giovedì 31 dicembre 2015

Armonia lieve.

           
            Se Lido non è d’accordo non si fa niente, dice Carlo. Va bene, fa l’altro, allora non resta altra strada che cercare in qualche modo di convincerlo. Comunque ci vuole soltanto un minimo di preparazione, cercare semplicemente le parole giuste per presentargli bene tutta quanta la faccenda. Non credo sia difficile convincerlo, anche se lui non è certo un tipo facile. I due intanto camminano, percorrendo il largo marciapiede del viale senza alcuna fretta apparente, con le mani sprofondate nelle tasche e continuando a guardare ognuno avanti a sé, quasi come se fosse da solo.
A mio parere non è affatto il caso di perdere questa occasione, insiste Carlo, e non soltanto perché altrimenti in seguito potremo pentirci di non averne approfittato. Non so, fa l’altro, forse anche noi prima di parlarne con Lido dovremo far passare ancora del tempo, proprio per evitare di lanciare una proposta non sufficientemente meditata. Ma no, questa credo proprio sia una sciocchezza, perché sicuramente anche lui, se riusciamo a parlargli con calma e cercando di spiegargli bene le cose, non potrà che essere d’accordo con noi.
Andiamo al caffè adesso, propone l’altro, così possiamo sederci e prendere magari qualche appunto per fissare bene le idee, e se poi abbiamo fortuna troviamo Lido là dentro e possiamo intanto sondare il terreno. D’accordo, fa Carlo, ma prima camminiamo almeno per un’altra mezz’ora, sento che mi fa bene passeggiare, e poi la giornata è chiara e piacevole, fatta apposta per stare all’aperto, almeno fino a quando non si fa sera. Forse hai ragione, dice l’altro, anche se a me pare di sentirmi un po’ stanco. E’ solo un’impressione, almeno per adesso, dice Carlo: quando sarai davvero stanco andremo immediatamente al caffè, te lo prometto.
E’ davvero tanto tempo che non facciamo qualcosa tutti e tre assieme, dice l’altro; per conto mio sarei contento se Lido fosse d’accordo con noi, però mi dispiacerebbe se si mostrasse riottoso e con le sue solite maniere divaganti declinasse in fretta e furia la nostra proposta. Questo non si può dire, fa Carlo; in fondo anche a lui magari fa piacere che ancora ci ritroviamo a combinare qualcosa, come facevamo certe volte, ormai parecchio tempo fa. Questo è vero, dice l’altro, però non vorrei si rompesse anche quel minimo di equilibrio che ultimamente abbiamo ritrovato tra noi.
Su questo hai ragione, fa Carlo; anche a me dispiacerebbe se si perdesse in qualche modo questa nostra armonia: abbiamo vite diverse, questo è innegabile, ma ciò non significa che non possiamo ritrovarci in certi casi intorno a qualcosa che ci accomuna. Tutto ciò sarebbe molto bello se fosse davvero così, fa l’altro; peccato che qualche volta Lido sembra come non esserci, quasi stesse con noi quelle poche volte non per una sua voglia personale, ma quasi per fare soltanto un favore a noi due. Lo sai, dice ancora Carlo, lui è fatto così, da una persona che ha il suo carattere praticamente non si può pretendere molto di più.
Intanto camminando arrivano davanti al solito caffè, e sui tavolini di fronte c’è proprio Lido seduto che sta scherzando con qualche altra persona. Però si volta, saluta festoso gli amici con il suo solito sorriso, e poi dice: sono di partenza, lo stavo giusto dicendo a questa brava gente; starò da mio figlio almeno per un mese, a Roma. Ho bisogno di cambiare aria e di togliermi di dosso qualche vecchia abitudine, e poi, chi può saperlo, magari finisce che mi trasferisco definitivamente.

Bruno Magnolfi


lunedì 28 dicembre 2015

Musicista infinito.

            
            Finalmente mi portano una sedia, dopo che mi hanno lasciato in piedi lungo il corridoio per tutto questo tempo.  Il jazz non esiste qua dentro, ho detto a tutti, inutile insistere. A me piace il silenzio, quando ogni oggetto intorno sta fermo, e nessuno urla o dice una cosa oppure quell’altra. Si deve respirare piano, magari prendere anche un po’ più di fiato ogni tanto, però con calma, senza mai farsi venire i nervi, che tanto ad agitarsi si peggiorano soltanto le cose.
            Seduto sto meglio, mi guardo attorno, so per certo che nessuno mi vorrebbe qui, sono uno scomodo, un fastidio quasi, ed allora riattaccano con quella lontana musica di violini insopportabile. Non voglio sentire più niente, basta con queste nenie sdolcinate che non servono a nulla. Dentro di me il mio strumento solista improvvisa come sempre dei chorus di blues, saltellando sugli accordi e svisando quasi senza alcun impegno, quasi come una funzione naturale dell’organismo.
            Suonavo il sax, tempo fa, e la gente correva per sentire come me la sbrigavo con i ragazzi giù al club. Bastavano due note di piano, un tocco leggero sui piatti, ed io partivo già, avvitando le mie note attorno a delle strutture complesse ma sempre piacevoli. Non ho bisogno di niente, dico adesso a tutti coloro che stanno qua dentro, lasciatemi stare a ripassare quei brani, a ripercorrere poco per volta tutti quei grappoli di note che riesco ancora a mettere assieme.
            Si capisce che è passato del tempo, che ne sono successe tante di cose, ma io in fondo ricordo ben poco di tutto quanto, adesso mi tornano alla mente soltanto quelle belle serate da luci basse, ed il fantastico scintillare degli strumenti sul palco. Mi hanno portato via di forza l’ultima volta, strappandomi quasi l’ancia di bocca, ma si sono dimenticati la musica, e quella me la sono tirata dietro con me, nonostante i loro modi scortesi.
            Ora rimango seduto da solo, ho perso dei denti, non ce la farei più a suonare davvero. Ma non ha alcuna importanza, certe cose sono dentro di te se davvero le senti, e vanno avanti da sole, senza bisogno di altro. Guardo il corridoio, qualcuno passando mi vede, nessuno mi riconosce per quel musicista che ero, ma anche questo non ha alcuna importanza, perché io lo so che non sono affatto quel vecchio che ora avete di fronte, perché è tutta la mia musica che ha fatto la differenza, ed è impossibile non riconoscerlo.


            Bruno Magnolfi

domenica 27 dicembre 2015

Soli un momento.

            

Giusi assume sempre un'espressione severa quando viene osservata da qualcuno un po’ troppo a lungo. Non che le dispiaccia particolarmente essere guardata da qualche curioso, però certe volte vorrebbe essere più trasparente persino di quei colori pastello sfumato con cui normalmente trucca il suo viso. Soprattutto le dispiace che venga presa per una ragazza superficiale, una di quelle persone che senza neppure pensarci risponde come niente ad una semplice occhiata. Perciò spesso quando si mette seduta al solito caffè in attesa che arrivino le sue amiche, tira sempre fuori un libro dalla sua borsa, lo apre fino al segno, e ne legge ad intervalli almeno qualche pagina.
Giusi in fondo adora starsene da sola in mezzo alla gente, per questo giunge lì sempre molto in anticipo, ed in questi casi si muove lentamente come non avesse alcun interesse preciso, lasciando sempre che tutti gli altri parlino tra loro, senza mai interferire, come se lei non ci fosse nemmeno. Se qualcuno le dice qualcosa, si limita a sorridere, poi subito ritorna al suo libro. Arriva lì prima delle sue amiche proprio per avere il tempo come di formare nel locale una sua piccola nicchia di appartenenza, un proprio piccolo spazio da dove, quasi non vista, osservare e sentire tutto ciò da cui è circondata. Fa parte del suo carattere, forse un semplice lato della sua insicurezza. 
Un ragazzone però fa cadere qualcosa vicino a lei: potrebbe essere una tecnica di approccio, pensa Giusi guardandosi un attimo attorno. Ma il tizio vicino sembra non curarsi affatto di lei, così come del suo libro e di quel quaderno a terra ora aperto, zeppo di minuta calligrafia, che gli è appena scivolato dal tavolo. Lei lo raccoglie con calma, quindi gli sfiora un braccio, e gli dice soltanto: è caduto. Il ragazzo si volta, la guarda, prende con modi gentili il quaderno, ringrazia con un sorriso leggero, ma senza aggiungere altro torna a sistemarsi nella stessa posizione di prima. Poi però apre il quaderno, e sembra subito appuntare qualcosa con un semplice lapis, quasi come per fissare una nota che la riguardi, oppure per definire in qualche maniera quel gesto carino che lei ha appena compiuto.
Giusi torna al suo libro, ma non si sente tranquilla. Di nascosto osserva il ragazzo, vorrebbe chiedergli persino qualcosa, ma non può andare così apertamente in contrasto con le proprie abitudini. Infine appoggia il suo libro, prende un sorso della bibita che le ha servito da poco il cameriere, e vede fuori dalla vetrina le sue amiche mentre stanno chiassosamente arrivando. Nello sesso momento il ragazzo si volta, la guarda un momento, sembra proprio abbia finito di scrivere sul suo quaderno, ma inaspettatamente strappa la pagina, la piega in due parti e la consegna nelle sue mani. Arrivano le altre ragazze, lei si alza, saluta le amiche, scambia con loro qualche battuta e quando torna a sedersi il ragazzone di prima non c’è, si è alzato da quel tavolo accanto, e sta uscendo frettolosamente dal bar.
Giusi si alza anche lei, va verso il bancone, si accosta ad un angolo per starsene un attimo sola, ed apre quel foglio che è rimasto fino adesso nelle sue mani. Aiuto, dice la carta, sto vivendo un momento di disperazione. Lei alza gli occhi, vede il ragazzo di prima fermo da solo fuori di vetri di quel locale. Torna al tavolino delle sue amiche, si siede, dice che non si sente benissimo, forse ha soltanto bisogno di aria, così torna ad alzarsi, si dirige all’uscita e si ferma proprio sul marciapiede di fronte al locale, davanti a lui. Scusa, le dice subito il ragazzone di prima; ho pensato che non ci sarebbe stata altra maniera che questa, per poter stare da solo con te, almeno un momento.


Bruno Magnolfi

mercoledì 23 dicembre 2015

Partenza coatta.

Partenza coatta

Forse sarebbe stato tutto diverso adesso, se solo lui avesse avuto una briciola di coraggio in più quando serviva. Sta seduto al caffè in questo momento, da solo, e aspetta, come d’altronde fa quasi ogni giorno. Sorseggia una birra con lentezza, poi si alza dal tavolino ed esce. Fuori dal locale sembra tutto identico, lui si incammina verso casa come sempre immerso in pensieri evanescenti e inutili. Continua a sentire il bisogno di cambiare quell'ordinario comportarsi, ma per lui è difficile prendere lo spunto giusto, l'inizio adatto per variare almeno qualche cosa. Infine giunge davanti al solito portone, sale le scale ed entra dentro al suo appartamento, e poco dopo torna a sedersi. Potrei telefonare ad un amico, pensa senza voglia, chiedergli di raggiungermi magari per parlare un po', per scambiare giusto qualche opinione, trascorrere insieme un'ora o due. Invece alla fine si alza, e repentinamente cambia del tutto idea: va sul pianerottolo e con decisione suona il campanello della famiglia che abita di fronte.
Non si aspetta niente di speciale da quella mossa, conosce solo di vista le persone che abitano lì, ma avverte subito un vago e sgradevole odore di minestra nell’aria, proprio quando appare sulla porta la faccia sorridente di una ragazzina che gli dice subito che può accomodarsi, può entrare se vuole, che suo padre è di là, alla televisione. Lui entra, stringe la mano alla moglie lungo il corridoio, poi scusandosi con tutti raggiunge l’uomo, seduto sul divano, che sorride e gli dice soltanto di mettersi a suo agio, senza porsi alcun problema. Restano soli nella stanza, la televisione quindi viene spenta, l’uomo gli offre mezzo bicchiere di vino rosso, usa modi distensivi. Ho bisogno di aiuto, fa lui, ma non so mettere a fuoco di che cosa effettivamente abbia la necessità. Forse soltanto di parlare, o di un consiglio, o di scambiare delle opinioni con qualcuno. Il vicino lo guarda in silenzio, quindi si alza, gira per la stanza, assume subito un modo strano di comportarsi almeno in sua presenza. Alla fine dice di scusarlo giusto per un attimo, e lo lascia da solo ma non per molto tempo effettivamente. Quando torna però ha in mano una pistola, e gli dice senza mezzi termini di andarsene da lì, che ha capito benissimo i suoi intenti, e che non avrà alcun indugio a sparargli in una gamba se si farà ancora vedere in quella casa.
Lui se ne va immediatamente, sorpreso e quasi incredulo di quel comportamento, ma una volta rientrato nel proprio appartamento riflette che l’arma che ha visto doveva essere probabilmente soltanto una pistola giocattolo, e che il suo vicino, forse spaventato da qualcosa, doveva aver compreso male i suoi intenti e anche tutte le sue parole. Così torna a suonare il campanello per scusarsi, per comprendere, ma quando gli viene aperto è l’uomo in persona sulla soglia, che senza dargli neppure la possibilità di aprire bocca gli sferra un pugno nello stomaco, atterrandolo. Strisciando in qualche modo sul pavimento lui rientra, chiude l’uscio dietro di sé ma poi si sente subito male, così decide di telefonare alla guardia medica che lo fa trasferire d’urgenza ad un pronto soccorso. Lui spiega di essere caduto, per non procurare dei problemi, ma la cosa sembra seria, così lo trasferiscono in una corsia dell’ospedale per accertamenti. Rimarrà là dentro per diversi giorni, fino a quando viene dimesso perfettamente guarito.
Lui ha avuto possibilità di riflettere durante il tempo in cui è rimasto a letto, ma ancora non sa spiegarsi il comportamento del suo vicino. Decide di ignorare tutta la vicenda e di comportarsi come se niente fosse successo, scansando ovviamente d’ora in avanti tutti i componenti di quella stranissima famiglia, ma quando giunge nel suo appartamento trova una busta chiusa con dentro un foglio con su scritto: devi reagire, smetterla di leccarti le piccole ferite, finirla una buona volta di credere che le novità positive possano giungere soltanto dall’esterno. Nessuna firma e nessun riferimento. Lui così si siede, rilegge ancora quelle frasi, poi alza il telefono, e chiama uno degli ultimi amici su cui ancora può contare: devo partire, gli dice, non c’è proprio alcun motivo per rimandare ancora.


Bruno Magnolfi

giovedì 17 dicembre 2015

Tentativi possibili.

          

            In fondo siamo soltanto io e te in questo comodo abitacolo. E secondo me è già troppo tempo che stiamo immobili, lo dico con tutta la tranquillità possibile, anche se tu obietterai immediatamente che in altri momenti abbiamo girato vorticosamente anche per dei lunghi periodi recandoci in tutti quei luoghi che volta per volta ci è venuta la voglia di visitare, prima di giungere alla risoluzione di fermarci e di stazionare qui, in questo bel posto dove stiamo adesso. Ciò che non comprendo però è come tu non senta adesso il desiderio, anzi la necessità quasi impellente di tornare a muoverci, e di navigare ancora, di andare come minimo in visita di qualche nuova realtà; forse però questo tipo di sentimento è soltanto mio, rifletto certe volte, e a te basta soltanto startene qua dentro, nel nostro spazio chiuso e così protettivo.
            Non è questo, fa lei; probabilmente è soltanto una questione di abitudini: sapere dove siamo, il perché, conoscere perfettamente tutto quanto ciò che ci circonda. Se non ci fosse questo abitacolo a racchiudere ogni nostro piccolo gesto, certo, sarebbe senz’altro una cosa diversa. Credo che là fuori tutto ciò che si muove sia costantemente un pericolo imminente per noi, ma questo dove noi stiamo è semplicemente il nostro mezzo di salvataggio, la nostra sicurezza, ed io prediligo stare all’interno di in un luogo riparato immerso in una realtà che potrebbe anche esserci ostile. Ma forse tutto ciò non sarebbe ancora del tutto sufficiente, se non ripensassi ogni momento all’impegno ed all’intensità con le quali poco per volta insieme a te mi sono introdotta, immersa, radicata in questo territorio, e di quanto adesso io senta come di farne parte, di costituirne proprio un pezzetto.
            I nostri pensieri uniti potrebbero da soli anche spostare tranquillamente l’abitacolo, dico io, magari di poco, giusto quel tanto che basta per mostrarci qualcosa di nuovo, e parlo di questo quasi sorprendendomi addirittura delle mie parole in fondo così tolleranti. Però credo potremmo fare almeno una prova, uno di questi giorni, senza neppure troppo impegno, quasi adottando una certa leggerezza di spirito, tanto per scoprire l'effetto che ne può scaturire. In fondo gli ancoraggi non sono cosi stabili e irrigiditi, non ci vorrebbe poi molto a rimuoverli, si potrebbe tentare senza che questo ci debba per forza cambiare abitudini e modi di essere.
Può darsi, dice lei dubbiosa; ed una prova del genere penso sarebbe persino possibile farla, anche se non credo molto nei piccoli spostamenti di questo tipo: se la traslazione dell’abitacolo è limitata, questa non ha molto senso; se invece è notevole allora diventa una vera e propria migrazione. Certo, potremo studiare il giusto equilibrio tra questi due estremi, ma essendo le nostre personalità così differenti come tante volte abbiamo constatato, e avvertendo quasi regolarmente delle percezioni della realtà piuttosto diverse tra le mie e le tue, finiremo inevitabilmente per avere uno scontro. Ed è questo il motivo principale che mi fa optare ancora per la sosta, l'immobilismo come lo vuoi chiamare.
Va bene, hai ragione. Ma adesso che io ho sollevato il problema non sarà più possibile tenere nascosto tutto quanto: la movimentazione o meno dell'abitacolo diverrà qualcosa che da ora in avanti segnerà probabilmente le nostre giornate e i nostri rapporti, perciò credo che rimanere fermi non sarà più possibile, qualcosa dovrà comunque essere fatto, ed ogni decisione avrà senz'altro bisogno di una ponderatezza superiore a quella che abbiamo usato fin qui. Va bene, fa lei: allora continueremo a parlarne e a costruire modelli e propositi, fino a  quando probabilmente tutto questo avrà perduto completamente di senso, ma noi comunque saremo coscienti che ogni tentativo possibile sarà stato almeno pensato.


Bruno Magnolfi

martedì 15 dicembre 2015

Pazienza semplice.

   

            Allungo lentamente una mano nel buio, alla ricerca dell’interruttore che accende la lampada, ma pur sfiorandolo e avvertendo con le dita la sua consueta consistenza di plastica liscia, mi fermo, come per concedermi ancora qualche secondo prima del vero inizio della giornata con la sua inevitabile esplosione ordinaria di luce all’interno di questo spazio ancora intimo piacevole e caldo intorno al mio letto. Noto però, non so neppure perché, che qualcosa appare come diverso stamani, ed anche se mi sforzo di essere pratica, di farmi coraggio, di trovare un motivo valido per far partire come sempre tutti gli esercizi con i quali è usuale dar inizio ad una giornata, qualcosa sembra indubbiamente cambiato, pur non comprendendo assolutamente cosa mai possa essere.
Apro subito la finestra di camera, una volta indossata una vestaglia coi fiori, ed insieme alla vista di una debole nebbia che ancora regna all’esterno, avverto un rumore lontano e persistente che non so riconoscere affatto. Ritorno alle mie cose, cammino con calma all’interno del mio piccolo appartamento ritrovando quasi senza guardarli tutti gli oggetti che mi servono per lavarmi, vestirmi, truccarmi, uscire in fretta di casa. Poi però si ripresenta il forte rumore di prima. Non viene da fuori, rifletto, è qualcosa che si muove improvviso all’interno delle mie stanze e poi si ferma, forse sgattaiolando in qualche angolo che adesso non riesco assolutamente ad identificare. Mi sposto con circospezione, valuto tutte le possibilità che mi vengono a mente, poi, in questo momento che non si avverte più niente, mi siedo in silenzio ad attendere che si ripresenti un altro episodio.
            Tutto è tranquillo, invece; nessun rumore adesso, nessuna diversità da ciò che è praticamente la normalità di ogni giorno. Immagino che tutto forse sia soltanto amplificato dalla mia fantasia, perciò penso ad altro cercando di riprendere i miei comportamenti più abituali. Invece il forte ruggito adesso è improvviso ed evidente, come se un animale selvaggio stesse chiuso dentro l’armadio soltanto ad attendere che io vada ad aprirgli. Mi avvicino al mobile, ma mi accorgo che non è proprio da lì che proviene. Giro per casa nervosamente, apro ogni sportello, perfino quelli dei pensili in bagno, ma non riesco a scoprire niente di più.
Il rumore intermittente a pause irregolari sembra qualcosa di intimo a tutta la casa, come la voce stessa dei muri che la compongono, ma siccome questo è impossibile, decido di ignorare la faccenda e darmi da fare con le mie abituali attività. Ma una gamba mi si flette inspiegabilmente mentre mi sto muovendo dalla camera alla cucina, e vado a cadere nel piccolo corridoio del mio appartamento, senza che riesca a fare il minimo gesto per evitarlo. Il rumore, adesso che sono distesa sull’impiantito, mi appare sordo e persistente, e mi sembra addirittura che una lenta vibrazione provenga contemporaneamente proprio dal pavimento, per cui mi schiaccio ancora di più a terra cercando di ascoltare direttamente la voce delle piastrelle. Silenzio. Neppure questa  è la strada giusta per comprendere le cose, penso.
Mentre mi rialzo appoggiandomi ad una poltroncina lì accanto, il suono, adesso più soffocato, si ripresenta, e nello stesso momento mi accorgo distintamente che proviene da me stessa, da dentro il mio corpo. Non è il brontolio della pancia o qualcosa del genere, è proprio qualcosa che si origina nella mia testa, forse direttamente dentro le orecchie. Vado in bagno, mi guardo allo specchio, mi trovo subito invecchiata e impaurita. Così mi getto acqua fresca sopra la faccia, ma non cambia niente, e allora mi asciugo con cura, poi rientro in camera, chiudo le imposte, e torno nel letto direttamente con la vestaglia, spengendo con cura la luce. Attenderò qualche minuto, penso, forse di più; tutto deve passare, per forza: le cose probabilmente si sistemeranno, penso ancora, si tratta soltanto di portare un po' di pazienza.

Bruno Magnolfi


venerdì 11 dicembre 2015

Sfida insensata.

            

            Dentro a questo salotto i mobili e gli oggetti della stanza risultano adesso perfettamente in ordine, come raramente succede, anche se lei, purtroppo anche stasera, sembra proprio desideri soltanto rimanersene nervosamente in piedi, stando lì accanto ad uno dei finestroni, come per osservare con attenzione chissà mai cosa fuori dai vetri, visto poi che la panoramica sulla strada che corre di fronte è sempre la stessa da sempre. Siediti, le dice lui perentorio con quei suoi modi da persona che tende normalmente a mostrarsi superiore, mentre intanto continua a gingillarsi con qualcosa di apparentemente prezioso che tiene tra le mani.
            Ho male allo stomaco, è meglio se evito di piegarmi, e scongiurare così che mi riprenda da vomitare come poc’anzi, dice lei mentre intanto prosegue ad osservare ancora qualcosa lungo quella strada da cui sembra costantemente attratta. Bene, fa lui, in ogni caso non c’è oramai molto da dire, i fatti mi sembra siano chiari a sufficienza.Tu che cosa ne dici? Seguono alle sue parole alcuni attimi di ordinario silenzio in cui l’uomo parrebbe provare come il desiderio di una conferma da parte di lei, magari di un semplice assenso, o forse soltanto di una semplice parola di accettazione circa la dichiarazione che ha appena pronunciato, ma in mancanza di tutto ciò riprende subito a dire: in ogni caso io sono stufo, ed ora mi tiro fuori da tutta questa faccenda.
            Lei si volta, sembra quasi punta sul vivo, lo squadra con grande determinazione, poi, dopo aver scelto con cura ogni parola per esprimersi, dice soltanto: non c’è affatto da meravigliarsi. Lui si muove di qualche passo senza neanche guardarla, sembra quasi prendere tempo, scegliere a sua volta le parole più adatte per difendere in qualche modo la sua posizione, ma infine si ferma, appoggia il posacenere di radica che teneva tra le mani sopra un ripiano davanti a sé, e poi resta lì, come immerso in chissà quali pensieri.
Vorrei soltanto che si fosse stati così lungimiranti da prevedere con anticipo una cosa del genere, fa lei sottovoce senza muoversi minimamente; adesso invece siamo tutti perdenti, ma forse proprio per questo non dovremmo apparire anche dei codardi. Non si tratta di questo, fa lui mentre si gira forse per dare maggiore risalto alle sue parole. La faccenda a me pare chiusa, inutile cercare di andare avanti ulteriormente. I due adesso sono a pochi metri di distanza, ma la forte lontananza tra loro si percepisce perfettamente, anche soltanto nelle espressioni degli occhi. E agli altri soci ora cosa dovremmo dire, fa lei: che sapevamo perfettamente prima o dopo di arrivare a questo finale, ma che nonostante ciò abbiamo cercato di tenerci su una linea di cauto ottimismo solo per fare ancora dei tentativi alle loro spalle, ed insomma per prenderli in giro?
No, certo, fa lui; alla riunione dovremo sostenere di aver fatto il possibile per tenere in piedi le nostre attività, ma poi è intervenuto un elemento improvviso che ci ha tolto ogni possibile tentativo. Lei si volta, come per osservare bene la faccia di lui, poi chiede:  e quale sarebbe, questo elemento, avanti, sentiamo. Non so, dice lui, potremmo sostenere che dai nostri clienti non ci sono più stati richiesti servizi, che anche noi non abbiamo avuto idee nuove, o che la banca ci ha messo delle condizioni piuttosto difficoltose. Lei torna a guardare fuori dai vetri, in silenzio. Lui riprende in mano il pezzo di radica. Va bene, pensa lei guardando ancora la strada; in fondo mi chiedo quale significato può esserci in questa sfida portata avanti ancora soltanto da te e da me.


Bruno Magnolfi

mercoledì 9 dicembre 2015

Sbagli possibili.

         

            Osservo di nuovo il mio orologio da polso, giusto per trovare conferma del paio di minuti appena trascorsi dall’ultima volta che sono tornato a guardarlo. Dicono alcuni che la mia personalità sia tormentata, ed io forse di tutto questo ne ho persino una qualche consapevolezza, anche se poi non riesco affatto a spiegarmene bene il motivo. Sono fatto in questa maniera, ripeto, non ci sono spiegazioni ulteriori. Così, tanto per dare un senso alle cose, mi getto a testa bassa in tutto ciò che può capitare, senza riflettere mai troppo, come se ogni possibilità che riesce a passarmi davanti fosse assolutamente quella per cui sono nato. Rifletto continuamente che non potrei essere diverso, che non sarebbe possibile per me cercare un comportamento differente da questo, perciò cerco di spingere qualsiasi cosa sempre in avanti, proprio per cercarne il finale, forse il risultato definitivo, qualsiasi esso sia, senza alcuna paura delle conseguenze.
            Stasera fuori dal caffè mi guardano tutti mentre offendo pesantemente questo vecchio, senza che neppure io abbia cercato un vero motivo per farlo, visto che probabilmente è sufficiente appena un pretesto per comportarsi così, però so per certo che qualcuno è senz’altro d’accordo con me, ed ora è lo stesso che ride sguaiatamente qui accanto, mentre gli altri attorno sono soltanto dei curiosi che tendono sempre a cercare di essere sul posto quando succede qualcosa. Poi la finisco, mi sento stufo di qualsiasi altra parola, rientro con gli altri, qualcuno di loro evidentemente adesso mi offre anche da bere, ed in questo momento io potrei anche dire qualche spacconata delle mie, delle frasi ad effetto per farmi ancora più grande, qualcosa che disegni meglio e ancora di più il mio personaggio; ma mi sento già oltre, perché in fondo mi annoio subito di cose scontate del genere. Passa mezz’ora, e poi si fa un attimo improvviso di silenzio dentro al locale: è tornato il vecchio, mi dicono. Continuo a bere, non sto neppure a voltarmi, mi viene quasi da chiedere di quale vecchio adesso si parli, oppure di quale fosse il contendere di poco prima, però sento dentro di me il tormento che mi riprende, ed i nervi che all’improvviso si irrigidiscono.
            Mi giro, lo vedo, dentro a questo locale forse non aspettano altro, ed io immagino subito con facilità che siano tutti dalla mia stessa parte. Così vado subito incontro a quel vecchio, vorrei suonargliele, riprendere esattamente da dove mi ero interrotto, ma quello mi guarda con fermezza e non cambia neppure espressione, poi tira fuori con calma la sua rivoltella e mi spara ad un piede, anche se riesce a ferirmi soltanto di striscio. Improvvisamente in me e fuori di me ci sono soltanto degli urli, questo dolore fortissimo che mi stordisce, ed una confusione pazzesca. Arrivo al pronto soccorso ancora sanguinante sopra una barella, e rimugino le ultime parole che ho sentito prima di svenire del tutto, quelle che dicevano sopra gli altri discorsi che tutto questo me lo sono proprio andato a cercare, e nient’altro. Tremo, vorrei soltanto sapere adesso che ore siano, quanto tempo è trascorso da quanto è accaduto, ed anche il tempo che ci vorrà perché tutto ritorni esattamente com’era, anche se intanto adesso qui non c’è proprio nessuno, se non due infermieri di spalle che parlano di una stupida donna ammalata di cancro.
            Odio gli odori, gli strumenti, ed ogni cosa che gira qua dentro, i miei nervi adesso sono formidabili pezzi di legno, credo che non dovrei per alcun motivo arrendermi a questo andamento delle cose che frullano. La mia testa brucia le idee che mi ronzano insieme ai pensieri, cerco di muovermi, anche se una fitta feroce mi blocca. Penso che forse c’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo, cerco anche di dirlo, di ripeterlo, di assimilarne poco per volta il significato; ma non riesco neppure a capire come sarebbe possibile correggerlo.


            Bruno Magnolfi

venerdì 4 dicembre 2015

Nessuna modifica.

            

            In molti hanno già detto che il problema non è dato dalla tirannia del tempo oppure dai molti impegni che purtroppo si susseguono. Lei si guarda attorno, si prende un’altra pausa tutta per sé, si disinteressa almeno momentaneamente di qualsiasi altra cosa. La sua amica più tardi l’aspetta all’angolo come sempre, stasera vanno a girare insieme in qualche negozietto, poi però faranno una sosta e prenderanno un caffè in un localino della zona, naturalmente soprattutto per parlare con sincerità del più o del meno.
            Non c’è mai niente di bello nelle mie parole, dice lei; soltanto domande, curiosità, insistenze. Lo so, dovrei rifletterci sopra in ciò che dico, valutare meglio questo aspetto, ma ti assicuro che adesso sto già imparando dagli equivoci che creo. L’amica sorride: non c’è niente di male, spiega, solo qualcosa, a volte. Si tratta di non dare troppa importanza a certi aspetti, tutto qua. Lei spesso si sente preoccupata dell'immagine di sé, è come se non si sentisse esattamente il tipo di persona che fa vedere d'essere. L'altra la incalza: non ha molta importanza tutto questo, è sufficiente che tu riconosca con sincerità certe caratteristiche di te stessa, e poi nient’altro.
            Ridono, tra loro si comprendono sempre al volo, anche se alcuni argomenti è bene non sfiorarli mai, neppure col pensiero. Si è fatto tardi, dice lei; tu devi tornare a casa, da tuo marito. L’amica la guarda con un’espressione ironica. Guarda l’orologio: solo cinque minuti ancora, dice, poi me ne vado. Però sono preoccupata per la tua continua solitudine, le spiega. Adesso è tanto tempo che non frequenti più qualcuno, che non esci la sera, non ti fai portare a cena fuori, per esempio. Lei si guarda le unghie, cerca di non rispondere niente anche se deve, e forse non vorrebbe affatto mettersi a parlare di una cosa di quel genere.
            Hai ragione, sbotta alla fine, sto trascurando la socialità. Anche se ho ricevuto un invito ultimamente, ma poi non è accaduto niente, solo qualche passaggio in macchina, e in due o tre casi giusto il tempo di scambiare due parole. Forse qualcuno che conosco, fa l’amica. Non so, fa lei, una cosa però è assolutamente chiara: non sono andata certo a cercarlo, tutto è capitato casualmente. Ma non credo ci sarà mai un vero seguito, troppo complicate tutte queste cose.
            Si tratta di un tipo già sposato, immagino, perciò la complicazione sta nei tempi per vedervi. Si, è così, ma soprattutto il mio arrivare sempre in ritardo agli appuntamenti lo ha già disposto negativamente, anche se a me dispiace. Ho cercato di spiegargli il mio carattere, ma su questo piano non c’è affatto comprensione. Ma tu però potresti magari arrivare per tempo, almeno una volta ogni tanto. Lo so, fa lei, ma non è la mia consuetudine, non è il mio comportamento abituale, così se cambiassi queste cose rischierei di non essere compresa. Anzi, darei proprio un’immagine di me che non è affatto la mia.
            Poi escono dal locale, ringraziano il barista, scelgono di fare un piccolo pezzetto di strada assieme, e quando arrivano ai saluti: tienimi informata allora, fa l’amica. Certo, dice lei, ti pare che se le cose riuscissero davvero a svilupparsi, non saresti la prima ad averne informazione? L’altra improvvisamente la guarda male, con ogni probabilità ha compreso più di quello che doveva, e in ogni caso ognuna delle due si stringe sulle proprie cose e se ne va.
            In fondo che problema c’è, pensa lei mentre torna verso casa: sono io la sbadata, quella sempre in ritardo, quella che non si rende neppure troppo conto; non c’è da prendersela a male se qualche volta poi riesce a combinare qualche cosa.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 2 dicembre 2015

Evidenti tensioni.

           
            Avanti non c’è niente, pur continuando a costeggiare la bassa recinzione di un anonimo giardino pubblico, se non un gruppo di luci piuttosto fioche sopra dei lampioni arrugginiti che rischiarano come possono un piccolo parcheggio ora deserto. Lui cammina, sprofondato nei suoi pensieri, come perso alla ricerca costante di una soluzione che purtroppo non trova. Tu non ascolti mai gli altri, ha detto lei al culmine di un altro litigio, ed in fondo è soltanto questo che lo ha spinto ad uscire come per prendere aria e forse cercare di riflettere bene su quelle parole; anche se alla fine tutto ciò non assume adesso alcun senso, e non c’è neppure possibilità, almeno in questo momento, di ricordare esattamente quale sia stato davvero il motivo iniziale dello scontro tra loro. Normale avere battibecchi del genere, pensa lui; ognuno ha il suo carattere, e ci vorrebbe l’intuizione di un genio per comprendere cosa l’altro si aspetta davvero. Sciocchezze, si ripete mentalmente, non sarebbe neanche il caso di parlarne.
Un ragazzo gli cammina decisamente incontro, avrà poco più di vent’anni, probabilmente lo fermerà per chiedergli semplicemente una sigaretta. Invece all’ultimo momento lo ignora, gli passa alle spalle, anche se dopo un attimo sente chiamare qualcuno da qualche parte che in questo momento non riesce neanche a vedere. Avverte però del movimento su un lato del suo campo visivo, così si ferma, quasi per una intuizione, cerca di comprendere che cosa stia succedendo, ma il colpo sopra la testa gli arriva improvviso, fortunatamente non troppo forte, ma senza che se lo sia minimamente aspettato. Cade a terra, e per istinto si abbraccia a se stesso, come cercando una qualche protezione, ma nessuno di fatto tenta di infierire ulteriormente su di lui. Perciò dopo un attimo riapre i suoi occhi, si scioglie, lentamente tenta di rialzarsi, ma sono in tre o quattro a circondarlo, ed ora li teme. Li scruta, assume l’espressione di chi non capisce affatto cosa succeda, non sa neppure che dire, e gli altri lo guardano e basta.
Nessuno sembra voler dire niente, lui così mentre li guarda pensa alla sua casa tranquilla e confortevole, vorrebbe quasi urlare per sciogliere quella tensione che si è andata accumulando, ma uno di loro improvvisamente dice soltanto: è lui, e nient’altro. Uno scherzo, dice invece lui a mezza voce: io non vi conosco, ma non può essere altro che in questa maniera. Datemi una mano per rimettermi in piedi, ci fumiamo assieme una sigaretta, e poi ognuno se ne va per la sua strada. Però spunta una pistola, uno la spiana, dice semplicemente con voce calma che nessuno ha voglia di fare degli stupidi scherzi. Lui si vede già morto, sdraiato su quel marciapiede di periferia dove verrà ritrovato da qualcuno col cane la mattina seguente. Non dice niente, può capitare anche questo, pensa senza altre idee.
Qualcuno invece dall’altra parte di quella strada dice qualcosa con voce alta, forse c’è un attimo di incomprensibili scelte da prendere, tutti corrono fuori dal campo visivo, lui si rialza, si tocca la testa, aspetta che chi ha appena parlato lo raggiunga in fretta e magari gli spieghi qualcosa. Invece si volta, e non c’è più nessuno, accanto gli rimane soltanto il lampione neutrale che prosegue con una noiosa vibrazione elettrica. Lui raggiunge una panchina, si siede, gli pare tutto quanto qualcosa di assurdo, a questo punto forse dovrebbe rientrare e spiegarsi, ma invece dopo un attimo attraversa la via, inizia a correre, si dirige in fretta verso un caffè ancora aperto, e poi vi entra deciso.


Bruno Magnolfi