mercoledì 25 marzo 2009

Variabili impossibili.

 

           
            La prima volta che la vidi passare, di là dai vetri al piano terra dell’Istituto, ebbi la percezione netta come di una specie di collegamento tra me e lei. Nonostante le grate di ferro, era il mio passatempo preferito starmene ad osservare quello scorcio di marciapiede davanti all’Istituto. Mi parevano interessanti le persone, piene di cose da fare, di vitalità. Non avrei mai voluto essere proprio come loro, con quelle preoccupazioni continue e tutto il resto, però mi piaceva guardare quella gente, proprio come un visitatore osserva gli animali dello zoo. Di ognuno immaginavo il timbro della voce, i modi di fare e anche altre cose; e questo era il mio passatempo, perlopiù.
            Dopo qualche mattina mi accorsi che stava passando ancora sopra al marciapiede. Non rimasi sorpreso, lo sapevo che l’avrei rivista altre volte, anzi, ne ero sicuro; solo una leggera e nuova sensazione si diffuse lentamente dentro di me. La mia indolenza assodata, la resistenza capricciosa ad ogni cambiamento nel programma della mia giornata, d’improvviso parevano lasciare posto alla voglia sottile ed inquietante di uscirmene dall’Istituto, dopo tutti quegli anni. Non per incontrarmi con le persone, questo no; per avvicinarmi a lei, per guardarla bene, da vicino. Quel pomeriggio ne parlai con lo psicoterapeuta, non specificando tutto quanto, però. Dissi genericamente che mi sentivo pronto per affrontare il mondo esterno, sia pure a piccole dosi. Conoscevo abbastanza bene ciò che voleva sentirsi dire, e così cercai di non deluderlo. Per la settimana seguente fu fissato un incontro collegiale dell’Istituto sul mio caso, però senza la mia presenza. Intanto sarei stato messo “sotto osservazione”.
            Al pomeriggio in genere si passeggiava un po’ lungo i vialetti del giardino interno all’Istituto. Le uniche variabili erano date dalla malattia o dalla pioggia. I rumori della città non arrivavano fino lì, e quel senso di pace, tanto tenuto di conto dagli psicoterapeuti, in realtà pareva un dispetto. I merli e i pettirossi idioti continuavano a chiamarsi e a scacazzare dappertutto, perfino sulle panchine. Li avrei ammazzati tutti. Gli alberi invece erano fermi e indifferenti, mi piaceva accarezzarne il tronco, o staccarne una foglia per guardarla. Tutti i degenti circolavano lentamente o stavano seduti. Qualcuno si torceva le mani o rideva tra sé, chissà di cosa. Io camminavo e lasciavo che il tempo scivolasse via, senza preoccuparmene. In genere non parlavo con nessuno, ma in quei giorni quella nuova presenza si era introdotta dentro di me, quasi infastidendomi. La sentivo, la mia Lucia, come ero sicuro si chiamasse, e anche se non l’avevo più vista da qualche giorno, sapevo che era là, da qualche parte, dietro alle sbarre dello zoo.
            All’ora di pranzo mi sedevo al tavolino assieme al Fossi. Le variabili potevano essere molteplici. Lo psicoterapeuta non avrebbe voluto tenerci assieme, ma se ci divideva io mi rifiutavo di mangiare. Il Fossi rimaneva sempre in silenzio e guardava nel vuoto. Masticava lentamente con la sua espressione costituita da completa indifferenza, e per me era il massimo. Agli altri tavoli si litigavano le stoviglie, ridevano a voce alta senza averne mai un motivo, e poi muovevano continuamente le mani e anche le sedie. Erano del tutto insopportabili. Il mangiare non mi piaceva, però buttavo giù tutto, fino al piatto vuoto, proprio per non farmi rompere le scatole.
            Il momento peggiore in assoluto era quello della conversazione. Lo psicoterapeuta ci piazzava a sedere tutti quanti e cercava di coinvolgerci con qualche stupido argomento. Le poche variabili a questo programma potevano essere date dalla crisi di qualcuno, oppure da una mia indisposizione di qualche genere. Normalmente rimanevo in fondo quasi senza ascoltare, e quando lo psicoterapeuta mi rivolgeva le sue domande, cercavo sempre di prenderlo in considerazione, anche se solo con dei cenni della testa.
            Faceva già caldo, la primavera era arrivata, quella mattina, ed io, dopo la doccia collettiva e la solita colazione, mi ero fatto aprire i vetri della finestra. Era una grossa variabile, si sentivano tutti i rumori che provenivano da fuori, ma con il sole di quel giorno mi pareva di non poterne fare a meno. Sul marciapiede c’era già qualche passante che trotterellava qua e là, anche se era poca gente. Con i vetri aperti sapevo di attirare l’attenzione, ma non mi importava. Dietro alle sbarre dello zoo la gente era libera di fare quello che voleva, anche starsene per tutto il giorno lì fuori ad aspettare che tirassi loro qualche nocciolina. Poi la vidi. Era là Lucia, e si muoveva svelta lungo il marciapiede; poi, arrivata alla mia altezza, si era sentita osservata, ed aveva girato lo sguardo su di me con i suoi occhioni chiari. Due ore dopo l’infermiere e lo psicoterapeuta mi avevano tolto con la forza da dietro quella grata, anche se io mi ero lasciato trascinare via quasi volentieri. Era l’ora di pranzo o quasi, dovevo prendere posto con il Fossi, non potevo fare altrimenti. 
            All’ora della conversazione lo psicoterapeuta disse: “Ehi, Fausto, perché oggi non ci parli delle tue interessanti osservazioni dalla finestra?”. Pensai tra me che quella era una variabile troppo grossa per poter essere presa in considerazione con una risposta, però starmene in silenzio poteva pregiudicare il mio futuro, così risposi solo: “…le donne”. Lo psicoterapeuta rise di gusto, e tutte le scimmie ammaestrate iniziarono a fare uno schiamazzo insopportabile. Quando tornò la calma lo psicoterapeuta disse: “Bravo! Anch’io non avrei altro motivo per starmene tutta la mattinata a una finestra”. Così mi lasciò in pace e parlò d’altro.
            Alla sera nella sala comune si guardava tutti assieme la televisione. Consuetamente facevo finta di guardare nello schermo, anche se non lo facevo quasi mai, limitandomi ad osservare il muro bianco vicino. Troppi programmi diversi, troppi cambi d’immagine, pareva una variabile continua, insopportabile. Poi arrivava l’ora dell’iniezione e quella del letto. Era bello starsene con gli occhi lì nel buio, a sentire che la calma distillava lentamente lungo le vene e il sistema nervoso. Per qualche attimo arrivavano delle immagini chiare al mio cervello, come se una coltre di veli vaporosi, rischiarati da una luce azzurra, intensa ma non diretta, coprisse piacevolmente altre immagini nascoste. Poi tutto si spegneva lentamente.
            Fu durante quella stessa settimana che il direttore mi fece chiamare. Non mi piaceva quella variabile, ma poteva essere importante. Mi chiese come stavo, poi disse: “Fausto, penso di poterti inserire nel programma delle passeggiate all’esterno dell’Istituto”. Io lo guardai a lungo cercando sul suo viso la possibilità secondo la quale stava semplicemente mettendomi alla prova e nient’altro. Infine risposi: “…va bene”. Il giorno seguente, a mezza mattinata, l’infermiere venne alla mia finestra e mi disse di mettermi la giacca perché saremmo usciti. Io mi mostrai restio, ma lui insistette dicendo che si andava a vedere la stessa gente che vedevo ogni giorno dalla mia finestra, ma senza le sbarre. Lo seguii, e girammo attorno al quartiere per un paio di volte. Su ogni viso che s’incontrava cercavo Lucia, ma non la vidi.
            Dopo qualche giorno tornammo ancora fuori, ma il giro fu diverso ed io m’innervosii parecchio con l’infermiere. Non capiva perché io volessi rimanermene soltanto su quel marciapiede, e continuava ad insistere e a strattonarmi. Alla fine arrivò Lucia ed io mi sentii trasformare in un docile agnellino. Chiesi all’infermiere se potevamo andarle dietro, ma non mi dette alcuna possibilità. Poi andammo verso dei luoghi lì vicino, che però non conoscevo, e siccome l’infermiere aveva detto: “vedrai che da queste parti la rincontriamo”, io mi lasciai guidare. C’era più confusione per le strade dov’eravamo adesso, e il traffico era veloce, le immagini cambiavano di continuo. Non mi piacevano tutte quelle variabili, mi rendevano nervoso. Poi tornammo all’Istituto.
            La sera mi sentivo agitato. Lo psicoterapeuta disse: “Ehi, Fausto, cosa c’è?”. Stavo sbattendo una mano con la palma aperta sopra al tavolo e non mi ero affatto accorto di fare tutto quel baccano, così mi fermai per qualche attimo, mi guardai attorno, e dopo un po’ risposi: “…non lo so; …sono agitato, ecco…”. “Non sarà per il giro di stamani, Fausto, no?”. C’era silenzio nel locale e questo acuiva le percezioni. Mi sembrava anche di sentire una mosca che continuava a sbattere contro un vetro, e forse m’innervosiva, il suo ronzio era insopportabile. “…forse”, risposi con sforzo. “Ci sono…troppe…variabili, là fuori”. Lo psicoterapeuta guardò i suoi fogli, poi disse: “non preoccuparti, ti abituerai”, ed iniziò a parlare d’altro.
            La settimana successiva l’infermiere mi accompagnò alla porta, poi disse: “vai pure, oggi puoi farti un giro per conto tuo”. Io lo guardai sbalordito e cercai per qualche attimo di immobilizzarmi. Quando l’infermiere richiuse il portone disse solamente: “ricordati di tornare, Fausto, tra mezz’ora o un’ora, non più tardi, intesi?”. Sapevo che mi avrebbe seguito ad una certa distanza, ne avevo sentito parlare anche in altre occasioni, però non dissi niente, andava bene.
Per diverse volte camminai lentamente su e giù per il marciapiede, poi abbandonai la strada girando a un angolo. Infine, all’incrocio successivo, incontrai Lucia. Non seppi che dire, mi limitai a guardarla, e forse anche lei mi osservò per qualche istante. Le andai dietro cercando le parole per dirle qualcosa di gentile, ma quasi simultaneamente lei aprì un portone con la chiave ed entrò dentro.
Velocemente raggiunsi anch’io il portone, e mentre stava per chiudere dissi: “…scusi!”. Lei riaprì il portone di quel tanto sufficiente a farmi entrare, senza riconoscermi, ma una volta dentro disse: “…ma lei, è dell’Istituto”. “Sono un infermiere”, dissi prontamente, chiudendo il portone alle mie spalle. Ero sicuro non fossi stato visto entrare dall’infermiere che mi teneva d’occhio, così mi sentivo tranquillo, almeno per quel verso. “…Lucia”, dissi; “…lei è una bella donna. Lo sa?”. “Ma il mio nome non è Lucia”, disse. Rimasi perplesso, era una variabile cui non avevo riflettuto. “Perché non usciamo di nuovo sulla strada”, continuò, “così posso indicarle dove può trovare la sua Lucia”. “…no”, dissi; “…è lei, la mia Lucia, non…non mi confonda, per favore…”. Lei aggiunse che aveva dimenticato qualcosa dal droghiere, ma che potevo accompagnarla, se volevo. Capii che voleva liberarsi di me al più presto, così non mi spostai dal portone presso cui ero rimasto.
“Aiuto!”, disse a un tratto con voce troppo alta. La pregai di stare zitta mentre pensavo che le variabili stavano sfuggendomi, poi le misi le mani sopra al collo per invitarla a chiudere la bocca. La sua pelle era morbida, il tepore piacevole. Non mi accorsi di stringerle le mani sulla gola, cercavo soltanto di convincerla a non urlare più, ma più stringevo più lei si dibatteva. Infine era caduta a terra, strabuzzando gli occhi. Proprio nel momento in cui avevo deciso di lasciarla perché non volevo in nessun modo farle male, con un fracasso terribile fu spalancato il portone, e l’infermiere mi colpì allo stomaco con un pugno formidabile. M’immobilizzarono, in tre o quattro, e legato a una lettiga mi riportarono velocemente all’Istituto. Il resto è facile immaginarselo.
Le mie giornate non furono più quelle di prima. Le iniezioni divennero due durante la giornata, e non ebbi più la possibilità di guardare fuori dalla finestra. Mi sentivo continuamente stanco e non potevo mai abbandonare la sala comune, nemmeno quando gli altri se ne andavano in giardino. Non parlai più con i degenti, anche se qualcuno continuò a cercare di rivolgermi qualche semplice domanda. Non avevo voglia di vedere gli altri attorno a me, neppure lo psicoterapeuta. Tutto il giorno aspettavo docilmente il momento che si faceva scuro, e quando la sera arrivava e mi lasciavo sistemare nel mio letto, mi sentivo bene, quasi contento. Restavo lì, con gli occhi aperti persi nel vuoto, ed ogni sera dal buio riaffioravano i miei veli azzurri, le coltri vaporose che non mi deludevano, e adesso qualche volta si squarciavano, aprivano le loro pieghe ignote e mostravano Lucia, la mia Lucia, e lentamente lei voltava i suoi occhi chiari, e ancora mi guardava…    

Bruno Magnolfi




mercoledì 18 marzo 2009

La moto bianca.


La strada all’imbocco del paese faceva una curva larga, molto larga, che iniziava davanti ad un bar e proseguiva per un po’ fino ad immettere su un drittone in mezzo alle case. Ormai era notte fonda, e anche il bar aveva chiuso alle spalle di quella decina di ragazzi che ancora avevano voglia di ridere e di giocare. Era stato allora che quei due, tra tutti gli altri, avevano acceso quella moto, una moto bianca, una Laverda, bellissima e nuova, e avevano chiesto agli altri di guardarli mentre rifacevano quella curva, quella curva larga, davanti al bar, prima di immettere nel drittone davanti alle case e alle finestre di tutto il paese. Erano passati a 80, a 90, a 100, e tutti gli amici applaudivano e facevano il tifo nel vedere quella moto che si piegava, affrontava la curva, la dominava. Qualcuno nelle case si era già svegliato col rumore alto del motore a pieni giri di quella moto bianca, ma loro andavano avanti, quei ragazzi senza paura, su e giù lungo la curva, quella curva larga, quasi in mezzo alle case. Sempre più forte, 110, 120, la velocità non era più minimamente importante, la curva, quella curva larga, si inchinava di fronte a quella moto, e nessun altro passava a quell’ora di notte, solo quella moto che pareva volare lungo la curva, prima di distendersi nel drittone, proprio in mezzo alle case. Poi un ultima volta, con il motore quasi al massimo, la moto si piega ad affrontare la curva a una velocità paurosa, il motore romba altissimo sopra le case e sui ragazzi sopra a quel marciapiede. Un attimo, una frazione di tempo infinitesimale, il faro della moto che illumina davanti a sé come in un lampo, e sparisce dietro la curva, la curva larga, subito prima di tutte le case. Una frazione di secondo, un tempo infinitesimale in cui la moto sparisce alla vista dei ragazzi, ed un boato spaventoso ferma il sangue di tutti, anche quello dei paesani che non ne potevano più di quel motore a pieni giri e pensavano già di chiamare i carabinieri, per interrompere il rumore, quella gara folle in quella notte fonda, quel ridere stupido, quel divertimento fatto di niente. La corsa immediata degli amici dietro la curva è quasi assurda, insensata, persino ridicola. Dietro alla curva, quella curva larga, prima del drittone proprio in mezzo alle case, resta solo un muro di un negozio, sfondato coi corpi e col groviglio di rottami che una volta erano una moto bianca, una Laverda, nuova, potente. E adesso il silenzio di tutta la curva e del drittone con dentro le case e tutta la gente, suona strano e inadeguato, inadatto alla fine di una qualsiasi serata. 

            Bruno Magnolfi