Ho atteso ancora a lungo, infine quando è uscito mi è parso di notare un’espressione soddisfatta sopra al suo viso: si è soffermato un attimo, mi ha visto, è venuto lentamente verso di me. Ha allargato un vago sorriso, non ha detto alcuna parola, mi ha solo dato con gesto veloce un cartoncino, e poi se n’è andato. Sono rimasto perplesso, quasi impietrito, ed ho guardato il biglietto senza più riuscire a seguire quell’uomo neanche con lo sguardo: Società Intermedia, diceva il biglietto. Investigazioni.


Bruno Magnolfi

domenica 21 febbraio 2010

Amici sul serio.

            

            I due amici ormai anziani si erano incontrati per caso lungo la strada, con un leggero imbarazzo da parte di entrambi. Era molto tempo che non si vedevano, e forse avevano talmente tante cose da dire da scoraggiarsi in un primo momento persino ad aprire la bocca. Con uno slancio impulsivo si salutarono con un’enfasi che risultava superiore alle loro effettive intenzioni, poi decisero, dopo i semplici convenevoli, di andare a sedersi in un caffè lì vicino per parlare con un po’ più di calma.
Avevano condiviso così tante cose fino a dieci o quindici anni prima, e per così tanto tempo che adesso anche gli atteggiamenti, i gesti, le espressioni di ognuno, apparivano noti, familiari, quasi scontati per l’altro. Si scambiavano frasi leggere, misurando le vecchie battute scherzose che avevano usato tanti anni prima, ridendo di gusto nel ricordo di qualcuno frequentato da ambedue in quell’epoca, e come accadeva in passato ritrovando in fretta la sintonia di sempre; poi finalmente avevano iniziato a parlare ognuno di sé e del proprio vissuto.
Si erano persi, così come succede quando gli impegni, la famiglia, il lavoro, assorbe ogni momento della propria giornata, e alla fine ambedue si erano sentiti distanti, senza possibilità di riannodare i rapporti. Succede, era quasi inutile dirselo, e anche adesso era un po’ così, c’era qualcosa che si era interposto tra loro, era evidente, anche se un vento diverso pareva aleggiare nell’aria. Avevano tempo, ambedue, quella mattina, potevano dire, spiegarsi, forse ricucire la loro amicizia. Eppure qualcosa pareva non volersi aggiustare, come se un filo di astio fosse rimasto tra loro da chissà quanto tempo.
Avevano avuto un progetto, in passato, ma l’uno si rammaricava di essersi perso per troppo tempo dietro a qualcosa di poco influente, l’altro di non aver dato il giusto peso a quella stessa opportunità, così da risultare ambedue poco soddisfatti di quello che era successo, ma per motivi completamente diversi. In fondo era da persone normali avere fallito in qualcosa o aver perso tempo dietro a dei sogni irrealizzabili, ambedue ne erano coscienti, ma era come se ancora adesso si addossassero l’un l’altro la responsabilità di quei risultati scadenti. Non era insoddisfazione la loro, ma consapevolezza che forse, con un minimo sforzo, avrebbero potuto ottenere di più, trovare un maggiore appagamento nelle cose in cui avevano creduto e in cui si erano impegnati per tanto tempo negli anni passati.
Ma non potevano lasciare che una cosa del genere restasse ancora nell’aria, così, dopo una pausa di riflessione, uno disse: “Bisogna ambedue fare uno sforzo e metterci sopra una pietra…”. L’altro sul momento si sentiva come ribollire, poi si guardò attorno con calma, osservò le sue mani, la tazzina del caffè sopra al tavolo, poi disse: “Dobbiamo trovare un nuovo progetto, qualcosa in cui impegnarci di nuovo…”. “Si”, riprese l’amico, “Sono disposto a seguirti, ma non è questa la cosa importante, lo sai…”. “Hai ragione”, concluse l’altro, “Dobbiamo prenderci meno sul serio; solo così saremo soddisfatti di noi…”.


            Bruno Magnolfi

sabato 20 febbraio 2010

Il meccanismo mentale.



Probabilmente è solo in un giorno qualsiasi, proprio quando la tua mente è assorbita da altre cose, e in nessun altro momento, che può scattare quel meccanismo al tuo interno che non pensavi neppure di avere. Ci pensi, di getto, mentre lo scopri, ed hai una certezza: è dentro di te il meccanismo, è scattato, devi solo assecondarne l’effetto. Può essere una cosa da nulla, un’inezia; però sai che devi portarla in avanti, darle un seguito chiaro come chiara è apparsa la novità. Come un paio nuovo di occhiali, con le lenti di un colore obsoleto, che ti permettono di vedere ogni cosa in una tonalità differente. 
Forse non è neppure il colore del mondo la cosa importante; è quella deformazione continua delle linee che ti trovi continuamente di fronte: le strade, i palazzi, i contorni della civiltà di ogni giorno. Niente è annullabile, tutto ti striscia sul corpo come un amalgama di elementi essenziali, fondamenti della realtà; nessuno, sembra, possa farne più a meno. Certo che un meccanismo psicologico, come peraltro qualsiasi meccanismo del mondo, come il mondo stesso, è imperfetto. Però è migliorabile, discutibile, adattabile, sostituibile. Basta avere il tempo per affrontarne i difetti, le parti più deludenti, gli ingranaggi meno scorrevoli. Basta avere il tempo, e con il tempo la calma. Ecco, la calma, questo l’ingrediente sempre più raro che ci permette di afferrare qualche pensiero e di provare a descriverlo. Perché certe volte è proprio la fretta che ci porta via i dubbi, le perplessità. Siamo così voraci nell’affrontare la realtà quotidiana da riuscire ad ingollare tutto senza neanche chiederci cos’era o che sapore poteva mai avere.
Nel dubbio invece si nasconde una maggiore umanità, e dal percorso che si apre dietro ad un punto interrogativo, ecco che si allargano i pensieri, e poi gli orizzonti. Il meccanismo che si è insinuato nella nostra mente è solo un modo nuovo di guardare alcune vecchie cose. Apparentemente non ci sono cambi di scena, però quel piccolo scarto che si crea comincia a lavorare dentro di noi, ci fa cambiare poco a poco senza che neppure ce ne accorgiamo. Una trasformazione dolce avviene senza dolore, anche se i risultati ci sfuggono, non abbiamo coscienza di dove potranno portarci: però non possiamo tiraci indietro adesso, dobbiamo dar corso alle cose, guardarle con positività. In fondo è sufficiente avere uno stimolo, un sostegno, un compito particolare, un segreto magari, per scoprirsi diversi dal solito, sorretti in ciò che facciamo da una carica di entusiasmo aggiuntiva, che ci permette di affrontare gli stessi compiti e le solite giornate in una maniera inedita e insospettata fino a poco prima.
Bene, ora ciò che abbiamo pensato potrebbe apparire solo una accozzaglia strampalata di parole, se non si concretizzasse in qualcosa di effettivo, che sta dietro a quelle, e le dirige, le sistema, ne fa qualcosa di organico ed utile. Ma a cosa mai possono servire delle parole, pur messe in fila, sistemate per bene? Saranno utili agli altri, così distratti, così presi da altri problemi, da altre divagazioni sul tema della quotidianità? O saranno utili a noi, che continuiamo come scemi a cercarne il senso recondito, ad affrontarne la musicalità, l’accostamento azzeccato, compiacendoci dei bei risultati, come perfezionisti. Forse il vero elemento da cercare, di cui dobbiamo coltivare il frutto, è semplicemente l’equilibrio esatto tra tutte queste cose, l’amalgama armonico e completo tra interno ed esterno di noi stessi.
Il meccanismo iniziale è diventato una sciocchezza da niente, ora che l’entusiasmo del primo momento si è contraddittoriamente stemprato con parole e pensieri affluiti alla mente per sostenerlo. Non c’è niente di strano, è il normale confluire di due mondi diversi: ciò che si vuole o che si vorrebbe dalla realtà, e ciò che invece la realtà pretende da noi. Così, con questi pensieri, mi sono fermato all’angolo di una strada, davanti ad un passaggio pedonale. Mi sono inchinato, come per riannodare la stringa di una scarpa. Non mi sono guardato attorno, anche se sapevo che qualcuno mi avrebbe osservato, ed ho cercato dentro di me la determinazione utile per andare avanti con il mio proposito. Ho preso il pennarello e con il minimo di calma necessaria, sulla superficie dura e ruvida del marciapiede ho scritto in stampatello:

UMANA  DISUMANITA’


            Mi è parso subito anche troppo generico il giudizio che davo, però mi sono sentito bene. La scritta sarebbe andata via sotto ai piedi dei passanti in pochi giorni, però era un inizio. Il giorno seguente sono tornato ad osservare la mia scritta, ed era là, ancora evidente, sopra al marciapiede, come una sfida. L’indifferenza appare vittoriosa contro le piccole cose, nei confronti dei piccoli gesti umili, è evidente. Ma voglio essere tenace: continuerò a scrivere le mie cose sopra ai marciapiedi, lo farò in maniera univoca,  in modo che si riconosca la mia mano, che si capisca l’urlo trattenuto, che si comprenda la necessità di dire quelle cose, fino a quando qualcuno infine si affezionerà a quelle parole.


            Bruno Magnolfi

venerdì 19 febbraio 2010

Il bene del mondo.

            

            Lo scooter dei due ragazzi procedeva lento a notte fonda lungo una vecchia stretta strada del quartiere dell’università. In giro non si vedeva nessuno, solo qualche coppia di giovani turisti che cercava il suo albergo, e qualche nottambulo attardato nei pochi locali ancora aperti. Il silenzio in tutta quella zona della città normalmente caotica pareva quasi irreale, e i lampioni tristi e indolenti. Enrico, che guidava lo scooter, spense il motore ancora prima di fermarsi, proseguendo con l’inerzia del mezzo lungo un tratto di marciapiede che costeggiava un muro possente, alto tre o quattro metri, parzialmente coperto di scritte e di qualche piccolo manifesto strappato. Si trattava di affiggere là sopra una striscia di carta preparata nelle ultime sere, di formato enorme, un metro per cinque, con sopra una scritta ben disegnata inneggiante al gruppo politico che si presentava  alle prossime elezioni universitarie per il rinnovo dei rappresentanti del Consiglio.
Enrico non faceva neanche parte della rete dei candidati, ma essendo militante dell’organizzazione a cui si rifaceva quel gruppo, ben volentieri si era offerto per quel lavoretto. Loro due avevano il pennello, la colla, i manifesti tenuti con garbo sotto ad un braccio. Decisero a gesti il punto e l’altezza dove incollare la carta, poi, con esperienza, srotolarono lentamente la scritta. Fu proprio allora, mentre Enrico teneva ben fermo con le mani sul muro il manifesto non ancora incollato, che due fari apparvero in fondo alla strada. Le luci dell’auto si fermarono a una distanza di una ventina di metri, e loro si sentirono scoperti. Nessun panico, cercarono di riavvolgere velocemente il manifesto e di andarsene, ma qualcuno, nascosto dietro alle luci abbaglianti, disse a voce alta ed imperiosa: “Fermi!”.
Se c’era una speranza quel grido la tolse in un attimo: Enrico lasciò tutto quanto per terra, corse allo scooter e lo mise in moto, mentre l’altro saliva con un salto sopra la sella. Intanto quell’auto si era mossa, era dietro di loro di pochissimi metri, ed Enrico immaginava già una pistola della polizia fuori dal finestrino, e qualcuno che fra un attimo li avrebbe arrestati, sbattuti nel muro, perquisiti, ammanettati, portati in Centrale e lasciati su una sedia per il resto della notte. Un copione già visto, esperienze già fatte tra loro militanti di vecchia data.
Ma al primo angolo, con una manovra un po’ ardita, Enrico si gettò con lo scooter verso destra, nel tentativo di raggiungere un tratto di strada pedonale, che conosceva bene, davanti alla facoltà di Lettere, dove con l’auto non avrebbero potuto passare per via delle catene che impedivano il transito, e loro, dal marciapiede, sarebbero potuti sfuggire. Invece la ruota davanti scivolò, quel motorino mezzo scassato non volle collaborare per niente, e loro due andarono a cadere sull’angolo del marciapiede. Enrico sbatté violentemente la testa, e con l’adrenalina in circolo e il cuore che pompava all’impazzata, tentò di rialzarsi come per continuare la fuga, finendo per accasciarsi subito dopo, mentre l’auto, senza fermarsi, accelerava lungo la strada e spariva in un attimo. La macchia di sangue si era allargata in un attimo, Enrico perdeva i sensi cercando di dire qualcosa all’amico, l’altro era preda del panico.
Le elezioni universitarie non andarono bene per la loro organizzazione, Enrico uscì d’ospedale solo diverse settimane più tardi, con la testa ancora rasata e fasciata, ma la sua ferita adesso era per lui quasi un vanto, un incoraggiamento, una sfida a portare avanti le idee in cui credeva, per il bene di tutti.


            Bruno Magnolfi

giovedì 18 febbraio 2010

Sul palcoscenico.



            “Non c’è da preoccuparsi, va tutto bene…”, disse qualcuno del pubblico a bassa voce, ma facendo risaltare le parole nel silenzio buio della sala. All’attore, che stava interpretando la parte finale del monologo di un personaggio triste e angosciato, gli parve quasi una battuta studiata, forse addirittura un elemento di improvvisazione architettato dall’autore del pezzo teatrale, così cercò di dargli seguito, mentre cercava di capire meglio cosa stava accadendo: “Certo”, rispose, “E in un modo o nell’altro le cose avranno una sua prosecuzione”. Ma pensò subito che non aveva detto niente, così cercò di rimediare: “Qualche possibilità ci deve pur essere per riprendere a volare, per ritrovare il senso delle cose, per poter tornare ancora a sorridere”.
Nessuno diceva altro, il silenzio regnava dentro il teatro. Così lui cercò di riprendere il monologo da dove si era interrotto, ma si accorse di essere andato un po’ fuori strada con i suoi pensieri, e non ricordava più a che punto del copione fosse arrivato. Fece due o tre passi laterali sopra al palco, prese tempo, sentì tossire qualcuno in fondo alla sala. “C’è come un sesto senso in ognuno…”, disse improvvisando, “Che riporta irrazionalmente verso la strada giusta, quella migliore. Le cose non ci accadono mai pienamente per caso; le prepariamo, dentro di noi, spianiamo quella strada affinché alcuni fatti siano possibili, anche se non ne siamo completamente consapevoli”.
Poi si ricordò il punto del monologo in cui si era interrotto, e dopo una pausa di silenzio riprese: “Oggi non potrei guardare in faccia nessuno, se non avessi fatto quello che la mia coscienza ha dettato, anche se mi è costata molta fatica, molto dolore…”, ma si sentì completamente fuori strada, soprattutto non ritrovava la sintonia col personaggio, un uomo d’onore che aveva fatto imprigionare un amico denunciandone un grave delitto. Gli venne in soccorso la voce di prima, che disse: “Ciò che deve accadere, accade…”, facendolo subito reagire, perché non era quello che pensava o che avrebbe voluto dire. “Non dobbiamo essere fatalisti…”, disse con voce piena, “Dobbiamo essere retti, cercare la nostra via e seguirla, ognuno di noi, prima di tutto…”, poi si sentì perduto, e così concluse: “Io, per esempio; ho fatto di tutto per cercare la mia strada, e adesso che ho compiuto le scelte giuste per la mia coscienza, l’ho smarrita completamente, mi sento affranto, non capisco neanche più chi io sia; ma è proprio questo il mio compito adesso, devo cercare, devo fare di tutto per ritrovarla la strada, per dimostrare a me stesso che ciò che ho fatto era giusto; è l’intento, il percorso, quello che conta, il resto è costituito da strappi che a volte si formano e che la vita ci impone di ricucire…”.
Poi pensò che non avrebbe avuto altro da dire neppure se si fosse ricordato perfettamente il copione, e neppure immedesimandosi di nuovo in quel suo personaggio, così fece con estrema naturalezza un inchino a quel pubblico congedandosi da quegli argomenti difficili e dolorosi, e scomparve dietro le quinte. Qualcuno capì lo sforzo per rendere vero ed attuale quel suo personaggio, ed iniziò ad applaudire, con il resto del pubblico forse perplesso ma pronto a seguire quei primi, in maniera crescente, fino a sentire il dovere di alzarsi, tutti su in piedi, per una vera e propria ovazione. L’attore tornò per prendersi tutti gli applausi, e solo allora si rese conto che in mezzo alla sala c’era l’autore del brano teatrale, proprio lui, che nel buio lo aveva provocato, e che rendendo più naturale e spontaneo il suo monologo, aveva creato un piccolo capolavoro.

            Bruno Magnolfi


mercoledì 17 febbraio 2010

Dietro le spalle.

            

C’erano giorni o momenti in cui ci pareva che l’arte, la cultura, e in modo speciale i manufatti del passato che si potevano ammirare lungo le strade del centro, quelle facciate dei palazzi o quei particolari degli archi e delle porte, ci rivelassero i loro segreti, il loro linguaggio particolare, la chiave di lettura manifesta ma incastonata dentro ad una modanatura o magari in un particolare ignorato da tutti, e apparentemente disancorato dal resto. Eravamo curiosi di tutto, io e quel mio amico, questo era l’elemento portante, e la realtà ci sembrava svelabile, bastava volerlo, secondo noi due, era sufficiente osservare ogni particolare dal giusto punto di vista.
Si camminava lentamente per qualsiasi strada decodificando ogni cosa, cercando un senso da intuire in ogni elemento, e si trovavano da tutte le parti linguaggi, spunti, elementi di riflessione. Ci si intrufolava in ogni posto possibile, pur di riuscire a scoprire qualcosa che non fosse sotto agli occhi di tutti, convinti che una parte di verità era nascosta, ma a portata di mano, bastava voltare quell’angolo dimenticato e tutto sarebbe stato evidente. Pezzenti come eravamo si continuava ogni sera ad andare nel locale da Gilli o alle Giubbe Rosse, eleganti e raffinatissimi, a farsi servire un caffè in piedi, dove in fondo costava quanto in qualsiasi altro bar, solo per rimanere a lungo là dentro, attratti dalla forma del banco, dagli arredi del bar, dalle livree dei camerieri, dai mille elementi che trovavamo importanti e neanche scontati là dentro, degni di discussione e di interessamento. La gente elegante in questi locali non ci dava fastidio, erano tutti differenti da noi, ci ignoravamo reciprocamente.
Quando in quel periodo furono aperti alcuni antichi palazzi, gli anditi, le corti, i giardini sui retro normalmente chiusi alle visite, a margine di una iniziativa culturale da parte dell’Amministrazione Comunale, ci parve che quegli eventi fossero stati pensati apposta per noi, a noi che ci bastava essere consci di avere la testa e dei pensieri all’interno, sopra ai nostri jeans scoloriti, ed il resto era un libro con le pagine aperte, pronto per essere letto. Si girò per dei giorni cercando segnali che in ogni luogo riuscivamo a scoprire e che ci riempivano il tempo appagando la nostra curiosità. Non era la storia dell’arte vera e propria che ci interessava, quanto comprendere i linguaggi usati per costruire gli oggetti, la maniera in cui erano state pensate le cose, quel parlare a tutti centinaia di anni più indietro, conservando un messaggio che si rivelava immutato nello spazio dei secoli. 
Ci intrufolammo alla presentazione di un’antologica di Primo Conti, nelle sale di Pitti, in un pomeriggio in cui erano presenti dietro invito solo gli addetti ai lavori, e gli arrivammo vicini, proprio a lui, solo per il gusto di guardare un’artista in mezzo ai suoi quadri ammirati da tutti, tra personaggi illustrissimi, e ci formammo un’idea precisa di lui e delle sue opere. Discutemmo senza mezze parole davanti a certe tele più ardite, e ci sembrava quello il frutto migliore che poteva sperare un pittore, piuttosto che la deferenza dei giornalisti e l’ossequio dei piccoli politici e degli amministratori di turno.
Parlammo a lungo di tutto e a voce alta tra noi, bevemmo a sbafo champagne coi pasticcini in quella festa di inaugurazione, lasciandoci tollerare, e dell’artista ne scrutammo tutti i risvolti che riuscivamo a carpire, forse confusi per quello sfarzo, ma non intimiditi. E fu solo sul tardi, uscendo da quelle sale meravigliose, leggermente perplessi, dietro a lui che se ne andava a sua volta accompagnato ancora da sorrisi e parole di elogio, quando lo scoprimmo a guidare una vecchia BMW demodé, neppure un modello particolarmente brillante, che questo ci rese l’artista più umano, forse più vicino, un vecchio al volante di un’auto senza sfarzi, e forse per questo meravigliosa per noi, e tale rivelazione ce lo rese più vicino e simpatico.


            Bruno Magnolfi

martedì 16 febbraio 2010

Caduta libera.

          

            Respiro ancora, nonostante tutto. Sono fermo, immobile, a terra, forse in una posizione innaturale, e cerco, tra i dolori fortissimi che provo, di capire cosa mai sia successo, anzi, di comprendere com’è possibile che io sia ancora vivo. Un tirante dell’impalcatura ha ceduto, c’è voluto un attimo, neanche il tempo sufficiente ad allungare d’istinto una mano per sorreggermi, sfiorando per ironia quel corrente che avrebbe potuto evitarmi tutto quanto, ed ero nel vuoto, in una stupida, inspiegabile, caduta libera. Sembra quasi uno scherzo, potrei tornare indietro, ad un attimo fa, e continuare a lavorare sulla facciata di quel terzo piano ad applicare l’intonaco, fischiando lentamente qualche canzone, come a volte mi piace fare, e stando ben attento a lisciare bene la malta, che non si noti alcuna strisciata nel lavoro finito, perché io voglio sempre dare un risultato accurato, che tutti restino contenti di quello che ho fatto.
Come uno stupido, non mi spiego in alcuna maniera il perché io sia qui, adesso. Sono sicuro che nessuno mi ha visto, ero da solo stamani là sopra, neanche il tonfo è stato avvertito, il rumore di un corpo che cade in questa piccola corte dove non abita ancora nessuno è un niente, un piccolo colpo tra milioni di altri colpi. Potevo allungare di più la mia mano, forse, bastava pochissimo, un niente per neutralizzare questo destino. Invece sono rimasto sorpreso, non avrei mai pensato che potesse accadere una cosa del genere, e se non l’avevo pensata non era neanche vera, non era possibile, per questo sono rimasto troppo ad indugiare, perché non mi pareva possibile che accadesse proprio a me una cosa così.
La mia meraviglia era tanta anche mentre volavo, mentre cadevo giù come un sacco di stracci tirati per spregio da una finestra, ancora incredulo, inebetito. Ed adesso ecco qua, tutti i miei sogni, la mia famiglia, il bambino piccolo, tutto finito, per bene che vada resterò invalido, impossibilitato a lavorare, sarò solo un peso per tutti. Adesso tutti i dolori si sono fatti fortissimi, sento che sto per svenire, non resisto, e ancora ripenso a come sia stato possibile in quell’attimo assurdo, che non mi sia reso conto, che sia volato giù senza far niente, che sia stato sconfitto così, senza neanche essermi minimamente difeso. Chissà se perdo sangue da qualche parte, non voglio neanche pensarci, posso morire qui, dissanguato, come un cretino.
Poi muovo una mano, mi rendo conto che sono caduto dentro a una piccola aiuola, e la terra ha attutito la botta, altrimenti sarei rimasto spiaccicato sopra il cemento. I dolori sono insopportabili, ma devo resistere adesso, devo fare uno sforzo, abbandonarmi significa perdere tutto. Ho voglia di piangere, di disperarmi, invece devo essere lucido, pensare cosa fare, cercare di richiamare l’attenzione di qualcuno. Mi sento sconfitto, se devo rimanere un peso per tutti preferisco morire, ma come si fa a scegliere, come si fa a decidere che cosa è la vita, cosa ci riserva, quali segreti ha ancora per noi? Devo muovermi, devo pensare a come attirare l’attenzione su me, devo concentrarmi su questo, nient’altro deve passare per la mia testa in questo momento.
Poi sento una voce, proprio quando sono preda del panico, e non riesco più neppure a pensare, e ho solo voglia di piangere e di disperarmi. Arriva la barella, qualcuno dice che ci sono fratture, ma non ho perso sangue, non ho sbattuto la testa, ci sono ancora speranze; la vita non mi è parsa mai così bella.


            Bruno Magnolfi

lunedì 15 febbraio 2010

Una bicicletta da palcoscenico.



            Le assi del palco avevano scricchiolato quando ero entrato in scena camminando con calma, e le luci dei riflettori avevano avuto come un sapore caldo e mieloso nel loro fendere il buio in modo così risoluto. Rientrare in quello spazio, sopra quel legno polveroso, dentro a quelle chiazze di luce, era un po’ ritrovare lo spirito giusto, il senso, il coraggio preciso che come sempre serviva per farsi uscire le parole di bocca, le battute con la giusta intonazione, il corretto articolato, l’adeguata scansione. Tutto, anche i più minuti dettagli, serviva a formare una serata speciale, laddove il mestiere finisce ed il resto è emozione, è spirito, è voglia di dare, maggiore di qualsiasi necessità di ricevere.
Il mio personaggio era minore, si sedeva a lungo su un divanetto piazzato di sbieco sul palco, consumando la sua presenza come una candela votiva, ad attendere a lungo dentro alla scena, come un oggetto, un soprammobile insulso, un intruso, in un tempo sospeso in cui gli attori principali portavano avanti i dialoghi, il senso nascosto di quella trama, la commedia completa. Era lì, in quei momenti, che tutti i pensieri, per una sorta di magia delle luci e del palcoscenico davanti alla gente che ti osservava nel buio, prendevano come un corso proprio, una strada diversa, significati che sfuggivano pur conservando il nesso innegabile dell’emozione, allontanandosi in pochi attimi da dietro la maschera. La sensazione avvertibile in mezzo al ronzio delle luci, oltre ad immaginarsi quel pubblico impegnato ad incrociare la propria capacità di sognare con quella di seguire l’autore nel senso di fondo che aveva voluto dare al suo lavoro finito, era un incoraggiamento alla fantasia, una voglia di emigrare da lì, di svolazzare lontano, di trovare quei fili sottili che per qualche strada traversa portavano altrove.
Ecco, nonostante il mestiere di attore, nonostante quel pubblico, la scena, le luci, tutto quanto quel palcoscenico, ecco, si poteva partire, andare lontano. E a prendere per mano tutta questa voglia di niente, questa urgenza di sogno, questa fuga in avanti nel superare qualcosa di così poco palpabile quanto uno sbuffo di fumo, c’era il ricordo, sopra quel divanetto, il ricordo inspiegabile e urgente, pronto ad avvolgere tutto, la scena, le luci, gli attori, tutto il pubblico stesso.
-Il babbo quella sera aveva portato una piccola bicicletta, e l’aveva sistemata vicina al cancello di casa, come un oggetto in attesa-. Questo era il ricordo che pressava più di ogni altro.
-Mi aveva chiamato, e con uno stratagemma qualsiasi mi aveva portato a vederla. Mi aveva chiesto un parere, ed io, con l’età dei miei cinque anni, avevo detto che era meravigliosa, non potevo pensare nient’altro. Era stata già usata da un altro bambino, non ci potevamo permettere molto, ma questo non era assolutamente importante. Nei mesi seguenti sarei diventato tutt’uno con quella mia bicicletta, fino a sentirmi personaggio del circo, a meravigliare la gente accorsa a vedere, a rendersi conto del mio equilibrio perfetto, della capacità di eseguire dei numeri inediti, piroette inventate al momento, improvvisate sul filo di ruote e pedali e manubrio con in mezzo un sellino, e sopra al sellino la voglia di superare me stesso tra intuizione e coraggio, fantasia e ardimento. La mia bicicletta meravigliosa, sogno adeguato per traghettare la vita-.
Ma d’improvviso ero di nuovo sul palco, mi alzavo da quel divanetto, dicevo la mia frase e poi uscivo di scena; chissà dove avevo lasciato la mia bicicletta, pensavo, magari era ancora lì, sopra al palco, o tra il pubblico, o forse dietro le quinte, nascosta in un corridoio rimasto in disuso, ad attendere solo i miei sogni, i miei ricordi; tutta l’emozione del mondo.

            Bruno Magnolfi


domenica 14 febbraio 2010

Meglio evitare.

            

            L’uomo e la donna camminavano lentamente lungo il marciapiede. Lui si sentiva orgoglioso, insieme loro due formavano proprio una gran bella coppia, ma soprattutto gli sembrava come se un alone di completezza circondasse il loro starsene assieme, come se niente fosse in grado di incrinare quella loro complicità. Se si concentrava riusciva a vedere con gli occhi degli altri quel loro procedere al ritmo di passeggiata, e in questo osservarsi gli pareva che loro due costituissero quasi un elemento centrale per tutta la strada, ma allo stesso tempo come se il loro procedere ne fosse una parte qualsiasi, un ingrediente qualunque mescolato con altri. La sensazione che provava era difficile da definire: era felice, ma nel medesimo tempo era preoccupato che la sua felicità fosse quasi un’assurdità, pronta, in qualsiasi momento, per essere incrinata o ridicolizzata da un evento qualsiasi, da un elemento che sull’immediato non poteva neppure prevedere.
Camminava in silenzio, e la sua mente confusa in questi pensieri, si sforzava di trovare le parole giuste per dire a lei ciò che sentiva, finendo per non dirle niente. Il viale era fiancheggiato da alberi alti, e i grandi marciapiedi dipanavano il passeggio del pomeriggio domenicale. Lei, al suo fianco, procedeva ugualmente in silenzio, e intanto pensava al futuro, al matrimonio, alla vita da costruire con lui. Non le importava che il suo fidanzato certe volte apparisse un po’ strano, faceva forse parte della sua personalità essere ombroso, ciò di cui provava una sicura felicità era quel sentirsi appagata in quel rapporto; forse avrebbe potuto trovare di meglio, aveva pensato qualche volta, ma il suo naturale ottimismo la portava verso la convinzione che tutto in futuro si sarebbe sistemato anche meglio di adesso.
I loro passi erano sincroni, il loro procedere definiva il desiderio di ambedue delle medesime cose, ed erano pronti ad affrontare anche dei sacrifici pur di ottenerle. Il viale era pieno di gente, e in mezzo a loro c’era un ragazzo che lei conosceva o che aveva conosciuto in passato. Un frettoloso saluto, lo sguardo abbassato subito dopo, la faccia rossa per qualcosa che non avrebbe voluto accadesse. Qualche domanda di lui che non riusciva a capire, l’imbarazzo di lei che non riusciva a spiegarsi, e all’improvviso le nuvole rosa che avevano girato sopra di loro fino a quel momento e che adesso parevano sperse, convogliate in un cielo grigio che non prometteva niente di buono. Era la strada il nemico, troppa gente, troppe espressioni diverse, troppi giudizi a cui darsi in pasto. Avrebbero cambiato, lo sapevano dentro di loro senza neanche dirselo: mai più a passeggio lungo il viale alberato la domenica pomeriggio; troppa folla, era meglio evitarla.


            Bruno Magnolfi

sabato 13 febbraio 2010

Vicino al porto.



Una stessa immagine, un identico pensiero, tutto pare combaciare, come un miracolo di sintonia. Basta un sospiro, si torna a fermare lo sguardo nello stesso punto, immaginandoci lo stesso risultato, e invece qualcosa si è mosso, c’è una variazione, e quegli aspetti non sono già più gli stessi: è passato ancora un minuto, che dico, solo un momento, ed adesso indubbiamente tutto è diverso. Inutile cercare di trattenere qualcosa: il punto di vista muta, la luce trascolora, il pensiero va ad inciampare in cose che prima non c’erano, e tutto in quell’attimo è ormai differente, in un modo definitivo.
“Il sole al tramonto giocava con i vetri delle finestre, quelle stesse finestre delle case gialle dell'ammiragliato”, pensava molti anni dopo la ragazza d’età più giovane di quella che a all’epoca voleva dimostrare; si ricordava distintamente di quel niente nella luce che cambiava in un momento qualsiasi prospettiva. “Le piazzette vicine erano piene di bimbi rumorosi, con le mamme dai vestiti colorati che portavano a spasso i piccoli con la carrozzina, e le panchine erano gremite di gente, mentre si scorgevano drappelli di uomini anziani in piedi, intenti a scommettere sempre su qualcosa, e da una parte il gelataio ormai stanco rigovernava quel suo chiosco. 
A volte, presa dai giochi, mi attardavo, e me ne accorgevo solo quando  ormai le  luci  all'interno  delle case e lungo tutta la zona del porto erano accese, e brillavano come cerchietti stellati di fette di limone; e se poi alle luci facevano seguito i rintocchi delle campane della chiesa di Santa Teresa, era davvero tardi, dovevo correre a casa, a perdifiato, proprio nell'ora più bella; infatti a quell'ora d'improvviso  gli schiamazzi dei ragazzi e i garriti delle rondini scemavano, e l'aria  tornava a profumare di mare e di oleandro, e le ragazze a coppie lentamente scendevano ad affollare il viale alberato,  fronteggiante la Villa; di lì a poco si sarebbe sentita la sirena, quella che segnava  l'ora della libera uscita dei marinai, ed i sogni pensati con la coscienza, quelli che non confidavamo neppure tra di noi, diventavano d’incanto ragazzi vestiti di bianco, bellissimi, con il fascino della gente di fuori, di altra cultura, di diversa sensibilità, differenti per forza dalle solite cose a cui si era abituati.
Poi si rientrava davvero, finalmente, ma ci sembrava d’improvviso tutto diverso, davvero cambiato senza che neppure se ne capisse il motivo, e l’unico elemento stabile, quello rimasto vero e immutato, proprio come prima, era quel grumo di sogni spremuti e persi nel fondo di noi; e un po’ avevamo pena di quella ragazza che aveva preso quei sogni troppo sul serio…”.

Bruno Magnolfi


            

L'incontro.



            Si era usciti in mare con la barca, nonostante tutti quanti al Circolo Velico sul molo ci avessero sconsigliato in ogni modo di affrontare quel forte vento di grecale. Nel primo braccio di mare si andava via di gran lasco con la barca in piano, in assenza di onde, ma percorso il primo miglio le cose si complicavano con l’arrivo delle prime fortissime raffiche. Si vedeva arrivare come un ventaglio scuro e minaccioso sulla superficie dell’acqua, e subito sartie e scotte si tendevano allo spasimo scricchiolando sui bozzelli, negli strozzascotte e nelle impiombature. La barca gemeva e affilava l’acqua con la rota di prua in continua vibrazione, tanto la spinta era robusta.
Orzammo lentamente di un buon trenta gradi, fino a metterci di lasco per tenere la giusta direzione. La parte della coperta rimasta sottovento spariva a tratti nella schiuma di mare che correva via veloce dietro di noi, e l’inclinazione della barca era tale da consigliarci di sventare il più possibile le vele, proprio per cercare di reggere la posizione ed evitare di straorzare col timone. A tratti si filava via ad una velocità inaudita, lasciando che gli schizzi freddi delle onde sopravvento, che intanto avevano iniziato ad infastidirci con un moto di traverso, ci raggiungessero continuamente nella nostra posizione fuori bordo, tesa a controbilanciare il più possibile la forza del vento sopra le vele.
Raggiunto e superato il promontorio, che adesso appena si vedeva davanti a noi, sperso laggiù nel sipario grigio appena sopra l’acqua, avremmo virato di bordo per tenerci il più possibile sottocosta, e da lì avremmo raggiunto in breve il piccolo molo di Levante, deserto in quella stagione, ma dove agilmente si poteva attraccare la barca e portarla a terra tramite un’invasatura a ruote munita di verricello elettrico capace di trainarla. Non pensavo a niente se non a quel turbinare del vento e della spuma di mare, e a quel fischio incessante prodotto direttamente dalla cartilagine martoriata delle nostre povere orecchie, quando il balenottero ci affiancò nel mare nero, creando uno spostamento d’acqua tale che per un attimo chiglia, deriva, timone, persero completamente il senso del loro ruolo.
Ci ritrovammo chissà come con le vele ormai al vento, ma solo per il tempo di un attimo, e quando le vele si gonfiarono dalla parte opposta in uno scoppio d’aria, realizzammo che la barca aveva virato di bordo in modo autonomo, senza che noi potessimo far niente, e che era troppo tardi per qualsiasi manovra correttiva. Le vele a quel punto sparirono in acqua più velocemente del nostro pensiero, e noi riuscimmo fortunatamente a reggerci con le mani al bordo della barca rimasto a galleggiare sull’acqua. Misi i piedi sopra la chiglia quasi d’istinto, e accanto a me vidi di nuovo il balenottero che pareva incoraggiarci sollevando in superficie centinaia di litri d’acqua ai suoi fianchi, come per cercare di intavolare un gioco tra noi, o forse per aiutarci, in qualche modo assurdo.
Per un miracolo del mare, visto che nella posizione dove ci trovavamo e la scarsa visibilità in quelle condizioni, nessuno avrebbe notato il nostro naufragio, la barca si mise spontaneamente con la prua contro il vento, e con uno immenso sforzo prodotto dalla nostra disperazione che fortunatamente in questi casi certe volte viene in aiuto, riuscimmo a far forza sulla deriva, e le vele fradice iniziarono a sollevarsi da quell’acqua fredda per noi tragicamente così inospitale. Quando, con grande fatica, riuscimmo a risalire dentro al pozzetto della nostra barca, conservando le vele che sbattevano al vento e giudicando con una semplice occhiata che l’attrezzatura era ancora sufficientemente in ordine, ci venne quasi da sorridere per quel pericolo scampato, e fu allora che il balenottero si fece ancora vedere, come per un saluto finale, spruzzando pochi metri davanti alla prua tutta l’acqua che riuscì a sollevare, sventolando lentamente la sua enorme coda scura, e inabissandosi di nuovo dentro al suo mare.


            Bruno Magnolfi

venerdì 12 febbraio 2010

L'espressione beffarda.

            .

            E’ sotto al mio piede sinistro tutto il segreto. Fin da quando ero piccolo si era rivelata una strana macchia nella pianta di quel piede, dapprima appena accennata, poi con gli anni sempre più chiara, che a dire la verità non mi aveva mai dato fastidio, anzi, mi aveva spesso fatto ringraziare la natura per non averla piazzata in parti del corpo ben più vistose, ma che verso la maggiore età era andata ancora trasformandosi, assumendo poco per volta i contorni della faccia di qualcuno, un’espressione arcigna di un essere che pareva rivelarsi così. A quella età già da tempo tenevo ben nascosto quel mio segreto, innanzitutto non parlandone mai con nessuno, e quindi neanche nei documenti di identità era riportata quella mia caratteristica; e in ogni caso, se qualcuno durante le mie attività aveva visto la macchia, io ero sempre stato pronto ogni volta ad inventarmi che era semplice inchiostro molto lento a sparire dalla pelle, pestato per sbaglio mentre camminavo per casa con i piedi nudi.
Neppure i miei genitori mi avevano più chiesto niente, visto che alla fine, oltre al colore della parte inferiore del piede, non avevo mai avuto altri disturbi, ma negli ultimi tempi mi ero sempre più reso conto che quella macchia scura era qualcosa di più di una semplice macchia. Mi ero osservato quasi ogni giorno il piede sinistro, appoggiando a terra nel bagno di casa, con la porta ben chiusa a chiave, uno specchio pulito in una zona del pavimento fortemente illuminata, e mi ero così reso conto che l’espressione della faccia raffigurata sulla mia pelle andava mutando.
L’impressione era forte, camminando sentivo prepotentemente quella presenza sotto di me, forse dentro di me, e in qualsiasi momento della giornata, ogni volta che appoggiavo il mio piede sinistro per terra, mi ritornava alla mente, lasciandomi impossibilitato ad ignorarla. Non riuscivo ormai più a capire se quello che entrava poco per volta dentro di me fosse un male od un bene, fatto sta che non mi sentivo come gli altri, c’era qualcosa in cui differivo da tutti. Quella faccia era un essere che agiva dentro di me, lo avvertivo, ne coglievo ad ogni passo la presenza inquietante, e la sua influenza era sempre più netta, ogni giorno più forte.
Spesso i miei piedi camminando mi portavano dove volevano, senza che io potessi far niente per imporre la mia volontà, e sempre più difficile diventava la mia vita con gli altri: ero continuamente ad inventare delle scuse, a fingermi smemorato, depresso, sbadato, ma ogni cosa oramai mi spingeva verso una solitudine che era un rifugio più che una aspirazione. Quella faccia era lì, era qualcuno, con la sua espressione beffarda, ormai non importava neppure che la guardassi dentro allo specchio: era dentro di me, chiudevo gli occhi e mi appariva evidente, stagliandosi chiara nel buio.
Negli ultimi tempi iniziai sempre più a pensare che quella fosse la faccia della mia vera persona, e quando ero solo avevo preso a parlare con lei e a interpretare le risposte contorte che arrivavano direttamente nella mia testa: sempre più mi trovavo a compiere atti che nei tempi passati non avrei mai preso in considerazione di fare, ma adesso neppure mi ponevo il problema, era così, sapevo dentro di me che era impossibile oppormi.
Ma una sera, mentre passavo lungo una strada periferica, vicino a un cantiere dove degli operai avevano acceso un falò con dei grossi pezzi di legno, mi sentii attratto da quel loro fuoco, da quelle braci rosse e scoppiettanti; la faccia sotto al mio piede mi indicava di andare vicino a quelle fiamme, quasi di adorarle, come fosse un elemento della mia natura, ma io fui svelto, più di qualsiasi pensiero divergente: tolsi la scarpa e col mio piede nudo andai a pestare quelle braci infuocate, cancellando quella faccia dal mio piede ed annullando quella espressione beffarda.


            Bruno Magnolfi

giovedì 11 febbraio 2010

Fuori dal coro.

            

            Il taglio nella gamba era profondo. Subito dopo essere caduto su quel ferro appuntito, il bambino non aveva potuto fare a meno di piangere, ma lo aveva fatto comunque con dignità, non mostrando ai compagni la paura, solo la sofferenza, il dolore vivo che provava. Gli altri lo avevano soccorso, ma quel sangue che usciva dalla ferita pareva inarrestabile, nonostante l’acqua, i fazzoletti, l’arto subito sollevato. Tutta la gamba era ormai insanguinata sotto a quei suoi calzoncini corti, perfino il calzino e la scarpa da ginnastica, e i suoi compagni mostravano una grande preoccupazione, la necessità impellente di prendere decisioni importanti.
Il bambino ferito era il capo di loro, quello che stabiliva sempre le cose per tutti, era lui che adesso doveva decidere, ma pareva come in attesa di una forza superiore che all’improvviso gli chiudesse quel taglio, gli togliesse il dolore, permettesse alle sue gambe di tornare a giocare come avevano fatto fino a quel momento. Era lui che sapeva sempre tutto, che ogni giorno aveva le idee per i pomeriggi dopo la scuola, e trascinava con sé tutti gli altri: conosceva i loro ruoli, la personalità di ciascuno, e orchestrava le cose sempre nella maniera migliore.
Passavano ancora i minuti senza che niente cambiasse, e il bambino pareva sempre più pallido, con gli occhi chiusi, la testa riversa sull’erba, l’espressione di sofferenza sul viso. Nessuno di loro sapeva che fare, tutti aspettavano qualcosa da lui, e in quell’incertezza qualcuno forse aveva voglia di piangere, di urlare, di disperarsi per una situazione a cui non si sentiva minimamente preparato; cose da grandi, ognuno pensava, adatte ai genitori, in mezzo alle quali solo loro avrebbero saputo che fare. Ma il bambino scuoteva la testa quando gli altri gli chiedevano di andare a chiamare qualcuno: “Ora passa…”, aveva detto all’inizio, poi non aveva aggiunto nient’altro.
Quando era svenuto gli altri avevano avuto un moto collettivo di disperazione, ed era stato solo allora che si erano accorti che uno di loro mancava. Era Marco, che si era allontanato di corsa, che era andato a chiamare qualcuno, che più di tutti aveva capito che fare, e già da lontano su quello spiazzo di terra si vedeva che stava arrivando di corsa un medico e un infermiere della farmacia lì vicino, e insieme a loro c’erano tre o quattro adulti disposti a dare una mano a quei bambini, perché loro erano davvero troppo bambini per riuscire a cavarsela senza un aiuto.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 10 febbraio 2010

Chiuso in se stesso.

           

            Il sibilo era forte, insinuante. Nel silenzio dell’aperta campagna a tratti pareva un urlo, un richiamo di pericolo. Inutile chiudersi le orecchie, il sibilo c’era comunque, pur non lasciando capire in alcun modo la direzione di provenienza. Fuori il vento a grandi folate spazzava l’erba rada e gli alberi scheletrici, ma pur mescolandosi assieme, e qualche volta coprendolo, non era quello il rumore insolito.
Roberto aveva continuato a lungo ad osservare il fuoco del caminetto. Era andato fin lì, in quella casa, per rimanere qualche giorno da solo, riflettere sulle sue cose e prendere una decisione. Ma tutto adesso gli sembrava ancora più confuso, difficile da capire, e quella solitudine, quella natura inquietante, quell’urlo, gli parevano elementi di un insieme che gli suggeriva qualcosa, ma in maniera sfuggente, incomprensibile.
Era uscito fuori solo per andare nella legnaia, e il sibilo era lì attorno, da qualche parte vicina. Aveva guardato oltre la siepe di recinzione le fioche luci della strada che portava fino alla casa, e tutto gli era parso spettrale, come se le cose avessero perso la loro concretezza. Il nevischio insistente punteggiava di freddo gli occhi e la faccia, le sue mani erano bianche, e pareva non ci fosse nessun’altra persona in tutta la zona. Gli piaceva a Roberto dover fare affidamento soltanto su ciò che era capace di fare da solo, ma all’improvviso tutto era inutile, ogni cosa era meccanica, anche i suoi stessi pensieri, tanto valeva smettere di tormentarsi.
Poi gli venne un’idea, prese una torcia elettrica, indossò un giaccone pesante, un paio di guanti e uscì di nuovo, alla ricerca del sibilo. Camminò lungo la strada deserta, inseguendo una semplice impressione, poi prese un viottolo che serpeggiava nel bosco. Percorse circa un chilometro con l’affanno sempre più forte per via della leggera salita, poi, quando raggiunse la cima brulla della collina, si fermò per riprendere fiato.  Non c’era niente lassù, soltanto quel senso pauroso di nulla, un punto di luce e calore disperso in una natura più forte, al di sopra di qualsiasi possibilità.
 Gli venne voglia di correre tornando indietro, e quando cadde inciampando in una radice, qualcosa gli alitò sopra al viso. Non ebbe paura, ma comprese che quello era il sibilo, quel senso di morte improvvisa che lo braccava, che cercava di trascinarlo verso di sé, tagliandogli ogni possibilità di ritorno. Si rimise in piedi, Roberto, con calma, ritrovò la sua torcia, e pur zoppicando e con qualche graffio, riuscì a tornarsene a casa, il luogo ideale dove ritrovare fiducia in se stesso e scommettere ancora sul suo destino.


            Bruno Magnolfi

lunedì 8 febbraio 2010

Il dovere più forte.

            

            Durante un periodo un po’ particolare di diversi anni fa, in seguito alla confidenza che una persona mi aveva fatto a proposito dello psicanalista da cui era in cura, iniziai ad annotare ogni mattino ciò che ricordavo dei miei sogni notturni, in considerazione dell’importanza di questa materia sostenuta da quel medico. Nello stesso periodo un ragazzo mi confidò che dormire avvolti in una termocoperta spenta, ma allacciata alla presa della corrente elettrica, formando un forte campo magnetico, stimolava il cervello in modo talmente inconsueto da permettere delle performance impensabili in altra maniera. Da quel momento iniziai quasi ogni notte a dormire nudo rannicchiato nella termocoperta, ed anche se mi sentivo la pelle sudata dal calore del campo magnetico, ugualmente sopportavo il piccolo sacrificio, convinto che il mio dormire, e quindi i sogni eventuali, subissero un impulso straordinario.
Scrissi così molte cose in tutto quel lungo periodo, regolando la suoneria della sveglia in anticipo di un’ora rispetto alla mia normale tabella di marcia, in modo da avere ogni mattina tutto il tempo per annotare ciò che ricordavo dei sogni. Fu solo dopo un periodo lungo e estenuante dominato comunque dall’entusiasmo per quei quaderni pieni di appunti, che qualcosa iniziò ad incrinarsi. Il primo problema fu la sciocca richiesta del capufficio di anticipare l’orario di inizio del mio lavoro di un quarto d’ora. Apparentemente non era un gran sacrificio, ma questo veniva a scontrarsi con il momento dedicato all’annotazione dei sogni, e siccome non volevo svelare la mia attività, proposi in alternativa la possibilità di rimanere per mezz’ora, alla sera, oltre l’orario convenzionale. La mia proposta non venne accettata, e in più sollevò qualche inquietudine in tutti i colleghi. In breve, quel quarto d’ora che iniziai a rispettare si frappose tra il lavoro e i miei sogni, e a nulla valse ogni tentativo di far abituare il mio organismo al nuovo orario: non riuscivo più a fare i sogni di prima, e quelli che facevo erano stupidi, frammentari, non all’altezza delle mie aspettative.
 Per tutta la giornata continuavo ad essere preda di un nervosismo strisciante, e i miei accorgimenti, nonostante la termocoperta ed il resto, iniziarono ad essere inutili. Meditai a lungo le scelte, poi ne parlai al capufficio, il quale, perplesso, inaspettatamente autorizzò, soltanto per me, il ripristino del vecchio orario. I colleghi non ci videro chiaro, qualcuno chiese addirittura ad alta voce spiegazioni in merito al diverso trattamento, poi, nei corridoi e nell’ora di pausa pranzo, mi accorsi che c’era chi mi osservava in modo un po’ strano, ridacchiando alle mie spalle, confidando qualcosa sottovoce mentre passavo. I miei sogni intanto parevano persi comunque: sembravano adesso annidarsi nelle parti più oscure del mio cervello, rendendosi inafferrabili. Con quanto cercavo di sforzarmi al mattino, non riuscivo più a ricordare un bel niente, e il mio quaderno per gli appunti diventava sempre più inutile.
Il capufficio mi chiese di prendere un periodo di riposo, visto che la qualità del mio lavoro negli ultimi tempi era andata notevolmente calando, e fu nel periodo in cui ero a casa che mi arrivò una lettera in cui la società per cui lavoravo richiedeva una visita medica specialistica da effettuare presso uno studio psichiatrico. Mi preparai per tempo, e in una cartella portai con me tutti i quaderni con i sogni annotati: i due medici vollero sapere tutto quanto, si interessarono molto al mio caso, furono affascinati dai miei metodi con i quali avevo annotato tutti quei sogni, e quando, diversi giorni più tardi mi arrivò un’altra lettera in cui si diceva che non avrei più dovuto andare in ufficio e che mi veniva comunque rilasciato un vitalizio, un piccolo stipendio senza alcuna necessità di sacrificarmi con il lavoro, seppi che i medici avevano capito: erano i sogni ben più importanti di ogni altra cosa, non dovevo sacrificarli, era quello il dovere più forte.


            Bruno Magnolfi

domenica 7 febbraio 2010

Animo poetico.

            

            Leggere poesie davanti al pubblico non sempre risultava facile. Si trattava di preparare bene i testi, imparare a memoria tutte le scansioni, le intonazioni dei passaggi, gli appoggi da mettere su una sillaba o sull’altra, e poi scandire bene le parole, in modo che il testo risultasse chiaro a tutti. Lei aveva iniziato per caso, da autodidatta, andando dietro a qualcuno che le aveva detto: “E’ interessante la tua voce, profonda, ricca di espressività, adatta a recitare…”. E così, quasi per scherzo, aveva cominciato tra amici a leggere qualcosa a voce alta, con tutti che le facevano sempre tanti complimenti, per proseguire pian piano in luoghi sempre più affollati, in circoli culturali e in piccole platee di ogni genere, dove spesso non conosceva quasi nessuno, ma dove sembrava, a detta di molti, che senza di lei quelle serate non si potessero proprio organizzare.
Le era capitato di leggere poesie di ogni genere in quegli anni, dai grandi classici della letteratura fino ai giovani poeti esordienti, ed ogni volta aveva sempre provato gli stessi sentimenti, un’emozione forte che invece di farle tremare la voce, le dava coraggio; e poi l’intensità, la passione per tutte quelle parole così belle, così sentite, così alte nei loro contenuti. Le pareva buffo, ripensando qualche volta a quell’attimo subito prima di iniziare, a come le si presentasse quasi come assurdo quello che stava per fare, quasi non ne fosse in grado, assolutamente non all’altezza. Una grande emozione la coglieva praticamente ogni volta, tanto da renderle evidente che sarebbe stato impossibile leggere tutto quello che era stato programmato. Poi invece, era sufficiente iniziare, scandire le prime parole, sentire il suono vibrante della propria voce, e il resto andava avanti perfettamente, quasi per moto proprio.
Spesso c’erano stati gli autori accanto a lei o in mezzo al pubblico, ma quella sera non era così: era stato presentato quel nuovo libro dalla casa editrice e da alcuni letterati intervenuti, e tutti avevano cercato di allungare le frasi di introduzione e le parole di presentazione, ma l’autore, per qualche motivo incomprensibile, non si era ancora fatto vivo, ed il suo ritardo era ormai tale da non permettere altre attese. Lei aveva iniziato a leggere alcune poesie scelte dal relatore e dalla casa editrice, e alla seconda, durante un passaggio intenso dominato dal silenzio e dall’attenzione di tutti per quei versi così ben scanditi, lui arrivò.
Un cappotto scuro, cappello, la sciarpa, le mani affondate nelle tasche, dal fondo della sala guardò intensamente verso di lei che leggeva, ma solo per un attimo, poi si avvicinò e si sedette su una sedia rimasta libera, in silenzio; lei andò avanti senza soggezioni, leggendo tutto quanto era stato programmato, e l’applauso fu forte quando ebbe finito e chiuse il libro che aveva sempre tenuto davanti a sé. Fu a quel punto che l’autore la raggiunse, le prese le mani che ancora reggevano quel libro e poi l’abbracciò, in un moto talmente spontaneo che tutti apprezzarono e gioirono di quel gesto. Fu allora che lei iniziò a tremare, senza riuscire assolutamente a trattenersi, e la commozione che le prese mostrò a tutti il suo animo e la sua sincerità.


            Bruno Magnolfi

giovedì 4 febbraio 2010

Il migliore di noi.

            

            Rino è sempre stata una brava persona. E’ l’amico più grande che io abbia mai avuto. Ci sono delle volte che gli telefono: “Ehi Rino, come va?” gli chiedo; e lui mi risponde con una risata e poi mi chiede se per caso non mi va di raggiungerlo al bar o a casa sua per bere una birra e stare un po’ insieme: “Passo a prenderti subito, se vuoi”, dice. Qualche volta gli rispondo di si e allora vado con lui, in quel suo bar sotto casa, e lui saluta sempre tutti, mi presenta agli altri e sorride, dice a chiunque cose simpatiche. Poi mi parla di sé, delle cose che ha fatto quel giorno o in quegli ultimi tempi, e lo fa con un modo che a me sembra di essere lui, di aver fatto anche io quelle sue stesse cose.
In tutti questi anni non mi sono mai sentito veramente da solo, anche se la vita con me è stata un po’ dura; e anche se si sono presentati dei giorni pesanti, dei periodi in cui tutto è parso girare per il verso sbagliato, io ho sempre saputo che in qualsiasi momento avevo la possibilità di rivolgermi a lui, a Rino, e questo per me è sempre stato di grandissimo aiuto, sufficiente a vedere tutto in maniera più positiva. A volte mi sono chiesto che cosa se ne faccia Rino di un amico come posso essere io, e una volta che avevo bevuto un po’ troppo gli ho fatto proprio questa domanda, gli ho proprio chiesto che cosa gli importasse di me uno davvero dritto come lui. Lui mi ha guardato, ha bevuto un sorso per schiarirsi la voce, poi mi ha detto: “Stai scherzando; sono io che mi chiedo cosa farei senza di te, perché tu hai una forza dentro che gli altri non hanno, solo che per te è una cosa naturale, non te ne puoi neanche rendere conto…”. Io non l’ho preso sul serio, però quella risposta mi è molto piaciuta, perché se c’è una cosa di cui soffro è il fatto di non poter essere utile agli altri, anzi di essere spesso solo un impiccio.
Poi abbiamo fatto un giro con la sua macchina, abbiamo parlato di tutto e lui mi ha chiesto se per caso avessi bisogno di qualcosa, qualcosa di particolare in quel periodo, ma io gli ho detto di no, solo che a volte ero un po’ triste e certi giorni mi parevano lunghi e pesanti, ma lui mi ha scritto il numero di telefono dove lavora e mi ha detto che potevo chiamarlo anche lì se per caso fosse arrivato un altro giorno del genere, così mi sono sentito subito meglio.
E’ stato il giorno seguente, mentre cercavo di prendere la mia rubrica per scriverci anche quel numero, che come uno stupido sono andato a cadere per terra, proprio mentre ero in casa da solo, e la mia carrozzella si è rovesciata andandosi ad incastrare sotto ad un tavolo, lasciandomi lì, inerte. Ho provato a tirarmi su, ho provato in tutti i modi, ma con tutti gli sforzi non ci sono riuscito, e mi sono sentito disperato con le mie maledettissime gambe che non mi aiutavano e mi facevano sentire inutile a tutto.
E’ stato allora che ho visto vicino a me quel suo numero, il numero di telefono di Rino, e così mi sono fatto coraggio, ho pensato a quello che lui avrebbe detto, ho immaginato l’intera telefonata, e questo mi ha fatto stare meglio, così ho recuperato le forze e poco alla volta mi sono tirato su. A quel punto gli ho telefonato, quando il peggio ormai era passato, e gli ho detto tutto quello che era successo, gli ho detto quello che avevo pensato ed il resto. Rino è rimasto qualche momento in silenzio, poi mi ha ringraziato, con serietà, e alla fine mi ha detto: “Solo un amico si può comportare come tu fai con me”, ed io mi sono sentito migliore.    


            Bruno Magnolfi 

mercoledì 3 febbraio 2010

Zeus.

         

            I ragazzi della compagnia si erano abbondantemente annoiati anche quella sera, restandosene lì seduti in maniera scomposta sulle solite panchine del giardinetto nel loro quartiere. Qualcuno aveva anche portato due piccoli diffusori per ascoltare la musica, e per un po’ si era parlato animatamente delle solite cose, ma alla fine nessuno di loro aveva più saputo che dire, così tutti avevano finito per ascoltare quelle canzoni in silenzio, senza fare nient’altro. Ad un tratto, mentre qualcuno già pensava di andarsene a casa, era arrivata una ragazza col cane, una persona mai vista che teneva al guinzaglio un grosso mastino, uno di quelli che è bene tenere alla larga. Lei sembrava tranquilla, ma il cane continuava a tirarla da una parte e dall’altra, e dopo un po’, con uno strattone appena più forte, si era liberato dalla debole presa, iniziando a correre da solo lungo quel marciapiede. La ragazza si era subito disperata, e aveva chiesto aiuto, così tutti loro della compagnia si erano sentiti in dovere di correre dietro a quel cane con il guinzaglio ancora attaccato. “Zeus”, diceva lei a voce spiegata, “Fermati, dai”, ma il cane continuava a scappare come giocando a farsi rincorrere da tutti i ragazzi. Due o tre macchine inchiodarono le ruote quando Zeus decise di attraversare la strada, ma non successero guai, e la corsa continuò senza che niente sembrasse arrestarla. A un certo punto la ragazza si fermò ormai sfinita, e i primi due o tre della compagnia che erano rimasti fino a quel momento dietro di lei si fermarono anch’essi, come per cercare di raccogliere le idee e fare il punto della situazione. Zeus naturalmente era immediatamente sparito dietro ad un angolo, e la ragazza ansimando aveva cominciato a spiegare che il cane non era neanche suo e lei era soltanto una dog-sitter. Così venne deciso di formare due gruppi, uno che continuava ad andare dietro al cane, e l’altro che girava attorno al gruppo di case e cercava di intercettarlo dall’altra parte. Infine, percorsi qualche altro centinaio di metri, ci si accorse che un uomo, con molta perspicacia, appena Zeus gli era passato vicino, aveva sveltamente infilato il guinzaglio dentro ad una sbarra di un’inferriata, bloccando il cane e salvando la situazione. La ragazza era felice, ovviamente, e il resto della compagnia lo era per lei. Vennero fatte le presentazioni e scambiate battute di spirito, fino a darsi appuntamento al pomeriggio seguente, per ingaggiare un’altra bella corsa, e per ringraziarlo del suo metodo contro la noia tutti allora si avvicinarono a Zeus, giusto per scoprire che era soltanto un grosso cagnone simpatico in vena di scherzi, ben felice di ricominciare davvero la gara alla prima occasione.


            Bruno Magnolfi

martedì 2 febbraio 2010

Studenti fuori sede.



Certe volte si passeggiava a caso, senza uno scopo. Si andava incontro a qualcosa del quale non si era certi di voler davvero conoscere, ma di cui senza dubbio eravamo curiosi. Quasi ci perdevamo, ogni volta, attorno alla descrizione di un minuto dettaglio, o rapiti dalla invadenza di un particolare che funzionava da fulcro. Si piangeva ridendo, dentro noi stessi, pensando e immaginando la storia che aveva consumato le strade, le case, le facce, le espressioni di persone che a mani nude avevano plasmato le idee. Ci meravigliavamo di tutto, quasi sempre, e ci sentivamo migliori ogni volta che le parole soffuse parevano adatte a descrivere le nostre emozioni. Poi si trovava migliori anche coloro che al bar della stazione ci servivano un caffè impersonale, che dentro a luci al neon spietate continuavano con il proprio lavoro nelle tarde ore serali come se tutto fosse ordinario, consueto, niente che sostituisse la norma. Ci salutavamo a notte inoltrata, quando tutto tendeva al silenzio, con la certezza di proseguire ogni gesto, ogni pensiero, ogni emozione, bastava ritrovare la sera giusta, e ritornare ancora a passeggiare a caso, senza uno scopo. Poi arrivavano le giornate peggiori, quelle che ci facevano sentire incapaci, inconcludenti, inutili per gli altri e persino a noi stessi. Allora ci si rimboccava le maniche, ci facevamo forza sul filo di qualche telefonata e si cominciava a far girare il cervello; si ritornava in facoltà, si prendevano appunti su orari, lezioni, assistenti, si prendevano in prestito i libri in biblioteca o si trovava da qualcuno le benedette dispense, poi lo studio stritolava ogni altro pensiero. Non erano gli esami a spingerci avanti, era quel benedetto senso di colpa, quell’incapacità latente che avevamo di costruire il futuro sulla base di elementi riconosciuti dagli altri, che non fossero soltanto un’accozzaglia di sogni e fantasie che non avrebbero mai trovato seguito, per i quali forse ci torturavamo inutilmente. Una ragazza mi disse: “Sei qui per sostenere l’esame?”; ed io, che non avevo neanche un vestito decente e i miei capelli erano sicuramente in disordine, risposi soltanto: “No, sono l’assistente, ho solo fatto un po’ tardi…”.


            Bruno Magnolfi