mercoledì 31 marzo 2010

Lo slancio per vivere.

            

C’era stato un tempo in cui Mauro si era sentito furbo. Poi tutto aveva preso uno strano corso nella sua vita di ragazzo, e questa sua propensione era stata come accantonata. Ricordava certe volte di essersi sentito bene solo per aver frequentato diverse compagnie, senza dare mai troppa importanza a nessuna in particolare, cambiando al caso modi di fare e atteggiamenti, ma rimanendo comunque sempre se stesso, o almeno sforzandosi di rimanerlo. Gli era piaciuto tante volte sentirsi a suo agio in una situazione o in un’altra, pur diverse tra di loro, gli era parso come di prendere il meglio in ogni occasione, e riuscire a destreggiarsi con tutti gli altri sempre in maniera accorta e intelligente. Il senso migliore di quel suo comportarsi lo aveva sempre trovato nell’immaginarsi libero, capace di frequentare questo o quello senza perciò sentirsi legato da comportamenti abitudinari o risaputi. La sua furbizia gli era sempre sembrata tutta lì, e quando qualcuno aveva avuto da dirgli qualcosa al riguardo, si era normalmente limitato a sorridere, senza dire niente.
Poi era arrivata Laura e tutto aveva preso un senso diverso. Qualcuno lo aveva guardato maliziosamente, notando il suo cambiare. Lui stava bene con Laura, non gli importava quasi più di nessuno, se non di quel contorno al loro stare assieme, quel mostrarsi uniti e felici agli occhi di tutti gli altri. Ma gli altri forse non erano contenti, e qualcuno lo vedeva come un egoista che usa tutto e tutti pur di sentirsi a proprio agio. Così si era distaccato poco per volta da coloro che una volta erano stati suoi amici. Adesso sognava di andar via con Laura, di portarla al mare, di correre insieme a lei attraverso luoghi dove c’erano soltanto loro due. Il suo concetto di libertà adesso era quello, progettare un futuro lontano da tutti, da qualche parte dove fosse possibile ricostruire ogni immagine e ogni pensiero, partendo soltanto da loro due, lui e Laura, come un valore profondo da portare in giro come una bandiera. In fondo Mauro certe volte si era sentito persino disgustato dal comportamento degli altri: sentiva spesso la sua distanza da tutto mentre cercava quel modo diverso di essere e di comportarsi.
Poi Laura si stufò di tutto quel sognare ad occhi aperti, e durante un pomeriggio come tanti lo lasciò solo, a ripensare meglio alcune cose di fondo. Per lui era il dover rendersi conto che Laura alla fine era proprio come gli altri, non aveva sentito veramente dentro di sé lo spirito di chi si sente libero. Però non era facile adesso ricostruire con qualcuno dei ragazzi un rapporto che si era inevitabilmente compromesso, e Mauro si scopriva ogni giorno sempre più solo, poco furbo, schiacciato dai suoi comportamenti.
Poi un pomeriggio si ritrovò al solito bar all’aperto dove si scambiavano battute alcuni dei suoi vecchi amici, e in un angolo c’era anche Laura, in silenzio, senza guardare, come a voler catturare la sua attenzione. Forse sarebbe potuto andare lì, da lei, prenderla per mano e dimostrare che qualcosa era salvabile, ma non lo fece. Non ebbe neanche bisogno di pensarci Mauro: adesso sapeva che era completamente da solo con le sue idee, in quei suoi desideri. E questa consapevolezza piuttosto che spaventarlo gli dava nuova forza, uno slancio che forse era semplicemente tutto quello che aveva sempre cercato. Osservò tutti, quel pomeriggio, e poi andò via, non ci faceva proprio niente lì con gli altri.


            Bruno Magnolfi

martedì 30 marzo 2010

Il dolore di un giorno qualsiasi.

           

            L’attacco era giunto improvviso, senza neppure darmi il tempo per prepararmi. Avevo avvertito semplicemente l’immediato paralizzarsi degli arti, il blocco di tutti i muscoli, l’impossibilità repentina persino di gridare aiuto, e in un primo momento la mia stessa capacità di pensiero mi era parsa terribilmente compromessa. Il dolore era fortissimo e diffuso, non riuscivo neppure a rendermi conto dove fosse maggiormente dislocato, e tutto in un attimo era parso assolutamente irrimediabile. Naturalmente ero subito caduto a terra, in un punto qualsiasi del pavimento, poi il mio corpo aveva istintivamente rigurgitato qualsiasi cosa si trovasse nello stomaco. Non mi muovevo, ero impossibilitato a farlo, l’unica mia attività era data da un tremolio forte e continuo del mio corpo dentro ad una pozza di bava e succhi gastrici.
Poi, dopo un buon lasso di tempo durante il quale praticamente non accadde niente, la mia attività cerebrale si scrollò almeno parzialmente da quel senso di panico di cui era rimasta preda, e così iniziai a cercare delle possibili soluzioni. Pensavo, questo si, ma tutto il resto delle mie attività risultava impossibile. Infine, d’improvviso, tutto parve trovare un attimo di pace. Giacevo lì, immobile, ma la mia coscienza pareva in grado di funzionare, anzi, sembrava addirittura caduta in una sorta di surreale tranquillità. I pensieri, senza alcun collegamento l’uno con l’altro, avevano preso a dipanarsi in modo continuo, lasciandomi scoprire vecchi ricordi che per una ragione incognita adesso mi tornavano alla mente.
Era meraviglioso disinteressarsi del proprio corpo per tenere dietro a delle emozioni provate in altri tempi, era un po’ come riviverle, gustarne a fondo il senso in modo separato rispetto all’angoscia della realtà vera. C’erano le immagini di quando ero bambino, i giochi da adolescente, i primi amori, e poi la giovinezza, con il suo carico di entusiasmo straordinario; c’era tutto, tutto ciò che la mia vita aveva percorso nel suo cammino spesso casuale e qualche volta assurdo. Tutto scorreva in modo semplice, piacevole, come su uno schermo davanti a quel mio sguardo immobile. Magari qualche ricordo era più triste, meno aggraziato nel suo tornare dal fondale scuro della memoria. Qualcosa non era andato bene durante tutti quegli anni, qualche errore c’era stato, avevo pur commesso qualche cattiveria nei confronti di qualcuno. Se ci pensavo bene ancora mi vergognavo di qualcosa, di qualche piccola eventualità in un primo tempo senza importanza, che in seguito però aveva assunto un certo peso.
Ero stato audace con una ragazza che neppure era il mio tipo, una volta. E il suo fidanzato non era rimasto contento del mio comportamento. Si era avvicinato, aveva detto qualcosa che non avevo neanche capito, e poi mi aveva spinto. Io ero caduto all’indietro, quasi senza rendermene conto, e in un attimo mi ero ritrovato a terra, su quel pavimento, paralizzato da qualcosa che non mi ero aspettato. Forse la posizione in cui mi ero ritrovato in quel momento era esattamente la medesima di adesso, pensavo; forse tutti questi anni erano trascorsi soltanto per farmi riprovare quella stessa sensazione. Forse, l’assurdità di quella volta era la stessa di cui adesso sentivo tutto il peso: ma certe volte anche se non c’è senso in ciò che succede, le sensazioni però ne misurano tutta quanta l’importanza. Probabilmente era una sciocchezza ciò che era accaduto quella volta, però qualcosa si era scatenato dentro di me, qualcosa che non avevo più dimenticato.
Poi lentamente mi ero sollevato da quel pavimento, avevo recuperato l’uso del mio corpo, mi ero reso conto di ciò che era successo giusto per capire che non era affatto grave: la vita poteva proseguire, non era niente quel piccolo dolore rimasto dentro alla coscienza, una semplice normalità del quotidiano.


            Bruno Magnolfi  

domenica 28 marzo 2010

Solo un suono nella testa.

            

            Corrado Barresi camminava sul marciapiede lungo la strada. Non gli interessava il traffico delle auto, le nuvole nere che indicavano minaccia di pioggia, la direzione verso cui era diretto. Camminava e basta, disinteressato a tutto il resto. Era vestito come sempre: completo grigio, camicia bianca, cravatta, soprabito leggero, così come normalmente si presentava al suo posto di lavoro. Osservò distrattamente il suo orologio da polso: le dieci e trenta del mattino; per il suo mestiere l’orario di punta, quando la filiale della banca era piena di clienti e gli impiegati dovevano muoversi se non volevano sfigurare coi colleghi e con la direzione.
Corrado Barresi pensava a quante poche occasioni aveva avuto nel passato di starsene in giro a quell’ora in un giorno feriale: certo, c’erano stati i periodi di ferie e qualche malattia di poco conto durante quei lunghi quindici anni di lavoro con la banca. Ma adesso era diverso: girava senza meta con la testa confusa e si chiedeva come fare a prendere coscienza di quel sentirsi disoccupato, senza più un lavoro. Tutto era iniziato parecchi mesi indietro con le prime lettere di avvisaglia per quel venti per cento di impiegati di cui la banca intendeva disfarsi, ma tutti erano arrivati fino all’ultimo giorno sperando in un ripensamento, in una soluzione differente da parte della direzione. Ma il destino si era abbattuto su tutti e anche su di lui, senza alcuna variazione.
Corrado Barresi sicuramente nelle prossime settimane avrebbe cercato un altro posto di lavoro, si sarebbe dato da fare, avrebbe bussato ad ogni porta possibile, ma le sensazioni che provava quella mattina, in quel primo giorno di forzata inattività, sarebbero rimaste indelebili dentro di lui per molto tempo. Non aveva avuto il coraggio di dirlo a nessuno dei suoi conoscenti, neppure a quegli amici che frequentava in modo saltuario. Si era tenuto per sé la verità, come se quella cosa fosse stata troppo grossa per permettergli di rivelarla in giro. Non tanto perché si vergognava di essere stato licenziato, quanto perché senza il suo lavoro non si sentiva niente, non aveva più un suo ruolo.
Corrado Barresi girava per le strade della sua città ma si sentiva un fantasma, trasparente, quasi come se non esistesse più. Si era fermato ad osservare una fontana d’acqua in un giardino, si era seduto per un po’ su una panchina, aveva finto di guardare interessato qualcosa in un opuscolo trovato sopra un muro. Non sapeva proprio come riempire il tempo, questo il problema principale di Corrado Barresi. Poi vide la vetrina di un piccolo negozio di rigattiere. La scrutò, fermò lo sguardo su ognuno di quegli oggetti unici esposti volutamente in modo caotico, quindi la sua attenzione fu attratta da una tromba. Una piccola tromba di ottone opaco che pareva parlasse di sé in quella vetrina, e di tutte le persone che avevano soffiato dentro di lei fino a quel giorno, lasciandola alla fine lì, apparentemente senza uno scopo.
Corrado Barresi entrò dentro al negozio ed acquistò la tromba, senza neppure chiedersi il motivo di quel gesto, senza averne mai suonata una in vita sua, senza discutere sul prezzo. Solo sentendosi come trasportato da qualcosa, dentro di sé. Nei giorni successivi provò a suonarla in qualche giardino poco frequentato. Con impegno cercò di impostare il labbro, di pigiare sui pistoni, di far uscire almeno un suono ben riconoscibile e convinto. Poi, alla fine di quella settimana, si presentò sul suo vecchio posto di lavoro, alla filiale della banca, entrò all’interno come un qualsiasi cliente, si mise in coda come tutti, e aspettò il suo turno. Ma ad un tratto Corrado Barresi tirò fuori la sua tromba, la portò alla bocca, impostò tutta la sua persona in quel gesto, come un musicista esperto, ed emise il suono più squillante e deciso che mai là dentro fosse stato udito, lasciando tutti di sasso e ridendo a squarciagola, immediatamente dopo, sia di sé che di quel luogo.


            Bruno Magnolfi

sabato 27 marzo 2010

Sguardi differenti.

           

            “Mio figlio, chissà dove sarà in questo momento mio figlio…”, pensava farfugliando e lamentandosi tra sé l’anziana donna sdraiata sopra quel tratto d’asfalto, paralizzata dai dolori che provava praticamente da ogni parte, dopo il colpo che le aveva assestato quella macchina scura che lei non aveva neanche visto sopraggiungere. “Devo resistere, devo almeno rivedere mio figlio, senza di lui non mi farò fare niente, neppure spostare da qui…”, pensava. I curiosi erano già tutti attorno al luogo dell’incidente, qualcuno aveva messo qualcosa sotto alla testa della povera donna, ma lei aveva solo chiesto di guardare dentro la sua borsa: c’era un numero di telefono scritto su un foglietto grande, il numero di telefono di suo figlio; aveva chiesto di chiamarlo, che qualcuno gli chiedesse di venire subito, per favore.
            Intanto si aspettava l’autoambulanza, l’uomo che era sceso dalla macchina scura, immediatamente dopo l’incidente, aveva chiamato per prima cosa i soccorsi, restando calmo, lucido, razionale. Anche adesso restava lì, indifferente alla calca della gente, e parlava al telefono, una chiamata dietro l’altra, sempre con la medesima espressione. Qualcuno forse avrebbe voluto chiedergli, per curiosità, quale era stata la dinamica dell’incidente, ma quell’uomo guardava da tutt’altra parte, pareva interessato da tutt’altre cose, come se quanto accaduto fosse solo un inciampo nella sua giornata, una seccatura di poco conto nei suoi percorsi fitti di appuntamenti e di interessi. Appariva chiaro a tutti che la donna, dove adesso si trovava, era distante da qualsiasi passaggio pedonale: probabilmente si era arrischiata ad attraversare quella strada cittadina così movimentata in un punto un po’ pericoloso, ma l’auto scura doveva andare forte per non essere riuscita a frenare in tempo. Arrivarono i vigili urbani mentre dal fondo della via già si sentiva la sirena spiegata dell’autoambulanza. L’uomo disse alle autorità di avere prontamente avvertito il suo avvocato, sarebbe stato lì a minuti, e che senza di lui non avrebbe dichiarato niente.
            Tutto precipitò in un attimo: l’anziana donna vide quelle facce estranee che si occupavano di lei, cercò disperatamente suo figlio con gli occhi, ma non c’era, forse era bloccato in quel traffico diventato caotico. Gli infermieri dell’autoambulanza misero prontamente in atto tutte le tecniche a loro disposizione in casi come quello, misero la donna sopra la barella, la coprirono, la infilarono con cautela dentro al loro mezzo, e fu a quel punto che tra tutti spuntò trafelata una persona, un uomo di mezza età che si fece largo tra la gente. Si avvicinò di corsa prima che gli infermieri chiudessero il portellone per trasferire d’urgenza la traumatizzata in ospedale, chiamò forte la sua mamma, entrò dentro all’autoambulanza solo con la testa, la vide, la riconobbe, e lei rivolse lo sguardo sofferente verso suo figlio, come in un gesto superiore a qualsiasi situazione: gli sorrise, il resto pareva non avesse più importanza, era sicura che sarebbe riuscita a vederlo almeno un’altra volta, lo sapeva, lo sentiva dentro di sé. Poi chiuse gli occhi, e si lasciò portare via.


            Bruno Magnolfi

giovedì 25 marzo 2010

Brindisi finale.

            

“Siamo diversi…”, aveva pensato Evelina avviandosi per andare nella stanza attigua, muovendo i pochi passi con esagerata lentezza, in modo da non fargli pensare che era sua volontà terminare in modo brusco quei discorsi. Si mosse, decisa a tenere un comportamento morbido, ma subito pensò che aveva ugualmente voglia di smettere di parlare di intenzioni, di desideri, di futuro: era convinta, avrebbe voluto vivere maggiormente quel presente, quei suoi anni; il resto, quel futuro di cui aveva continuato a parlare Daniele, secondo lei era qualcosa da decidere giorno per giorno, senza preoccuparsene troppo. Poi, quando pose la mano sopra la maniglia della porta, disse soltanto: “Prendo dei bicchieri…”, lasciandolo libero, almeno per quei pochi minuti, di riflettere ulteriormente su tutto quello che si erano detti fino allora.
Daniele era rimasto immobile, in piedi, ad osservare distrattamente i deboli movimenti della gonna di lei, di stoffa leggera, nello strusciare lievemente sopra le sue gambe affusolate. Non aveva detto più niente dopo che Evelina si era espressa sul suo punto di vista, ma era rimasto come interdetto, incapace a dimostrarle che riusciva a provare anche lui dei sentimenti più impulsivi, che non fossero dettati soltanto dalla logica. Non riteneva di avere una personalità fredda, ma convincerla di questo lo trovava del tutto impossibile. Quel tempo lento e cadenzato, quella manciata di mesi che avevano trascorso in quell’appartamento, e che avrebbero dovuto giocare a suo favore, mostrando ad ambedue quanto era possibile sentirsi vicini, uniti in quel tentativo di vita assieme, senza sotterfugi o incontri frettolosi, non si stavano affatto dimostrando suoi alleati. Lui non si sentiva così ingessato nei suoi punti di vista come Evelina aveva voluto sottolineare; o meglio, anche se lo fosse stato era prontissimo a cambiare, a suo parere non ci voleva niente a chiarire con precisione gli elementi da modificare per poi procedere così al rinnovamento di quel loro legame. No, la vera difficoltà era che Evelina aveva la testa troppo leggera, ora pensava una cosa, poi ne pensava un’altra: non cercava la coerenza, come faceva lui, si lasciava andare ai suoi modi lunatici di vivere le cose, ed era impossibile seguirla lungo quella strada.
Agli inizi a Daniele era parso che le loro personalità si fondessero bene assieme, proprio in virtù delle loro differenze; anzi, secondo il suo parere era proprio quello il segreto della loro meravigliosa storia d’amore: quando ne aveva parlato con gli amici aveva sempre sottolineato quanto lei riuscisse a dimostrarsi imprevedibile, con quella sua capacità di essere diversa quasi ogni volta. L’aveva conosciuta più di due anni prima, durante una piccola festa. Non c’era stato molto bisogno di parlarsi: avevano bevuto tutt’e due, e nell’euforia della serata si erano baciati, dopo che lui era stato per tutto il tempo ad osservarla, quasi senza interruzioni, tanto si era subito sentito attratto da lei. Ci vollero più giorni per riassemblare nella testa ciò che era successo, ma alla fine, parlandone, decisero di fare maggiormente sul serio. Forse non c’era mai stato un vero innamoramento da parte di Evelina nei suoi confronti, rifletteva ora, ma lui aveva sempre pensato che le cose sarebbero maturate con il tempo. Anzi, ogni cosa che aveva fatto in tutto quel periodo era stato in funzione di questa certezza quasi incrollabile, che forse aveva trascinato il loro rapporto sempre in avanti, senza lasciare niente di intentato. Forse adesso un’incrinatura era apparsa, difficilmente ricomponibile, anche se Daniele in fondo ancora ci sperava: sarebbero serviti alcuni aggiustamenti, un punto di vista più comune, nient’altro, secondo lui.
Tornò Evelina con un vassoio, e sopra due calici con dentro vino rosso. Invitò Daniele a prendere un bicchiere, poi lei prese l’altro, conservando un vago sorriso sulla faccia. Fece tintinnare i calici tra loro, guardò lui dentro gli occhi, poi, appena un attimo prima di bere il primo sorso: “Alla nostra separazione!”, disse, bevendo e chiudendo così qualsiasi altro discorso.


Bruno Magnolfi

mercoledì 24 marzo 2010

Una parte di normalità.

           

            L’uomo aveva osservato il traffico di persone lungo il marciapiede, rimanendosene affacciato per un po’ alla sua finestra. Non ci trovava niente di anomalo in quella giornata, anche se non sapeva spiegarsi a chi doveva servire quella normalità di cui spesso si parlava. Le auto si fermavano ad un semaforo poco distante, i pedoni attraversavano la strada, tutto pareva come sempre. Il colpo di stato dei militari, la settimana precedente, era fallito, e a parte qualche recrudescenza le cose nel paese erano rimaste le medesime. I giornali negli ultimi tempi avevano detto che la corruzione dilagava, che diventava sempre più un fatto ordinario, ormai non meravigliava più nessuno, però tutti erano chiamati ad aprire gli occhi, anche se sembrava una raccomandazione blanda, quasi insensata. Certo era sempre più difficile pensare che il governo del paese fosse l’espressione della gente. Ma la gente camminava silenziosa, non si interessava di politica, forse non riusciva neanche a distinguere un esponente politico dall’altro.
            L’uomo indossò la sua giacca e scese nella strada. Aveva un appuntamento di lavoro, doveva vendere un appartamento, o almeno farlo vedere a una persona che poi avrebbe deciso se acquistarlo o meno. Salì sulla sua auto e si mosse nel traffico con la radio che trasmetteva le ultime notizie. Qualche scontro a fuoco c’era stato nel paese, soprattutto nelle zone di campagna, ma niente di importante. Lì nella capitale la polizia pattugliava ogni centimetro di strada, era difficile pensare alla possibilità di atti di violenza. In ogni caso tenere una piccola pistola carica sotto alla giacca dava all’uomo una certa sicurezza. Trovò un parcheggio con una certa fatica in quella strada centrale, poi spense il motore ed uscì dall’auto. L’agenzia per la compravendita di immobili di cui l’uomo era il direttore, praticamente aveva chiuso, visto il mercato ormai fermo di quegli ultimi tempi. Restava qualche appartamento di lusso da piazzare, certo abbassando i prezzi all’osso in modo da renderli appetibili, e ci pensava lui, rimasto da solo a mandare avanti tutta l’attività. Giunse davanti al grande portone di legno del palazzo ottocentesco mentre dalla parte opposta arrivava un uomo ben vestito, con mezza faccia coperta dal cappello e dagli occhiali scuri. Si presentarono, e quello disse di essere il ministro degli interni. L’uomo sentiva un tremore nelle gambe, il ministro era venuto senza scorta, forse per dare meno nell’occhio, pensò.
Salirono fino al primo piano, l’appartamento era immenso, dieci stanze con mobili di pregio, tutte grandi; il ministro osservava in silenzio, con modi freddi. Parlarono del prezzo, pareva troppo alto. Discussero in maniera nervosa, andando subito al sodo ad evitare parole commerciali e frasi di circostanza. Poi il ministro disse senza mezze misure che facendogli risparmiare un dieci per cento sulla cifra, lui gli avrebbe procurato un lavoro di usciere al palazzo del governo, per se stesso o per un suo familiare: “Avrà pure un figlio da sistemare…”, disse con un sorriso odioso. L’uomo in silenzio rifletteva sul fatto di non avere una famiglia, e in quel momento questa sicurezza lo faceva sentire bene, quasi come fosse un vantaggio. Poi quel lavoro di vendere gli appartamenti a lui piaceva, non aveva mai pensato di cambiarlo, nonostante le cose non andassero certo bene ultimamente. Disse di no, in maniera secca, senza repliche. Il ministro si accigliò, disse parole sconvenienti, chiuse sgarbatamente una porta come a mostrare che quella casa non valeva i soldi chiesti.
L’uomo tirò fuori la pistola, con calma, senza farsi sopraffare dall’emozione. In fondo lui era un uomo qualsiasi, uno di quelli normali di cui parlava tanto la radio. Un’occasione come quella non sarebbe mai più capitata ad uno come lui. Il ministro cambiò completamente atteggiamento, disse che non c’erano problemi, avrebbe preso l’appartamento alla cifra stabilita, ma l’uomo gli disse di rimanersene in silenzio. Lo fece spostare dentro una stanza che fungeva da dispensa, dietro alla grande cucina, lo fece voltare e poi sparò, un colpo solo, mortale, coperto dai rumori della strada che giungevano dalle finestre spalancate. Chiuse la porta a chiave, ripose l’arma, poi serrò tutte le imposte e le finestre, infine uscì dall’appartamento, raggiunse velocemente la strada e se ne andò, sicuro di aver fatto la sua parte. Fuori la gente continuava a camminare avanti e indietro lungo la strada, lui osservò il traffico e seppe di star bene, di sentirsi perfettamente a proprio agio. Entrò nell’auto e mise in moto: la radio continuava a richiamare tutti alla normalità, e andava bene così, le istituzioni continuavano a fare i propri interessi, nonostante tutto.


Bruno Magnolfi

martedì 23 marzo 2010

L'attesa.

           

            Sul mare, in quella giornata di sole, tutto appariva più bello, anche i pensieri tristi, anche gli elementi spiacevoli degli ultimi tempi. Le avevano fatto una bella festa i colleghi per il suo ultimo giorno di lavoro all’ufficio postale, ormai quasi un anno fa, e spesso le tornava a mente, ma ritrovarsi in pensione con tutto quel tempo libero da riempire in qualche modo per lei era stato più difficile di quel che aveva previsto. Si era seduta su di una barca capovolta ad osservare l’orizzonte fermo, ad ascoltare quel ritmo sonnacchioso delle piccole onde di risacca, e i suoi pensieri fluivano via leggeri, come sempre. In fondo vivere da sola  aveva i suoi vantaggi, pensava. Passeggiare, riflettere, tutte cose attorno alle quali sviluppava spesso le sue giornate, attività che ormai conosceva anche troppo bene. Se n’era andata anche Ernesta, la sua amica di sempre. Suo marito era rientrato in casa e l’aveva trovata così, seduta sulla sua poltrona dove le piaceva leggere il giornale, con ancora il sorriso sulle labbra, aveva detto. Ma a quello non doveva pensarci, altrimenti le veniva la malinconia.
Il mare era bellissimo in primavera a quell’ora del mattino, quando la sabbia umida dell’arenile pareva lisciata dalla notte, e l’acqua trasparente un elemento quasi immobile, rimasto così da sempre. Lei camminava ed osservava. Abitava da sola, non aveva mai avuto un marito; e adesso quella solitudine era prepotente, le dettava tempi e modi, la faceva sentire trascinata via dalle giornate, senza che potesse farci niente. Certe volte aveva trovato qualche oggetto interessante sopra al bagnasciuga, piccole cose arrivate lì chissà da dove, portate dal vento e dalle correnti: sugheri sagomati usciti dalle reti dei pescatori, statuette di legno intagliato sciupate dall’acqua e dal sale, bottiglie di vetro vuote, senza alcun messaggio. Le piaceva trovare quegli oggetti, era come immaginare la presenza di qualcosa di vivo, un piccolo contatto con qualcuno che aveva adoperato quelle cose, e poi le aveva perse, come spesso succede nella vita.
Si sentiva importante quando lavorava all’ufficio postale, tutti la conoscevano e la salutavano, e poi c’erano quegli anziani silenziosi in fila a ritirare la pensione: non avrebbe immaginato che tutto finiva un giorno, stupidamente, con la festa dei suoi colleghi. C’era una scatola insieme ad un ciuffo d’alghe, lì sulla riva, una piccola scatola di legno forse per tenerci le matite, come si usava tanto tempo fa. Pareva un quadro surrealista, una natura morta fatta di conchiglie, sassolini colorati, fili d’alga e quel bordo bianco di spuma di mare che arrivava a tratti, lì vicino. Era bella quella scatola, ma adesso le dispiaceva sciupare quel quadro ben composto, quell’immagine così ben fatta. Pareva come la sua vita, dove ogni elemento era scorso via bene, nella maniera giusta, se non ci fosse stata quella maledetta solitudine di adesso.
Infine prese la scatola: era bella, di legno scuro, l’aprì. Non c’era niente dentro, solo un po’ d’acqua e dei granelli di sabbia, ma sotto al coperchio c’era scritto un nome, il suo. Certe volte la vita fa dei giri strani, pensò. Certe volte va a rinchiudersi in luoghi scuri, da dove sembra impossibile possa ancora avere un senso, però bisogna aprirli quei contenitori, scoprire ciò che è rimasto dentro nell’attesa. Con la mano tolse la sabbia appiccicata sopra al legno e mise via la scatola dentro la sua borsa. Guardò il mare e pensò che ormai lo conosceva bene, lo aveva osservato a lungo persino troppe volte. Doveva fare altre cose, forse dipingere, forse aiutare gli altri, trovare un senso a quel vuoto che adesso la martellava prepotentemente; questo le indicava la realtà, questo le dicevano gli oggetti attorno a sé: l’attesa era finita, ora stava a lei reagire.


            Bruno Magnolfi

lunedì 22 marzo 2010

Frammenti scomposti.

            

            “Potresti dirmi che è sciocco, da parte mia, cercare la verità in quello che dici. Ma non è questo. Quello che scalfisce la nostra relazione è il fatto che tu non dica niente, che lasci dei silenzi, dei vuoti tra di noi che non vengono mai riempiti”, disse lei. Lui si guardò attorno, come prendendo una pausa di riflessione. C’erano molte nuvole in cielo quel giorno, i tetti delle case apparivano umidi, le panchine del belvedere erano deserte, là sopra si vedevano soltanto loro due. Poi disse: “Qualsiasi cosa per te non sarebbe sufficiente, e se anche lo fosse basterebbe per dieci minuti, una mattinata, al limite per qualche giorno, poi tutto tornerebbe come prima”.
Si alzò dalla panchina, si accese una sigaretta, si guardò ancora attorno distrattamente, si vedeva che era in imbarazzo, forse che non avrebbe voluto neppure essere lì, ma accettava il gioco come chi sa valutare il peso delle cose. “Forse hai ragione”, disse lei a cui non piaceva mettere gli altri a disagio, specialmente lui; “Spesso sono troppo apprensiva, mi sembra continuamente che tutto mi sfugga di mano per quanto cerchi di stringere a me le poche cose che sono riuscita ad avere nella mia vita”. “Ecco…”, disse lui senza guardarla, “Continui a dividere le cose e le persone tra quelle che ti appartengono e le altre, senza invece cogliere le parti belle o più interessanti che ti passano vicino, magari mescolate alle cose di ogni giorno ”.
“Però devi riconoscere che con te riesco ad essere molto misurata”, lo interruppe lei. “Ci vediamo soltanto quando lo decidi tu; ci sentiamo per telefono solo una volta o due alla settimana: a me sembra di stare anche troppo nell’angolo ad aspettare che ti prenda la voglia di interessarti a me”. “Questo è vero”, disse lui. “Ma non potrebbe essere in altra maniera; le nostre giornate sono complesse, siamo continuamente risucchiati da altre cose, altri interessi; vedersi, per me e per te, è diventata un’oasi di frescura nel caldo torrido del deserto; una pausa nella frenesia delle cose da fare”. “Vuoi dire che con questo poco tempo non possiamo neanche permetterci di dire tutto, di essere sinceri?”. “Certo”, riprese lui; “Non vale neanche la pensa di provarci, perché è un proposito assurdo, una sfida persa in partenza. L’unica possibilità che resta è immaginare tramite i pochi elementi a disposizione quello che per forza di cose non possiamo dirci. Possiamo scambiarci dei frammenti, niente di più. Ricostruire tutto il quadro è lo sforzo mentale e affettivo a cui siamo chiamati”.
Lei si alzò in piedi, si avvicinò al parapetto come assorbita improvvisamente da qualcosa che aveva visto. Poi si volse verso di lui. “La nostra intesa quindi farebbe da collante per tutti i frammenti che ci scambiamo?”. “Esatto”, disse lui dopo una boccata di fumo della sua sigaretta, ed è un equilibrio di cose che gestiamo solo tu ed io”. Si avvicinarono lentamente, e lei si lasciò abbracciare, come a suggello di quel ritrovarsi; lui le sfiorò il viso con la mano, poi la baciò, con dolcezza. Lei guardò l’orologio, disse: “Dobbiamo andare”, con un filo di voce, quasi sussurrando. Così si salutarono in un attimo, come sempre senza dirsi quando e dove si sarebbero rivisti, e ognuno di loro con gesto nervoso rientrò velocemente dentro la sua auto, pronto per raggiungere ognuno la sua casa e il proprio coniuge.


            Bruno Magnolfi

sabato 20 marzo 2010

Solo come un cane.

            

            Mi aveva impressionato vedere quelle scene in televisione e sui giornali. Quei cani torturati, rinchiusi per anni in delle piccole gabbie, sacrificati per motivazioni sciocche o marginali. Mi pareva impossibile che tutti o quasi rimanessero così indifferenti ad uno scempio di quel genere. Certe volte mi sedevo da solo a riflettere attorno a quelle immagini che avevo visto tante volte. Mi sembrava così triste il mondo, perso dietro a sciocchezze e cattiverie senza significato. Guardavo la gente e mi accorgevo che tutti erano così. Uscivo di casa, facevo delle lunghe passeggiate senza pensare a niente, poi mi intristivo nella mia solitudine che non interessava mai nessuno. Pensavo che tutto era uno schifo, non trovavo altri termini per definire la realtà.
Certe volte nel pomeriggio andavo lungo l’alveo di un piccolo fiume che scorreva vicino al paese, dove c’erano dei larghi prati di erba verde. Passeggiavo, pensavo, senza preoccupazioni. Ci andavo spesso, mi piacevano le mie passeggiate, mi pareva di tornare a quando ero un ragazzo, quando avevo ancora degli amici, altri ragazzi della mia stessa età che venivano volentieri insieme a me, non mi lasciavano da solo, si divertivano a prendermi in giro, questo si, ma poi erano buoni. Certe volte mi chiedevano qualcosa che non capivo, poi ridevano, e allora anch’io ridevo, come loro. Così ero rimasto affezionato a quei posti, quei prati verdi, e avevo sempre continuato ad andarci volentieri.
Poi un giorno, mentre osservavo da solo l’acqua scorrere tra i sassi, mi arrivò vicino un cane, forse un esemplare da caccia sfuggito a qualcuno di quelli che sparavano alle anatre, pensai. Mi venne vicino scodinzolando, mi annusò, si fece accarezzare. Io mi mossi lungo la mia strada, lui venne con me, come se fosse già a conoscenza del posto dove eravamo diretti. Io continuavo a camminare e lui dietro, senza problemi. Entrò in casa con me, nel mio piccolo appartamento, annusò i mobili, poi si mise acciambellato da una parte, stanco, indifferente a tutto. Io gli detti l’acqua, scesi a comprare una scatoletta di carne che poteva andargli bene, poi stetti ad osservarlo mentre dormiva. Non potevo assolutamente tenerlo con me, mi era impossibile. Spesso non riuscivo neppure a badare alle mie poche cose, alla mia vita di tutti i giorni.
Tre volte alla settimana veniva a casa mia l’assistente sociale, mi faceva delle domande, riempiva dei moduli; spesso guardava dentro al frigorifero, poi si offriva di venire assieme a me a fare la spesa, pagava lei il conto, era contenta quando le assicuravo che avrei mangiato di più, che sarei stato attento a non rimanere così magro. Guardavo il cane e pensavo. L’assistente sociale non sarebbe stata contenta di trovarlo lì. Dovevo disfarmene prima che lei tornasse: io ero affezionato a lei, non volevo procurarle un dispiacere.
Così tagliai la gola al cane con il coltello più grande e affilato che avevo in casa, e lo feci con un  gesto deciso, che non lasciasse dietro di sé incertezze. Il sangue si sparse sopra al pavimento, ma io asciugavo tutto con della carta che bruciavo nella stufa. Lasciai il corpo lì, sul pavimento, per diverse ore. Poi presi il medesimo coltello che avevo usato prima e iniziai a fare a pezzi quel corpo di stupido cane che probabilmente era scappato a qualche cacciatore, ma gli ossi erano duri, non riuscivo a spezzarli, cosi presi una sega che tenevo per la legna , e con quella riuscii a farne tanti pezzi. Misi tutto dentro a tanti sacchetti di plastica che mi davano sempre al supermercato, e un po’ per volta li andai a gettare dentro ai cassonetti dei rifiuti.
Avevo fatto tutto per bene, ero soddisfatto, ma quella settimana l’assistente sociale non venne, e non si fece vedere neanche il sostituto. Così iniziai ad essere nervoso, forse qualcuno del vicinato si era chiesto dove fosse finito il cane, pensavo. Ad ogni ora che passava  mi sentivo sempre più preoccupato, come se tutti quelli che mi conoscevano nel condominio sapessero già tutto, del cane e anche del resto, ma lasciassero che fosse l’assistente sociale a dirmi che il mio comportamento non andava bene, che avevo sbagliato un’altra volta. Ero nervoso, non riuscivo a fare niente. Poi arrivò, io ero pronto, in cucina avevo già preparato il coltello, quello grosso e ben affilato, ma lei parlò subito di tutt’altre cose invece di chiedermi del cane, così io mi dimenticai di tutto e risposi alle sue domande come sempre.
Poi andammo insieme a fare la spesa al supermercato, ed io infilai nel nostro carrello anche qualche scatoletta di carne per il cane. Lei mi chiese a chi doveva servire quella roba, ed io ero sicuro che lei sapesse già tutto così feci una risata, ma poi mi tornò a mente che al cane quella roba non poteva più servire, così mi misi da una parte, silenzioso, senza rispondere. L’assistente sociale non disse altro, mi riportò a casa come sempre, poi mi chiese delle altre spiegazioni. Non dissi niente, guardavo il pavimento, proprio lì dov’era stato il cane morto, e mi sentivo dispiaciuto, non so se l’assistente sociale se ne rendeva conto.
Poi lei se ne andò, lasciandomi di nuovo da solo, e allora iniziai a sentirmi male, proprio come quelli che torturavano gli animali, che li tenevano in delle gabbie piccole. Mi sentivo uno di loro, uno che non si fa assolutamente degli scrupoli, e all’improvviso avevo chiaro tutto quanto, ora capivo quello che prima mi sembrava assurdo: era la solitudine che portava ad essere cattivi, a fare degli errori, era così: avrei dovuto senz’altro dirglielo all’assistente sociale.


            Bruno Magnolfi

venerdì 19 marzo 2010

Il portafortuna.

            

            Non era affatto difficile addormentarsi su una corriera. Era sufficiente avere una giornata di duro lavoro alle spalle, sedersi là sopra e lasciarsi dondolare dagli scossoni che provocava la strada mentre la campagna scorreva, come in un film. Solo che io non avevo una giornata di lavoro alle spalle: ero salito sopra quel mezzo pubblico per andare a trovare un amico, ma senza neppure sapere se quell’amico abitasse ancora in quella casa di paese di cui lui mi aveva dato l’indirizzo quasi un anno prima, durante l’ultima volta che ci eravamo incontrati, e dove io non ero neanche mai stato. Non conoscevo neppure la sua situazione attuale quale fosse: cosa faceva, con chi abitava, perfino se avesse accettato di ricevermi, e soprattutto se fosse d’accordo ad ospitarmi per almeno una notte, ma se era possibile anche di più. Di fatto non sapevo davvero a quale altra porta bussare, e i miei ultimi soldi li avevo ormai spesi per acquistare il biglietto per quella corriera. Non so perché in quel periodo mi fossi ridotto così, soltanto con uno zainetto sopra le spalle che conteneva tutto ciò che mi era rimasto, però insieme a me avevo ancora speranza, ottimismo, voglia di pensare al futuro in modo positivo, nonostante qualsiasi batosta avessi ricevuto.
            Mi ero addormentato mentre pensavo al mio amico, a cosa avrei trovato dietro alla sua espressione sorpresa, a come mi avrebbe accolto. A volte per qualcuno gira male la vita, non c’era da farne alcuna meraviglia, e aiutarsi l’un l’altro poteva essere bello, forse per ognuno dei due. Accanto a me si era seduto qualcuno durante una fermata della corriera, ma aveva cercato di non disturbare ed io mentalmente mi ero sentito riconoscente verso quella persona. Pensavo ad occhi chiusi alla gente che se ne tornava in famiglia a quell’ora di sera, a parlare delle cose della giornata, a scambiarsi pareri, a confermare gli affetti che li tenevano assieme. Non provavo vergogna, ma io mi sentivo diverso, era proprio così. Chissà cosa mai potrebbe essere stato per me quel futuro di cui adesso discutevano a voce alta qualche sedile più avanti. Era importante avere coscienza della mia situazione difficile: ma d’ora in poi mi sarei rimboccato le maniche, avrei cercato di costruire qualcosa, con calma, certo, con infinita pazienza. Ma avevo bisogno di una spinta iniziale, di quel piccolo aiuto per poter ripartire.
            Quando mi volsi verso quella ragazza lei mi sorrise: aveva appoggiato il suo piccolo bagaglio sopra le gambe, e stava lì, ad osservare distratta tutti e nessuno. “Mi scusi”, le dissi, riferito al fatto che avevo occupato ben più del mio spazio sopra al sedile. “Non si preoccupi…”, rispose; “In questa corriera è sempre così”. Avrà avuto due, tre anni meno di me, ma pure sfiorandosi, pensavo che la distanza tra noi era enorme, incommensurabile. Guardai di nuovo fuori dal finestrino, “C’è ancora molto per arrivare al paese?”, le chiesi. “No”, mi rispose; “Solo dieci minuti”. La corriera andò avanti seguendo il suo percorso di strade, poi la ragazza mi sfiorò il braccio: “Devo scendere”, disse; “Arrivederci”. La guardai per un attimo, come si guarda una persona a cui ci sentiamo legati. “Può darmi un bacio, per favore…”, le chiesi; “Ne ho solo bisogno come di un portafortuna”. Lei mi sorrise, lasciò trascorrere solo un momento trattenendo immutato quel suo sorriso, poi mi baciò, con tenerezza sincera, chiudendo gli occhi, in un gesto di generosità e di affetto che non dimenticai più, per tutta la vita.
             

            Bruno Magnolfi

giovedì 18 marzo 2010

Pomeriggio sospeso.

            

            Lei aveva indossato una vestaglia da camera, si era seduta al tavolo, aveva aperto il suo piccolo diario. Doveva spingersi in avanti, lo sapeva: avrebbe dovuto riordinare la casa, farsi una doccia, vestirsi per uscire, ma era rimasto in aria il passaggio quasi impalpabile di lui, forse il suo odore, la sua ombra, quel suo esser stato lì in silenzio fino a poco prima, e questo bastava a paralizzale dolcemente qualsiasi movimento. Aveva scritto la data sopra al foglio bianco, poi aveva iniziato il suo pensiero con: “Dovrei…”, interrompendosi subito. A che serviva annotare cosa sarebbe stato giusto fare, pensava, la realtà era diversa. Ogni sua intenzione veniva ogni volta vanificata, lo sapeva, non poteva farci niente.
Sentiva giungere un rumore leggero dalla strada, qualcosa che la riportava vagamente alla realtà, ed era un oscillare appena percettibile, quasi un leggero moto altalenante, tra la vita della strada e quel suo starsene lì, immersa in riflessioni dolci, rese ovattate e morbide dalla cipria che ricopriva ogni pensiero. Poi scrisse: “Farmi desiderare…”, senza essere convinta di quelle semplici parole. Le venne da sorridere: come sarebbe mai stato possibile tenere un comportamento freddo, stabilito a priori, un percorso meditato volto al raggiungimento di un fine certo? Cosa poteva mai escogitare per cambiare anche solo qualcosa in quella realtà incondizionata? “Niente…”, scrisse; “non è possibile”.
Poi si mosse, andò nell’altra stanza, alzò il telefono: aveva voglia di sentire la sua voce, di sapere che era vero, che esisteva, che sapeva dirle cose dolci, belle, sfiorarla delicatamente con quelle sue parole, ma adesso era solo egoismo il suo, capriccio da bambina, non doveva cedere a comportamenti così stupidi. Forse aveva voglia di piangere, ma non sapeva più se era per se stessa o se era per lui, per quanto le mancava. In ogni caso doveva sforzarsi di essere più razionale, definire qualcosa dentro di sé e poi tenere fede a quella scelta.
Giunse di nuovo il rumore dalla strada, e la luce obliqua del pomeriggio filtrava dalle tende indicando qualcosa a terra, sopra al pavimento. Continuava a sentirsi imbambolata, nonostante i suoi deboli sforzi, e adesso le pareva che la testa le girasse, come se una piccola ubriacatura fosse scesa dentro di lei. Era rimasta la bottiglia di vino rosso sopra al tavolo, e i due calici da cui avevano bevuto. Versò ancora qualche goccia, giusto per sentire quel profumo, poi andò decisa verso la finestra e l’aprì, con un gesto deciso. L’aria era immobile, ma i rumori della strada entravano nell’appartamento come a volergli dare vita. Lei spinse il suo sguardo sopra i tetti vicini, fino ad un campanile immerso dentro alla città. Poi tornò al tavolo, prese di nuovo la penna che aveva abbandonato sopra al foglio, e scrisse in fretta: “Sono felice…”; poi chiuse il diario ed iniziò ad occuparsi di altre cose.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 17 marzo 2010

Dietro al semaforo.

            

            Un uomo attraversa la strada ad un passaggio pedonale. Lo fa come ogni giorno, perché deve attraversare quella strada per recarsi al suo posto di lavoro. Esce da casa, costeggia lungo un marciapiede alcune abitazioni grigie tutte uguali, arriva vicino ad un giardinetto di fronte al quale c’è il suo bel passaggio pedonale. In quel giardino ci ha portato i suoi figli la domenica tante volte quando erano più piccoli. Ancora li ricorda quei momenti, il profumo di sugo che usciva da qualche abitazione, il sole della primavera, i bambini che giocavano a rincorrersi. Adesso si sono fatti grandi i suoi figli, ma ancora abitano in famiglia, nella sua casa, anche se escono da soli e se ne vanno in giro, con gli amici; ma spesso lui gli ripete le solite raccomandazioni, lo fa con spirito di padre: dice di non fare tardi, di non bere, di essere retti, di stare attenti a quel passaggio pedonale, quello davanti al giardinetto, perché è pericoloso, lo sanno tutti nel quartiere.
La vita sembra scorrere via senza inciampi, lì davanti casa, lungo quella strada polverosa sempre uguale, con il suo traffico intenso nelle ore di punta, però c’è sempre qualche auto che passa via veloce a sera tardi, per far sentire a tutti la potenza del motore. Lui certe volte arriva fino ad un caffè poco lontano, alla sera: attraversa la strada sul passaggio pedonale ed è subito arrivato, lo fa giusto per trascorrere un’ora o due a parlare con gli amici. Ogni giorno sembra diverso in quello scorrere inevitabile del tempo: lui continua ad uscire di casa al mattino, cammina lungo il marciapiede e poi attraversa la strada sopra al passaggio pedonale. Davanti alla fermata poco distante aspetta la corriera e poi via in fabbrica, insieme ad alcuni colleghi che abitano vicino.
Prima, tanti anni fa, c’erano soltanto delle strisce bianche a terra, ad indicarlo in modo semplice quel passaggio. Poi arrivarono un gruppo di operai e misero il semaforo, perché ci si era resi conto che attraversare la strada in quel punto era un po’ pericoloso. In tutto il quartiere si tirò un sospiro di sollievo, parve una fuga in avanti la modernità di quella scelta, poi ci si fece l’abitudine. Adesso lui cammina fino lì, attende che il semaforo segnali il suo via libera, ed ecco che si può attraversare quella strada, in perfetta sicurezza. Sua moglie a volte lo guarda arrivare dalla finestra, quando torna dalla fabbrica.
Certe volte lui si sente stanco, il suo lavoro è pesante, ma qualche giorno si lava e si cambia i vestiti velocemente, e poi esce con lei, a fare due passi, e magari attraversano la strada all’altezza del passaggio pedonale e costeggiano la via principale di quel quartiere periferico, dove ci sono dei negozi, e si possono osservare le vetrine. Non c’è niente di male nel sentirsi bene in quelle sere: salutare qualche conoscente, sapere di aver fatto fino in fondo il proprio dovere, trattenere qualche spicciolo dentro alle tasche anche per acquisti non previsti, per qualcosa non estremamente necessario. Sua moglie è ancora una bella donna nonostante l’età, lui ne è orgoglioso, cammina volentieri con lei tenendola a braccetto. Poi attraversano di nuovo la strada sul passaggio pedonale e rientrano a casa, che si è fatto già tardi.
E poi quel giorno grigio, quando lui rientra dal lavoro con la testa pesante, piena di pensieri. Attende il segnale del semaforo, poi attraversa la strada, come sempre. Ma una moto arriva forte, a tutta birra, e lo sfiora. Non è successo niente, nessuno si è fatto male, ma per lui, per l’uomo che attraversa la strada tutti i giorni, è peggio di uno schiaffo. Non ha parole da dire, raggiunge la sua casa, velocemente, bofonchia qualcosa tra di sé, non sa spiegarsi neppure con sua moglie, ma si mette a letto, distrutto di fatica, ammalato. Sarebbero bastati pochi centimetri per scatenare una tragedia, lui lo sa, lo sente, e avverte come un tradimento di tutta quella sua vita condotta fino lì, fino a quel passaggio pedonale, e non riesce ad accettare che proprio la sua vita sia così rapida a volgergli le spalle.


            Bruno Magnolfi

martedì 16 marzo 2010

Scuse tardive.

            

            Da circa cinque anni avevo smesso completamente di parlare, e siccome non prestavo mai attenzione a niente e a nessuno, alcune persone, compresi i miei familiari, in capo a poco tempo immaginarono che io non fossi neppure capace di ascoltare. Così tutti si lasciavano andare in mia presenza a considerazioni sparse su di me e sulla mia malattia, commenti ai quali io peraltro mi fingevo assolutamente indifferente pur divertendomi moltissimo ad ascoltare quello che veniva detto, certe volte in una maniera che nessuno probabilmente sarebbe mai riuscito a immaginare. Mi era stata concessa l’incapacità di intendere e di volere e mi veniva passato un sussidio per il mio mantenimento.
Si dicevano molte cose su di me, che avessi un’intelligenza sottile e particolare tutta tesa verso cose sconosciute ai più, concentrata sui meccanismi interni della personalità che escludeva qualsiasi interesse per le cose di ogni giorno; e ancora che si sarebbero potute studiare meglio le mie particolarità, forse per comprendere il funzionamento del cervello, e cose di quel genere. Naturalmente non avevano capito quasi niente. Il mio comportamento, quell’isolarmi da tutti, era solo causato dagli argomenti triti che venivano portati avanti dalle persone e che sinceramente non riuscivo a sopportare: la sterilità delle parole scambiate con il gusto di perdere del tempo, la tristezza data dal bisogno di confrontare i modi di pensare, la ridicolezza di parlare ognuno di sé, del proprio vissuto, delle esperienze peraltro simili a quelle di ogni altro. Tutto ciò mi dava la nausea, molto meglio evitare questi scambi.
Però ero giudicato buono: facevano quasi a gara per portarmi in giro, a farmi vedere il mondo, la gente, la vita com’era; non mi lasciavano mai uscire da solo, ma più per prevenzione che per necessità. Io mi lasciavo guidare da tutti, non opponevo resistenza, accettavo qualsiasi cosa mi venisse offerta, seguivo tutto ciò che mi veniva indicato. Poi smisi di mangiare. Non che volessi morire di fame, per me era solo un gioco, la voglia di capire fino a che punto potevo spingermi. Tutti si preoccuparono all’inverosimile, qualcuno fondò nuove teorie sui miei nuovi atteggiamenti, altri pensarono che ero solo un peso sociale e un problema per chiunque, infine fu trovata la soluzione. Fui portato in una clinica e sedato, alimentato con un sondino e quasi costretto all’immobilità.
Poi, una mattina, rimasto nella camera solo con gli altri ammalati che dormivano, decisi che bastava. Mi alzai dal letto, indossai i vestiti che erano rimasti tutto il tempo chiusi dentro all’armadietto e mi presentai nella sala medici. Dissi in un fiato che stavo bene, i miei parametri erano normali, avevo controllato la mia cartella clinica e tutto era nella norma, se avessero voluto tenermi ancora rinchiuso là dentro e sedato, avrei fatto scattare una causa legale nei loro confronti. Tutti rimasero senza parole, infine andai nel corridoio e telefonai ad un avvocato amico di famiglia di cui avevo sempre conservato il numero, lo convinsi a venirmi a prendere in clinica e nessuno si oppose al mio comportamento.
Quando scesi le scale e raggiunsi il piazzale antistante la clinica, prima di attraversare la strada, mi sentivo persino troppo eccitato per guardarmi intorno: il mio avvocato mi stava osservando dalla sua auto già in moto ed io ero sicuro di trovarmi al centro di ogni attenzione. Così quando spiccai una corsetta e l’autobus mi investì in pieno, per me fu una totale sorpresa: avevo pensato fino a quel punto di poter controllare tutto e prendere in giro chiunque, quella variante per me adesso era quasi assurda. Non morii subito, riuscii ancora a vedere i miei familiari e alcune persone che mi conoscevano: chiesi perdono a  tutti, naturalmente, ma non sono sicuro che in quel momento tutti avessero voglia di scusarmi.


            Bruno Magnolfi

lunedì 15 marzo 2010

Il coraggio di una soluzione.

            

            La vicenda era ordinaria. Un innamoramento giovanile in un paesino campano: un ragazzo e una ragazza che si giurano amore eterno salvo perdersi pochi anni dopo, risucchiati da altre cose, da altre vicende, per poi rincontrarsi dopo molto tempo, ambedue sposati, lei trasferita a Roma, lui rimasto lì ma sempre in giro, a lavorare come rappresentante di commercio, e scoprire di essere stati frettolosi, di aver compiuto uno sbaglio clamoroso. E così il seguito è scontato, l’inizio di una relazione assurda respirata per mezza giornata ogni due mesi, quel vedersi quasi da ladri, durante incontri clandestini complicatissimi, veicolati su numeri di telefono segreti, fingendo indifferenza rispetto alla fatica di intrattenere una cosa di quel genere, giusto per continuare a giurarsi amore eterno nonostante figli e coniugi.
E poi quel giorno strano, quando i pensieri dentro alla testa sembrano diversi, per lui che torna da una delle volte in cui è riuscito a vederla, solo per due ore, e quel ragazzo per strada che chiede un passaggio perché c’è uno sciopero dei mezzi pubblici: a Mario piace la sua faccia simpatica, lo fa salire sulla sua auto, forse ha già in mente di parlare con lui, di fargli ascoltare la vicenda della sua vita, perché non si conoscono, può dire la verità su tutto, finalmente può sfogarsi. Il ragazzo si chiama Antonio e lo ascolta volentieri, senza interrompere, senza fare espressioni di commento. Ha la faccia intelligente quel ragazzo, tra pochi esami sarà ingegnere, lo dice all’inizio con orgoglio perché è la cosa migliore che ha fatto in vita sua, anche se una vita vera ancora non ce l’ha, ma ascolta Mario con attenzione, capisce di essere vicino a qualcosa di vivo e di vibrante ed elabora a modo suo, poco per volta, dentro la sua testa piena di formule e teorie, tutta la vicenda.
 Mario entra nei dettagli, spiega la sua vita assurda, quel vivere collegato ad un numero di telefono segreto che ogni tanto tira fuori, come un talismano, ed a volte accarezza come fosse una persona. Gli spiega e si spiega e mentre parla dipana la sua vita anche a se stesso mentre guida, dando una concretezza alle cose che forse non ha mai avuto; a tratti si interrompe, è come se toccasse con mano per la prima volta le cose che cerca di spiegare, è come se non ci avesse mai pensato in quella maniera, la maniera che adesso gli suggerisce la logica dell’ingegnere, quel ragazzo dalla faccia intelligente che gli siede a fianco, e intanto cerca di interpretare anche il suo pensiero, il suo modo distaccato di ascoltare quei discorsi, e si sforza di incarnarsi in lui, di essere lui, in modo da avere un parere diverso dal proprio, più obiettivo.
Si fermano a mangiare, non c’è problema, paga tutto Mario, gli interessa troppo entrare nei dettagli della sua vicenda, fargli ascoltare al ragazzo fino all’ultimo particolare delle sue cose, fargli comprendere il motivo per cui si è ridotto così, a fare il commesso viaggiatore dei propri sentimenti. Mangiano, prendono un caffè, una grappa, ci vuole proprio, e poi via, di nuovo sulla strada, e Mario che parla, parla ancora di sé, di quello che ha pensato quando è stato prima e di ciò che è diventato adesso, di lei, quello che ha detto e fatto, e di lui, e di ciò che si dovrebbe, o si potrebbe, oppure che sarebbe stato.
Poi arrivano, finalmente, e Antonio ringrazia di tutto, deve scendere, deve proprio andare, resta in aria una pausa improvvisa che niente può riempire, e Mario ferma l’auto con le doppie frecce, si volta verso il ragazzo, lo implora mentalmente di dargli la sua benedizione, ma tutto è tirato come un arco teso nello sforzo massimo. Antonio lo guarda, pronto con la sua opinione che ha trattenuto tutto il tempo, sa che è importante ciò che deve dire, sa che non può sbagliare il suo giudizio, quel parere non richiesto, e conserva ancora la sua faccia intelligente, ha ancora gli occhi svegli, l’espressione fresca, non può dire una cosa qualsiasi ma solo quello che ha pensato davvero, ciò che ha sentito dentro di sé, e dall’alto di tutto questo gli dice solamente: “Secondo me è ora di dire basta…”, poi stringe la mano a Mario, apre lo sportello e se ne va.


            Bruno Magnolfi

domenica 14 marzo 2010

Sentirsi migliori.

            

            I ragazzi davanti al bar erano annoiati, come sempre. Stavano tutti seduti in malo modo sulle sedie di plastica, uno giocava distrattamente con i sassi della ghiaia. Qualcuno poco prima aveva proposto qualcosa da fare, purtroppo senza energia, e gli altri avevano immediatamente smontato qualsiasi possibile entusiasmo. Era normale che stessero così, le loro giornate, specialmente di sabato, come quel giorno, scorrevano spesso vuote di tutto. Qualcuno lavorava come apprendista, qualcuno andava ancora a scuola, ma tutto quello che facevano parevano subirlo, e la loro età sembrava fatta apposta per renderli scontenti.
Poi, d’improvviso, arrivò Franco. Spense il motore dello scooter, si tolse il casco, si guardò attorno, con un modo di fare vago e strano. Si vedeva raramente Franco; lui aveva sempre mille interessi e non ci teneva a passare le giornate al bar senza far niente. Però era in gamba ed era rispettato. Si avvicinò agli altri con la faccia seria, alzò leggermente una mano in segno di saluto generale, poi, appoggiandosi ad una sedia,  disse a voce alta: “Ho bisogno di voi”. Nessuno ebbe una reazione visibile, forse qualcuno pensò a cosa mai si fosse inventato Franco per quel pomeriggio sonnacchioso. “Per fare cosa?”, rispose Leo interpretando gli altri. “Niente di speciale…”, disse lui come cercando le parole. “Dobbiamo aiutare dei ragazzi più piccoli di noi a montare il palco di un teatro in miniatura, proprio qui vicino”.
Nessuno riuscì a trovare le parole per smontare quel progetto, in fondo pareva un’opera buona, e nessuno aveva voglia di sentirsi cattivo per scarsa volontà; lentamente qualcuno iniziò ad alzarsi dalla sedia, e in cinque minuti tutti erano sopra ai motorini pronti per seguire Franco, anche perché non c’erano molte alternative valide. Arrivarono sul dietro dell’ospedale pediatrico con una certa perplessità, ma mentre cercavano di chiedere a Franco qualche spiegazione, lui era già sceso di sella per parlare con un paio di persone che stavano lì, come aspettandoli. Entrarono tutti dalla porta di servizio e in un attimo si ritrovarono in una larga sala ingombra di tavole e legname. I due che parlavano con Franco tirarono fuori gli utensili che dovevano servire, e in un attimo fu disteso il progetto del palco.
Tutti iniziarono a lavorare, ogni pezzo era numerato, non era difficile il montaggio una volta scelta la collocazione migliore per quella costruzione. Qualcuno cercò di chiedere una spiegazione, ma pareva non ci fosse il tempo per perdersi in discorsi. Ci vollero più di due ore, ma alla fine il palco era pronto. Furono allineate anche le sedie per il pubblico e in un attimo era tutto a posto, il giorno seguente i piccoli ammalati avrebbero assistito ad una recita. Franco era contento, e anche i suoi amici parevano piuttosto soddisfatti.
Il pomeriggio seguente era domenica ed i ragazzi si ritrovarono come sempre al solito bar. Franco non c’era, e non fu chiaro a chi di preciso venne l’idea, ma quando fu proposto di andare a vedere lo spettacolo di teatro del pediatrico, tutti furono d’accordo. Arrivarono lì, aprirono con circospezione la porta di servizio, si infilarono dentro in silenzio fino alla larga sala del giorno precedente e scoprirono che c’era Franco, li stava quasi aspettando, era contento che ci fossero tutti, perfettamente a tempo, dopo pochi minuti sarebbe iniziato lo spettacolo.
Medici e infermieri si erano truccati e la recita era davvero divertente. Alla fine furono fatti i ringraziamenti a tutti coloro che avevano partecipato, e Leo chiese a Franco di chi fosse stata l’idea generale. “Di alcuni bambini”, disse lui. “Bambini stufi di essere solo ammalati, e che soprattutto hanno avuto pena di un gruppo di ragazzi che passavano interi pomeriggi in un bar, senza far niente…”.


            Bruno Magnolfi

venerdì 12 marzo 2010

Julius dei cuccioli.

            

Era partito da solo, con quella macchina vecchia, scarburata e fetente. Contava di arrivare alla frontiera italiana a metà della notte, e se aveva fortuna nessuno lo avrebbe fermato, nessuno gli avrebbe chiesto di aprire quel bagagliaio maledetto. Guidava ormai da cinque ore filate, e in testa non aveva più niente, tutti i pensieri se n’erano andati via poco per volta dal tubo di scappamento insieme a quel fumo. I trenta cuccioli si erano lamentati per più di due ore all’inizio, quando era ripartito dalla casa di campagna miserabile piena di latrati e di merda da tutte le parti, poi il freddo e il ronzio del motore li aveva convinti a starsene giù, rannicchiati, e aspettare il momento in cui fossero arrivati.
Gli dispiaceva, a Julius, ma non poteva fermarsi, non poteva aprire quel cofano, neanche per dar loro da bere: non poteva rischiare che qualcuno li vedesse, che si facessero sentire o che qualcuno di loro scappasse da dentro la macchina. Alle prime luci dell’alba sarebbe stato a Milano, aveva il numero di telefono del contatto nella rubrica del suo cellulare, tutto si sarebbe concluso in fretta e senza problemi. Sapeva già che i tre o quattro cuccioli più deboli sarebbero morti, ma la selezione naturale avrebbe rinforzato la razza, così avevano detto quelli che li avevano messi nel suo bagagliaio.
Un lavoro da stronzi, quello di portare clandestinamente i cuccioli in Italia, lo sapeva anche lui, ma almeno la maggior parte di loro sarebbero andati a star bene, accuditi da qualche bambino ricco, con la villa, il giardino ed il resto. E poi sempre meglio che portare la droga, o cose del genere. Così pensava Julius, e intanto crollava di sonno, cercando di stare il più possibile dentro alla carreggiata con quella macchina vecchia, un pezzo di ruggine. Aveva aperto un po’ i finestrini perché il puzzo dei cani arrivava fin lì davanti, e poi l’aria fresca andava bene, lo faceva correre meglio, lo svegliava.
Alla frontiera c’era un velo di nebbia, il poliziotto lo aveva guardato mentre lui lentamente passava con i documenti già pronti, ma non gli aveva fatto alcun cenno, la strada era libera, tutto andava come doveva. Altre due ore, pensava Julius, forse tre, poi si sarebbe concesso una bella dormita con i suoi tremila euro sotto al cuscino, e poi via, da sua moglie al settimo mese, con la pancia già grossa, a cercare di costruire un futuro. Forse avrebbe fatto un altro viaggio o anche due così, con i cani, poi basta, doveva cercare un cantiere fuori mano, dove nessuno veniva a chiedere niente, e farsi dare un lavoro da operaio, da manovale, tutto al nero, perché in altra maniera nessuno lo avrebbe mai preso, ma lui era giovane, gli andava bene anche così. Metter su una famiglia non era facile, si doveva accettare di tutto.
Poi la nebbia era andata diradandosi, e in quel tratto in discesa lui aveva pigiato di più sul pedale, forse pensando a quei cuccioli, al loro bisogno di bere un po’ d’acqua, di smuoversi velocemente dagli scatoloni dov’erano stati rinchiusi. La macchina aveva iniziato a sbandare all’improvviso, forse su un pezzo di ghiaccio, lui aveva cercato di richiamarla con un colpo di sterzo, ma tutto era peggiorato di colpo, e l’albero era uscito dal buio per andargli proprio davanti, a fracassarsi sul muso. L’ultimo pensiero di Julius era stato per quei cuccioli, quei piccoli cani rinchiusi tra quelle lamiere, destinati ai ricchi italiani, nati per un futuro migliore: forse due o tre si sarebbero ancora salvati, ne era quasi sicuro, qualcuno fra non molto li avrebbe trovati, avrebbe dato loro da bere, forse avrebbe avuto pietà di quel loro tentativo di vita. Cosa importava adesso morire così, come uno stronzo qualsiasi, senza futuro, uno che non aveva saputo neanche guidare; ma i cuccioli no, loro non c’entravano niente, avrebbero dovuto salvarsi per forza. Questo l’ultimo pensiero di Julius; poi più nulla.


Bruno Magnolfi

giovedì 11 marzo 2010

Da solo.

            

Cosa sarà questo tempo che fugge, questo bisogno di incarnare per forza il personaggio contemporaneo, l’aggiornamento continuo su ciò che sembra diverso e invece è solo un filtro migliore per le solite cose, una maniera per digerire più in fretta e con minore memoria i sassi di sempre? Fuori c’è vento, gli alberi piegano i tronchi, le foglie secche volano via senza rimedio, eppure tutto è ancora immobile.
Cammino lungo una strada, osservo le case, le persone, i negozi aperti sui marciapiedi del centro, e mi sembra che tutto sia vivo, che il senso di oggi sia diverso da sempre ed apra nuovi orizzonti sul divenire. Poi torno a casa, salgo le scale, apro la porta, e all’interno del mio piccolo appartamento ritrovo il caldo accogliente di sempre.
Non importa che la polvere sia caduta anche oggi sopra i mobili e sui pavimenti, il dato che emerge è che qualcuno, tramite il monitor acceso dentro la stanza, anche oggi possa insegnarmi come fare, come procedere, come sopravvivere, e soprattutto cosa pensare. Ecco, è lì il punto debole dove ancora mi dibatto prima di essere preda della lezione: non ho più voglia di scrivere qualcosa immaginando di essere libero di farlo. Così so per certo che tutto è già stato fatto, tutto è stato già riflettuto, e il mio monologo sarà lettera morta, ininfluente.
Forse ho capito, la vera solitudine è proprio sforzarsi di capire cosa sia questo percorso. Nessuno ti segue, la solitudine fa paura, nessuno leggerà volentieri queste parole, perché certi discorsi saranno sentiti soltanto come provocatori per ciò che è stato già del tutto previsto, pianificato.


Bruno Magnolfi

mercoledì 10 marzo 2010

La piccola diga.

        

            Il torrente in estate diventava un rigagnolo d’acqua che scorreva in mezzo a ciottoli bianchi e levigati. Un paio di chilometri più avanti, rispetto alla strada, costeggiando gli argini erbosi lungo un sentiero, si raggiungeva una radura tra gli alberi dove il fiume si allargava in un laghetto d’acqua verdina e profonda, dominata dalla chiusa di ferro che regolava il flusso e il livello di tutto l’invaso. Non era la prima volta che i due ragazzi andavano a pescare là dentro, si stava bene seduti sul muretto di cemento ad osservare il galleggiante tremolare sulla superficie quasi ferma, e se si allenavano gli occhi si potevano vedere le sagome dei cavedani che incrociavano sul fondo della piccola diga.
Avevano discusso a bassa voce sull’uso dell’esca, sulla profondità dell’amo nell’acqua, sul posto migliore dove pescare, se all’ombra o nel sole, e infine uno dei due aveva tirato fuori dall’acqua una bella preda guizzante lunga quanto una mano, e questo fatto aveva chiuso ogni polemica. L’altro ragazzo si era sentito vagamente umiliato, e dopo un po’ aveva detto che si stava annoiando in quel caldo silenzioso con le maledette zanzare ad infastidirlo. Così si era spogliato, e in mutande era entrato nell’acqua fino ai ginocchi, giusto per rinfrescarsi, nella parte più a monte. L’altro non aveva detto niente, concentrato com’era sul suo galleggiante che ogni tanto spariva sott’acqua dietro a quell’esca che pareva funzionasse davvero. Dopo poco tirò su un altro pesce, più o meno delle medesime dimensioni, e dopo solo cinque minuti un altro ancora, di dimensioni anche maggiori.
L’altro intanto si era sdraiato nel fresco dell’acqua, e si divertiva a nuotare da una riva a quell’altra, con bracciate deboli e lente, ad evitare di smuovere la fanghiglia del fondo. L’amico che era rimasto a pescare era eccitato al massimo, e già immaginava la mamma che avrebbe cucinato quei pesci alla sera, riempiendolo di soddisfazione. Ogni tanto l’amico, a distanza di una ventina di metri, gli chiedeva con sufficienza: “Come va?”, e lui concentrato com’era, ormai neppure si preoccupava di rispondere.
Poi, dal casotto poco distante, si sentì provenire un rumore, quasi una vibrazione, e nel giro di un attimo l’acqua iniziò a scorrere velocemente verso la chiusa; il ragazzo tirò su velocemente il filo da pesca, e mise via con rapidità tutta la sua attrezzatura ad evitare problemi, visto che lì accanto c’era il cartello con su scritto: Vietato pescare; poi si volse di scatto a guardare il suo amico. Ma il ragazzo era già in difficoltà, la corrente improvvisa l’aveva portato dove non toccava più il fondo coi piedi, e pur impegnandosi al massimo a nuotare contro corrente non riusciva a tener testa a quel flusso. L’altro cercò subito un bastone, una corda, qualsiasi cosa per potergli dare una mano, ma la situazione pareva diventare drammatica ogni momento di più. Si urlarono qualcosa, poi lui chiamò aiuto a voce alta, più alta che gli riusciva, ma non c’era nessuno nei dintorni e vide il suo amico ancora annaspare ormai a ridosso di quella maledettissima chiusa, dove la corrente era fortissima e nessuno poteva aiutarlo.
Sparì dentro l’acqua, in un attimo, lui corse dalla parte esterna della piccola diga, ma lì l’acqua usciva tranquilla, come non stesse accadendo un bel niente. Andò subito a cercare qualcuno, e già dopo un’ora il livello dell’acqua fu fatto abbassare dai tecnici, ma tutto questo servì solo per mostrare il povero corpo del ragazzo, dell’amico  affogato, rimasto impigliato nella grata del fondo.   

            Bruno Magnolfi


            

martedì 9 marzo 2010

La via nota.

            

            Ogni giorno è un percorso mentale diverso. Si vaga dentro tracciati ordinari, consapevoli però che qualcosa nella nostra coscienza cambia ogni volta, anche se sappiamo che è inaccettabile. Si osserva tutto quanto in termini sempre oggettivi, come ci siamo sempre sforzati di fare, si assaporano i passaggi di luce da una fase a quell’altra immedesimandoci in tutto quello che accade, o almeno cercando di interpretare i piccoli eventi, gli sguardi veloci di anonimi personaggi, meravigliandoci ogni volta della nostra capacità di reazione nel far fronte agli aspetti più negativi, perché spesso sono proprio questi inciampi gli elementi che caratterizzano meglio i periodi. Infine, da qualche parte dentro di noi, si assaporano senza possibilità di evitarli quegli immancabili preliminari di angoscia, quel gusto amaro di incapacità ad affrontare quello che spesso ci capita, ed è questo il pugno allo stomaco dopo il quale, lo sappiamo, ancora ci possiamo rialzare, ma sempre ogni volta con maggiore difficoltà.
In certi casi si prova orrore della neutralità che regna attorno a noi dopo un colpo del genere, e della capacità, da parte di tutti, di riassorbire ogni qualsiasi screzio all’interno della normalità più ordinaria: inutile irritarsi in un modo non adatto a ciò che è già stato previsto, serve solo a mostrarci diversi, isolati, persone da sole che vagano senza neppure capire. Poi qualcosa, impercettibile, chiude la fase, e la memoria si offusca.
Così pensavo, in una serata di pioggia, sotto ad un piccolo ombrello, cercando almeno il senso per tornarmene a casa. C’era il vuoto intorno ai lampioni bagnati che illuminavano le pozzanghere d’acqua sui marciapiedi. Vedevo le persone lungo le strade, ma non riuscivo a comprendere il filo che univa le cose, il senso del fare, del procedere oltre, di andare avanti comunque. Forse, pensavo, serve soltanto socchiudere gli occhi e percorrere la via più consueta, quella più familiare, la strada che ci porta dove sappiamo, senza troppe domande.


            Bruno Magnolfi

lunedì 8 marzo 2010

La cosa migliore.

            
            Fuori dalla finestra non c’era niente, solo una strada grigia con qualche alberello tisico dalle radici affondate sul ciglio sassoso. Certe volte lui spalancava la finestra e si affacciava dal davanzale nella speranza segreta di trovare qualcosa di nuovo là fuori, come se potesse fermarsi qualcuno ad aspettarlo sotto alla casa dove lui abitava, giusto per dirgli: “Andiamo, non è il caso di tardare dell’altro, adesso è il momento…”. Invece ogni volta, ogni mattina, lui si svegliava in quella sua stanza con già il sapore del niente dentro alla bocca; apriva quelle persiane con un moto ripetitivo e automatico, quelle cigolavano sui cardini in un triste lamento spalancandosi sulla medesima strada, e nessuna novità era mai lì ad aspettare la sua nuova giornata.
Certe volte si chiedeva come fosse possibile che il tempo procedesse sempre in quella maniera monotona, con quei modi definiti una volta per tutte, e lui, che non ci credeva all’immobilità delle cose, continuava ad immaginare un futuro diverso, uno spiraglio di vita migliore.  Dietro la casa c’era il laboratorio, il caseificio, come dicevano tutti al paese, e lì tutti i giorni lui e suo padre producevano mozzarelle, ricotta, formaggi freschi. Erano sempre le medesime operazioni, i fornitori portavano il latte ed il caglio, e loro filtravano, impastavano, bollivano, ogni giorno nel medesimo modo. “Giuseppe”, diceva suo padre. “Controlla la temperatura della pasta…”, e lui controllava, osservava la macchina che filava le mozzarelle e sapeva che tutto era a posto, proprio come doveva.
Venivano con i furgoni a ritirare i prodotti finiti ogni due giorni, e una volta firmata la bolla tutto era fatto e concluso. Ogni tanto lui si fermava a fare due chiacchiere con quegli autisti che portavano il formaggio ai grossisti. Nessuno di loro aveva mai di che lamentarsi: tutti erano contenti di quella vita, avrebbero voluto guadagnare di più, questo si, ma si accontentavano di quanto riuscivano a mettere assieme. Per Giuseppe invece non era questione di soldi. Lui si sentiva come costretto a fare quella vita, come se non avesse potuto mai scegliere, e il suo destino avesse scelto per lui, fin da quando era piccolo, forse da quando suo padre aveva cominciato a produrre il formaggio, da quando aveva bisogno di aiuto nel laboratorio, e gli diceva quasi ogni giorno: “Appena ti farai un po’ più grande imparerai tutto quanto, e da qui usciranno quintali di mozzarella e ricotta…”.
Poi gli anni erano passati e tutto era scivolato via proprio come aveva pensato suo padre, non c’era stata alcuna possibilità di mandare avanti le cose in maniera diversa. Così Giuseppe adesso guardava la strada e sognava che da lì arrivasse qualcosa o qualcuno a dirgli che la sua vita doveva cambiare, osservava di nuovo quegli alberi stenti e immaginava la strada che un giorno qualsiasi lo portasse con sé. Poi si ammalò gravemente e fu allora che smise del tutto di pensarci, e infine, dopo quasi sei mesi, quando riuscì finalmente a tornare guarito nel laboratorio e a riprendere il lavoro insieme a suo padre, si guardò attorno e gli parve tutto diverso e migliore: forse in quel periodo era passato dalla strada qualcuno a dirgli di andar via, di andare con lui, ma Giuseppe non l’aveva ascoltato, e forse era stata quella la cosa migliore.


            Bruno Magnolfi

sabato 6 marzo 2010

Una donna estroversa.

            

            La donna allo specchio si osservava i piccoli difetti del viso. Avrebbe dovuto uscire di casa tra non molto, ma siccome si doveva incontrare con alcune persone tra cui un uomo che lei reputava bello, tutto questo la metteva in forte disagio. I loro rapporti erano soltanto di lavoro, non sussistevano dubbi su questo, però ciò non significava affatto che lei dovesse sfigurare al suo fianco, recandosi a quella colazione tra colleghi d’ufficio. Così, dopo molte incertezze, aveva infine deciso quale vestito indossare tra i tanti possibili, un abito che si adattasse meglio al suo spirito, al suo essere, alla sua interpretazione del momento, e in conseguenza, aveva anche deciso con quale colore ombreggiare gli occhi e le labbra. Aveva passato mezza mattina ad osservare le stoffe, i colori, le sfumature, a definire come voleva che fosse la giornata che aveva di fronte. Ma adesso, dopo che si era osservata a fondo nei particolari che vedeva riflessi dentro allo specchio, aveva capito che c’era qualcosa che non tornava sulla sua faccia.
Improvvisamente, guardandosi dentro a quel rettangolo senza segreti, si era come resa conto di sentirsi diversa da come effettivamente lei era. La sensazione provata era del tutto particolare: si trattava del fatto che lei, dentro di sé, era un’altra persona rispetto a come era fuori. Non se ne era mai resa conto fino a quel giorno, ma la sua faccia, la sua espressione, il suo viso, non corrispondevano affatto a ciò che lei pensava di sé. Era come se la persona che la stava guardando allo specchio fosse un’estranea, un’altra donna, e questo era spiacevole, una sensazione senz’altro antipatica.
Cercò di conservare la calma, sistemò alcune cose del tutto marginali, tanto per prendere tempo, cercò di pensare a degli argomenti di cui avrebbe voluto discutere durante quel pranzo, ma poi, inevitabilmente, tornò di nuovo a guardarsi dentro allo specchio. C’era poco da farsi illusioni, lei non era se stessa, era inutile cercare scusanti con il rossetto o il periodo di stanchezza. Era difficile spiegarsi una cosa del genere, e soprattutto diventava complicato presentarsi ad altre persone con un interrogativo del genere dentro alla testa. Si concentrò su alcune piccole rughe che potevano essere coperte con del fondo tinta. Accese lo sguardo con un ombretto deciso sopra le palpebre. Disegnò le sue labbra con del rossetto perfetto per ciò che desiderava mostrare. Infine era pronta, ma la sua messinscena non corrispondeva a se stessa.
Cercò di pensare qualcosa di diverso, ma la sua mente andava verso quel suo sentirsi una persona diversa da come effettivamente lei era. Uscì di casa ed il suo taxi arrivò dopo un minuto. Cercò di osservare il suo sguardo nello specchietto della vettura mentre dettava l’indirizzo del ristorante, poi, come vinta dalla situazione, si rannicchiò in un angolo del sedile posteriore. Arrivò che tutti ormai erano in sua attesa. Si fermò in una posizione qualsiasi, aspettò che gli altri, anche quel bello che si mostrava in splendida forma, si voltassero verso di lei, e infine disse, attirando l’attenzione di tutti: “Scusate, forse non dovevo neppure venire, ma oggi per me non è proprio la giornata più adatta. Sto male, ma non è questa la cosa importante; il problema è che non so cosa mi stia succedendo, cosa stia attraversando la mia povera testa…”. Gli altri l’applaudirono, era bello che qualcuno fosse più estroverso di tutti.

            Bruno Magnolfi

venerdì 5 marzo 2010

Congiunture difficili.



Il signor Erik era seduto su una delle poltrone di pelle intorno al grande e lucido tavolo per le riunioni, il computer portatile acceso di fronte e il telefono accanto. Mancava ancora un’ora all’incontro, ed io e il signor Erik preparavamo ognuno per suo conto e in silenzio i documenti sui quali avremmo discusso con gli altri dirigenti della società. La situazione era difficile, si trattava di far fronte ad una riduzione delle commesse di quasi il dieci per cento: gli argomenti sui quali confrontare le idee erano la manutenzione dei livelli produttivi in attesa del rilancio, e l’introduzione di buone idee per agganciare a breve termine nuovi mercati.
C’erano molte aspettative da parte di tutti nei confronti del signor Erik; pur essendo lui un consulente tecnico esterno era giudicato nel suo campo il migliore, un grande pignolo nel suo lavoro, un vero mago in situazioni difficili, ed ogni suo parere sarebbe stato senz’altro vincolante. Io ero soltanto un capoufficio in quella sede, il mio parere fortunatamente non sarebbe stato neppure richiesto, mi sarei limitato a passare le carte e a versare l’acqua ai relatori una volta iniziata quella riunione.
Fuori dalla grande vetrata in fondo alla sala, appena coperta da una tenda bianca a listoni, la giornata appariva grigia e noiosa, e i forti rumori del traffico nelle strade congestionate di tutto il quartiere non arrivavano affatto, dando l’idea di un luogo tranquillo e silenzioso. Il ticchettare dei tasti sul computer del signor Erik era il rumore più forte dentro alla sala, e le telefonate che ogni tanto raggiungevano il suo telefono si limitavano ad una vibrazione leggera, poche parole sussurrate nell’apparecchio e poi basta. Ma una mosca era entrata chissà da dove in quel silenzio irreale, e ronzava nell’aria attirata dal monitor acceso di quel computer. Il signor Erik sull’immediato aveva finto opportuna indifferenza, ma quando la mosca era andata a posarsi sulla sua fronte un gesto di fastidio gli era sfuggito. Mi aveva guardato, ed io avevo assunto l’espressione di chi non sa proprio come risolvere la situazione incresciosa.
Poi mi ero alzato, avevo tirato la tenda motorizzata, e fatto scorrere il vetro per cercare di far uscire la mosca. Il rumore da fuori era penetrato come una bomba, insieme ad un senso di polvere e di aria calda sgradevole, che cozzava terribilmente con l’atmosfera filtrata e condizionata nella quale eravamo stati immersi fino ad allora. La mosca naturalmente neppure si era avvicinata al finestrone, ed io prontamente avevo richiuso la vetrata e la tenda. Il signor Erik a quel punto aveva chiesto del bagno, probabilmente per dare a me la possibilità di sbarazzarmi in qualche maniera di quella maledettissima mosca. Così difatti cercai di fare, una volta rimasto da solo, brandendo un giornale ripiegato e cercando di schiacciare la mosca appena questa si fosse posata su un piano. I miei tentativi però sembravano inutili, la mosca pareva mi evitasse con accuratezza, ed io avevo iniziato a sudare per la tensione e anche per lo sforzo a cui ero costretto.
Infine si era fermata, ma proprio sulla tastiera del computer acceso del signor Erik, ed io mi ero avvicinato con tutta la calma che ero riuscito a trovare, giusto per infierire un colpo mortale alla bestia che sfortunatamente un attimo prima si era sollevata. Ma il colpo che ormai avevo scagliato con il mio giornale forse era stato superiore ad ogni mia intenzione, e non mi aveva neppure permesso di rendermi conto che in un attimo avevo annullato tutto il lavoro svolto quella mattina dal signor Erik: il computer si era spento senza che fosse stato fatto alcun salvataggio, ed io, senza parole, me ne ero reso conto proprio nello stesso momento in cui lui stava rientrando dentro alla stanza, ed era rimasto lì, immobile, ad osservare esterrefatto quel che stava accadendo.


Bruno Magnolfi

giovedì 4 marzo 2010

Pannocchie umide.



Lo so che cos’è che accomuna le nostre piccole menti. Conosco perfettamente quel piccolo tarlo che lavora finemente dentro di noi e non ci lascia mai in pace: ci stuzzica, fa la sua galleria poco per volta, segue percorsi per noi sconosciuti. Ho sempre saputo di non essere solo con i miei pensieri, di avere con me tutti voi che meditate le stesse cose che anch’io medito, e siete irritati col mondo nella stessa maniera come sono irritato io adesso. So cosa abbiamo in comune, senza che neppure stiamo a spiegarci.
Ogni volta che siamo perdenti, un senso di affanno, una necessità stringente di stare da soli ci porta talvolta a scappare per strade tortuose, con la voglia impellente di ritrovare quei piccoli pensieri confortevoli di sempre, quei percorsi mentali senza novità, utili solo a riscoprire qualche certezza per un momentaneo benessere. Progetti fantasiosi di gesti utili agli altri, di attività impellenti da intraprendere, parabole iperboliche da sfruttare subito per non perdere per sempre quell’unica possibilità che ci è data, ci guardano dall’alto. E poi niente, resta solo il silenzio e la tristezza di rimanere da soli e di non avere fatto proprio niente. Questo è ogni volta ciò che rimane quando cogliamo alla fine il senso di uno sforzo che ci ha un’altra volta lasciato fiaccati, coscienti di non aver combinato nulla di buono. Eppure l’intenzione c’è stata, anche l’impegno, siamo sicuri di aver fatto tutto quanto ci era possibile, e forse questo in qualche maniera ci basta, o in ogni caso siamo sicuri che ce lo faremo bastare. Già da adesso sappiamo che tutto quanto quel tempo che andremo a gettare via nel nostro prossimo sogno non ce lo restituirà mai nessuno, eppure siamo disposti a puntarlo come in un gioco d’azzardo, per poi sorridere di fronte ad un risultato diverso da quello sperato.
Ieri sono uscito di casa per una passeggiata, un qualsiasi giro a piedi. C’era il sole, ma anche delle nuvole grandi che ogni tanto ne ostruivano i raggi. Camminavo, le mani sprofondate dentro alle tasche, la testa che girava attorno ai soliti percorsi. Per strada le persone correvano verso importanti destinazioni, erano assorte nei loro tragitti, impossibile distogliere quelle loro concentrazioni. Quando sono rientrato le nuvole erano a terra, sul pianerottolo della mia casa, sotto ai miei piedi, ed il cielo era lì, su quel pavimento, quasi inerte. Ho assaporato quelle nuvole, proprio come avrebbe fatto ciascuno di voi: erano umide, grandi pannocchie vaporose cariche d’umido, senza sapore.

Bruno Magnolfi