martedì 25 febbraio 2014

Identiche giornate.

            

Scivolavo in avanti, lungo i marciapiedi, tra le persone come me, tutte incapaci di comprendere appieno quanto stessero facendo. Mi fermavo in un caffè, certe volte, e cercavo nel cameriere una faccia amica da riconoscere e salutare, anche se mi rendevo conto di quanto io fossi soltanto uno tra tutti. Mi incaponivo negli uffici pubblici, cercando di far rispettare i miei diritti, ma spesso dovevo riconoscere che le cose non sarebbero mai potute andare in altra maniera. Eppure sfogarmi era una grande soddisfazione che mi toglievo, così avevo preso a fermare qualcuno per strada e dirgli tutto filato cosa pensassi, quali erano le cose per me insopportabili, quelle senz'altro da modificare, e via dicendo.
Un giorno trovo un tizio dentro un corridoio e gli dico subito che sono stufo di andare in giro a cercare di tenere in equilibrio tutti quei particolari che compongono la mia giornata. Quello mi guarda, dice qualcosa a bassa voce, come tra sé, poi torna a guardarmi e sbotta che non ha tempo per cose del genere, e che secondo lui ognuno deve risolvere da sé i propri problemi. Poi sfugge d’improvviso, come se il suo tempo a mia disposizione fosse già terminato. Lo seguo senza perdermi d’animo lungo le scale e nell’ingresso, e alla fine usciamo all'aperto, in mezzo alla gente che affolla questo quartiere: per un attimo, a giudicare dalla sua sicurezza di sé, mi sembra che quest'uomo possa spiegarmi molto di ciò che non so o che non ho ancora capito, per questo cerco di rimanergli vicino. Lo fermo ad un tratto in maniera forse sgarbata, gli spiego con calma che se non ci aiutiamo tra noi siamo destinati senz'altro a soccombere, ma lui sembra non sentirmi neppure, prosegue a camminare deciso e imperterrito e a spiegare nell’aria che devo soltanto arrangiarmi, non è lui quello che potrà mai spiegarmi certi  comportamenti o modificare qualcosa della mia situazione.
Insisto, percorriamo assieme un lungo tratto di strada mentre prosegue la nostra discussione, poi finalmente entriamo nel solito caffè dove vado sempre. Lui saluta qualcuno e si disinteressa subito di me, così io mi siedo in un angolo e aspetto che abbia finito con le sue relazioni sociali. Alla fine lui contratta col cameriere una consumazione che paga a mio beneficio, e poi se ne va, lasciandomi lì senza aggiungere neppure un'altra parola. Sono perplesso: non capisco dove possa stare il mio errore di fondo. Mi trattengo ancora dentro al locale colmo di pensieri inconcludenti, e quando torno in strada ormai è quasi sera, non ho più voglia di niente, così rientro a casa e mi sprofondo come sempre nelle vecchie abitudini, tentando di dimenticarmi del resto. Credo non ci sia alcun senso nel continuare così, penso, barcollando tra dubbi e faccende di cui dovermi occupare senza aver scelto né queste né quelli. Mi preoccuperò maggiormente di me stesso, da ora in avanti, proprio come mi dicono tutti; fingerò di essere addirittura migliore proprio per questo motivo, e domani tornerò a cercare qualcuno, qualcuno che mi spieghi meglio le cose da fare, o che mi dica magari che non c'è alcuna speranza; qualcuno pronto a sostenere qualcosa che valga la pena, o che mi convinca una volta per tutte che devo smetterla di essere ancora ottimista.


Bruno Magnolfi

sabato 22 febbraio 2014

Inutili gesti.

            
            Qualcuno entrò in casa mia, mentre da solo desinavo. Mi volsi per i rumori, e riconobbi sorpreso un ladro, rimasto quasi incredulo del trovarmi nell’appartamento (chissà per quali informazioni avrei dovuto essere altrove), e per questo immobilizzato sull’impiantito, anzi, praticamente ancora sulla soglia.
            Mi disinteressai quasi subito di questi dettagli, e rimasto indifferente agli intenti dell’intruso, proseguii ad occuparmi di me e del mio immediato daffare, mentre quell’uomo ormai scoraggiato in ogni suo gesto, si sedeva su una poltroncina dell’ingresso (in fondo a pochi passi dal mio tavolo di cucina), come ad attendere con pazienza e completa rassegnazione il suo naturale castigo.
            Quando ebbi terminato di mangiare lo chiamai, meravigliandolo per la conoscenza certa del suo nome. Lui intanto aveva già arraffato qualcosa da sopra uno scaffale, con poca destrezza devo dire, forse però soltanto per non essere giudicato magari troppo male, o per convincermi in qualche maniera che in fondo lui restava abbastanza sicuro di sé e dei suoi compiti. Sembrava tentare in questa maniera di ristabilire una certa categoria quasi naturale, come già ritrovasse, dopo gli inizi, una buona sicurezza di sé, anche della sua fuga da intraprendere, probabilmente, e quindi del nascondiglio dove rifugiarsi.
            Quando poi lo rividi era ormai trascorso quasi un anno, e tutto questo non aveva più alcun significato: avremmo forse potuto parlare insieme dell’assurdità contemporanea che proseguiva a metterci tutti continuamente a repentaglio, credo; oppure del fatto come, in qualsiasi caso, ogni parte della recita rimanesse spesso già descritta in tutti i suoi dettagli; ma alla fine evitammo persino di riconoscerci, e alla stessa stregua di affrontare qualsiasi argomento ormai superfluo.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 19 febbraio 2014

Invisibile.

            

Ho passeggiato lungo le strade del quartiere, mi sono seduto su una panchina, ho pensato che la giornata era bella. Poi mi sono reso conto, una volta di più, che spesso ogni mio gesto appare inutile, insignificante, e che sempre più volentieri vorrei farmi piccolo, fino a sparire in qualche angolo dove a nessuno verrebbe mai voglia di cercarmi.
Infine mi sono alzato da lì, ho pensato di proseguire la mia passeggiata voltando le spalle a tutte quelle mie idee, e ciò è accaduto proprio nello stesso momento in cui lei, la sconosciuta intrigante, è arrivata a sedersi sulla mia stessa panchina ormai libera.
Mi sono allontanato, in fondo del tutto inconsapevolmente di quanto stava realmente accadendo, proprio mentre lei ha aperto un libro con grande indifferenza, ed ha iniziato anche a leggerlo. Camminando ho proseguito a riflettere sulla mia incapacità ad essere realmente come vorrei, quando mi sono accorto di aver lasciato sulla panchina il giornale che in genere porto sempre con me.
Sono subito tornato sui miei passi, ed ho trovato la sconosciuta seduta intenta alla lettura, così le ho detto buonasera, lei ha risposto con cortesia distaccata, ed io con calma ho spiegato il motivo che mi ha riportato fin lì. Lei è apparsa subito incredula, però ha sorriso, ben consapevole di come non ci fosse alcun giornale sulla panchina dove continuava a rimanere seduta.
Mi sono sentito perplesso, ho guardato ancora un po' in giro, ed infine, visto che non mi rimaneva altra possibilità, ho detto con un certo sforzo che la mia era soltanto una scusa per parlare con lei. Lei ha subito sorriso ancora una volta, ma con affettazione, ed infine ha rituffato gli occhi nel libro, come a spiegare che il tempo a mia disposizione era ormai definitivamente scaduto.
Mi sono allontanato, lei ha proseguito ad ignorarmi come fossi del tutto invisibile, anche quando, con un certo impaccio, sono tornato nuovamente indietro per dare ancora un'occhiata, e rendermi conto se magari il mio giornale fosse soltanto stato spostato dal vento. Ma in un lampo, mentre mi avvicinavo a pochi centimetri da lei, ho ricordato d’improvviso che il quotidiano era rimasto nella mia casa: adesso rammentavo perfettamente il tavolo dove lo avevo lasciato appoggiato, ed alla fine di tutta questa faccenda non ho creduto assolutamente di avere più scuse per trattenermi ancora lì nei dintorni.
La sconosciuta comunque, senza neppure tornare a guardarmi, si è alzata dalla panchina e se n’è andata. Ho continuato a guardarla a lungo mentre si allontanava con un’aria leggermente scocciata, ed ho sentito di nuovo dentro di me la voglia di sparire del tutto; infine anch’io mi sono avviato: ho pensato alla fine che troverò pure un angolo, prima o dopo, dove riuscire a nascondermi.


Bruno Magnolfi

martedì 18 febbraio 2014

Insignificanti variazioni.

            

Fuori è tutto uguale. Luisa sta in casa, guarda in piedi qualcosa fuori dalla finestra, oppure alla televisione perennemente accesa col volume al minimo, e scandisce il tempo con i gesti rituali di sempre, muovendosi generalmente avanti e indietro dentro la cucina. Sua madre è di là, allettata da tempo. Lei guarda il calendario e immagina che tra un anno esatto molto probabilmente sua mamma non ci sarà più. Pensa spesso qualcosa del genere, quasi ogni giorno, anche se forse non vorrebbe. Adesso si sente ormai quasi indifferente al dolore che ha provato inizialmente, si è abituata alla svelta a tutto quanto poco per volta è capitato in seguito, probabilmente le sarà ancora più facile, pensa, affrontare quanto dovrà inevitabilmente accadere un giorno prossimo.
Il medico tornerà nel pomeriggio per un’altra visita di consuetudine, Luisa gli preparerà il solito caffè, e lui dirà ancora le medesime cose di ogni volta. Anche questa giornata scorrerà identica a chissà quante altre, lei si siederà nell'attesa del minuto che segue quello presente, e che appare già così insignificante; poi si metterà con la stessa pazienza ad aspettare quello successivo. Infine sarà sera, senza che neppure se ne sia neanche accorta, proprio come ogni giorno, e lei si sentirà di nuovo inutile, incapace di qualsiasi altra cosa che non sia quel cercare di lenire dentro di sé in maniera stupida il dolore, anche perché non sa più neppure indicare o mettere bene a fuoco quale sia il dolore che sente veramente, o che vorrebbe addirittura provare, certe volte, pur di togliere spazio a quell’indifferenza che non desidererebbe mai avvertire.
Si muove ancora dentro quella stanza, infine si affaccia alla camera, osserva l'ammalata attaccata a quella macchina che la tiene in vita, si chiede a voce alta se ci sia bisogno di qualcosa a cui non ha ancora pensato. Poi torna in cucina, da mesi nessuno le risponde quando lei dice qualcosa, e allora Luisa si siede e apre una rivista settimanale che certe volte sfoglia, tanto per passare un po’ di tempo. Forse dovrebbe prepararsi a tutto ciò che dovrà prima o poi accadere, però in qualsiasi momento le sfugge il motivo per cui si sente cosi stanca, anzi esausta, e non sa immaginare niente di diverso da quella realtà così condizionata.
 C'è questo senso di continuo e progressivo guastarsi, sgretolarsi, ridursi a niente: nel silenzio del suo appartamento Luisa sente i tubi dentro ai muri che stanno ormai ossidandosi, perdono quella tenuta che dovrebbero, e immagina quel cemento che per ragioni naturali inumidisce, si corrompe, perde consistenza. Tutto inizia con una piccola goccia da qualche parte, chissà dove, quasi un nulla, pensa, ininfluente: poi invece il lento prodursi della rovina continua inarrestabile. Il carburante immaginario del continuo presente prosegue a conservare il motore generale al minimo, come un lieve ronzio da qualche parte, quasi un sentore leggerissimo di qualche assurda possibilità di prosecuzione forse infinita.
Luisa torna alla finestra, ma pur sforzandosi non riesce a vedere niente, perché non c'è niente che si muova laggiù, ne è quasi sicura; forse vorrebbe scendere, andare a controllare di persona: aspetterà l’infermiera che più tardi tornerà a darle una mano, poi forse farà da sola il giro del quartiere. Si, sul marciapiede osserverà qualche faccia che neanche conosce, di quelle che neppure immaginano quale sia il suo dramma: poi, forse, Luisa sentirà dentro di sé almeno la forza per riuscire a rincasare.


Bruno Magnolfi

sabato 15 febbraio 2014

Protagonisti contemporanei.

           
            Non ha alcuna importanza questo sapore leggermente amaro, questa pioggia sottile, questo tempo sostanzialmente troppo frettoloso. Starò fermo, saprò aiutare gli altri fino a convincermi di essere nel giusto, e di come resta probabilmente una distanza purtroppo incolmabile tra tutto, anche se si può sempre tentare qualcosa che ci faccia sognare uno spazio diverso. Procedo dentro questo autobus urbano nel portare avanti come sempre le mie affannose giornate, anche con intransigenza, con convinzione, muovendomi coerentemente tra le tante piccole cose di cui è cosparsa tutta la strada che proseguo a percorrere. Una signora accanto a me si sta chiedendo in questo momento cosa mai io continui a leggere sopra il quaderno, visto che lei solo a momenti riesce a sprofondare gli occhi tra le pagine di un piccolo libro di racconti, e va avanti con sforzo, tanto da sembrare quasi bisognosa di solidarietà per criticare una scrittura che probabilmente non le piace affatto.
            Poi sorride tra sé, forse ha capito che sto soltanto rileggendo qualcosa che ho scritto stamani, un appunto frettoloso di cui adesso peraltro non ritrovo neppure il senso. Allora mi volto verso di lei, le dico per orgoglio che sono io che ho scritto il suo libro, ma lei resta incredula, piena di dubbi, ed io penso questo mentre lei continua a guardarmi; probabilmente mi prende per uno spostato, ma poi dice che in ogni caso s’immaginava l’autore più alto, forse, o meno anziano, o chissà: insomma una persona diversa da come appaio io, mi dice; una persona meno qualsiasi, ecco. Vorrei sorriderle; invece, scendo alla prossima, le dico, e con questo mi alzo, anche se ho la certezza che non devo scendere affatto.
            C’è il nulla dentro molte delle mie parole, penso; e c’è una dose di inquietudine che alla fine tiene lontani tutti da me.  Figurarsi che ho sempre cercato di descrivere l’individuo contemporaneo, il suo continuo perdersi, quel suo semplice stare sempre a cavallo tra un passato ingombrante e un futuro sempre più incerto. La signora di prima continua a guardarmi ancora, anche se adesso le sono lontano: probabilmente cerca di immaginarmi mentre sto curvo sul tavolo a scrivere qualcosa, poi tenta ancora di capire dal mio aspetto e dai miei modi quale persona io sia, non comprendendo che tutto ciò che le serve sta sopra il suo libro.
            Infine si alza anche lei, mi viene vicino, ride ancora prima di dire qualcosa: mi potrebbe scrivere una dedica, dice, e mi porge il suo libro. Farò di più, le rispondo. Scriverò un racconto dove lei ed io siamo i soli protagonisti.


            Bruno Magnolfi

martedì 11 febbraio 2014

Pallido giallo.

            

Lui sembra nascondersi dietro una delle grosse colonne del porticato. Una telecamera di sorveglianza lo riprende, qualcuno più tardi con tranquillità sicuramente potrà interpretare a meraviglia i suoi movimenti. La piazza non è molto affollata, e soprattutto le poche persone che si ritrovano da quelle parti stazionano in quei minuti davanti al caffè che si apre sul lato opposto. Lui è nervoso, guardingo, non sembra avere in effetti un appuntamento preciso, ma ugualmente sembra aspettare qualcuno. Infine si muove, calca meglio il cappello sopra la testa, tiene le mani sprofondate dentro le tasche e scende i pochi gradini di fronte a sé avviandosi verso una zona dove un’altra persona sta consultando il proprio orologio da polso.
Lui gli arriva di fianco, non dice niente, ma la sua presenza improvvisa fa voltare di scatto quella persona che forse proprio non si aspettava di trovarsi accanto qualcuno che presumibilmente neppure conosce. I due non si dicono niente, la persona  sorpresa sembra scocciata della sua presenza, nella telecamera della banca posizionata proprio sopra di loro appare chiara l'immagine dei due tizi che si scambiano inizialmente delle occhiate nervose. Forse si dicono anche qualcosa, ma questo purtroppo non è molto chiaro, considerata la forte distanza dagli obiettivi delle telecamere.
Lui infine se ne va, tornando con passo stizzito verso il colonnato di prima, l'altro, un attimo dopo, sembra proprio sparire velocemente all’interno del locale poco distante. Arriva un’automobile scura, rallenta, si ferma, sembra come attendere qualcosa, poi gira lentamente tutta la piazza andando con calma a parcheggiare sul lato della piazza davanti al porticato. Lui esce nuovamente da dietro una delle colonne, si fa avanti, ed avvicinandosi lascia che qualcuno in sua presenza apra il finestrino di quella macchina, gli dica qualcosa, poi lo faccia salire per far ripartire la vettura subito dopo.
Lui adesso è sopra la macchina che non è ancora uscita da quella piazza, ma che subito torna a fermarsi, lo sportello si apre di nuovo, la telecamera inquadra un breve battibecco che sembra si sia intavolato tra gli occupanti del mezzo. Lui scende, e rimasto immediatamente da solo, quasi tentenna in balia di preoccupazioni che precedentemente pareva non avere, ma infine va verso una delle panchine al centro del vasto spiazzo e si siede. Qualcuno, mani in tasca e passo leggero, lo raggiunge con flemma restando in sua prossimità ma ad una certa distanza: gli dice qualcosa, lui sicuramente non è interessato da quegli argomenti, non pare neppure rispondere, poi addirittura se ne va. Non c’è stato nessuno scambio di soldi fino a questo momento, il fatto è sicuro, e neppure di buste chiuse o di oggetti.
Lui dopo parecchi minuti trascorsi sulla panchina si alza, si muove da quel giardinetto centrale e va verso il caffè. Esce in quel momento la persona di prima, lo guarda, probabilmente meravigliata di trovarselo ancora tra i piedi, lui pare ignorare chiunque, ma l’altro da dietro lo abbraccia, come per trattarlo parimenti a un amico, e sulla soglia del bar lui si accascia, forse per un malore, verrebbe da pensare riguardando le immagini registrate. Ma soltanto osservando bene tutto con attenzione e rallentando le azioni, si capisce come la persona incontrata gli abbia steso velocemente sopra la faccia un piccolo fazzoletto, forse imbevuto di una sostanza anestetizzante dall’effetto immediato. In seguito, tra tutte le persone inquadrate dagli obbiettivi delle telecamere, non si riuscirà a riconoscerne neppure una, neanche ricorrendo a vari confronti con gli schedari, e di nessuno di loro, pur registrati per molte volte dalle telecamere digitali, si scoprirà mai la vera identità.


Bruno Magnolfi

domenica 9 febbraio 2014

Ritratto di una voce.

            
            Il dolore che mi opprime da giorni sembra attenuato. Sono rientrato in casa, dopo il pranzo alla solita trattoria dove anche oggi ho mangiato qualcosa da solo in silenzio. L’interno del mio appartamento sembra lontano dalla realtà, quasi privo di qualsiasi distrazione, così mi sono subito coricato sul letto, avendo cura di spogliarmi degli abiti e di ficcarmi sotto le coperte nella luce diffusa della finestra di camera appena oscurata da queste tende. Il tepore mi fa immaginare di stare bene, la mia mente lasciata a se stessa sembra navigare senza alcuna direzione, finendo per rendermi distante da tutto.
            Vorrei non sentire troppo la necessità di rassicurarmi, eppure se resto immobile mi pare quasi che la mia sottile sofferenza si attenui, e che smettano di girarmi per la testa le strane idee che mi portano costantemente a concentrarmi sulla parte del mio corpo che prosegue imperterrita a conservarsi dolorante, nonostante i miei sforzi per ignorarla. Proseguo nel lavorio tutto mentale per cercare di tenere distanti i miei problemi, infine però mi sento esausto, accendo la luce, mi scalzo dalle coperte, infilo le pantofole e vado velocemente a sedermi davanti alla scrivania. 
            Devo fare qualcosa, penso, è inevitabile. Apro quasi con rabbia uno alla volta i tre cassetti dove tengo le piccole cianfrusaglie di sempre, e infine in mezzo a mille altre cose trovo un foglietto con un nome di donna appuntato, del quale non ho alcuna memoria. A fianco è riportato anche un numero di telefono, ma poi non c’è altro, niente che possa farmi ricollegare quell’appunto a qualcuno. Sistemo il foglietto sul piano del tavolo, richiudo i cassetti ed osservo con calma la mia calligrafia con la quale ho scritto, chissà quanti anni prima, quella piccola nota.
            Mi sembra immediatamente un aggancio con un passato che forse ho voluto rimuovere, qualcosa che per un motivo od un altro mi è parso ad un certo momento superato ed inutile. Rileggo il nome, cerco di immaginare tutto ciò che mi suscita, ma non riesco ad arrivare a un bel niente. Infine prendo in mano l’apparecchio telefonico e compongo quel numero. Suona un ricevitore remoto, squilla tre o quattro volte, infine una voce femminile risponde con una certa fermezza chiedendo chi sia al telefono. Riattacco; non mi viene ancora a mente nulla che possa aiutarmi, però quella voce mi è parsa interessante, anche se non riesco in nessuna maniera a collegarla con una faccia. Il mio dolore si fa ancora sentire, però lo ignoro, quasi con puntiglio e con decisione.
            Penso ancora alla voce: mi pare si possa immaginare dei capelli lunghi tenuti raccolti dentro una crocchia sopra la nuca; un’espressione del viso luminosa, intelligente; un lieve trucco appena accennato sopra le palpebre di un paio d’occhi nerissimi e senz’altro pungenti. Quasi sicuramente degli orecchini piccoli e di buon gusto coronano questa espressione, ma non riesco a riconoscerla, non è una persona che ho già incontrato. Il mio dolore intanto sembra quasi sparito. Attendo ancora un minuto, infine compongo di nuovo quel numero di telefono. Risponde la medesima voce, con un accento diverso, come assumendo la consapevolezza di qualcosa che la volta precedente non c’era; attendo un attimo in più prima di riattaccare di nuovo, una frazione di tempo che a me pare infinita, per il bisogno che ho di dare un volto a quella persona che prosegue a rispondere con cortesia; assaporo anche l’eco di quel timbro trasportato dai fili elettrici, vedo quasi l’aria da cui sono circondate quelle labbra carnose, e infine, al culmine di tutto, lei dice soltanto: sei tu?


            Bruno Magnolfi

sabato 8 febbraio 2014

Navi alla deriva.

            

Ho visto una persona anziana arrabattarsi a vivere, e quasi senza volerlo ne ho sorriso. Poi ho lasciato che la stessa si alzasse avvicinandosi a me che non avevo niente da fare, e all’improvviso mi sono accorta di esserne incuriosita, quasi attratta da quelle rughe, da quei modi lenti da vecchio. Dispiace essere distante, ma è difficile per me mettersi nei panni degli altri, gli ho detto; ancora più difficile è cercare di restare permeabili alla realtà quando tutto vuole relegarti in comparti scontati, e mostrarti con evidenza solo zone della vita in cui tutto diventa problematico. Lui ha acconsentito ai miei pensieri, ma non si è minimamente scosso, come trovasse del tutto normali i miei discorsi. In fondo alle mie riflessioni di ragazzina, almeno secondo il suo parere, ci stava un formidabile entusiasmo della vita, mi ha spiegato, cosa che in un vecchio spesso è piuttosto difficile trovare.
Chissà cosa separa intimamente due diverse età, ho detto cercando di allargare il riferimento oltre noi due. Lui mi ha guardato e finalmente ha detto: niente, anzi, a ben guardare si completano. Però qualcosa sembra fuori regola, abbiamo probabilmente pensato contemporaneamente. Certe volte ho cercato dentro di me qualcosa che avesse un senso, ma spesso non l'ho trovato, ho detto mentre camminavo. Lui non si è preoccupato di niente, ma mentre continuavamo nella nostra passeggiata, ha iniziato a raccontarmi una storia che conosceva nei dettagli, qualcosa che faceva parte del suo enorme bagaglio di esperienze. Ho ascoltato tutto e mi è parsa meravigliosa quella sua capacità di narrare le cose come un dipanarsi di tante piccole vicende più o meno importanti. Alla fine ho detto che mi piaceva stare ad ascoltarlo, lui ha annuito, proprio come prima.
Avrei voluto dirgli che stavo iniziando ad osservare quei dettagli di comportamento da persona anziana con una morbidezza che non mi sarei mai aspettata da me stessa, e questo d’improvviso mi faceva stare bene, ma non gli ho detto niente, ho soltanto pensato tutto questo. Lui ha detto senza guardarmi che ci poteva anche essere una vera unione tra noi due, qualcosa che non è in fondo così peregrina, considerando che per chiunque è possibile sentirsi vicini al pensiero di un autore, o di un artista, o di un personaggio magari decrepito o morto già da molti anni. L’età non conta, ha detto, ciò che ha valore è la sintonia.
Poi ho salutato con affetto quella persona anziana, fermandomi ad un tratto mentre lui continuava a camminare: avrei voluto aiutarlo quel vecchio così vicino a me, cercare di essergli utile in qualche modo, ma nessuna maniera poteva essere troppo distante da quel senso ruffiano che volevo evitare più di tutto. Però gli ho detto d’impeto che gli volevo bene. Lui ha sorriso, mi ha guardato a lungo, poi mi ha detto che sapeva molte cose su di me, tutte cose di natura spirituale, intima, che forse mi avrebbe raccontato prima o dopo.
Da sola ho pensato alla sciocchezza per ognuno di scambiare rapporti solo con persone della propria generazione, ignorando molto di tutto il resto. Infine ho riflettuto che non volevo perderlo quel vecchio, provavo dentro di me il desiderio di stargli vicino, di sentirlo come un alleato, dalla mia parte, ed io dalla sua. Sono tornata indietro fino alle panchine della piazza, dove lo avevo incontrato poco prima, ed ho accarezzato con un gesto dolce e sentimentale il posto dove era rimasto seduto chissà quanto. Poi ho pianto, senza riuscire neppure a spiegarmene il motivo.


Bruno Magnolfi   

giovedì 6 febbraio 2014

Sogno privato.

            

Lo so che tutti quanti qua dentro mi giudicano una merda. Ma a me non interessa, mi rannicchio nel mio solito angolo, in fondo al cortile, e trascorro tutto il tempo con i miei pensieri e basta. La palazzina bianca mi fa schifo, dentro c’è soltanto sporco a terra e gli uomini in camice che ti prendono e ti strattonano da quella parte o da quell’altra. Anche gli altri sono insopportabili: sono pazzi, lo so per certo, non hanno un briciolo di possibilità per fare un ragionamento preciso come si deve.
Ho fatto un sogno, una volta: parlavo con qualcuno, un tipo che non conoscevo, ma non riuscivo a spiegarmi troppo bene, così l’altro si voltava e se ne andava. Lo chiamavo, allora, lo rincorrevo con tutte le mie forze ma avevo gambe molli, cercavo di chiarirgli a voce alta il mio pensiero, ma era inutile, non ero più capace di fare niente. Adesso continuo a rivedere davanti a me ogni fase di quel sogno, mi vedo là in quella stessa situazione, provo quelle precise emozioni, e le mie giornate scorrono così, quasi senza nient'altro. Chi interrompe i miei pensieri sa benissimo che mi vedrà infuriato, riuscirò ad urlare tutto il mio impeto contro di lui, per questo sono evitato, per le mie reazioni spesso rabbiose.
La verità è che sono un tipo solitario, non mi piacciono le persone, vorrei sempre che ognuno stesse per i fatti propri. Non annoio nessuno, me ne sto qui a farmi gli affari miei e rivivo sempre il mio sogno, ogni volta identico, ed anche se un po' ne soffro, però non riesco mai a cambiarne anche soltanto una piccola parte. Qui mi scansano tutti, parlano male di me, lo so benissimo, ma non mi interessa proprio niente: guardo nel vuoto e vedo il mio sogno.
Poi un giorno arriva un tizio nuovo, sta immobile e mi guarda, e anch’io me ne sto immobile: è lui, penso, è esattamente l'uomo del mio sogno. Devo parlarci, penso, devo per forza chiedergli come andranno a finire le cose, se riuscirò prima o poi dentro la mia storia a dirgli ciò che devo. Cosi lo tengo d'occhio per tutta la giornata, mi affatico anche un po' per questa attività: a tratti sento anche montare una certa tensione dentro di me, sono sudato, mi sento nervoso, ma ho bisogno di sapere cosa accade, ciò che conosce il tizio. Passo male la notte, sono ancora agitato, ma la mattina seguente lo affronto quasi subito. Lui piange, si dispera, si getta a terra anche; io lo colpisco immediatamente con un pugno per la sua riottosità, gli urlo qualcosa che adesso non ricordo, poi intervengono gli uomini in camice e mi sedano.
Non ha detto niente, penso mentre sto da solo, non mi ha rivelato neppure una parte della verità, e questo non posso sopportarlo, è veramente troppo. Penso ancora una volta al mio sogno, ma adesso non è più lo stesso, sono subentrati dei quesiti ancora più inspiegabili, la storia non regge più come prima, ed io non so proprio che cosa possa mai accadere in quella vicenda, ma non posso neanche restare fermo senza conoscere il seguito. Certo, quel tizio lo conosce, penso, lui fa parte della storia, per questo devo farmi dire tutto, non ci può essere altra strada.
Sto buono per qualche giorno, e quando mi rilasciano vado dal tizio, senza dirgli niente, senza fare niente, mi piazzo soltanto lì vicino e basta. Lui mi guarda un attimo, sembra non abbia ancora niente da dire, però mi ha riconosciuto, sa perfettamente chi io sia. Non devi andartene, fo io: devi ascoltarmi. Lui fa cenno di si, che ha capito tutto. Gli chiedo di spiegarmi il sogno, e lui dice soltanto che non lo sa, però è così come me lo sono immaginato, non c’è un diverso epilogo. Torno al mio angolo; penso che dovrò sognare qualcosa di diverso, uno di questi giorni: una storia in cui non ci sia un tizio che non sa un bel niente, qualcosa che resti tutto dentro me, solo per me, perché agli altri non deve interessare niente di questi miei pensieri.


Bruno Magnolfi

mercoledì 5 febbraio 2014

Sensibilità quasi eversiva.

            

Sono soltanto una donna in questa commedia, dice lei vestita di una semplice tunica di cotone grezzo, restando immobile e in piedi sopra le assi del palco, davanti ad un pubblico scarso ma attento. Anche io sono soltanto uno qualsiasi, gli fa eco uno dei personaggi della commedia, vestito sostanzialmente nella stessa maniera, mentre la luce spiovente dall'alto ne illumina alterandole le espressioni del viso.
Non avremo mai alcuna possibilità per emergere, fa lei, forse dovremo accontentarci di quello che siamo senza neppure chiedere altro. Siamo nati così, è inutile cercare di rinnegare le nostre radici. In fondo non si può neanche dire che ci manchi qualcosa, tutto va avanti ugualmente in qualche maniera, sia con noi che senza di noi, non credo sia neanche il caso di amareggiarsi per questo.
Qualche volta faccio una passeggiata fino in fondo al paese, dice lui; resto lì a lungo, guardo la campagna che si apre dopo le ultime case, e mi sembra tutto perfetto, come se in quell’insieme non ci fosse bisogno di altro. Mi piace accontentarmi, pensare che tutto ciò che posso riuscire ad essere, in qualche maniera, sia più che sufficiente. Poi però saluto qualcuno, guardo le facce degli altri mentre torno verso la mia abitazione modesta, e mi pare che nessuno di noi riesca ad essere davvero felice. C'è qualcosa che manca, lo avverto nelle espressioni di tutti, ed infine torno a pensare a quella grande saggezza che porta con sé colui a cui questo aspetto neppure interessa.
Anche a me capita di andare in giro di sera con qualche amica, dice lei: ridiamo, ci guardiamo attorno, spesso mi pare che anche a noi non manchi niente; eppure quando poi torno a casa e rimango da sola, mi prende immancabilmente una tristezza che non so neppure spiegarmi, ma è come se soffrissi per una malattia che non dipende esclusivamente da me; come qualcosa che sta nelle cose, forse nell'aria, addirittura in mezzo alle parole che proseguiamo ad usare tutti quanti, quasi un aspetto di cui non saprei neppure come fare per lamentarmi davvero.
Capisco bene questo sentire, fa lui spostandosi, però facciamo male ad abbandonarci nelle mani di qualcosa che non sappiamo o non comprendiamo: sarebbe forse meglio affrontare l'argomento, trovarne la fonte, sapere da che cosa è realmente costituito.
Non potrei, fa la donna; in fondo io sono soltanto una donna, ricordi?
D'accordo, fa l'uomo, ciò non toglie che si possa cercare di avere maggiore chiarezza su ciò che prosegue immancabilmente a circondarci.
Non so, fa lei, forse personalmente ne ho solo paura.
È probabile, fa lui, la realtà spesso spaventa, in fondo è molto meglio e più facile ignorare del tutto certe cose, che addolorarsi profondamente della loro conoscenza.
Comunque dobbiamo tutti qualcosa agli altri, dice la donna; è nostro preciso dovere rendercene conto, non possiamo affogare in un assurdo e inconsapecole isolarsi.
Sono d'accordo, fa lui: forse soltanto ascoltando la voce di tutti riusciremo a cambiare davvero noi stessi, magari di poco, forse soltanto per un periodo di tempo; in ogni caso sempre di più appare necessario provarci.


Bruno Magnolfi

lunedì 3 febbraio 2014

Caso mai.

            

Cammino per strada, svogliatamente, incrocio una donna, forse svogliata esattamente come me, così l'osservo, e lei mi getta uno sguardo.
Faccio una passeggiata senza voglia e senza alcun impegno, vedo un uomo piuttosto interessante, non c'è niente di male se lo guardo per un attimo, penso; poi lo supero e tiro diritto, senza voltarmi.
Mi volto, forse non è molto corretto, ma che fa, non ho niente da perdere, e poi quella donna mi piace, secondo me ne vale proprio la pena.
Sono sicura, quell’uomo mi sta osservando da dietro, e questo mi piace, così, tanto per dargli una possibilità, fingo di provare un piccolo dolore ad un piede, perciò mi fermo, sollevo leggermente una gamba, e con la mano mi sfioro la caviglia.
Non posso fingere che non stia accadendo niente, ho soltanto un'occasione per conoscere questa donna, devo per forza approfittarne, non sarei più lo stesso se non lo facessi.
Mi sembra che quest’uomo dubiti di sé un po' troppo a lungo là dietro, a mio parere dovrebbe chiedermi adesso se ho bisogno di aiuto, ed io forse potrei dire semplicemente: si, grazie; e lui accompagnarmi almeno fino alla più vicina panchina.
So che questa donna sta sicuramente aspettando che io intervenga, per questo la faccio attendere, non vorrei apparirle scontato, non sono il tipo che va dietro alla prima che passa.
Appoggio la scarpa sul marciapiede: stai perdendo la tua occasione, bello, non so se te ne stai rendendo conto, penso con un certo cinismo.
Mi muovo lentamente verso di lei, dico: bisogno d'aiuto?
Mi volto, lo guardo con serietà; non è niente, rispondo, e lui: se vuole l'accompagno fino ad una panchina.
Grazie, dico; fingo di zoppicare leggermente, lui mi accompagna fino al caffè a pochi passi di distanza, poi entriamo.
L’accompagno sorreggendola per un braccio fino ad un bar, con fare cortese la lascio sedere ad un tavolo libero, l’aiuto in quella manovra, poi le sorrido.
Ringrazio; un caffè macchiato, dico quasi sottovoce al cameriere; poi osservo di nuovo quest’uomo, ma soltanto per un momento.
Anche per me, faccio io, e intanto mi siedo con calma di fronte a lei.
Non è niente, spiega la donna, mi è quasi passato questo piccolo dolore alla caviglia.
Bene, fa l’uomo, comunque sono contento di esserle risultato utile.
Non c’è affatto bisogno che io dica il mio nome, pensa lei, così come non ho affatto intenzione di chiedere a lui come si chiami. Ci stiamo conoscendo, in qualche maniera, nei modi, nei comportamenti, nel modo di parlare, e questo mi pare sufficiente.
Non le chiederò come si chiama, pensa lui, a meno che non lo dica lei spontaneamente; in ogni caso non starò a presentarmi per primo, sono cose superate, senza alcun significato.
Arrivano i caffè, loro due avvicinano contemporaneamente le tazzine alla bocca, si guardano senza insistenza, sembra quasi non abbiano molto da dirsi.
Bene, faccio io, adesso mi sento molto meglio, la ringrazio di nuovo, ma adesso devo proprio scappare.
D’accordo, rispondo con noncuranza, anche per me gli impegni stanno quasi bussando alla porta.
Usciamo dal locale senza alcuna fretta, e appena fuori passiamo ai saluti.
Arrivederci, si dicono; poi pensano: forse domani ognuno di noi due si ritroverà a passare ancora da qui; si, sarà molto probabile. Però anche se questo forse capiterà veramente, riflettono ancora, senz’altro sarà qualcosa che accade per combinazione, in maniera assolutamente casuale.


Bruno Magnolfi

domenica 2 febbraio 2014

Giorni di pioggia.

           

Mi rannicchio nel vano del portone dove mi sono rifugiato. Sto fermo, osservo la pioggia che continua a cadere, sto bene, in qualche modo, stringo il mio giaccone impermeabile e cerco quasi di sparirvi all'interno, come se potesse accogliermi tutto comodamente. In fondo non mi interessa nulla delle macchine piene di gente che continuano a transitare lungo la strada, forse qualcuno là dentro mi vede, mi osserva, esprime qualche giudizio, ma io sto qui, rifletto, e sono sicuro che prima o dopo mi passerà nella mente qualche idea buona. Poi mi siedo sopra al gradino: aspetto che succeda qualcosa, non c’è nient’altro da fare, ma più concretamente vorrei soltanto trovarmi quasi per magia in un posto caldo e ben asciutto, tanto da poter chiudere gli occhi e sonnecchiare, almeno per qualche minuto.
Con le dita sento nella tasca destra le poche monete che mi sono ancora rimaste, non ci posso fare molto, sono appena sufficienti per comprarmi un panino o qualcosa da mangiare, e forse sarà proprio quello che cercherò di fare, appena sarò in grado di muovermi da qui. Ma la pioggia prosegue, non mi permette di avventurarmi verso nessun luogo, sono inchiodato in questa posizione, e allora, tanto per smuovere qualcosa, suono un campanello del condominio in cui mi sono rifugiato. Risponde un uomo all’apparecchio, gli chiedo aiuto, dico che sono bloccato qui, non so che fare, piove a dirotto, non posso muovermi. Lui dice che scende, viene a sincerarsi della situazione, io dico grazie senza grande fiducia, ma poco dopo lui arriva davvero. Posso chiamarle un taxi, mi dice; gli spiego che non ho i soldi per riuscire a pagarlo, ma lui sostiene che non c'è questo problema. Dopo quasi un quarto d'ora arriva l'auto, l’uomo mi mette in mano due biglietti di banca più che sufficienti per una corsa urbana verso qualsiasi luogo, ed io salgo. L'autista, dopo aver osservato il mio abbigliamento trasandato e l’uomo che mi finanzia, mi chiede verso dove deve dirigersi, ed io rispondo la stazione centrale.
Arriviamo là persino troppo di fretta, il tassista alla fine mi fa uno sconto, scendo con molta calma e subito rimango fermo sotto ad una pensilina con in tasca gli spiccioli di prima e qualche altro soldo. Vago lentamente nella stazione mentre rifletto: sono quasi due anni che ho perso il lavoro, ma sono ancora confuso, non mi è ancora riuscito di pensare quali soluzioni ci siano per la mia situazione; in ogni caso le poche persone che conoscevo in precedenza le ho già contattate più di una volta, e nessuno di loro alla fine si è offerto di darmi davvero una mano. Sono solo, di fatto, e questa è una condizione fantastica per poter ripensare e rielaborare ogni cosa, ammesso che prima o poi ci riesca.
Entro in un treno qualsiasi fermo al binario, naturalmente senza avere il biglietto, mi sistemo nel caldo di uno scompartimento e lascio che il convoglio riparta. Prima che arrivi il controllore ho un po’ di tempo per godermi questa sensazione piacevole, penso. Infine mi alzo, giro con calma nel corridoio, vedo da lontano una persona in divisa e istintivamente mi dirigo dalla parte opposta. Il treno rallenta, fischiano i freni di questa carrozza, infine si ferma, siamo chissà in quale altra stazione, ed io scendo, raggiungo la sala d’attesa deserta di un paese che non so neppure quale sia, e mi piazzo seduto. Posso continuare in questa maniera per chissà quanto tempo, rifletto, però non so a cosa possa servire. Fuori continua a piovere, magari qualche fiume è uscito dagli argini, penso; il mondo è pieno di problemi, mi dico: poco per volta però le soluzioni verranno fuori, le cose si sistemeranno, occorre soltanto avere pazienza, vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, attendere magari che torni il bel tempo, poi tutto si asciugherà, ne sono sicuro, e forse allora potremo tornare tutti a sorridere.


Bruno Magnolfi