martedì 30 giugno 2015

Senza memoria.



C'è come una presenza inspiegabile nel vecchio magazzino degli attrezzi in fondo al giardino di casa sua. A lui piace andare là in questa stagione, quando nel primo pomeriggio oltre la recinzione non si vede proprio nessuno in giro, ed il sole batte forte sopra al tetto di lamiera, tanto che dentro nel gran caldo si sente soltanto l’aria asciutta e immobile, ed una mosca o due che ronzano nell'aria, e poi più niente. Sta lì fermo per un po', come in attesa, nel silenzio, si guarda attorno lentamente per abituare gli occhi alla penombra, e poi, dopo lunghi minuti, finalmente eccolo, il primo piccolo rumore provenire da un angolo zeppo di roba e cianfrusaglie. E’ uno scricchiolio, un movimento di carte e piccoli oggetti, ed arriva sempre insieme come ad un frusciare di stoffa, forse di vestiti.
Potrebbe essere un topo, pensa, o un grosso insetto, ma a lui piace immaginare qualcosa di diverso, anche perché quei rumori dopo un po’ si fanno radi e insoliti, quasi il blando eco di minuti e ordinari movimenti come di una persona probabilmente abitudinaria. O almeno lui qualche volta crede questo, comunque sia, senza neppure cercare di smontare troppo questi suoi pensieri. Ascolta, ed è come vedesse davanti a sé la sagoma di qualcuno che sta lì, nella penombra, in piedi, e forse muove lentamente una gamba, poi appoggia sull'arto tutto il peso del suo corpo, infine tocca qualcosa con la mano, mentre lascia l’altra infilata in una tasca.
Passa un amico da casa, per combinazione, e lui lo porta con sé nel suo capanno, rispondendo probabilmente ad una forte voglia di spiegare, o forse di confidarsi con qualcuno. Stanno immobili, ambedue, ed i rumori non si fanno neppure troppo attendere, dopo che le prime gocce di sudore imperlano le loro fronti. L'amico dice che secondo lui dovrebbe mettere una trappola, c'è sicuramente un piccolo animale da qualche parte, ma lui sorride, nervoso, dice che no, non è così, anche se l'altro insiste. Ascolta, ascolta bene, fa ancora lui. Un fantasma abita qui dentro.
L'amico ride, e lui si arrabbia; porgi le orecchie attente, dice ancora, e intanto gli abbassa la testa mettendogli una mano sopra al collo. L'altro si china, ma è infastidito, vorrebbe quasi andarsene, poi cerca di scansare quella mano con una mossa svelta, poco arguta, ma lui comprende il tentativo e lo pigia ancora di più, a mostrargli netta la propria volontà e ciò in cui crede. L'amico a quel punto scivola, o forse perde l'equilibrio, allunga una mano svelto, ma non ce la fa a riprendersi, e allora sbatte su un attrezzo, e alla fine cade lungo disteso con un grosso taglio nella testa. Sangue, lui non riesce a sopportare quello che all’improvviso sta proprio capitando, quella situazione così inattesa, ed i rumori che adesso sono anche maggiormente intensi di qualsiasi altra volta, mentre tutto trema e sta come sfuggendo a qualsiasi comprensione, così come il suo amico che sembra assurdo mentre si lamenta e contemporaneamente impreca contro di lui, contro quelle sue stupide manie.
Lo colpisce duro con la prima cosa che si ritrova tra le mani: come si fa a non capire tutto questo, dice forte, come si può essere cosi miopi. L'amico giace a terra, tramortito, i rumori intorno sono fortissimi, a lui pare quasi sia già scesa la sera, sia già buio fuori da quel suo magazzino abbandonato, ma si riprende, si guarda attorno, non ha paura, allunga il braccio, aiuta il suo amico a rialzarsi, a rimettersi in piedi: via, gli dice, usciamo subito da qui; va tutto bene, andiamo in casa a medicarci, tutto è già finito, tra poco non ci ricorderemo neanche più di questi fatti, domani forse sarà un giorno qualsiasi, non avremo neppure un debole ricordo di tutto questo, niente, assolutamente, perché domani tutto probabilmente sarà già stato cancellato dalla nostra mente.


Bruno Magnolfi

venerdì 26 giugno 2015

Intorno a noi.

            

Qualcuno mi spia. Per questo spesso resto chiuso per molto tempo nel bagno di casa. Il bagno è un posto abbastanza sicuro, la finestra piccola con il vetro opaco non permette a nessuno di vedermi. Sto lì, certe volte, e mi guardo dentro lo specchio sopra al lavabo, immaginandomi di scorgere all’improvviso nel riflesso una persona diversa da me. Allora esco dalla stanza, non è il caso di lasciarsi andare a simili fantasie, penso. Qualcuno, al negozio dove vado quasi ogni giorno, mi ha spiegato che tutti noi non siamo più proprietari di noi stessi, e che tutto è sotto un controllo accurato, un'entità strategica ha il potere di studiare qualsiasi mossa in cui siamo impegnati. A me non interessa approfondire certi argomenti, però sto sempre attento, osservo qualsiasi cosa intorno a me, e mi guardo sempre alle spalle prima di prendere qualsiasi decisione anche semplice, come attraversare una strada o scegliere di entrare in una certa bottega invece che un’altra.
Il cliente del negozio però insiste: dice che ormai hanno in mano tutti quanti i nostri dati, conoscono praticamente tutto di noi, possono perfino immaginare quello che stiamo pensando e quindi qualsiasi cosa stiamo per realizzare. Sorrido, a questi discorsi io non ci credo affatto, penso che se una persona riesce ad essere accorta, a guardarsi sempre bene attorno, può tranquillamente sfuggire a qualsiasi controllo, anche se comunque sono contento che ci sia qualcuno che mette sull’avviso tutti gli altri; è sempre utile, penso, stare ad ascoltare un cittadino che ti informa, che ti stimola a prestare maggiore attenzione, anche se io non mi fido mai di nessuno.
Rientro comunque nel bagno appena torno nel mio appartamento, giusto per guardare in ogni angolo alla ricerca di qualsiasi cosa sospetta, e sincerarmi che le cose vadano bene: niente, proprio come immaginavo, è tutto a posto, non ci sono né microfoni né telecamere, nessuno può sapere cosa penso quando rimango chiuso qua dentro. Poi mi viene un’idea e fingo di uscire di casa, mi chiudo il portone alle spalle con grande rumore, e scendo in strada scalpicciando con i piedi e tossendo. Invece, subito dopo, in silenzio e con la faccia coperta, torno velocemente sui miei passi, e rientro nelle mie stanze con grande attenzione e in punta di piedi, senza provocare il minimo rumore, serrando dietro di me la porta di ingresso attento a non far neppure scattare la serratura.
Qualcuno però, con delicatezza sospetta, poco dopo bussa là sopra. Sono perplesso, vado ad aprire, non ho fatto niente per cui debba nascondermi, penso, e sono pronto ad affrontare qualsiasi eventualità, anche se mi soffermo per un lungo momento ad ascoltare ogni eventuale equivoco rumore possa provenire dal vano scale. Apro, infine, e mi accorgo che è soltanto la mia vicina di casa; mi dice che ha sentito dei rumori provenire dal mio appartamento, e così si è preoccupata per me. Sorrido, la faccio subito entrare, le dico che oggi non siamo più tranquilli di niente, che dobbiamo stare molto più attenti di un tempo, dobbiamo cercare di essere furtivi, e variare spesso atteggiamento in modo da confondere chi ci vorrebbe mettere sotto controllo.
Lei ascolta con attenzione, dice sottovoce storcendo la bocca che c’è l’inquilino del piano di sopra che sta sempre a domandare dei fatti degli altri, e che lei non riesce proprio a sopportare quei modi. Ecco, penso senza farmi accorgere di niente, forse è proprio lui che passa delle informazioni alle autorità che si interessano di queste cose; forse è lui la spia che cerca di scrutarmi continuamente. La donna alla fine se ne va, ed io rientro nel bagno, mi siedo a pensare e guardo lo specchio. Ci deve essere qualcosa sotto a questa lastra di vetro, è l’unico posto da dove forse possono riuscire a vedermi senza essere visti. Così prendo il bicchiere di ceramica dello spazzolino da denti e lo lancio con forza in mezzo allo specchio, che subito si rompe in mille frammenti. Dietro c'è un piccolo foro nel muro da cui sporgono dei cavi elettrici. Prendo del nastro isolante e sigillo subito quel buco. Dovrò stare più attento, penso: persino qualsiasi semplice impressione negativa, può essere davvero il segnale di qualcosa estremamente più importante di quello che sembra.


Bruno Magnolfi

lunedì 22 giugno 2015

Senso di colpa.

            
            Perché mai devo stare chiuso qua dentro, rimanere dietro ai vetri di questa finestra ed accontentarmi solamente di osservare una realtà in fondo piccola, quasi insignificante? Sono già diversi giorni che lui si pone questa domanda, ed anche se si sente ancora debole per via della convalescenza a seguito di una lunga malattia, e nonostante il medico gli abbia prescritto di non uscire da casa e di non fare alcuno sforzo, guarda l’aria aperta lungo la strada di fronte al suo appartamento provando la sensazione di essere come dentro una gabbia. Si muove sulla sua sedia, a volte legge qualche pagina di uno dei suoi libri, ma poi torna lì, a quella finestra, ad osservare semplicemente la gente che passa, il transito ordinario di uomini e donne lungo la via.
            Suona il telefono, e qualcuno timidamente, presentandosi solamente con il nome di battesimo, dice che lo conosce già da un po’ di tempo, che lo vede praticamente ogni giorno dietro a quei vetri, e che prova quasi pena per lui, costretto come si trova in quella situazione. Lui si scuote, dice che quelle parole sono quasi offensive: che è stato gravemente ammalato, e che per questo e nient’altro si trova in quella situazione che normalmente non avrebbe mai accettato; ma l’altro conserva un tono di appiccicosa comprensione, come se gli argomenti con cui sta replicando non avessero quasi importanza.
Lui si innervosisce, alza leggermente la voce, chiede sgarbatamente che cosa desideri dimostrare con quei discorsi senza alcun significato, e quale sia il motivo finale di una telefonata del genere; ma l’altro dice soltanto che è un senso di solidarietà ad averlo spinto fino a quel gesto, e che se è d’accordo potrebbe addirittura passare a fargli una visita, magari perfino quel medesimo pomeriggio. Lui resta perplesso, non si aspettava di certo una cosa del genere, anzi, gli torna proprio strano che possano esserci delle persone preoccupate in questo modo degli altri, ma dice subito, pur ringraziandolo, che non ne sente affatto la necessità, e che in fondo a lui non serve niente. L’altro non si scoraggia, dice che in ogni caso passerà più tardi, giusto per assicurarsi di persona che le cose stiano effettivamente in quella maniera, e lui non riesce ad opporre alcuna resistenza, anche se forse vorrebbe togliersi volentieri dai piedi quello strano scocciatore.
            Riagganciano insieme, e lui prova il moto immediato di uscire da casa, di non farsi trovare, a dimostrazione di come stia già più che bene, e che non ha affatto bisogno di niente e di nessuno. Ma poi, soprappensiero, torna ad avvicinarsi alla sua finestra, anche se adesso prova come una specie di ostilità per i vetri, come se da quella trasparenza giungesse a lui soltanto la curiosità malata e forse tossica della gente che continua a transitare da quelle parti.
            Si siede, spossato, attende, infine qualcuno suona effettivamente il campanello di casa. Gli tremano le mani mentre apre la porta, ma un uomo all’incirca della sua stessa età, che lui non conosce, gli dice gentilmente: buongiorno, eccomi qua. Così lo fa accomodare, si siedono, e restano in silenzio per qualche minuto. Infine quell’uomo dice che adesso deve proprio andarsene, e all’improvviso lui resta solo, di nuovo, accanto a quella finestra. Avrebbe potuto dire chissà quante cose, pensa, intavolare innumerevoli scambi di idee e parlare di mille e più argomenti; ma non l’ha fatto. Forse, riflette, in un caso del genere è giusto provare almeno un piccolo senso di colpa. 

            Bruno Magnolfi


giovedì 18 giugno 2015

Poca fiducia nelle proprie personali possibilità.

            
            Cammino in mezzo a queste bancarelle del solito vecchio mercato di quartiere. Nessuno mi nota, fortunatamente, ed io intanto sfioro con le dita della mia mano la piccola canna lucida e fredda di questa pistola ad un solo colpo che tengo dentro la tasca della mia giacca. So difendermi, penso con convinzione, da tutta questa gente che mi gira intorno freneticamente; posso farlo in qualsiasi momento, senza assolutamente alcun tipo di problema. E’ vero, posso sparare soltanto una volta, ma è già sufficiente, basta soltanto che qualcuno si avvicini a me in maniera aggressiva, o violenta, magari mostrandomi i denti come fosse un cane, per fargliene passare la voglia.
            Non ce l’ho con nessuno, certo, per me anzi vanno tutti benone, tutti coloro che si fanno tranquillamente i fatti propri, e che girano in mezzo ad un mercato soltanto per osservare la merce e le bancarelle che ci sono, per starsene un po’ in giro tra questa gente, e svagarsi la mente insomma; ma non volto certo la testa da un’altra parte se qualcuno inizia come niente ad infastidirmi, a prendermi in giro, a ridere magari di questo cappello, della mia espressione, o della giacca scolorita che indosso. So badare a me, nessuno può permettersi delle libertà nei miei confronti.
            Poi mi fermo di fianco ad una donna: sembra impegnata nello scegliere qualcosa in mezzo ad una montagna di tante altre cose rovesciate a caso sul piano di un semplice carretto. Buongiorno, le dico, ma lei non risponde niente, come se non mi avesse neppure sentito. Anzi, subito si sposta, e poi riprende in mano una vecchia busta di plastica che teneva infilata ad un braccio, e dopo aver frugato dentro, si porta alla bocca qualcosa, un pezzetto di pane, o comunque del cibo, immagino. Provo un istinto come quello di tentare di aiutarla, oppure di essere comunque gentile con lei, e così torno ad insistere: buongiorno, le ripeto, e quella donna allora si volta, mi guarda con apparente attenzione, ma è come se guardasse proprio da un’altra parte.
            Mi muovo, lei mi viene dietro, forse è curiosa, penso, ma adesso ha l’espressione perplessa, come se attendesse chissà cosa da me. Mi sposto verso il margine del mercato, poi intravedo tra le tende di stoffa una specie di vicolo traverso, e subito mi ci dirigo. Lei è dietro di me, mi guarda, forse prevede qualcosa, anche se non sembra provare un vero interesse, e mentre si muove prosegue a portarsi alla bocca pezzetti di qualcosa pescato nella sua busta. Adesso io sono fermo, noi due siamo soli, ma non so neppure perché siamo qui, che cosa sia meglio che faccia, anche se sono certo che vada presa al più presto una precisa decisione, perché non è il caso di lasciare tutto quanto sospeso per troppo tempo.
            Lei sembra percepire all’improvviso questo mio nervosismo, sposta il peso del corpo da un piede a quell’altro, e cerca di chiudere definitivamente la sua busta di plastica producendo uno sgradevole scartocciante rumore. Così tiro fuori la mia pistola e mimo subito il gesto di sparare contro di lei. Immagino che questa donna adesso possa urlare, cercare di fuggire, assumere un’espressione terrorizzata, svenire addirittura, e invece non fa proprio niente di tutto questo. La guardo, lei è immobile, cerco dentro di me delle risorse che forse non ho, e poi ripongo lentamente la mia arma dentro la tasca, mentre sento che il mio dito sopra al grilletto sta tremando ancora nervosamente. Mi volto, me ne vado, e con la coda dell’occhio vedo che anche quella donna sta venendo via dietro di me. Sarà per un’altra volta, penso con calma maggiore, non ci sono problemi.


            Bruno Magnolfi

lunedì 15 giugno 2015

Fiducia latente.

           
            Già al primo gradino della scalinata di pietra che conduce proprio alla piazzetta di sotto, dove si fermano gli autobus, mi sono subito reso conto che qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto, racconta Eros dal suo letto d’ospedale. Ero arrivato fin lì forse con una fretta eccessiva, ma l’ho fatto soltanto per evitare di perdere la solita corsa del mezzo pubblico su cui salgo ogni giorno, per non giungere tardi al lavoro insomma, e con altrettanta leggerezza, pensando contemporaneamente a mille altre cose, all’improvviso ho avvertito come il peso del mio corpo che si stava praticamente sbilanciando, ed  a quel punto ero già forse troppo proteso in avanti, tanto che quando ho allungato il mio piede destro per cercare di riequilibrarmi, in quell'esatto momento ho subito immaginato che stavo ormai per cadere sopra ai gradini. La mia scarpa difatti è inciampata in qualcosa, in una sciocchezza qualsiasi, in un niente, proprio nello stesso attimo in cui anche la fiducia nella mia capacità di riequilibrio perdeva del tutto consistenza; e poi naturalmente da lì a rovinare a faccia in giù è stato giusto un secondo.
            Non ha importanza il resto, dice ancora Eros; ora sono qui, e tutti fino adesso sono stati cortesi con me, soccorrendomi e medicandomi come meglio di cosi non potevano fare; ma è in questo momento che sento di aver perso per sempre la convinzione che riponevo in me, nel mio saper muovermi, camminare, correre, andare dappertutto senza problemi, lungo tutte le strade della città, come ho sempre fatto fino ad adesso. Mi sento demoralizzato, questo è il punto, e non ha assolutamente nessuna importanza guarire più o meno in fretta dalla frattura scomposta a questa stupida caviglia.
            Il compagno di stanza lo ascolta, alza le folte sopracciglia, segue per bene il suo ragionamento, ma non dice a sua volta quali siano le  preoccupazioni che lo assillano, quali i suoi malesseri, o i pensieri ai quali si rivolge, come forse lui in un'occasione del genere si sarebbe aspettato. Perché quasi quasi Eros avrebbe voglia di svago, di ascoltare altre cose, liberarsi in parte la mente da quel suo opprimente pensiero. Al contrario, l'altro dice soltanto che in fondo tutto in certi casi assume un suo senso, e che una battuta di arresto ogni tanto forse ci vuole, è quasi benefica, anche per far rientrare nel proprio alveo naturale la troppa spavalderia, quel sentirsi persino troppo sicuri di sé. Eros lo interrompe, sostiene subito che non ha mai provato prima una sensazione del genere, e che in fondo non è neppure mai stato troppo sicuro di sé e delle sue capacità, anche se adesso effettivamente tutto gli pare sfuggirgli di mano, quasi fosse all’improvviso addirittura un’altra persona.
L'altro lo guarda, probabilmente comprende i suoi sentimenti, ma ugualmente sembra non dare troppa importanza a quelle inquietudini eccessive, come se tutto dovesse sistemarsi comunque, indipendentemente da ogni congettura. Non c'è da preoccuparsi, gli dice; l'aspetto che nasce da una piccola vicenda del genere è quello per cui siamo tutti estremamente vulnerabili, inutile pensarla diversamente. Eros ascolta, e infine lo guarda più attentamente: se ci riflette un po' meglio gli pare quasi di avere già conosciuto in passato una persona come adesso gli appare quel casuale vicino di letto. Ma resta in silenzio, pensa qualcosa, ed alla fine dice soltanto: si, è proprio così; senza avere neppure altro da dire.

Bruno Magnolfi


lunedì 8 giugno 2015

Piccole immagini.

            
            Ci sono certe volte che mi piazzo fermo lungo la strada ad osservare le persone che passano da queste parti. Mi sembrano generalmente tutte impegnate in qualcosa, come se avessero da sbrigare degli affari importanti. Io normalmente non ho niente da fare, se non immaginare delle altre persone che stanno già aspettando queste qua, e che nell’attesa osservano il loro orologio, si muovono nervosamente, riflettono seriamente sul dubbio di starsene o meno soltanto sprecando dei minuti preziosi. Poi si salutano, giusto due parole di circostanza, e subito dopo vengono al sodo, intavolano immediatamente le motivazioni che li hanno spinti fin lì, si affannano anzi a spiegare interrompendosi a vicenda quanto hanno da dire. Parlano, vanno a gruppi di due o tre a prendersi un caffè dentro un locale, e si sorridono, sono perfettamente a loro agio, sicuri di loro stessi e di essere persino vestiti in maniera adeguata a quell’occasione.
            In seguito io riprendo il mio bastone, mi alzo con calma dalla panchina, ricomincio come sempre a camminare claudicando dolorosamente per andarmene chissà dove. Forse di questo bastone potrei anche fare a meno, ma credo mi dia un tono, una personalità, e lo preferisco, piuttosto che zoppicare vistosamente come per un’improvvisa distorsione ad una caviglia o per un taglio doloroso procuratomi chissà come sotto ad un piede. In questo quartiere sono per tutti lo zoppo, ed in molti riescono a sopportare la mia vista senza neppure sorridere, altri al contrario mi guardano con un briciolo di pena, ed altri ancora mi ignorano del tutto, nonostante io faccia qualsiasi cosa affinché si noti la mia disabilità.
            Ho anche degli amici, o meglio delle conoscenze, che mi salutano chiedendo sempre come mi vada. Danno un’occhiata distratta alla mia gamba offesa, ma credo non si riferiscano a quella, quanto alle piccole cose delle quali sanno che amo occuparmi. Dipingo, questo è il punto, o meglio compongo dei minuti disegni in bianco e nero, quasi microscopici a volte, in cui cerco di raffigurare la realtà che riesco a vedere. Prendo dei brevi appunti, degli schizzi a matita, e quando torno a casa invece uso dei pennini speciali che mi permettono di elaborare complesse linee sulla grana della carta, organizzando una specie di francobolli che devo dire hanno anche un certo successo. Ma in fondo questo è solamente un mio passatempo.
Anzi, la mia vera attività ritengo sia quella di perdere tempo. Per questo aumento in ogni mia espressione il dolore che provo nel camminare, proprio per permettermi di rallentare, di fermarmi spesso, di impiegare una grande quantità di tempo per affrontare brevi spazi di marciapiede. Certe volte qualcuno che neppure conosco mi chiede di lasciarmi aiutare, e allora io mi fermo, tiro su lo sguardo, sorrido, pur trattenendo un briciolo di quell'amarezza che evidentemente la mia condizione comporta. Poi rispondo, con un senso di dispiacere, che non importa, sottintendendo così quanto la gente come me sia destinata solo a soffrire, e che questo è giusto farlo da soli, senza dividere la pena con altri che in genere riescono ad assumere in questi casi soltanto un comportamento affettato. Infine torno a casa, lascio il bastone fuori dalla porta, tiro fuori le mie bozze ed inizio a tradurle su carta di cotone con i miei pennini alla china. Non so cosa altro io possa fare, penso quando rimango da solo, se non starmene qui seduto a riflettere sulle piccole immagini che noto in tutte le persone che incontro.


Bruno Magnolfi

venerdì 5 giugno 2015

Felice serata.

           

            Dovrebbe venire anche Tonelli, quasi sicuramente insieme alla moglie, e senz’altro, se ci saranno anche tutti gli altri, con loro saremo forse più di trenta. Mi sento praticamente elettrizzata, prosegue lei, sarà senza dubbio una serata magnifica. Intanto si alza dal tavolo, va dentro casa a prendere il vassoio con la frutta, e poi torna per appoggiarlo nel mezzo, sul piano tra loro due; quindi torna a sedersi. Lui in silenzio si versa ancora due dita di vino, sorride, pensa che dopodomani fortunatamente sarà passata anche questa, e poi potrà dedicarsi a tutt’altro.
            Lei mastica lentamente una fragola, forse vorrebbe ancora dirgli qualcosa a proposito della serata che stanno organizzando per il giorno seguente, però si frena, proprio per non apparire esageratamente ansiosa e non sembrare neppure così ripetitiva. Lui sorseggia dal suo bicchiere, probabilmente immagina quello che lei sta pensando, e quasi vorrebbe riprendere a sorridere, tanto per darle spago, ma resta serio, per non incoraggiarla almeno su quell'argomento, forse nell'attesa di trovarne di nuovi. Infine si alza, recupera da qualche parte lì accanto le sue sigarette, quindi torna a sedersi a quel piccolo tavolo da giardino in ferro battuto, davanti a lei.
            Dovresti provare di nuovo a smettere, dice lei tanto per dire, subito mordendosi le labbra per aver toccato un argomento che potrebbe in un solo attimo irritarlo profondamente. Lui fa finta di non aver neppure sentito quelle parole, però subito dopo dice: ho calato la frequenza, forse non te ne sei neanche accorta, ma praticamente sto fumando quasi la metà rispetto a una volta. Lei sorride, tutto vorrebbe fuorché toccare un tema che possa compromettere quel difficile equilibrio che si è formato in quegli ultimi tempi. Ma si, dice allora: sei stato bravo, sussurrando le ultime sillabe come ad allontanare qualsiasi specifico riferimento. Penso che domani indosserò il mio vestito rosso sparato, tu che ne pensi? Bello, fa lui, non è molto sobrio, ma in ogni caso si fa notare, e questa in fondo è la cosa che a te interessa di più.
            Lei sta per ribattere qualcosa, ma in quel momento esatto le suona il cellulare. Così si volta per osservare distrattamente il numero apparso, e poi riattacca. Quella scocciatrice di Vanda, dice come tra sé, la richiamerò forse più tardi. Certo, non si può dire che con certe persone tu sia molto socievole, fa lui. Lei evita il suo sguardo e si limita a dire che forse è anche vero, ma la capacità che hanno in molti di prenderti nel momento sbagliato è notevole. Sarà pure così, ribatte lui, però mi pareva che tu e Vanda foste delle grandi e inseparabili amiche. Si, fa lei, ed è proprio per questo che posso permettermi di trattarla un po’ come mi pare.
Lui sorride, osserva il posacenere, infine guarda distrattamente il suo orologio assumendo l’espressione di chi si accorge di quanto si sia già fatto tardi. Devi uscire? fa lei. Purtroppo si, dice lui, devo fare un salto al caffè per incontrarmi con una persona. Va bene, dice lei mentre si alzano dal tavolo insieme; spero almeno stasera tu non faccia tardi. Lo spero anche io, dice lui, comunque tu non aspettarmi. Quindi si volta, ma prima di andarsene raccoglie dal tavolo qualche stoviglia usata da lui, e tenendo in equilibrio quegli oggetti va a deporli sul piano in cucina, quindi sparisce.
Lei ascolta il motore dell’auto che si avvia, ed il rumore delle ruote sulla ghiaia che si allontanano, poi richiama la Vanda. E’ tutto a posto, le fa; domani sera mi presenterò a tutti come una classica moglie felice, nessuno avrà da sospettare alcunché; tantomeno lui.


Bruno Magnolfi