venerdì 30 maggio 2014

Aggiornamenti del destino.

            

Dentro al negozio il ragazzo sembra muoversi con circospezione, gli altri clienti lo ignorano, i commessi a loro volta sono tutti occupati con i clienti. Lui gira tra gli scaffali, prende tempo da solo come cercando qualcosa che non riesce a trovare, ed infine, forse proprio quando la sua presenza pare farsi quasi imbarazzante, sfila dal mucchio dei dolciumi una semplice confezione di gomme da masticare, la tiene nella mano bene in vista, poi giunge alla cassa, paga quanto dovuto ed esce dall'esercizio.
In una diversa ripresa delle telecamere di sorveglianza, il disinteresse generale per le azioni del ragazzo dentro a quel piccolo centro commerciale, pare quasi stigmatizzato dal semplice fatto che lui in fondo sembra proprio uno qualsiasi, senza alcuna caratteristica di sorta. Difatti anche il suo passo, la sua camminata, il modo stesso di spostarsi, appaiono quelli di una persona qualunque, neppure particolarmente muscolosa o prestante, ma che probabilmente si limita a svolgere ogni tanto qualche forma di sport, magari frequenta non assiduamente una palestra del suo quartiere, oppure è addirittura probabile si lasci andare all'ordinaria partita di calcetto del martedì con gli amici.
Forse è maggiorenne, però sembra uno di quei diciottenni o ventenni che ancora conservano molto del ragazzetto, magari per pura timidezza, oppure per un comportamento imposto da una famiglia piuttosto invadente o addirittura soffocante. Il ragazzo appena sul marciapiede si ferma, apre l’astuccio delle gomme, se ne mette una in bocca, poi riprende a camminare. Venti metri più avanti, dopo appena dodici secondi, sta per accadere quello che lui non si sarebbe mai atteso. La telecamera puntata in basso davanti alla banca lo inquadra ancora una volta, lui sembra tranquillo.
I suoi pensieri sono presi da cose piuttosto banali, e generalmente durante i pomeriggi come questo i tentativi maggiori che compie sono tesi tutt'al più a fare in modo di non diventare preda della noia più negativa. Potrebbe allungare la camminata fino al circolino vicino casa, per esempio, tanto per fare un tentativo, però sa bene che a quell'ora è facile non trovare in quel locale neppure uno dei suoi soliti amici, quindi rinuncia.
Va ancora avanti, i passi ora sono lenti ma appaiono notevolmente incalzanti, i secondi di tempo che ancora mancano ormai sono soltanto una semplice manciata. La sua riflessione piuttosto vaga sulle possibilità offerte dal suo prossimo fine settimana, giungono quasi sul finire del tempo, quando il suo camminare pare ormai al termine, e tutto ciò che deve avvenire si mostra praticamente inarrestabile.
La ragazza in quell’attimo esce quasi di corsa dal civico trentasei, ed è lei esattamente la compagna delle scuole elementari e medie che il ragazzo aveva perso di vista da qualche tempo, così loro due si scontrano sul marciapiede, ma non troppo violentemente: lei riconoscendolo immediatamente si scusa ridendo per la gioia e la stupore di averlo incontrato, lui al contempo appare così sorpreso di ritrovarsela così, praticamente tra le braccia, da restare addirittura senza parole, e la telecamera di quel tratto di strada lo dimostra piuttosto nettamente.
Si parlano, mostrano gioia sincera e reciproca del loro incontro, ed anche se in pratica è soltanto un contatto iniziale quello che avviene, eppure sembra proprio carico di promesse, e tutto quanto è sicuramente ben documentato, sembra di poter dire addirittura che non ci può essere alcun dubbio, forse perché questa è proprio la verità dei fatti così come sono accaduti, questa quindi la realtà delle cose. Questo quindi il destino.


Bruno Magnolfi

martedì 27 maggio 2014

Distillati solidali.

           

Questa cuccia è proprio quello che ci vuole per me. A due passi dalla sotterranea e dalle fermate degli autobus, quasi all'incrocio nevralgico della gente che va e viene dalla stazione ferroviaria, mi permette di controllare tutta la situazione da una posizione assolutamente privilegiata. Poi mi basta girare dietro questi magazzini dove non viene mai nessuno, ed eccolo qua il mio angolo ben riparato da questa vecchia tettoia.
Sto qui a godermela da qualche giorno senza neppure l'ombra di un qualsiasi problema, ed ecco d'improvviso che arriva questo tizio. Mi guarda da sette o otto metri di distanza, e non dice niente: sporco marocchino, penso, anche se per quanto ne so magari potrebbe essere turco o anche pakistano. Lui fiuta il mio posto, la mia invidiabile cuccia, mi guarda, poi senza darmi importanza si volta e va via. Ha notato sicuramente che zoppico, che non posso correre, avrà la metà dei miei anni, può fare di me quello che vuole, penso. Sto ancora qui a godermi il mio angolo, poi do una bella sistemata alle mie poche cose e vado a farmene un giro in mezzo alla gente, giusto per una sigaretta o qualche spicciolo.
Più tardi lo rivedo, il bastardo, mi osserva da lontano e non dice niente, deve essere arrivato da poco tempo da queste parti, penso, magari non sa neanche parlare. Lo ignoro, proprio come è giusto, e lui se ne va. Quando torna però ha qualcosa sotto ad un braccio, un involto indecifrabile, forse è soltanto la sua coperta dove passa la notte, penso, forse vuol sistemarsi anche lui da qualche parte sotto a questa tettoia.
Via, gli fo con una mano, devi andartene e basta, non c'è posto per te. Lui si siede a terra lontano, con le spalle nel muro, neppure mi guarda adesso, non me lo toglierò facilmente di torno, penso. Più tardi fo un giro per rimediare la cena, quando torno uso tutta la circospezione che ci vuole per non farmi notare dalla polfer, e lui è ancora lì, proprio come se non desse noia a nessuno. Vai via marocchino di merda, gli fo, ma quello si scrolla senza far altro, e così io vado a prendere l'acqua della fontanella con una vecchia bottiglia e gliela tiro, tanto per bagnargli un po' la sua coperta pulciosa.
Lui si tira su, dice qualcosa probabilmente imprecando, io me ne frego, devi andartene, penso, ma poi lascio che stia ancora un po' lì a piagnucolare e a dire cose stupide nella sua lingua di merda. Sistemo tutto quanto e mi sdraio: me ne frego di te, è come se dicessi, non sto certo dietro ai tuoi stupidi problemi.
La mattina mi sveglio e lui non c'è più. Giro lì attorno e del marocchino non è rimasta neppure la puzza. Sistemo le cose in modo che la polfer non veda niente, poi vado a cercarlo. Alla fine lo trovo, è lì nella sotterranea, non sta facendo niente, sta là sotto con le mani dentro le tasche e nient’altro. Così gli dico in malo modo che se vuole può ritornare sotto alla tettoia, ma lui fa un gesto di odio e sembra non gli importi di nulla. Allora con pazienza mi avvicino e gli dico che anche se è un marocchino di merda può sempre venire fin sotto alla mia tettoia. Lui forse capisce, ma non si muove, così gli strappo di mano la coperta mentre lui mi guarda. Aspetta ancora, forse per vedere cosa succede, poi mi viene dietro, quasi senza una sua volontà propria. Infine arriviamo alla tettoia, uno dietro l’altro, io gli metto la coperta nel posto secondo me più adatto per lui, e vado a sistemarmi nella mia cuccia, senza neanche tornare a guardarlo.
Lui si siede, mi guarda, non cerca neppure di dirmi grazie. È un marocchino di merda o che so io, penso, però è come me, avrà forse la metà dei miei anni, e poi c'è posto per tutt'e due sotto questa tettoia. Puoi rimanere, penso, marocchino di merda, forse domani sarò anche tuo amico.


Bruno Magnolfi

giovedì 22 maggio 2014

Concreta verità.

            

Per favore, dico certe volte a qualcuno che incontro, potresti offrirmi una delle tue sigarette? Poi, mentre l'altro caccia di tasca il pacchetto bello pieno, lascio andare una spiegazione, sempre la medesima. Le mie le ho dimenticate sul furgone, dico, e a queste parole i più annuiscono senza aggiungere nient’altro. Non sanno nulla, penso, non si rendono minimamente conto delle cose come sono. Qualsiasi cosa per me nasce e si sviluppa sopra al mio furgone, anzi, praticamente tutto ciò che possiedo è sistemato sopra questo mezzo. Tutto il giorno giro a piedi per strada, cerco di darmi da fare come posso, di recuperare qualcosa, poi la sera torno là, in quel parcheggio periferico dove passo tutte le mie notti.
Un tempo con il mio furgone potevo andarmene in giro, il suo motore girava bello tranquillo e tutto andava bene. Quando ha cominciato a perdere colpi fortunatamente sono riuscito a farlo arrivare fino a quel parcheggio, e da quel momento molte cose però sono cambiate. Ce l'hai anche qualche spicciolo, per caso?, dico ancora a qualcuno che dall'espressione pare prometta proprio bene.
Poi una sera torno al mio furgone e scopro che hanno tagliato tutte le gomme. Non è importante, penso, qualche balordo in giro purtroppo te lo trovi sempre, però così il furgone dà nell'occhio, si vede già da lontano che non è un mezzo marciante e che non ha i documenti in regola. Devi stare attento, mi dico, quando arrivi al parcheggio, specialmente se è buio,  devi sempre fargli almeno un giro intorno prima di salire su, non si sa mai. Dentro ci ho portato tutto ciò che mi serve, il fornello e anche un materasso comodo, ma in questa guerra in corso a qualcuno fanno addirittura gola le povere cose, persino gli oggetti più umili. Forse ogni tanto dovrei spostarlo almeno di qualche metro il mio furgone, ma con le gomme a terra adesso non so proprio come fare.
Da un giorno all'altro mi aspetto che facciano saltare la serratura ed entrino dentro quando non ci sono; mi faranno trovare tutto devastato e non potrò più utilizzarlo questo mio furgone. Ogni tanto ripenso a quando facevo l'artigiano e con quel mezzo ci portavo a termine tanti bei lavori, ma tutto si vede che è destinato a cambiare, e la maggior parte delle volte anche in peggio. Così oggi mi accontento di quel che posso racimolare, ma se mi tolgono il furgone saranno tempi ben più duri.
A qualcuno qualche volta chiedo ancora se per caso avesse da farmi fare qualche lavoretto, qualche riparazione semplice a casa sua, per esempio, ma poi rifletto che senza neanche quei pochi attrezzi che sono rimasti là sopra al furgone, non saprei proprio come fare. Così alla fine mi accontento di dare una mano a qualche vecchia per portare in giro la spesa e cose di quel genere, perché altro proprio non posso. E’ chiaro che se soltanto il mio furgone ripartisse, magari per magia pura, tutto sarebbe differente.
L’altra sera torno al parcheggio e il mio furgone non c’è più, così chiedo un po’ in giro cosa possa essere successo, e allora mi dicono che se lo sono portato via i vigili urbani con un carro attrezzi. Bene, dico tra me, dovevo aspettarmela un cosa di quel genere. Vado al più vicino comando dei vigili e racconto a loro tutta la mia storia. Quelli mi ascoltano, mi fanno sapere che le leggi vanno rispettate e che passeranno il mio caso all’ufficio competente.
Adesso sono qui, alla stazione ferroviaria; non ho più niente, se non la solidarietà di qualche passante generoso che mi dà qualche spicciolo o una sigaretta. Però nella mia tasca ho conservato un numero di telefono. Domani chiamerò l’ufficio, e qualcosa mi diranno; a me basterebbe soltanto che mi trovassero un furgone, un mezzo anche più piccolo di quello che avevo prima, magari però marciante e in buono stato. Potrei di nuovo lavorare, penso, andare in giro a sistemare le cose alle persone. Chissà se sarà così, mi dico; eppure stasera, se ci penso a fondo, questa cosa mi sembra quasi possibile, a portata di mano, come potesse essere davvero la verità, proprio quella che penso, e non un altro sogno. Dev’essere così, rifletto; in fondo, è come fosse vero.

Bruno Magnolfi


lunedì 19 maggio 2014

La forza della ragione.

          

Oggi non è aria, fa il mio amico sottovoce appena entro nel bar. L'altro dice subito a voce alta che è molto meglio se ci leviamo dai piedi tutt'e due, altrimenti potrebbe anche succedere qualcosa di poco bello. Nel locale ci sono soltanto due o tre tizi in un angolo che si fanno i fatti loro. Io resto in piedi vicino alla porta, abbondantemente incerto sul da fare, il mio amico invece si gira, si avvicina al banco con aria strafottente e chiede al barista una birra media, mentre l'altro prosegue da solo con concentrazione a fare dei tiri sapienti sul biliardo.
Alla fine mi avvicino al banco, il mio amico mi guarda per un attimo, io lo imploro con gli occhi di ordinare da bere anche per me, ma tutto resta fermo, e lui adesso sembra interessarsi soltanto delle etichette di liquore davanti alla sua faccia. L’altro alza la stecca, appoggia a terra il calcio e muove giusto un passo nella nostra direzione, guardandoci con sfida.
Calma, dice il barista, intuendo qualcosa che forse a noi era sfuggito. Comprendo che ci deve essere appena stata una bella discussione tra il mio amico e l’altro, ma non riesco ad afferrare quale sia potuto essere il motivo. Dico a voce alta che forse mi va di fare un paio di tiri sopra a quel biliardo, tanto per smuovere un po’ le acque, ma a dire la verità nessuno mi dà retta, così a me non resta da far altro che avvicinarmi al tavolo staccando una stecca dalla rastrelliera, ed iniziare con lentezza a dare il gesso sulla punta.
Credo che tu non abbia capito, mi fa l’altro. Il mio amico intanto si volta per guardarci, io mi sento forte della sua assistenza, così stendo la mia stecca e tiro un rimpallo senza storia. Poi rimetto a posto tutto quanto, come se avessi fatto la mossa più importante della vita, e vado a buttarmi seduto su una seggiola di plastica lì accanto.
Il mio amico mi fa segno con la testa che adesso dobbiamo proprio andarcene, ma io mi sento bene, non vedo quale possa essere il problema, così resto seduto, guardo avanti a me le buche e il panno verde, come seguissi una partita immaginaria. L’altro ride: vuoi giocare, fa senza guardarmi. Io lo ignoro, e mi pare sia arrivato già il momento giusto, così mi alzo lentamente forzando sui braccioli, e senza tornare a riguardarlo vado verso l’uscita del locale. Mi accosto al mio amico proprio quando l’altro si fa avanti verso di noi con la sua stecca nella mano: ehi, mi fa, ho parlato con te. Lascialo stare, dice il mio amico con un tono che pare riferirsi anche a chiunque altro nei dintorni. L’altro gli appoggia una mano sulla spalla e poi lo spinge fuori, ma il mio amico dapprima fa un po’ di resistenza, poi si volta di scatto e gli dà uno schiaffo sulla faccia.
L’altro reagisce e gli affibbia un pugno debole sulla stessa spalla, facendo cadere la sua stecca senza neanche preoccuparsene. Io fo quasi uno scarto, raccolgo la sua stecca, la prendo per la parte della punta e lo minaccio, ma senza dire niente. Stai scherzando, mi fa l’altro; avanti, da bravo, restituiscila, dice, e intanto allunga il braccio. Lo colpisco inaspettatamente sulla mano con una botta secca, e quello cade subito a terra dal dolore: probabilmente gli ho fratturato il polso, penso, poi getto il legno da una parte, quasi con disgusto.
Non voglio casini qua dentro, fa il barista a voce alta uscendo dietro al banco. Filate via voi due, e dimenticatevi di tornare qui. L’altro si rialza reggendosi la mano in una smorfia di dolore, e mi assesta una pedata in una coscia, mentre il barista cerca come può di trattenerlo; io e il mio amico usciamo in fretta da là dentro, senza stare neanche a chiederci null’altro.
Abbiamo fatto bene, fa il mio amico mentre saliamo in macchina: quando c’è lui questo bar sembra tutto suo, forse non si è neppure reso conto che noi quando vogliamo siamo una forza.


Bruno Magnolfi

venerdì 16 maggio 2014

Senza una vera volontà.

            

Ho voglia di buio; ho bisogno del buio, e di silenzio, pensa Renato. Vorrei sentire acquietarsi questo brusio, questo formicolare insensato di tutti alla ricerca perenne di qualcosa di più. Non c'è niente di buono nel disperdere le energie in questo modo. Dobbiamo fermarci, riflettere, attendere, penso.
Ho voglia di osservare le persone che passano lungo la strada, fuori da questa finestra, pensa ancora Renato, riuscire a sentire sulla mia pelle i loro pensieri, immaginare il destino verso cui vanno incontro, riflettere su quante possibilità potrebbero esserci per me di scoprire con loro delle cose in comune. Infine Renato riconosce ad un tratto un suo conoscente, laggiù sul marciapiede, cosi apre in fretta la sua finestra, si fa vedere a gesti, poi corre fino in fondo alle scale ad incontrare quella persona.
Ho voglia di essere uno qualsiasi, dice Renato a quell’uomo, anche se non sono d’accordo su quanto riesco a vedere e a comprendere degli altri. Vorrei essere uno come tutti, ma poi, anche se tento, non riesco mai ad esserlo. L'altro annuisce, cerca di alleggerire gli argomenti, chiede se ci sia qualcosa in cui passa aiutarlo. Renato lo guarda ma non dice niente, così il conoscente lo saluta, spiega che va un po' di fretta, Renato gli stringe la mano e lo guarda mentre riprende il suo passo per allontanarsi.
Ho voglia di starmene in casa, pensa Renato, ma alla prima occasione sono pronto ad uscire. Vivo costantemente qualche contraddizione, ma forse questo è solo un altro elemento che mi accomuna a tutta la gente. Devo fermarmi ad acquistare qualcosa per il pranzo di oggi, riflette Renato, ma non so cosa, probabilmente mi lascerò guidare dal salumiere del mio quartiere. Sono quasi sicuro che lui mi dirà le solite cose, consiglierà del formaggio, forse delle acciughe sott’olio, oppure chissà.
Ho voglia invece di assaporare qualcosa di nuovo, dirà forse Renato al negoziante, e in seguito a questa perplessità probabilmente uscirà dalla bottega soltanto con un semplice pezzo di pane, e nient’altro. Non ha alcuna importanza, dirà lui tra sé; soprattutto si dobbiamo sentirsi sociali, penserà lungo la strada incontrando sul portone del condominio la solita inquilina del terzo piano. Impossibile evitarla, si deve essere pronti ad affrontare ciò che succede. Dobbiamo accordarci per i lavori più urgenti da fare in questo palazzo, dirà lei con decisione, e Renato assentirà, come fa sempre in questi casi. La saluterò con cortesia, pensa ancora Renato, in modo che nel vicinato non si abbia a dire qualcosa sul mio conto, che sono uno strano, per esempio, o altre cose del genere.
Ho voglia soltanto di starmene per conto mio, pensa ancora mentre rincasa, forse vorrei che tutti sparissero, che nessuno mi chiedesse ancora qualcosa, il mio parere, ad esempio, oppure di fare delle piccole scelte, quasi che questa fosse vera libertà. La solitudine è il mio unico regno, pensa Renato, ed è del tutto inutile che cerchi poco per volta di auto convincermi di qualcosa di diverso. Devo azzerare una volta per tutte questi miei pensieri, muovermi attorno a tutto quanto con delle convinzioni inamovibili, che non siano assolutamente scalfibili, che niente possa cambiarle.
Ho voglia di essere me stesso, pensa ancora Renato, anche se in realtà spesse volte non so più neppure veramente chi sono.


Bruno Magnolfi

mercoledì 14 maggio 2014

Duello.

            

Probabilmente dirai che sto sbagliando tutto. Allora cercherò di darti la migliore spiegazione del mio comportamento, ma tu sorriderai quasi senza commentare, lasciandomi perplesso a chiedermi dove si sia annidato quello sbaglio. Ad un certo punto metteremo in mezzo una pausa opportuna, forse, che lentamente si stempererà nel nulla, proprio come fosse la sensazione derivante dal nostro semplice parlare.
Stiamo fermi sulla piazza, ogni tanto arriva un po’ di vento, le nuvole sopra i palazzi corrono veloci. Se acuisco la sensibilità forse riesco ad immaginare quello che stai per dirmi, ma tutto questo non è niente, considerando che vorrei pensare ad altro, essere in un altro luogo, occuparmi di elementi che in questo momento non sono per nulla rappresentati in questo posto.
Inutile, potremo dire ambedue se i pensieri fossero parole; eppure adesso tireremo avanti, in qualche modo, e ci sentiremo simpaticamente ancora vivi, parlando e giustificando qualsiasi comportamento che abbiamo avuto fino ad ora.
Bisogna spazzare via tutto, dici provocatoriamente senza credere fino in fondo a quello che sostieni. Te lo lascio dire, però è chiaro ad ambedue che dovremo invece fare i conti con tutto quanto esiste ed è reale.
Poi accade qualcosa, tu ti volti per osservare qualcuno che credi di conoscere, io provo una leggera invidia della tua capacità di stare a proprio agio, così mi volto dalla parte opposta per non concedere importanza alle tue azioni. Quando torno a girarmi non ci sei più, ed è sparito anche il vento, le nuvole, la piazza, i palazzi immobili. Anche per te non ci sono più, siamo ambedue altrove, ma in luoghi differenti, persi dietro altri pensieri.
Dico il tuo nome a voce alta, probabilmente tu fai la stessa cosa, ma non serve a niente, siamo estranei, forse proprio come siamo sempre stati.
Questo tratto di città appare monotono, penso; dovrò dirtelo una volta o l'altra, ma sarà facile che tu non voglia affatto crederlo.


Bruno Magnolfi

lunedì 12 maggio 2014

Spirito negativo.

            

E’ già da un po’ di tempo che chiedo, a dire la verità in maniera poco insistente per via della timidezza mai superata, sia al mio medico, così come ai dipendenti delle farmacie davanti alle quali mi trovo a passare, di prescrivermi, sempre che esista, una pillola in grado di calmare, se non di azzerare del tutto, almeno per un giorno, o anche semplicemente per qualche ora, questi miei soliti dolori. Non so di che cosa io abbia effettivamente bisogno, e comunque se anche lo sapessi non saprei neppure spiegarlo, però questa mia sottile sofferenza diffusa sta diventando nel suo insieme una malattia vera e propria, anche se a volte stento io stessa a reputarla tale.
Mi sdraio, quasi sempre, come spossata, appena torno a casa dopo l’orario d’ufficio, e nella solitudine del mio piccolo appartamento resto lì, a pensare al dolore ad un polso, o alle reni, oppure alla cervicale. Non sono sofferenze che durano a lungo, però si sovrappongono, ed anche se la mia stanchezza non mi permette di far altro che starmene da sola in silenzio, nelle penombra di una stanza, sdraiata sopra al divano, non riesco mai a riposare come e quanto vorrei, grazie proprio a queste piccole sofferenze che mi tengono sveglia, presente, incapace di pensare ad altro che non siano le mie ossa, i miei muscoli, i nervi, insomma ogni particolare di tutto il mio organismo.
Qualche collega dice che dovrei fare della ginnastica, sciogliermi; il mio medico invece sostiene che avrei soltanto bisogno di un ricostituente; ma io so che non è affatto così, e che il mio desiderio più profondo è soltanto quello di dimenticarmi di tutto, di non provare più niente, di lasciare il mio corpo in balia dei suoi acciacchi, mentre la mente si prende almeno una pausa. Lo so che forse il mio caso è più comune di quello che potrei immaginare, però questa modalità quotidiana di affrontare le cose, mi porta sempre più ad isolarmi, a lasciarmi preda di semplici e costanti pensieri e riflessioni solo su di me, come esistessi io e basta, protesa nell'analisi dei miei piccoli guai e dei sottili dolori che mi tormentano.
Non vorrei mostrarmi agli altri in questa maniera, mi piacerebbe al contrario essere solare, aperta, protesa verso tutti, e certe volte mi sforzo addirittura di cambiare, ma sono tali le preoccupazioni per il mio stato fisico che torno immediatamente a ricadere preda dei miei piccoli guai. A volte mi vedo con una mia amica, di fatto una semplice collega di lavoro quasi della mia stessa età, e così posso sfogare con lei almeno in parte le mie preoccupazioni. Tu cosa faresti, le chiedo, e lei che è molto energica dice che impugnerebbe con forza la faccenda, innanzitutto sottoponendosi a tutte le analisi del caso, poi prendendosi una lunga vacanza lontano da tutto. Io la lascio dire, non posso spiegarle che ho anche delle altre forti paure, per esempio di scoprire su di me una malattia di quelle incurabili, o di venire a conoscenza di qualcosa che mi lasci dipendente dai farmaci per tutto il resto della mia vita. E per quanto riguarda le vacanze poi, l'unico momento in cui riesco a dimenticarmi di molti dei miei guai, è proprio quando sono impegnata nel mio lavoro, quindi non vedo come potrei desiderare di allontanarmi dall' ufficio dove alla fine sto meglio che in qualsiasi altro luogo.
Così lascio che le abitudini assodate prendano il sopravvento: lo so che molte delle cose negative dipendono spesso da me, ne ho piena coscienza. Difatti in tutto questo non ho neppure qualcosa o qualcuno contro cui prendermela. Però è una stasi la mia, lo so, mi è chiarissimo. Andrò avanti così, penso alla fine, non posso far altro.


Bruno Magnolfi  

sabato 10 maggio 2014

Indifferenza.

          

Ad un tratto ho detto qualcosa, in buona sostanza mi sono lasciato andare semplicemente ad un urlo, uno qualsiasi, quasi un brutto verso, forse una parola abbozzata, non so neppure io, ma cosi storpiata da apparire del tutto incomprensibile, tanto da non immaginarmi neanche che cosa fosse, cosa potesse rappresentare, anche se detta senz’altro a voce molto alta, con effettiva convinzione, all'improvviso, e tutto evidentemente soltanto per attrarre su di me l'attenzione di quanti si trovavano in quella grande sala d'attesa con la parete principale quasi interamente vetrata e quindi perfetttamente trasparente. Qualcuno in effetti si è subito girato verso la mia direzione, ma il resto dei presenti non ha dato grandi note di sé, ed è restato fermo, inerte, praticamente indifferente a tutto quanto accadeva.
Ho riso, dopo pochi secondi, una gran bella risata a bocca aperta, forse addirittura agghiacciante per alcuni, ma per me assolutamente liberatoria, piazzata com’era all’interno di una dimostrata indifferenza di ognuno verso tutti. Ho pensato ancora qualcosa che forse non aveva neppure senso, giusto per riflettere a mente aperta, senza preoccupazioni, poi restando seduto mi sono girato da una parte, rannicchiandomi quasi sopra un bracciolo della mia seggiolina, ed ho anche chiuso gli occhi, come se niente fosse stato possibile là dentro se non sonnecchiare e basta.
Mi sono subito reso conto che tra tutti c’era chi si guardava attorno, e c’erano anche altri che invece continuavano imperterriti a leggere qualcosa, ognuno per suo conto, proseguendo semplicemente a fare le loro cose, sopportando inevitabilmente un matto, che come accade a volte, stava tentando di offuscare semplicemente la loro conquista di quel piccolo spazio di ordinaria normalità. Perciò mi sono alzato ad un certo punto, e dando le spalle alla vetrata, ma conservando gli occhi puntati su di loro, ho detto con voce forte e decisa che era giunto davvero il momento di finirla. Qualcuno ha sviluppato intorno al proprio posto a sedere una lieve e breve risata, quasi un commento, sul filo probabilmente del pensiero collettivo precedente; molti altri però hanno sollevato il loro sguardo per un attimo puntando gli occhi proprio su di me.
Che cosa potevo ancora dire, mi sono chiesto ad un certo punto: rompere il senso di attesa di un gruppo di persone ordinarie come quelle presenti, mi pareva un elemento già troppo pesante anche per uno come me; farlo presente a tutti era stato il minimo, certo, ma per ciò che riguardava tutto il resto, potevano benissimo immaginarselo anche da soli, non importava affatto che io in quel momento insistessi. Ma quel proseguo di disattenzione ironica, di indifferenza crudele e quasi disumana, di inadempienza rispetto ad una naturale e sana curiosità, mi è parso in quel momento decisamente eccessivo, così ho pensato attentamente a cosa potevo ancora fare là dentro.
Ho cominciato a nuovermi con irrequietezza da una parte all'altra della sala, e qualcuno ha pensato bene di seguire con lo sguardo i miei movimenti, senza però darlo troppo a vedere, forse per evitare se non altro nuovi problemi. Nella mia specie di danza che portavo avanti da un lato all’altro, riuscivo comunque con ogni movenza a catturare l'attenzione di altri, e mi mostravo capace di distogliere molti da quel loro insano rinchiudersi dentro ai propri pensieri, anche se tutto questo non mi sembrava ancora per nulla sufficiente.
Cosi mi sono fermato, ho afferrato una sedia libera ridendo sguaiatamente, l'ho sollevata in aria, sopra la testa, e prendendo una certa rincorsa l'ho scagliata con tutte le forze che avevo contro quella vetrata che come un occhio inamovibile e inerte pareva continuare a fissarmi. I vetri sono subito crollati a terra, tutti si sono alzati nel grande frastuono che ne è seguito, alcuni hanno urlato e ne è nata una confusione incredibile. Io sono uscito con calma da quel caos generato là dentro: forse non è il luogo giusto dove fare certi esperimenti, ho pensato.


Bruno Magnolfi

mercoledì 7 maggio 2014

Salto di qualità.

            

Certe volte Armando vorrebbe essere diverso da come quasi sempre si sente, o forse gli piacerebbe soltanto sentirsi meno oppresso dai suoi pensieri, da quelle preoccupazioni che solitamente negli altri tutto sommato appaiono ordinarie, ma che in lui al contrario diventano veri e propri problemi. In certi casi, quando è da solo, se la prende addirittura con se stesso, riconoscendo il suo carattere come qualcosa che riesce soltanto a procurargli sofferenza; ma poi, quando si ritrova assieme ad altri, gli pare impossibile essere come loro, così superficiali e leggeri, quasi indifferenti a molte delle cose verso cui lui prova semplicemente un grande affanno.
Molte volte la sua giornata proprio per questo appare oltremodo deludente: è sufficiente per Armando non riuscire a fare qualcosa che aveva programmato per sentirsi un completo incapace. Per questo da qualche tempo ha deciso di dare una svolta radicale alle cose. Gli basta almeno fingere con se stesso come di dimenticarsi di quelle tante faccende che normalmente lo terrebbero occupato, per sentire all’improvviso che qualcosa sta cambiando dentro di sè. Il tempo libero che riesce in questa maniera a ricavarsi, Armando da un po' di tempo lo dedica alle attività meno impegnative di tutte: camminare, distrarsi, entrare, come fa spesso, in un locale del suo quartiere, sedersi ad un tavolo libero e farsi servire una birra o anche due, con tutta la calma necessaria e in assoluto pieno rilassamento.
Qualche volta, là dentro quel bar, potrebbe pure giocare alle carte o al biliardo come fanno molti, ma in fondo tutto questo non gli interessa, anche se gli piace quando qualcuno gli parla, magari spiegandogli le proprie cose, e come certe volte capita, raccontandogli la propria storia. Anzi, durante certe giornate, una volta rientrato a casa sua, si è sentito in alcuni casi in dovere di annotare su uno dei suoi quaderni alcuni fatti che qualcuno gli ha raccontato, e in poco si è ritrovato addirittura con molti appunti buoni per essere rielaborati e messi in una forma forse accettabile. Adesso Armando non sa cosa fare in futuro, però è come se questa sua nuova attività gli desse d’improvviso uno slancio che non si aspettava. Poco per volta ha iniziato a tirare giù dei minuti racconti, sulla base delle sue annotazioni, che lui reputa addirittura interessanti, forse non tanto da essere pubblicati, però buoni, capaci di tenere inchiodata l'attenzione di qualcuno che avesse la bontà di starlo a sentire mentre li legge. Qualcun altro gli ha indicato una piccola biblioteca vicino casa sua, e lui c'è andato, ed ha spiegato a quella direttrice attenta, che gli sarebbe piaciuto molto leggere pubblicamente i suoi racconti là dentro.
Questa volta lui si è presentato all’ora serale che gli hanno detto, si è piazzato nella sala più grande della biblioteca, davanti ad un buon numero di persone a sedere, venute apposta fin lì per sentire le sue cose, ed ha iniziato a leggere, con calma, scandendo bene le parole, senza timore. Lo hanno ascoltato, lo hanno apprezzato, lo hanno anche applaudito, e in diversi poi gli hanno stretto la mano, ed altri hanno detto che le sue storie sono bellissime, e che meritano di essere conosciute da tutti. Armando ha ringraziato, con modestia, si è addirittura schernito, poi, quando ha ritirato le sue carte e se n’è andato dalla biblioteca, ha pensato che in fondo poteva sentirsi soddisfatto: il suo cambiamento si stava mostrando effettivo, salutare, definitivo. Si sentiva bene adesso, a suo agio, questa la cosa importante; questo il salto che forse aveva sempre cercato.


Bruno Magnolfi   

sabato 3 maggio 2014

Modello d'attualità.

            
            Lo so che sono un perdente. Per quanti sforzi faccia non riesco mai ad ottenere ciò che vorrei. Ma questo non significa che non abbia piena convinzione in quello che porto avanti, e che soltanto per questo debba smettere di essere quello che sono. Tutto quanto attorno sembra costantemente cercare di persuadermi nel cambiare questo comportamento caparbio, ma io mi ritengo convinto di quello che faccio, e non mi interessa proprio per niente se nessuno, in virtù di questi miei modi, mi seguirà mai.
            Sto qui, penso con intensità alle mie cose, lascio che le giornate proseguano con la loro portata dei suoi tanti piccoli elementi che continuano a rompersi, oppure si logorano, che vanno sostituiti, e che rimangono poco per volta inevitabilmente obsoleti in un presente sempre di corsa che sembra ribaltare con continuità anche le proprie basi. Le mie scelte vengono sostituite solo quando sono sicuro che questo è veramente ciò che è utile fare.
Spesso vado a trovare un amico, gli parlo di ciò a cui sto pensando, lui mi osserva, lascia che io dica tutto quanto quello che ho in testa, poi, senza criticare apertamente quanto gli ho appena finito di dire, cerca con leggerezza di persuadermi che le mie riflessioni sono sbagliate, o che comunque potrei tranquillamente anche occuparmi di altro. Sorrido: non ha alcuna importanza, penso, così gli dico giusto per ridere che la sua è solo invidia per la mia mente più aperta e costruttiva di quella che lui si ritrova. Generalmente non passa mai molto tempo che il mio amico, un’altra volta e durante un momento qualsiasi, torni quasi per caso sul medesimo argomento, giusto magari per dirmi che in parte avevo ragione con le mie riflessioni, ma indubbiamente ero giunto a conclusioni del tutto sbagliate. In genere seguono grandi discussioni anche su questo, in cui naturalmente ognuno rimane esattamente della propria opinione, e infine ci si ritrova a parlare d'altro, ma ciò che avevo tirato fuori inizialmente diventa, per silenziose e conseguenti ammissioni, un fatto del tutto assodato.
La mia frustrazione nasce dalla consapevolezza che avevo ragione fin dall'inizio, ma mi è impossibile dimostrarlo, e quanto più cerco di farlo, tanto più vengo isolato da tutti. Per questo certe volte sostengo delle cose a cui non credo affatto, in maniera che in seguito possa dire con soddisfazione che mi ero sbagliato e che erano altri ad avere ragione. A volte vengo preso per uno svitato, ma non fa niente. Riconosco sempre di più che nessuno al giorno d'oggi è disposto a stare dalla tua parte, e non si trovano altrettanti individui che riescono a fare uno sforzo per dire che ciò che hai fatto è una gran bella cosa. Per ciò la realtà viaggia costantemente a corrente alternata: si perde con facilità il senso di tutto, penso, se non si riconoscono almeno le cose maggiormente evidenti.


            Bruno Magnolfi